domenica 29 settembre 2019

Addio, signor Jules - 29 settembre 2019


[A: 15/11/2016 – I: 07/05/2019 – T: 17/05/2019] - &&&&--
[tit. or.: vedi singoli libri; ling. or.: francese; pagine: 762; anno 2016]
Ebbene sì, siamo alla fine. Con tante terminazioni che si congiungono in questa lettura. Poiché, con il signor Charles, Simenon termina di scrivere, e non solo di Maigret. Ma ora siamo nel 2019, e quindi possiamo anche celebrare i 90 anni della nascita del commissario (ovviamente della nascita della scrittura), che secondo l’autore avvenne appunto nel 1929 a bordo de l'Ostrogoth che stava in riparazione in Olanda. Non solo, siamo anche nel trentesimo anniversario della morte di Simenon, avvenuta nel 1989. Inoltre, questo è l’ultimo libro che mi ha regalato mia madre. Era la fine del 2016. L’anno seguente, tra viaggi (miei) ed acciacchi (suoi) ebbe poco spazio per fare questi preziosi doni. Finché nel febbraio del ’18, così come nel febbraio era nato Simenon, anche lei si è spenta. Pur pieno di tanti spunti altri, è un libro che mantiene il profilo alto degli scritti dello scrittore belga. Dopo quel 1972 (e sarà un caso che termini il suo ultimo scritto due giorni prima del suo 69-vesimo compleanno?), tanta acqua passerà sotto i ponti della sua esistenza svizzera. Cambierà casa, per lasciare tutti i brutti ricordi a Epalinges, e si trasferisce a Losanna. Nel ’78 dovrà superare il suicidio dell’amata e mai compresa figlia Marie-Jo. Gli rimarrà sempre accanto la terza donna della sua vita, Teresa, che il 6 settembre del 1989 spargerà le sue ceneri nel giardino di casa. Addio Georges! Addio Jules! Arrivederci ai libri che continuerò (spero) a leggere.

Titolo
Scritto
Uscito
Data
Luogo
23 – 29 settembre 1969
Scritto a Epalinges (canton de Vaud) (Svizzera)
27 febbraio 1970
La pazza di Maigret
1 – 7 maggio 1970
Scritto a Epalinges (canton de Vaud) (Svizzera)
5 novembre 1970
Maigret e l'uomo solitario
1 – 7 febbraio 1971
Scritto a Epalinges (canton de Vaud) (Svizzera)
10 maggio 1971
Maigret e l'informatore
5 – 11 giugno 1971
Scritto a Epalinges (canton de Vaud) (Svizzera)
30 ottobre 1971
Maigret e il signor Charles
5 – 11 febbraio 1972
Scritto a Epalinges (canton de Vaud) (Svizzera)
20 luglio 1972

[tit. or.: Maigret et le marchand de vin; ling. or.: francese; pagine: 11 – 165 (155); anno 1970]
Siamo alle ultime tornate delle vicende Maigret – Simenon. Tra poco finirà la scrittura, anche se non la vita. Ma questa volta passano solo cinque mesi dall’ultima produzione. Come se ne avesse bisogno per qualche suo motivo interno, ma che non avesse ancora “idee nuove”. Tanto che questo romanzo ricalca, pur in modo diverse, molte linee del precedente. Sarà anche che le vicende familiari lo pressano da vicino, tanto che sia in maggio che in agosto va a trovare la madre malata. Scrive anche un romanzo “duro”, come abbiamo imparato a conoscere, per poi passare una nuova estate di vacanza, solo con la sua silenziosa e discreta Teresa. Alla ripresa autunnale, in un settembre svizzero che pare particolarmente cupo, ecco allora prendere la macchina da scrivere dove confeziona questo romanzo riprendendo alcuni temi del precedente. Nonché, ma anche questo è un cliché dell’ultimo periodo, la contrapposizione tra due mondi. All’inizio Simenon sembra indeciso, tanto che assistiamo ad un interrogatorio che nulla avrà a che vedere con il resto del libro. Maigret, in questo freddo dicembre parigino, è anche raffreddato, ha giorni con febbre alta, curato e coccolato dalla signora Maigret (mitica la sciarpa di lana da lei confezionata). Poi la trama prende corpo con la scoperta dell’uccisione di Oscar Chabut, un commerciante di vini. Piccola tirata d’orecchie ai traduttori: Chabut non produce uva, non ha vigneti, compra uva o semilavorati di vino, e poi lo assembla o le vende. Quindi direi appunto “marchand” e non “vigneron”. Questa parte ci fa immergere nel mondo “Chabut”, con la contrapposizione tra le sue due anime. Chabut si è fatto da sé, ha cominciato dal basso ed ha raggiunta una sua posizione sociale. Quindi da un lato c’è il mondo agiato in cui Chabut è entrato a forza, mondo riassunto dalle immagini dell'appartamento di place des Vosges, degli uffici dell'Avenue de l'Opera, della casa di Mme Blanche (una casa di appuntamenti per signori altolocati, dove Oscar si intrattiene con la sua segretaria) e dalle relazioni mondane di Madame Chabut; e dall'altra parte, il mondo da cui proveniva Chabut, rappresentato dal piccolo bistrot di suo padre e dai magazzini di Quai de Bercy. Mentre in tutta la prima parte Maigret cerca di capire questo duplice mondo, nonché cerca di entrare nel personaggio Chabut, con le sue contraddizioni, con la sua fama di sesso e potere, alla metà del libro, la svolta che ricalca proprio l’ultimo romanzo. Si fa vivo l’assassino, e da questo punto in poi c’è la lotta psicologica tra Maigret e Gilbert Pigou. Ancora una volta, Simenon spinge il commissario a cercare di capire le ragioni che spingono un uomo a commettere un omicidio. Così che alla fine verrà portato non tanto a scusare chi ha commesso il crimine, ma quanto meno a comprenderne i motivi. Maigret entra anche nel mondo di Pigou, ne vede la moglie dissoluta, che spinge il contabile, innamorato ed accecato dall’amore, a comportarsi in modo sul filo dell’onestà. Liliane non fa che rimproverarlo della sua poca tenacia, dei pochi o nulli avanzamenti di carriera. Tanto che Gilbert comincerà a tramare piccoli appropriamenti di denaro tra i tanti movimenti che avvengono nell’impresa di Chabut. Peccato che Oscar lo scopra, e come suo costume, troverà il modo di umiliarlo pubblicamente (e ne riparleremo), di licenziarlo in tronco, riducendolo alla disperazione. Una disperazione che Pigou farà sfociare in un gesto che appunto Maigret comprende, ma che, al contrario del romanzo precedente, non giustifica. Perché Bureau è un uomo malato, ma Maigret non accetta che si possa uccidere per una umiliazione. Certo Chabut è un farabutto, ma per Maigret è anche un uomo che ha subito molte umiliazioni. Ed a proposito di umiliazioni, quella subita da Pigou (uno schiaffo in pubblico) offre a Simenon l’estro di esercitare una narrazione alla “Rashomon”: lo schiaffo è infatti narrato tre volte durante l’inchiesta. Ma alle umiliazioni, come in un contraltare, Chabut reagisce lottando, Pigou reagisce scappando. Rimarcando un altro elemento di contatto con il precedente libro, la visita notturna di Pigou a casa Maigret, con la loro lotta verbale, da cui Maigret esce al solito vincitore, Simenon sottolinea che il commissario ha compassione di Pigou, ma non giustifica né redime. Anche perché, in un certo qual modo traslato, nella figura di Chabut, Simenon ha quasi voluto darci un’immagine riflessa di sé stesso, delle sue passioni eccessive (soprattutto il sesso cui Simenon fu schiavo consapevole per tutta la ita), ma anche la lotta per uscire da start sociali non altolocati, la fama conquistata, ed altre piccole congiunzioni tra Oscar e Georges. Per fortuna che c’è Maigret, con il suo buonsenso, a mettere ordine a questi eccessi, l’andamento di una persona giusta (il “raddrizzatore di destini” come disse in una delle prime opere), che ci fa capire come, di fronte al caos che ci circonda, possiamo adoperarci per mettere un po’ d’ordine. Forse non si riuscirà a debellare il vuoto, ma si potrà riempirlo di piccole cose comuni: affetti, cucina, empatia.

Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Parigi (rue Fortuny, place des Vosges, quai de Charenton, boulevard Richard-Lenoir)
Oscar Chabut, la vittima, commerciante di vini, sposato, senza figli, circa 45 anni.
Jeanne Chabut, sua moglie, circa 40 anni
Désiré Chabut, suo padre, 73 anni
Anne-Marie Boutin, segretaria di Chabut, 21anni
Gilbert Pigou, ex-contabile di Chabut, 44 anni
Liliane Pigou, sua moglie.
6 giorni
15 – 20 dicembre

[tit. or.: La Folle de Maigret; ling. or.: francese; pagine: 167 – 316 (150); anno 1970]
Passano sei mesi prima che Simenon ritorni ad un nuovo Maigret. Sei mesi di calma piatta anche nella sua vita: qualche intervista radiofonica, qualche visita alla madre malata, l’oblio della sempre più lontana Denyse, le cure della sempre più vicina Teresa. Un romanzo “duro” che si intitola “La sparizione di Odile”, che con un anno d’anticipo sembra immaginare già la fatica dei rapporti tra lui e l figlia Marie-Jo. Poi nella solita settimana d’immersione letteraria, il 7 maggio dei miei diciotto anni termina questo 72° romanzo. Sebbene, e sembra confermarsi da queste prime letture, la vena “maigrettiana” sia in calando in quest’ultimo periodo (come dai continui rimandi ad altro del precedente), questo romanzo, in un certo senso, è un eponimo del Maigret di Simenon. Perché più dell’intrigo, che c’è anche se non è particolarmente complesso, Simenon ci riporta ad alcune topiche dell’ambiente “Maigret”. La descrizione quasi topografica del Quai des Orfevres nel primo capitolo, ripercorrendo con la memoria i passaggi che il giovane Georges fece in quei luoghi: il cortile della Polizia Giudiziaria, le scale, il lungo corridoio, l’ufficio di Maigret al primo piano con vista sulla Senna. Le sensazioni quotidiane del nostro commissario: la primavera maggiolina, i vari pasti di Maigret (tra cui ricordiamo quello nel ristorante in place des Victoires, una delle piazze più belle ed intime di Parigi, con animelle, cotolette d’agnello e dolce fresco alle fragole), nonché le sue varie occupazioni domenicali insieme alla sua inseparabile “signora Maigret”. La storia attiene, almeno nella prima parte, alla leggerezza della stagione ed all’animo di Maigret che rifiorisce in primavera. La vedova Léontine Antoine de Caramé lo cerca a più riprese, sostenendo che in sua assenza oggetti sono stati spostati nella sua casa. Teme un qualche dolo. Maigret all’inizio la prende bonariamente, ma quando la vecchia viene uccisa, preso dai sensi di colpa di non averle prestato la dovuta attenzione, si butta a capofitto in un’inchiesta che sembra essere senza capo né coda. C’è la figlia Angéle, massaggiatrice, madre single di Billy, che si accompagna a uomini più giovani di lei (che spesso ne approfittano). Come il suo attuale compagno, Marcel Montrand, detto “il Lungo” o “Il grande Marcel”, ex-barista, frequentatore degli ambienti della mala. Tutta la prima parte si incarta tra i rimpianti di Maigret, ed il tentativo di entrare nei personaggi. Nella due volte vedova Léontine, nella figlia e nel nipote. Ed anche nell’ultimo marito, commesso al BHV (uno dei grandi magazzini storici di Parigi, acronimo che sta per “Bazar de l’Hotel de Ville”), ma soprattutto piccolo inventore. La svolta avviene intorno alla scoperta della sparizione di una pistola. E della fuga di Marcel verso il sud della Francia, prima a Marsiglia e poi a Tolone. Come spesso accade in quest’ultima fase, Maigret lo segue (anche in aereo, dato che siamo già alla fine degli anni Sessanta). Capisce che c’è qualcosa di strano in questa misteriosa pistola, che Marcel tenta di vendere ad un gangster locale, che si chiama Giovanni, ma di cognome! Una volta messo fine agli intrighi di Marcel, e non vi dico come, torna nel finale a Parigi, per un confronto con Angèle. Qui ritorna il tempo come cartina di tornasole delle attività del commissario. Ora si fa cupo, quasi piovoso. Che lui deve affrontare la figlia della morta. In un solito confronto, dove risaltano le solite doti della costruzione dei dialoghi di Simenon. Maigret tira fuori tuta la verità da Angéle, e tutta la miseria della sua povera vita, sempre in attesa della morte della madre e dell’eredità. Con il fatale errore di aver rivelato l’esistenza di una pistola potenzialmente rivoluzionaria al tristo Marcel. La donna ha solo colpe indirette, nessuna fase attiva nel crimine, se non la frequentazione di Marcel, ma questa non è una colpa. Così che Maigret non potrà che lasciarla andare, ai suoi rimorsi ed ai suoi rimpianti. Il nostro raddrizzatore di destini ha colpito ancora una volta. Una piccola chicca “maigrettofila” per finire. Nelle more di citazioni e autocitazioni, ci sono due momenti in cui Maigret cita sue precedenti inchieste. Nel primo capitolo, Maigret chiede alla moglie se si sia mai seduta su di una panchina in un giardino pubblico, e lei ricorda di averlo fatto aspettando l’appuntamento con un dentista. Citazione da “L’amica della signora Maigret” del 1950. Infine, nel capitolo 5, il commissario Marella, di stanza a Tolone, chiede a Maigret da quanto tempo non si vedevano più. E Maigret risponde che dovrebbero essere dieci o dodici anni, al tempo dell’affare di Poquerolles. Citazione da “Il mio amico Maigret” del 1949. Notiamo, di passaggio, che sono entrambi citazioni di titoli “amicali”. Un caso? O la solita nostalgia del nostro quasi settantenne?

Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Parigi (quai de la Mégisserie, rue Saint-André-des-Arts, place Maubert). Tolone
Léontine Antoine de Caramé, la vittima, senza professione, due volte vedova, 86 anni
Angèle Louette, nipote di Léontine, massaggiatrice, madre single, di 56 anni.
Billy Louette, figlio di Angèle, chitarrista, 25 anni.
Marcel Montrand, detto “il lungo”, barman, frequentatore della malavita, 35 anni.
8 giorni
maggio

[tit. or.: Maigret et l'homme tout seul; ling. or.: francese; pagine: 319 – 466 (146); anno 1971]
Anno pesante, questo 1970 per Simenon. La voglia di scrivere si sta facendo più rarefatta. Non sente più l’urgenza di trasferire i suoi demoni sulla carta per esorcizzarli. E le paure presenti sono ognuna al loro posto. Anche se Marie-Jo, la figlia, continua a dargli pensieri. Anche se la moglie Denyse è peggiorata nell’ospedale psichiatrico dov’è ricoverata. Ma riesce a gestire ancora tutto ciò, almeno fino a novembre, quando la madre Henriette si aggrava, viene trasferita all’ospedale di Bavière a Liegi. Dove l’8 dicembre, alle 20:30 all’età di 90 anni, la madre muore. Sarà sepolta due giorni dopo, nel cimitero di Robermont, dove la pietra tombale, unisce nell’iscrizione la storia della donna: “Signora Vedova di Désiré Simenon, vedova di Joseph André, nata Henriette Bull”. La morte dell’amata-odiata rasserena un poco la mente di Georges, che passa la fine dell’anno, con Teresa, a Crans-sur-Sierre. Ma deve ancora elaborare tutto il suo lutto. Così che in febbraio mette mano a questo romanzo, che in trasparenza sembra voler essere una testimonianza, se non un testamento di quanto Simenon sia ora. Lui che senza Henriette si sente in effetti “solo”, se non solitario. Lui che ha tanto amato, costringendo le sue donne ad accettarlo per come è, inscena la storia di un uomo, che per amore, diventa “solitario”. Come spesso nell’ultimo periodo, riprende temi già affrontati, ed in un certo senso, precisa accenni biografici su Maigret, sempre riandando a vecchi romanzi. Come se avesse una memoria quasi fotografica delle precedenti settanta opere. Il tema ripreso è quello di un uomo che decide di diventare barbone, così come aveva descritto in “Maigret e il vagabondo”. Qui, però, Marcel Vivien, oltre ad essere un barbone, è anche la vittima. Incongruamente ucciso nel suo piccolo rifugio in un locale abbandonato alle Halles. Tra l’altro, rispetto alla quasi totalità dei romanzi con Maigret, qui abbiamo datazioni precise. I soli altri due romanzi in cui viene esplicitata la data dell’azione sono “Il defunto signor Gallet” che si svolge nel 1930 e “la prima inchiesta di Maigret” datata 1913. L’azione qui si svolge nel 1965, quando le Halles erano ancora la loro posto. Scopriremo, e ci torneremo, che poi il nodo centrale risale addirittura al 1946. Intanto, Maigret cerca di capire chi sia Marcel, perché venti anni prima, improvvisamente, ed all’apparenza senza motivo, lascia il lavoro, la famiglia (aveva una moglie ed una figlia di 8 anni), ritira tutti i soldi dalla banca e non si fa più vedere. La moglie è reticente, sa qualcosa ma non parla. La figlia vorrebbe parlare ma non sa. Allora, ecco che Maigret parte battendo (lui ed i suoi ispettori) a tappeto Montmartre per cercare di trovare traccia di chi sia stato, cosa abbia fatto, perché insomma, Marcel è andato via. Ma soprattutto perché e come è diventato “clochard”. Qui Simenon ha modo di giocare un po’ sull’amore per la sua Parigi, le descrizioni delle piccole piazze, dei bistrot, degli anziani che giocano a carte. Passo dopo passo, costringendo anche la signora Gabrielle a confessarlo, Maigret scopre che Marcel si era perdutamente invaghito della bella Nina. Per lei aveva lasciato tutto. Con lei girava per il quartiere, con un atteggiamento da innamorati senza pensieri. Per almeno sei mesi. Poi il buio. Altro colpo di genio della scrittura. A mezza bocca, scopre che c’è qualcosa di strano in questa sparizione nell’agosto del ’46. Alternando passato e presente, anche senza utilizzare i penosi flash-back che andranno in auge da qui a qualche anno, Maigret trova un primo bandolo. Si mette a leggere in una emeroteca i giornali del ’46. Ricordando, a lui e a noi, che era il periodo in cui, in rotta con l’allora commissario capo, Maigret fu “esiliato” in Vandea, e quindi non seguì la cronaca del tempo. scopre così che il 16 agosto 1946 Nina viene trovata strangolata nel suo letto. Possibili colpevoli sono i suoi due amanti: Marcel e Louis. Maigret scopre quindi l’esistenza di Louis, lo rintraccia, e ne trova traccia nei luoghi del delitto, compatibilmente con il delitto stesso. Lascio a voi la soluzione, micro, del dilemma: fu Marcel ad uccidere Nina ed ora Louis si vendica o fu Louis ad uccidere Nina ed ora uccide Marcel per paura? Noi torniamo a camminare con Maigret per le strade di Montmartre, continuiamo a pensare alle “femme de chambre” che incontra per risolvere questo caso, ed a tutte quelle che ha incontrato nel corpo di tutti i romanzi di Maigret. Ci sono begli articoli su ciò, e non ci torno io, di poco abile. Torno invece su di un aspetto forse marginale, ma significante per Maigret (e Simenon). La birra. Una se non “la” bevanda preferita di Maigret, che tuttavia dietro i consigli del suo amico dottor Pardon, e data l’età che avanza, in questo, e negli ultimi romanzi, comincia a controllarsi. O almeno a dire di controllarsi. Fatto sta che, almeno nominalmente, ci risulta che abbia bevuto 217 boccali di birra in tutti i suoi romanzi, con una media di circa 3 a romanzo). Inoltre, qui, che dice di dover diminuirne l’uso, è proprio, insieme a “Firmato Picpus” che ha il più alto tasso birrometrico: 10 boccali (e non sempre di piccole dimensioni). Ultima notazione biobibliografica: il periodo in cui Maigret è esiliato a Luçon coincide, mese più, mese meno, con il periodo in cui lo stesso Simenon visse in Vandea.

Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Parigi (quartieri Halles e Montmartre). La Baule
Marcel Vivien, la vittima. Un tempo falegname divenuto barbone. Sposato, una figlia (sposata all’epoca del dramma). Circa 55 anni
Louis Mahossier, impresario di pitture edili a Montmartre, cinquantenne
Gabrielle Vivien, sposa separata di Marcel Vivien, sarta
Odette Delaveau, nata Vivien, figlia di Marcel Vivien, 28 anni
Nina Lassave, amante di Vivien e di Mahossier, assassinata a 22 anni il 16 agosto 1946
7 giorni
agosto

[tit. or.: Maigret et l'Indicateur; ling. or.: francese; pagine: 469 – 614 (144); anno 1971]
Non succede nulla di significativo nella routine svizzera di Simenon in questo 1971, quasi fosse un anno di quiete prima di chissà quali tempeste. Scrive un paio di romanzi “duri”, si riposa, si fa coccolare da Teresa, cerca di sgombrare la mente dalle fosche nubi del tempo che passa. Ecco allora che confeziona uno dei più “maigrettiani” romanzi della sua produzione. Una specie di summa di cosa sia ora il nostro commissario, e di cosa rappresenti per l’autore. Un romanzo dove l’indagine si svolge a Montmartre, in un maggio piovigginoso, dove seguiamo Maigret che apprezza la buona tavola (pranzi e spuntini alla brasserie Dauphine, pranzi e cene con la sua amata e attenta moglie, con cui con l’andare del tempo forma sempre più ina coppia amorevole, ben lontana dalla turbolenza emotiva dei rapporti di Simenon con le sue mogli). Maigret che incontra tanti personaggi tipici del milieu parigino: il ristoratore, ex-malavitoso ma forse non tanto ex, l’informatore, la soubrette ripulita, i malfattori rampanti, l’entraineuse bella e sfortunata, l’ispettore caparbio e solitario. Simenon poi, si concede alcuni tocchi di stile, quasi a voler far passare del tempo a farci sentire con lui e con Maigret nella sua Parigi: la discrezione della vista della Senna dalla finestra di Maigret, quella della visita al laboratorio giudiziario, la visita al mare in aereo, quasi una breve vacanza (tanto che poi ne parla con la moglie, ma poi si sa finirà nella casa in campagna). Inciso, anche qui, come spesso nell’ultima parte, capita a Maigret di prendere l’aereo, piuttosto che l’amato treno. Anche se lo stesso Jules confessa di avere verso questo mezzo veloce una sorta di amore e odio: la facilità e la velocità di spostamento contro la sensazione di confino in uno spazio ristretto. L’indagine stessa comincia in modo diagonale rispetto al resto: Maurice Marcia, un tempo molto addentro alle cose della mala, ripulitosi dopo aver aperto un ristorante, spesso frequentato anche da Maigret, viene trovato ucciso in mezzo alla strada. Delitto inspiegabile, morto trovato lontano da qualsiasi ipotizzabile luogo della morte. Indagine che però prende una sua piega ben diversa a partire dalle parole che un informatore fa giungere all’ispettore Louis. Questi è un tipo che sembra essere un Lognon (ricordate che era uno degli sfigati ispettori che non riuscirono mai ad entrare nella “Sezione Omicidi” di Maigret), capace e solitario. Chiamato il Vedovo, dopo che, dalla morte della moglie, veste sempre di nero. Solitario che gira per il suo IX° arrondissement, di bar in bar, bevendo solo una bottiglia di acqua Vichy. Ma che nel suo quartiere conosce tutto e tutti. Insomma, l’informatore dice alla polizia di mettersi sulle tracce dei fratelli Mori. Commercianti di copertura, sospettati, ma senza prove, di far parte della cosiddetta “banda dei castelli”, che vengono ripuliti di mobili ed altro, senza trovare prove contro nessuno. Ben presto, Maigret appura che tra il maggiore dei fratelli, Marcel, e Line, la moglie di Marcia, c’è una liaison, anzi sembra proprio che i due siano amanti. Tanto che Marcel, dal giorno dopo la morte di Maurice, si installa a fianco di Line. Soliti interrogatori, solite passeggiate nel quartiere, ma Maigret è ben cosciente che non ci siano prove di sorta. Le uniche parole sono quelle dell’informatore, su cui nella seconda parte del romanzo si appuntano le luci della ribalta. Maigret scopre ben presto che si tratta di Justin Crottin, detto “La Pulce” per la sua bassa statura. Da sempre vicino alla mala, cui non riesce ad essere organico perché tutti lo scansano per la sua statura. Così che diviene un solerte e ben nascosto informatore dell’ispettore Louis. Si sviluppa allora la ricerca di Justin, tra Pigalle e Montmartre. Si scopre la sua protetta, la bella giovane Blanche, verso cui Maigret si dimostra paterno e accondiscendente. La solita empatia del commissario verso le situazioni al limite della legalità, per sfortuna più che per scelta consapevole. Bello anche il passaggio presso un pittore di Montmartre che nasconde Justin per alcuni giorni. Un pittore che in gioventù aveva spesso alzato il bicchiere con Picasso (un piccolo tocco di classe simenoniana). Altro tocco d’atmosfera, il funerale di Marcia a Bandol, vicino a Tolone, dove Maigret si era recato due romanzi fa sulle tracce del “Grande Marcel”. Funerale dove si riempie la scena di malavitosi, che secondo Simenon abbondano in loco, come appunto diceva ne “La pazza di Maigret”. Una volta rintracciato Justin, essendo la sua parola contro quella di Marcel e Line, Maigret tenta uno dei suoi colpi ad effetto, mettendo tutti in una stanza, facendoli parlare, provocandoli. Alla fine, sembra quasi essere uno scacco relativo per Maigret, perché Marcel e Line si accusano a vicenda dell’uccisione di Maurice. C’è stranamente un piccolo tocco di giallo nel finale dell’inchiesta, che Maigret spinge Justin a confessare che è stato lui ad attirare Maurice nella trappola tesa da Marcel e Line. In un ultimo capitolo, di una sola pagina, sapremmo della conclusione giudiziaria. Che al solito non interessa né noi, né Maigret. Il “raddrizzatore di destini” ha visto giusto nell’animo dei cattivi, ha seguito i percorsi del crimine, ne ha ricostruito l’idea e la realizzazione. Chi abbia materialmente tirato il grilletto è cosa che non attiene all’universo di Maigret. Due piccole note finali: risulta ben delineata, nella sua incapacità di lavorare in gruppo, la figura dell’ispettore Louis. Peccato non ci sia tempo per utilizzarlo ancora. Infine, riandando a tutta la produzione dei romanzi di Maigret, possiamo notare che circa il 75% dei romanzi ha l’ultimo o gli ultimi due più corti del resto dei capitoli. Quasi che, dopo aver tirato le fila degli avvenimenti, Simenon senta il bisogno di velocizzare il finale, anche a dare informazioni stringati, ma di chiusura delle vicende. Tuttavia, solo in un caso, in “Maigret si difende” del 1964, questo ultimo corto capitolo viene intitolato “Epilogo”. Stranezze della scrittura.

Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Parigi (quartieri di Pigalle, di Montmartre e Le Halles). Bandol
Justin Crotton, detto La Pulce. Un tempo procacciatore per cabaret, a volte magnaccia; all’occasione informatore. Celibe, 45 o 46 anni
Maurice Marcia, ristoratore, capo della “banda dei castelli”, 62 anni, la vittima.
Line Marcia, nata Polin, sposa di Maurice, ex-danzatrice ed entraîneuse, circa 30 anni
Manuel Mori, amante di Line, importatore di frutta e legumi, malfattore, 32 anni
Joseph Mori, detto Jo, fratello de Manuel, importatore di frutta e legumi, malfattore, 29 anni
Louis, detto il Vedovo, ispettore di polizia al IX arrondissement, circa 45 anni
Blanche Pigoud, amante della Pulce, entraîneuse, circa 25 anni.
4 giorni
maggio

[tit. or.: Maigret et Monsieur Charles; ling. or.: francese; pagine: 617 – 762 (146); anno 1972]
Quando l’11 febbraio 1972, Simenon mette la parola fine a questo suo 75° romanzo con protagonista Jules Maigret, non sa ancora che sarà l’ultimo. Non solo l’ultimo Maigret, ma l’ultimo romanzo in assoluto. Proverà a scrivere qualcosa, ma la scintilla non si accende. Detterà molto, scriverà pagine autobiografiche. Per il resto, più nulla. Come se ora, a 69 anni, avesse capito di aver dato il possibile. Anche perché, tra romanzi e racconti, con Maigret e senza Maigret, alla fine sono circa 440 i testi dati alle stampe! Intanto questa seconda parte del 1971 era passata con i soliti alti e bassi. Vacanze in luglio a La Baule con Teresa, morte di un’altra zia, nonché fuga a Parigi di Marie-Jo (come quasi aveva previsto nel precedente libro “La sparizione di Odile”). In febbraio, quindi, mano alla macchina da scrivere, e via con l’ultimo romanzo. Come dirà lo stesso Simenon, non aveva cognizione che potesse essere l’ultimo scritto. Tuttavia, leggendo forse a posteriori il testo, qualcosa salta fuori. Quasi volesse far andare Maigret per la sua strada. Nel primo capitolo, ad esempio, Maigret rifiuta una promozione che lo avrebbe portato dietro una scrivania, e Simenon chiosa: “In pochi minuti decise per un futuro che non era in ogni caso molto lungo, poiché in tre anni sarebbe andato in pensione.” Inoltre, sebbene spesso sia pensieroso negli ultimi romanzi, qui troviamo Maigret passeggiare lungo la Senna, la pipa in bocca, con tristi presagi in testa. Volendo sempre cercare il pelo dell’uovo, poi, quando Maigret si avvia con il fido Lapointe ad un giro per i locali notturni, si veste di scuro, e Simenon commenta: ““…in fondo era rimasto un po’ al tempo in cui ci si metteva la marsina per andare all’Opera e lo smoking per andare nei locali notturni…”. Quasi che Maigret ormai sia fuori del suo tempo, che il suo tempo sia arrivata alla fine. Ma veniamo allora al testo vero e proprio. A questa storia di sparizione e di dolori, in gran parte basata sui dialoghi, come magistralmente Simenon sapeva fare. Gerard, gaudente notaio, sparisce, come sovente faceva, ma solo per pochi giorni. Dopo un mese, la moglie Nathalie si reca da Maigret chiedendogli di indagare. È quasi un lungo braccio di ferro tra Maigret e Nathalie, una donna alcolizzata, ma con una vena patetica che la rende differente, ad esempio, dell’altra figura di alcolista dipinta in “Maigret e il corpo senza testa” (vedi “I Maigret – 10”). Lì, Aline Calas sceglie di alcolizzarsi, mentre qui Nathalie annega nell’alcool la sua disperazione, nata dallo strano rapporto con il marito. Che ben presto Maigret scopre essere un frequentatore della vita notturna parigina, nei locali dove da tutti è conosciuto come “il signor Charles”. Locali dove Gerard si diverte, abborda delle signorine, beve con loro, a volte le frequenta per qualche giorno, abbandonando la moglie, lasciando al suo sostituto le incombenze notarili. Ma poi ritorna sempre. Perché ora no? In fondo, anche con Nathalie era cominciata così. Lei, però, era riuscita a farsi sposare, pensando di dare una svolta alla sua vita. Errore fatale. Gerard-Charles non trova in lei la sua vita di allegrie e spensieratezze, così che ben presto riprende la sua vita gaudente, come se fosse sempre scapolo. E Nathalie comincia ad affogare i suoi giorni nel cognac. Esce poco, sempre da sola, si fa portare al cinema dall’autista. Maigret scopre tuttavia, che mai andava al cinema, ma forse da qualche compiacente amante. Senza però che questo cambiasse la sua vita. Fino a quest’ultimo, quando la quarantacinquenne Nathalie capisce che sta arrivando al capolinea. Di bicchiere in bicchiere, di interrogatorio in interrogatorio, si delinea il percorso verso l’abisso di Nathalie, che arriverà al suo capolinea con il ritrovamento prima del corpo del signor Charles e poi di quello del suo ultimo amante. Maigret, sempre empatico anche con lei, accompagna nel suo ultimo viaggio Nathalie, lasciandola al giudice, e si allontana. Quasi fosse già altrove. Si, come se anche Simenon volesse dirci, Maigret è altrove, e non ritornerà. In controluce, vediamo anche come nel signor Charles, Simenon abbia, al solito, trasposto parte di sé stesso. Charles, e Georges, non hanno mai saputo dire di no ad una donna. Il gaudente finisce le sue storie con la sua morte, Simenon, ora, a quasi 70 anni, si ritira insieme alla sua ultima donna, a Teresa che gli starà vicino per i successivi 17 anni, e che gli terrà la mano nell’ultimo istante. C’è una notazione finale che esce dalle righe del romanzo, che racchiude il senso di Maigret verso la vita, ed il senso che Simenon attribuisce alla vita ed all’opera del commissario. Ripensando ad un dialogo con il suo amico, il dottor Pardon, Simenon ci scrive:
"C'è una cosa", disse Pardon, "che ho difficoltà a capire. Sei esattamente l'opposto di un giustiziere. Sembra quasi che quando arresti un colpevole, tu lo faccia malvolentieri…”
- Succede, si.
- Eppure, prendi a cuore le tue inchieste come se ti toccassero personalmente ...
E Maigret aveva semplicemente risposto:
- Perché ogni volta è un'esperienza umana che vivo. "
Ed ora, dopo 43 anni e 75 romanzi, quest’esperienza umana finisce. Sul suo passaporto fa cambiare la scritta da “romanziere” a “senza professione”. Non scrive più, e Simenon diviene “un uomo come gli altri”, come molti personaggi dei suoi romanzi.

Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Parigi (boulevard Saint-Germain, Champs-Élysées)
Nathalie Sabin-Levesque, nata Frassier. Senza professione. Sposata, senza figli, circa 45 anni
Gérard Sabin-Levesque, alias Monsieur Charles, sposo di Nathalie, notaio, 48 anni, la vittima
Jo Fazio, amante di Nathalie, ex-magnaccia, ex-barman, trentenne, la seconda vittima
5 giorni
21 – 25 marzo
E
Essendo la terza trama del mese, ecco che vi regalo in sovrappiù un allegato di felicità, che, per pura coincidenza, riguarda “crimini e ricette”, e che, altrettanto stranamente, contiene anch'esso riferimenti a Maigret.
Ma siamo ad ottobre, quasi che siamo ancora in un giorno dalla memoria Mogol-Battistiana. Un mese che inizia oggi con compleanni cugineschi, e prosegue per tutto il mese con tante bilance da festeggiare. Sperando anche che il buon ritiro di Soriano ci consenta anche altrettanti buoni momenti. 
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
SETTEMBRE 2019
In un mese in cui saluto Maigret, ecco che casualmente abbiamo il “meglio” delle ricette poliziesche.

SIGNORI IL DELITTO È SERVITO

LIBRI CITATI:

ALTA CUCINA di REX STOUT (1938)
IL PAZZO DI BERGERAC di GEORGES SIMENON (1932)
IL PORTO DELLE NEBBIE di GEORGES SIMENON (1931)
MAIGRET A VICHY di GEORGES SIMENON (1968)
MAIGRET E IL SIGNOR CHARLES di GEORGES SIMENON (1972)
GLI ARANCINI DI MONTALBANO di ANDREA CAMILLERI (1999)LE RICETTE DELLA SIGNROA MAIGRET di ROBERT COURTINE (1977)
CRIMINI E RICETTE di REX STOUT (1976)
In difesa della letteratura gialla, spesso snobbata con superficialità come genere di pura evasione, Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha fatto questo curioso paragone culinario: «Il pudico ritrarsi dinanzi al romanzo detective è un po’ simile, in quanto a ridevolezza, a quel signore che molti anni fa venne a colazione da noi e si rifiutò di mangiare la minestra con le lenticchie perché la trovava “proletaria”. È facile dirsi buongustai assaporando soltanto il foie gras de Strasbourg. La difficoltà comincia quando il palato esercitato deve scoprire quanto vi sia di buono nella minestra, appunto, di lenticchie come nel cacio all’argentiera». Lo scrittore era notoriamente un principe anche a tavola, un raffinato intenditore come dimostrano i succulenti e appetitosi piatti siciliani che sfilano tra righe de “Il gattopardo”. Tutto questo antipasto per dire che il paragone tra polizieschi e cucina sta come il cacio sui maccheroni e non di rado gli investigatori sono anche eccellenti buongustai. Sarà la quotidiana frequentazione con la morte e il peggio dell’essere umano a fargli apprezzare con più ardore i piaceri della vita, tra cui quelli della tavola? Fatto sta che quando il commissario è un buongustaio, il giallo è un ottimo comfort book. Stimolando la concentrazione e il ragionamento, stuzzicando il palato e appagando l’appetito, Nero Wolfe, Jules Maigret e Salvo Montalbano si rivelano ottimi ricostituenti cerebrali in grado di soddisfare la fame di divertimento con succulente indagini e prelibati manicaretti.
L’ingrediente che rende speciale ogni detective che si rispetti è la sua natura eccentrica. Provate a cercare un solo investigatore che non abbia qualche stravaganza, fissazione o stranezza e rimarrete a bocca asciutta. Nero Wolfe non fa eccezione. Il detective nato dalla penna di Rex Stout è tendente all’esagerazione, anche nella stazza, è naturalmente incline a violare le regole e la legge ed è un lupo solitario (sarà un caso che Wolfe è molto simile a woolf?), uno scorbutico misantropo che vive rintanato nella sua splendida casa osservando orari e abitudini con una precisione ossessiva. Risolve intricati casi di omicidio comodamente seduto in poltrona, mandando il fedele assistente Archie Goodwin (il narratore di tutte le vicende) a cercare indizi e interrogare testimoni. In sostanza, Nero considera il lavoro una parentesi che lo distrae dalle sue grandi passioni: le orchidee e la cucina. Anzi, l’alta cucina. Sì, perché non parliamo di un vorace e onnivoro mangione, ma di un sofisticato gastronomo dai gusti ricercati fermamente convinto che mangiare non sia una necessità ma un’arte. Così in tutte le sue avventure piatti succulenti e prelibati sfilano sotto il naso del lettore con descrizioni talmente evocative che sembra di sentirne il profumo e gustarne il sapore.
Se siete giallisti gourmet non potete lasciarvi sfuggire “Alta cucina”, uno dei pochi casi in cui Wolfe compie il sommo sforzo di uscire da casa, letteralmente preso per la gola con l’invito a partecipare come ospite d’onore al convegno dei migliori quindici cuochi al mondo. Ovviamente ci scappa il morto e a Nero tocca lavorare. Nonostante l’unico mistero che vorrebbe svelare sia la ricetta delle «salsicce di mezzanotte», riesce a non farsi distrarre dai gustosi manicaretti risolvendo brillantemente il caso di questo giallo da leccarsi i baffi.
Tutte le avventure di Nero Wolfe sono una lettura confortante soprattutto per le persone di indole pigra: chi non desidererebbe lavorare comodamente sprofondato nella poltrona di casa, coccolato e viziato da un cuoco personale, delegando a un fedele assistente il lavoro sporco in modo da potersi dedicare alle proprie passioni? Per un pigro cronico questa è la ricetta della felicità e Nero Wolfe la legittima. Allo stesso modo, chi è metodico e abitudinario in maniera quasi ossessiva, potrà consolarsi intravedendo nelle stranezze del protagonista non solo un bagliore di patologia ma anche un lampo di genialità. Tra le numerose ricette disseminate nel racconto, sarebbe un delitto non provare le salsicce di mezzanotte. Se vi si siete appassionati alle indagini di Nero Wolfe e vi piacerebbe mangiare come lui, procuratevi “Crimini e ricette. A tavola con Nero Wolfe” in cui Rex Stout ha raccolto molte delle ricette che compaiono nei romanzi. Si tratta di una sorta di manuale per palati esigenti sia di cibo che di gialli. Amore per la cucina e per il crimine si fondono come il parmigiano su un risotto allo zafferano, rigorosamente giallo e da acquolina in bocca.
I nostalgici del passato possono mettersi sulle tracce del famoso sceneggiato televisivo in bianco e nero con Tino Buazzelli nelle vesti di Nero Wolfe e Paolo Ferrari in quelle di Archie Goodwin per una terapia televisiva sostitutiva.
Anche nel caso di Jules Maigret, straordinaria creatura di Georges Simenon, le abitudini gastronomiche diventano tutt’uno con le indagini perché la passione del commissario per il buon cibo è parte integrante della sua personalità e, di conseguenza, del suo personalissimo metodo investigativo. La corporatura robusta denuncia in modo inequivocabile il debole di Maigret per i piaceri della tavola. Non rifiuta mai un piatto gustoso o un buon bicchiere (che spesso sceglie abbinandolo all’indagine in corso), così come non rinuncia per niente al mondo alla sua pipa. Maigret mangia e fuma proprio come ragiona: lentamente. Assapora ogni pietanza masticando adagio, tira ogni boccata con pacatezza e non è mai affrettato nel formulare giudizi. Ciò che differenzia il francese da molti colleghi letterari, infatti, è la sua sensibilità, ben nascosta dietro un’apparenza burbera e scontrosa. Per risolvere i casi si concentra sui risvolti umani più che sugli indizi, asseconda l’istinto più che la logica, assorbendo come una spugna gli umori delle persone coinvolte, cercando di ricostruire e comprendere il percorso che ha portato il colpevole al delitto. Non formula mai un giudizio finché l’evidenza non è lampante e la sua regola è comprendere prima di tutto. Non usa metodi violenti perché l’umiliazione, secondo Simenon, è il peggiore dei crimini, di cui il suo eroe non può macchiarsi. Questa umana comprensione è direttamente collegata a una delle novità introdotte dall’autore: rispetto ai gialli tradizionali, i casi su cui si trova a indagare il poliziotto francese non avvengono tra le classi più agiate ma in ambienti popolari e piccolo borghesi. In questo modo e con una scrittura semplice che delizia tutti i palati, Simenon usa la detection non per stuzzicare la logica e la deduzione, ma per rappresentare sentimenti e passioni umane in vicende nelle quali il delitto e il male sono spesso la conseguenza di un vivere quotidiano oppresso da difficoltà, disagio, illusione e fatica. Per Maigret tutto il cibo è comfort food e l’atto stesso di mangiare bene è un anestetico capace di alleviare le pene di un uomo sensibile che si trova per mestiere alle prese con il lato più oscuro dell’essere umano.
Il commissario odia consumare piatti che non conosce o mangiare in locali sconosciuti, mentre adora la cucina tradizionale dei bistrot parigini e della devota moglie Louise. E così le oltre cento inchieste raccontate da Simenon (tra le più celebri “Il porto delle nebbie”, “Maigret a Vichy”, “Il pazzo di Bergerac”, “Maigret e il signor Charles”) profumano di cucina e di Parigi, di giornate fredde e di fumosi bistrot, di cose buone, genuine e semplici, dei piatti tradizionali della cucina francese.
La lettura dei romanzi di Georges Simenon si rivela una valida cura ricostituente anche quando, sconfortati dalla difficoltà di comprendere le ragioni che spingono le persone a fare ciò che fanno, feriti da comportamenti apparentemente inspiegabili e stanchi morti per i vani tentativi di comprendere tutto e tutti, siete in cerca di qualcuno particolarmente empatico che vi aiuti a fare luce sulle zone d'ombra dell’animo umano con giudizio e modi pacati, dando la precedenza all’istinto più che alla logica: avete trovato la persona (la lettura) giusta. Simpatico e bonaccione come tutti i buongustai, Maigret è un valido ansiolitico, da assumere rigorosamente a stomaco pieno. Per ottenere maggiori benefici, quindi, la cura andrebbe affiancata dal conforto di alcuni dei suoi piatti preferiti, tra cui l’arrosto di maiale con le lenticchie, l’adorata torta di riso (comfort food per eccellenza di Simenon) o il coq au vin, ovvero il galletto al vino. Se volete coccolarvi davanti alla televisione, fate in modo di procurarvi le vecchie inchieste televisive del commissario Maigret nella celebre serie diretta da Mario Landi con Gino Cervi perfettamente a suo agio nei comodi panni del protagonista.
Se le pagine di Georges Simenon trasudano Parigi e ricette francesi, quelle di Andrea Camilleri spandono effluvi di Sicilia e aromi della cucina isolana. Anche Salvo Montalbano nutre la schiera di commissari dall’ingegno acuto e dal palato fine. In parte è proprio l’amore per la buona cucina ad averne decretato il nome, un omaggio allo scrittore Manuel Vázquez Montálban, padre del detective Pepe Carvalho. Oltre al debole per il cibo, Montalbano condivide con il collega spagnolo la passione per le buone letture e i modi spicci e poco convenzionali che lo portano spesso a fregarsene della burocrazia seguendo una personale, e vincente, strada alternativa. Introverso, scontroso, solitario e pure meteoropatico, uomo di «ciriveddro» e intuito, Salvo ha un’idea di giustizia profondamente umana dovuta a una spiccata empatia verso gli uomini e le loro debolezze. Ruvido come cartavetrata, Montalbano arriva a rendere liscia ogni superficie, facendo chiarezza tra le grinze dei casi su cui indaga. Questa brusca sensibilità lo avvicina decisamente a Maigret con cui condivide anche lo status di buona forchetta devota alla cucina popolare tradizionale. Niente ricette elaborate ma sinceri piatti siciliani preparati, però, a dovere. Da bravo isolano ama il pesce ma non disdegna nulla di quello che cucina la sua fedele donna di servizio Adelina, madre di due figli delinquenti ma onestissima cuoca. Salvo non cucina quasi mai e non ha una moglie ad accoglierlo con piatti fumanti come Madame Maigret perché è refrattario al matrimonio. Anzi è refrattario a ogni legame e non perché sia insensibile alle debolezze della carne, tutt’altro. Il suo problema è che le donne gli piacciono troppo, come il cibo, e non è in grado di scegliere un piatto e mangiare solo quello, fosse anche il suo preferito. Così il fidanzamento con Livia, che vive a debita distanza a Genova, è eterno. Tanto per rimanere in ambito culinario, mettiamola così: Livia è il piatto preferito di Salvo ma questo non vuol dire che si cibi solo di quello. A lui piace spizzicare qua e là quando qualcosa (o qualcuna) stuzzica il suo appetito. Di conseguenza è un donnaiolo impenitente e un fidanzato fedifrago ma è irresistibilmente simpatico e, dannazione, gli si perdona tutto. Per il commissario mangiare è un rito da osservare con tutti i crismi, tra cui un religioso silenzio. Lui non si nutre per dovere ma per piacere e se la mente è occupata da altri pensieri può anche arrivare a rifiutare uno dei sublimi piatti di mare del suo ristorante preferito. Niente deve turbare il suo pasto perché per lui il cibo non è un modo di confortarsi in momenti di difficoltà, ma una festa per celebrare l’assenza di problemi impellenti.
Si raccomanda la somministrazione di un caso di Montalbano al bisogno soprattutto se, desiderosi di distrarvi con un giallo, a causa di reumatismi emotivi o esistenziali non ve la sentite di immergervi nelle atmosfere nebbiose, fredde e umide di Parigi, New York o Londra. Una vacanza in Sicilia vi permetterà di scaldarvi le ossa al sole di quest’isola rabbuiata dai delitti. Nei suoi gialli Camilleri riesce a rappresentare in maniera lucida, molto ironica e spesso amara, la mentalità siciliana e i suoi meccanismi, che poi non sono dissimili da quelli che muovono l’Italia tutta. La villeggiatura in compagnia di Salvo Montalbano sarà resa ancora più piacevole dallo stile di Camilleri che ha coraggiosamente scelto di usare un linguaggio in cui termini in dialetto si incastrano con l’italiano, in una sorta di partitura musicale che culla come una ninna nanna. Oltre a stuzzicare l’orecchio con la lingua, lo scrittore delizia il palato disseminando le indagini con gustosissime incursioni nella gastronomia siciliana. Tante le ricette, soprattutto a base di pesce, ma parlando di comfort food consiglio di provare gli arancini, piatto forte della cucina sicula di cui Salvo va ghiotto: croccante panatura, riso (per sorridere) e sorpresa al centro, sono una genuina bomba di piacere che scalda l’animo, un vero carnevale di sapori. Ne “Gli arancini di Montalbano” è spiegata in dettaglio la ricetta di Adelina che, vi avviso, è piuttosto elaborata.
Se vi sentite soli o siete stati lasciati di recente, un bel fritto può essere un’ottima medicina (alla faccia dei trigliceridi). A detta di Montalbano, infatti, «gustare un piatto fritto come Dio comanda è uno dei piaceri solitari più raffinati che l’omo possa godere, da non spartirsi con nessuno, manco con la persona alla quale vuoi più bene». Se, invece, siete tormentati da una violenta forma di allergia alle relazioni stabili, cercate un po’ di sollievo legittimando il vostro status di homo fedifragus con la complicità di quello sfrontato donnaiolo che è Salvo. Se, viceversa, vi trovate nei panni di Livia e manifestate un fastidioso prurito alla testa, le inchieste del commissario innamorato infedele potrebbero esservi utili per fare chiarezza: come uno shampoo anti-pidocchi, Camilleri vi toglierà dalla testa l’idea di poter modificare l’indole del vostro partner. Chi è testardo e inamovibile, come Montalbano, raramente cambia idea e forse è giusto così. Come coadiuvante della cura va intesa anche la visione della fortunata serie televisiva diretta da Alberto Sironi con Luca Zingaretti perfetto nei panni del ruvido commissario.

Commenti

Ho letto tutti i libri citati 8e molti altri analoghi, se per questo). Inoltre, penso di essere tra i pochi ad avere le prime edizioni sia del libro di cucina di Nero Wolfe sia di quello della signora Maigret. Camilleri ho cominciato a leggerne appena uscito, quindi parlo solo di Stout e Simenon.
Rex Stout “Alta cucina” Repubblica Giallo euro 5,90
[pubblicato il 12 febbraio 2012]
Uno dei soliti (quasi) perfetti meccanismi di Stout. Non parlo spesso del grande maestro del Kentucky, perché di Nero Wolfe ho letto (e visto) quasi tutto in gioventù. Non credo che riuscirò mai a dimenticare Tino Buazzelli e Paolo Ferrari nel ruolo dei due protagonisti della saga televisiva  (coadiuvati in cucina da Pupo De Luca nei panni del cuoco Fritz Brenner). Andando a spulciare negli archivi RAI, ho visto che in realtà furono realizzati solo dieci episodi (a me sembrarono tantissimi). E l’ultimo era ispirato proprio a questa cucina di qualità, anche se il titolo originale era “Troppi cuochi”. E non inferiamo sul a me ignoto traduttore. Episodio che avevo rimosso, o che comunque non era troppo presente se non per qualche particolare marginale, e che ho quindi letto e gustato (come non farlo in un libro di gialli e cucina?). È anche uno dei pochi (non credo più di tre o quattro) romanzi in cui Nero si allontana dalla casa di arenaria della 35th Street West di New York. E quando lo fa non si tratta mai per andare a caccia di assassini (che come confessa, non gli piacciono, anche se gli fanno guadagnare la vita): in genere sono congressi di orchidee o, come in questo caso, occasioni culinarie. Qui poi, c’è veramente una ragione speciale. In una località della Virginia Occidentale, realmente basata sulle terme sulfuree di “Greenbrier” dove si recò negli anni Trenta anche il Duca di Windsor e negli anni Sessanta la principessa Grace, si riunisce il club dei migliori cuochi mondiali, per dar vita ad alcune cene memorabili, ed invitando Nero a tenere una conferenza sull’apporto dell’America alla cucina mondiale. Ben inteso, alla cucina di alto livello. Quella che ora sarebbe dei Beck e degli Adrià, e che una volta era degli Artusi o dei Brillat-Savarin. E durante una delle serate viene ucciso uno dei cuochi, bravo, ma che si capisce subito, di un’antipatia più unica che rara, tanto che nessuno sembra realmente dispiaciuto della morte. Nero poi che non vede l’ora di tornare a casa, non ne vuole sapere. Solo per salvare l’onore della cucina (in fondo sapere che ci possa essere un cuoco assassino oltre che un cuoco assassinato) e perché anche lui direttamente colpito da un colpo di arma da fuoco (di striscio), si dà da fare. Ed in un battibaleno (cioè meno di 24 ore), smantella l’impianto accusatorio del procuratore distrettuale e consegna alla giustizia il o i colpevoli (mantengo il mistero altrimenti che giallo sarebbe). Quello che risulta in questo quarto libro dedicato all’investigatore (la prima apparizione di Wolfe è del 1934 e Stout scrive un libro all’anno) è il modo di lavorare (e di pensare) di Nero. E questa dicotomia che unisce i due filoni anglo-sassoni del poliziesco: il discorsivo all’inglese ed il movimentato all’americana. Perché Wolfe sta fermo e pensa (tra l’altro non può certo essere agile con i suoi 150 chili di peso) e la sua mano Archie Goodwin si muove e pensa poco. Ma servono le due componenti per risolvere i misteri cui si trova di fronte di volta in volta. Inoltre, la capacità di Stout è di farci trovare simpatico il belloccio Archie, che è ironico e spesso a caccia di belle donne (oltre che di soluzioni). E di farci ammirare i ragionamenti che il corpulento Nero tira fuori per arrivare ai noccioli delle indagini. Insomma, mi è sempre piaciuto e continua a farlo, anche se mi rendo conto che a volte non ha grandi spessori. Ma qui, tra l’altro, stuzzica un’altra corda cui sono sensibile: la buona tavola. E mi tornano in mente le ricerche che feci a suo tempo, collezionando i libri di cucina di Wolfe, poi di Maigret, poi della Stein e poi cercando ricette nei libri (passando per quel compendio del Pranzo di Babette di Karen Blixen). Una ricerca che meriterebbe essere ripresa (ricordo ancora con piacere la lettura di un giallo ambientato tra i formaggi regalatomi con tanto affetto pochi anni or sono). Al fine, come da Hornby e Volo esco fuori con compilation musicali, qui potrei tirar fuori materiali culinari a iosa, a cominciare dalla descrizione del famoso “prosciutto della Georgia”. Vedremo.
[pubblicato il 28 febbraio 2016]
Il bello di seguire l’evoluzione temporale della scrittura che Simenon dedica al suo commissario è anche quello di vedere un poco oltre il testo, di apprezzarne la genesi o, come in questo caso, spiegarsi continuità e discontinuità. In effetti, Simenon comincia a scrivere questo romanzo nell’ottobre del 1931, quando, ancora a bordo del suo cutter, gira per i canali del Nord. E non è un caso che fa svolgere la trama nella cittadina di Ouistreham, dove aveva ormeggiato l’Ostrogoth. Con un inizio accattivante. Un uomo senza memoria e con un taglio in testa viene ritrovato a Parigi. Dopo alcune ricerche si scopre essere il capitano Joris, direttore marittimo della chiusa appunto di Ouistreham, dove vive accudito dalla ragazza Julie. Maigret accompagna Julie ed il capitano nella cittadina, ma il giorno dopo Joris viene trovato morto per avvelenamento. Benché Julie sia subito fuori dai possibili colpevoli, emerge la presenza di un fratello di lei, Louis, un po’ troppo dedito al bere, con un passato per motivi stolti in galera, e su cui si appuntano dei possibili sospetti. Maigret rimane lì, tra il porto e la chiusa, in un ambiente in cui Simenon ha vissuto a lungo in questi anni, e che sa ben descrivere. I marinai, il tempo, le maree, il bar e le bevute, soprattutto grog per scaldarsi, i ben pensanti, molti della vicina Caen (nota, per chi non lo sapesse, per l’ottima trippa, piatto favoloso dove lo stomaco bovino viene messo a bollire per dodici ore nel sidro), a cominciare dal sindaco di Ouistreham e signora. Ma dopo la presentazione dei personaggi, la descrizione dei luoghi e Maigret che si aggira pensoso, la vena si inaridisce. Capita a tutti gli scrittori di non trovare il modo di andare avanti. Così Simenon lascia da parte la storia, si dedica ad altro, e, come detto a più riprese, si trasferisce ad Antibes. Pressato dalla necessità di dare romanzi al suo editore, pensa allora di riprendere la storia di Joris, ma ecco che la cupa atmosfera che contrasta il sole del Sud francese, porta anche qui al nostro scrittore ad imbastire una storia molto legata a dinamiche di vita, ad interazioni tra personaggi, specie se in qualche modo imparentati. Joris, oltre alla ferita in testa, ha anche vestiti con residui di uova di merluzzo norvegese (tanto per fare casino). Louis torna a Ouistreham con la sua nave, dove Maigret scopre la presenza di un clandestino, che sicuramente ha qualcosa da nascondere, e che è sicuramente ricco, visto che perde sul molo una stilografica d’oro. Secondo Maigret il sindaco ha qualcosa da nascondere, anche perché sembra sia caduto dalle scale, ma quando lo va a trovare fa il vago, ma si scopre anche che la moglie è andata improvvisamente a Parigi. Maigret riesce a parlare con il misterioso tipo che confessa di essere norvegese. Poi, ecco una novità, Maigret è anche coinvolto in azioni vilente, viene preso, stordito, legato e lasciato sul bagnasciuga. Non per ucciderlo, ma per permettere a Louis ed al norvegese di allontanarsi. Ovviamente, tutto ciò fa imbufalire il nostro commissario, che è buono e caro, ma non lasciatelo una notte al freddo. Capisce che il sindaco ha qualcosa di strano da nascondere, scopre che Joris è più ricco di quanto Julie pensasse, salta fuori un figlio del sindaco in collegio a Parigi, ma la moglie è stranamente rimasta a Caen. Anzi è fuggita. Maigret sguinzaglia le forze locali, chiama a soccorso il fido Lucas, che però trova il modo solo di farsi sorprendere e legare al letto per una notte. Ma Maigret è uomo dalle mille risorse. Segue in taxi la pista della moglie, che trova in una capanna con il norvegese, che tutti chiamano Jean ma che lei chiama Raymond. E tutti gli indizi sono su di lui: è ricco, è norvegese, è furtivo. Maigret lo arresta. Poi torna a Caen con il sindaco e la moglie, per indagare nella sede della compagnia marittima gestita dal sindaco. E qui, un vecchio contabile, gli svela alcuni misteri. Jean è in effetti Raymond, un cugino del sindaco, scapestrato in gioventù, artefice di un ammanco in base al quale il cugino gli impone di non farsi più vedere in Francia. E mentre scopre tutto ciò, il sindaco si spara un colpo di rivoltella alla testa. In questa cupa atmosfera, scopriamo quindi che Raymond è il padre del figlio che il sindaco voleva suo, che il sindaco voleva sposare la madre, per questo approfitta delle debolezze di Raymond, ingigantendo il dolo. Raymond, in Norvegia, mette la testa a posto, e diventa ricco. Tanto che vuole comprare una nave e tornare a Ouistreham. Il sindaco, saputolo, lo aspetta con Joris, e nel parapiglia, parte un colpo che ferisce il capitano. Raymond con Louis lo porta via, lo fa operare in Inghilterra, e lo fa convalescente a Tromsø (ah, bei ricordi di capo Nord), poi tornano tutti alla base. E quando il sindaco rivede Joris, per nascondere le sue poco pulite azioni (ma in fondo, ed è questo il male che Antibes fa su Simenon, le motivazioni sembrano ben misere), gli versa la stricnina nel bicchiere. Morto il cattivello, si spera che gli altri vivano meglio. Ci sono anche alcuni altri rivoli di storia (che non a caso è la più lunga di questo primo periodo), ma non risollevano il porto dalle nebbie che lo hanno circondato. Una delle meno riuscite storie di questi primi anni di Maigret, se non fosse, appunto, per lo svelare una delle modalità di scrittura del nostro e pur sempre ottimo autore.
Georges Simenon “I Maigret – volume 4” Adelphi s.p. (regalo di mamma)
[pubblicato il 29 maggio 2016]
Come si sta evolvendo Simenon e la sua scrittura! Abbandona Antibes ed i fasti mediterranei (ma su cui ritorneremo nel prossimo romanzo) e si trasferisce verso il Nord, laddove la luce gli ricorda quella dei suoi primi momenti di scrittura felice (l’Olanda e la navigazione sui canali tra Francia e Belgio). E si ferma a La Rochelle, sull’oceano Atlantico, tra Bordeaux e Nantes. Con lui sono la prima moglie Tigy e Boule, la “femme de chambre” (nonché sua amante ufficiale). Sta trattando l’acquista di una tenuta in campagna, ed intanto, qui nell’albergo dove trascorre i suoi giorni atlantici butta di getto un nuovo Maigret. Dopo l’abbuffata dei tre anni precedenti, ingolfati da 15 avventure del nostro commissario, ora ne rallenta la scrittura, preso anche da romanzi “puri”, cui lui voleva affidare molto del suo futuro da scrittore, ma che meno gli davano da mangiare dei solidi romanzi del commissario. Visto poi che si trova in una situazione precaria, fa in modo che anche la vicenda sia discretamente anomala. Maigret, oppresso dal caldo parigino decide di andare a trovare il suo amico ex-commissario Leduc, ora in pensione. Ma non riesce a dormire in cuccetta, si incuriosisce del comportamento del suo vicino di letto. E quando questi, nottetempo, vicino a Bergerac, approfittando di un rallentamento del treno, salta giù dal vagone, Maigret lo segue. E nei boschi intorno, viene ferito gravemente da un colpo di pistola alla spalla. Ricoverato all’ospedale, guarisce ma rimane convalescente. E da qui si dipana la strana storia di una sua inchiesta in cui lui rimane nella sua stanza d’albergo, curato e riverito, cercando di risolvere i misteri della cittadina. Infatti, nei mesi precedenti almeno due morti misteriose sono avvenute nei boschi di Bergerac. Due donne sono state aggredite, e poi uccise con uno spillone al cuore. C’è un pazzo che si aggira per la campagna francese? Il secondo elemento di novità (che non si ripeterà spesso) è la presenza della signora Maigret, che il nostro commissario utilizza sia come spalla / infermiera, sia come elemento indagatore (in mancanza del fido Lucas). Ovviamente Maigret non è convinto della presenza di un pazzo, ma si accanisce ad indagare gli strani rapporti che intercorrono nella cittadina di Bergerac. C’è il procuratore che sembra deciso a chiudere in fretta il caso, con qualche mossa sospetta. C’è il commissario locale che sembra navigare in alto mare. C’è lo stesso Leduc che ha un affaire con una signorina di Bergerac. E c’è il medico, dottor Rivaud, che conduce uno strano ménage con moglie trista e cognata giovane e piacente. In mancanza di motilità, Maigret convoca a turno i vari personaggi in albergo, utilizzando il suo modo d’indagine preferito: il colloquio. Perché sempre sostiene che il cattivo di turno qualcosa si lascerà sfuggire. E coinvolgendo di volta in volta sia l’albergatore che la signora Maigret nei suoi procedimenti indagatori. Ben presto nella sua mente, il cerchio si stringe intorno al procuratore ed al medico. Ma inopinatamente viene trovato un morto nei boschi, la cui descrizione coincide con quella del feritore di Maigret. Tutto risolto allora? Maigret deve chiudere scusa? Non sia mai. L’agente – signora Maigret scopre che il morto risulterebbe già morto anni prima ad Algeri (era un truffatore ed assassino) e scopre che il dottore non risulta essersi mai laureato. Possibile? Guarda caso, poi, viene anche lui da Algeri. Come la moglie. Come la cognata. E come la suocera che Maigret con uno stratagemma fa venire da Bordeaux a Bergerac. E qui, in un drammatico finale, si scopre come per l’appunto sia il nostro commissario ad avere ragione. Il morto era il padre del dottore, era certo un bandito ed un assassino. Motivo per cui venne arrestato ad Algeri, ricoverato nella clinica del figlio, che la incendia, ne scambia il corpo e lo fa fuggire in America. Nel frattempo, sposa la fragile Germaine, che però è cagionevole. E mentre attende nuovi documenti in Spagna, si innamora della sorella Françoise, di sette anni più giovane e di certo più bella. Sotto le nuove spoglie avvia la convivenza a tre in quel di Bergerac. Peccato che il padre va fuori di testa anche in America ed uccide delle donne con uno spillone nel cuore. Ritorna in Francia, riprendendo una “onesta” carriera di truffatore, spesso foraggiato dal figlio. Traffici che il procuratore scopre. Per tacitare il tutto, Rivaud convince Françoise a circuire il procuratore, fargli credere di aver un figlio da lui (figlio che è in realtà del dottore). Ma il padre “fuori di testa”, torna ancora a Bergerac ed anche qui continua la sua carriera di assassino. Rivaud, nella famosa notte del ferimento del commissario, fa in modo di seguire il padre ed ucciderlo lui stesso. Tuttavia, le confessioni della madre stanno mandando tutto all’aria, e, vistosi perduti, Rivaud e l’amante si suicidano abbracciati, lasciando il procuratore con un palmo di naso (e senza figli) e lasciando una famiglia distrutta ma con alcune possibilità economiche (Rivaud era discretamente agiato) in modo che nonna, moglie e nipote possano continuare la loro non più tranquilla esistenza. Il romanzo è decisamente avvincente, si sente che Simenon sta approfondendo la sua tecnica. Non disdegnando appunto di utilizzare elementi nuovi: un’indagine da seduto (come farà vent’anni dopo Hitchcock in “La finestra sul cortile”), la presenza attiva della signora Maigret, il commissario che partecipa alle azioni e viene ferito. E nessuno ci toglie dalla testa che utilizzi modi poco nascosti per ripercorrere i suoi momenti privati (il dottore e le sue donne, come lui, Tigy e Belle?). Un buon punteggio per un romanzo di ottanta anni fa.
Georges Simenon “I Maigret – volume 14” Adelphi s.p. (regalo di mamma)
[pubblicato il 26 maggio 2019]
Come avevo detto nel precedente, sempre più rarefatti in questa fase i «nostri» Maigret. Qui, addirittura, passano ben 11 mesi prima che Simenon ritorni alle vicende «poliziesche». Perché intanto, con gli alti e i bassi continua la sua vita familiare: vacanze invernali a Crans-sur-Sierre con la famiglia, interviste televisive, uscita del primo dei 72 volumi delle opere complete. Vita che soprattutto, ora, gravita intorno a Tersa, ora che Denise è ricoverata stabilmente. Tanto che in aprile, su invito di Mondadori, fa un giro promozionale in Italia, sempre con Teresa. Né si dimentica dell’anziana madre che si trasferisce nel mese di giugno presso la famiglia Simenon a Épalinges. In agosto, invece, fa una strana esperienza curativa, trascorrendo con tutta la famiglia un mese presso gli stabilimenti termali di Vichy. Una strana esperienza, per lo scrittore inquieto, tanto che in settembre mette mano a questo Maigret … a Vichy. Non è facile trovare molti dei 75 volumi maigrettiani che si svolgano tutti fuori Parigi. In effetti, secondo una statistica dell’ottima Murielle Wagner, una delle maggiori esperte dell’opera, ben il 64% dei capitoli dedicati alle vicende del commissario si svolge a Parigi, il 36% in Francia e l’8% all’estero. Non ci si meravigli del fatto che il totale è 108%, che alcuni capitoli sono collocabili in due diverse categorie. Non solo ma nell’ultimo periodo (diciamo dal dopoguerra in poi) a parte i Maigret “americani”, questo è il solo volume che si svolge interamente fuori la “ville lumière”. Altra particolarità è l’immediatezza tra sensazioni e scritture, che passa solo un mese tra le passeggiate con Teresa tra i viali di Vichy, con gli incontri con il suo editore, Sven Nielsen, con il cantante corso Tino Rossi, con il suo esegeta gastronomo Robert Courtine (di cui posseggo l’introvabile “La cucina della signora Maigret”), mentre in genere faceva passare anni (le migliori descrizioni delle strade parigine avvengono ad esempio proprio nei romanzi del periodo americano). Ma Simenon è preso dall’atmosfera calma delle terme, e vi trasporta il nostro povero Jules, che, sotto il consiglio dell’amico medio Pardon, si concede un mese curativo, con passeggiate, bevute, ed ascolto della musica nel parco. Inciso, è proprio con il dottore che ricorda il suo vizio di bere, durante un’inchiesta, sempre lo stesso vino. Peccato che qui, a Vichy, beva soltanto acqua e non il Vouvray frizzantino… Con un clima diverso che pervade tutto il libro, fin dall’attacco, che non ci porta in descrizioni di luoghi e situazioni, che non ci porta nella camera da letto dei coniugi con la signora Louise che porge il caffè all’amato. Ma è un attacco dove prende la parola proprio la signora Maigret. “Tu li conosci?” ci introduce in quel clima di rapporti formali, di saluti e di sorrisi, rilassante a volte, ma di certo un po’ falso e stonato per l’ambiente solito dove bazzica il commissario. Perché si incontrano persone, magari si conoscono di vista, come di vista i Maigret vedevano la signora spesso seduta in prima fila ai concerti nel chiosco. Signora che viene trovata morta nel suo appartamento, di cui affittava le stanze per l’estate. Maigret non vorrebbe essere coinvolto, ma l’indagine è affidata al commissario Lecœur, un tempo a lui sottoposto. Che non dimentica il suo vecchio capo, e lo associa informalmente alle indagini. Con quest’aria di poca partecipazione si svelano a poco a poco diversi scenari, cui Maigret partecipa alla delucidazione solo facendo domande, chiedendo, pensando, suggerendo. Senza essere lui in prima persona a portare avanti l’inchiesta. La signorina Lange si rivela misteriosa, così come la sorella Francine, che verrà per i funerali (e su questo torneremo in finale). Come hanno fatto le sorelle nullatenenti di La Rochelle a costruirsi nel tempo delle solide basi economiche? Perché la nostra Hélène si allontana periodicamente da Vichy, girellando per la Francia? È vero che sempre lei, Hélène, aveva avuto per alcuni anni un rapporto intimo con un industriale di successo? Chi è il losco figuro che accompagna Francine? Che ruolo hanno gli affittuari della cassa di Hélène? Spulciando nei conti della morta, Maigret si fa la giusta idea che la stessa sia in realtà una ricattatrice, che chiede periodicamente soldi al ricattato, ma sempre da posti differenti, in modo da non essere rintracciata. Il colpo di sfortuna sarà quando il ricattato, casualmente a Vichy anche lui per le terme, la incontra e la riconosce. Facendo precipitare tutto nel dramma. Non è un solito racconto che penetra a fondo nella commedia umana messa in luce da Simenon in tutti questi anni. È un po’ in ombra, un po’ in sottotono. Come il funerale, ecco che ci torniamo, cui partecipa il commissario, e che spesso, nei romanzi classici, serve a scrutare, nei partecipanti, chi possa avere degli interessi nel gioco poliziesco che si va descrivendo. Si sente che Maigret invecchia, così come Simenon, anche da questo fatto. Dai funerali che avanzano. Tanto che ne descrive ben cinque negli ultimi nove romanzi (come ci dice sempre la Wagner), mentre erano stati solo 12 nei precedenti 65 romanzi. Dal primo quello di Emile Gallet (“Il defunto signor Gallet” del 1931), passando per quello della contessa di Saint-Fiacre (che lo aveva riportato all’infanzia ne “L’affare Saint-Fiacre” del 1932) e quello dolentissimo di Cécile (“Cècile è morta” del 19xx) sino a il molto partecipato della gente di Montmartre del proprietario di cabaret Emile Boulay (”La collera di Maigret” del 1962). Come detto, da qui in poi il tasso di funerali aumenta. Segno dei tempi? Si avvicina la fine?
Georges Simenon “I Maigret – volume 15” Adelphi s.p. (regalo di mamma)
“Maigret e il signor Charles”
[pubblicato il 29 settembre 2019]
QUESTO STA NEL CORPO DELLA MAIL E NON LO RIPETO QUI.

Finalino

Ho solo un appunto da inserire: manca, e si sente, la citazione del mangiare e delle ricette del grande Pepe Carvalho. Per il resto tutto bene.