domenica 21 maggio 2017

Leif vs. Camilla - 21 maggio 2017

Mentre salutiamo nuovi destinatari di queste scritture, continuiamo a gravitare nel pianeta Svezia, con la lotta (titanica?) tra due esponenti della letteratura di indagine. Da un lato la saga plurilibresca di Camilla Läckberg, giunta credo al settimo volume. Dall’altro i primi due volumi della serie giallo-ironica di Leif GW Persson. Speravo entrambi in meglio, e tuttavia condivido con voi il fatto che l’ultimo arrivato, di una corta incollatura, riesce a prevalere la più rodata (almeno sul terreno editoriale italiano).
Leif GW Persson “Anatomia di un’indagine” Corriere della Sera GialloSvezia 10 euro 7,90 (in realtà, scontato a 4,74 euro)
[A: 03/10/2015– I: 20/02/2017 – T: 25/02/2017] - && e ½
[tit. or.: Linda – som i Lindamordet; ling. or.: svedese; pagine: 551; anno 2005]
Dalla lotteria della grande riserva di gialli provenienti dalla Svezia, dopo due letture di autori non svedesi (come ho scritto l’ultima volta), ecco che approdiamo ad un puro prodotto della capitale. Dove conosciamo uno strano autore, già consulente della polizia a Stoccolma, e poi, trentenne, al centro di uno scandalo per aver accusato, proprio da consulente, il ministro della Giustizia allora in carica di essere al centro di un giro di prostitute. Capite bene, si era nel 1976! E neanche in Italia! Fatto bersaglio di una campagna di odio, arriva quasi al suicidio, per poi salvarsi cominciando a scrivere, e tronando a fare, ma solo dopo il 2000, il consulente per omicidi ed altre nefandezze. Tuttavia qui non ci occupiamo dell’omicidio irrisolto di Olof Palme, uno dei pallini di Persson, ma dei suoi libri polizieschi. Che riprendono l’andamento di “procedural thriller” istanziatosi in Svezia su di un filone di critica sociale sin dai tempi del commissario Martin Beck, creato da Maj Sjöwall e Per Wahlöö. Con la scoperta intenzione di rovesciarne i canoni. Tanto da mettere al centro di tutto questo volume il personaggio di Evert Bäckström, che è maleducato, pigro, sovrappeso, razzista, sessista e cinico. Evert che tratta tutti i suoi colleghi maschi come se fossero finocchi, forse con l’eccezione del solo Rogersson, ma solo in quanto compagno di bevute. Evert che tratta tutte le donne come se non vedessero l’ora di entrare nel suo letto. Tanto da ricevere ben presto anche una denuncia per atti osceni. Evert che, per prendere l’assassino di cui narriamo in questo libro, pensa bene di prelevare il DNA di quasi tutta la popolazione di Växjö, facendone, durante le più di 500 pagine, analizzare almeno 700. Ovviamente senza cavare un ragno dal buco. Evert che ogni cosa che fa mi fa innervosire, e che, in questo primo romanzo, non mostra nessun segno delle “brillanti capacità deduttive”, che dovrebbero almeno fare da contraltare alla sua rozzezza. Qui, l’unico suo intento è bere, mangiare, cercare di scopare (senza riuscirci), il tutto facendo in modo di addossare i costi all’amministrazione centrale della Polizia (cui carica anche la visione per quasi tutta la notte di film porno). Tanto che mi sono domandato, dopo aver fatto un giro su vari siti che parlavano di Persson, di Bäckström, nonché della serie TV che gli americani ne hanno tratto, dov’è che saltasse fuori l’empatia positiva per questo personaggio. Visto che non salta fuori, teniamola lì, come un piccolo gingillo da sopra il camino, e veniamo agli altri meccanismi del romanzo. O dell’anti-romanzo. Che, intanto, nel titolo originale fa riferimento al nome della donna morta, Linda, ed al suo “caso di omicidio”, senza che si parli di anatomia, di indagine vivisezionata (tanto che in Francia fu pubblicato con il titolo “Linda”, in Germania come “Idillio omicida”, e nei paesi anglosassoni come “Linda, come nel caso dell’omicidio di Linda”). Anti-romanzo perché in realtà quello che seguiamo è il progredire delle indagini, molto infruttuose invero, seguite all’omicidio di Linda Wallin, un’avvenente aspirante poliziotta. Fin dall’inizio sappiamo quasi tutto: Linda è andata a bere con delle amiche, poi è tornata a casa tardi, qualcuno ha suonato, lei ha aperto, si conoscevano perché lo fa entrare, fanno all’amore sul divano (lasciando tracce di DNA), poi si spostano in camera da letto, dove i giuochi finiscono per diventare più audaci, tanto che alla fine Linda muore. E l’assassino fugge inopinatamente da una finestra, ancora in mutande. Sembrerebbe un gioco da ragazzi arrivare alla soluzione. Ma qui entra in gioco il primo Evert, che per quasi la prima metà del libro domina la scena, inquinando l’inquinabile e non facendo progredire di un passo le indagini. Poi viene alla ribalta l’ispettore Lewin, sicuramente più meticoloso, sicuramente con una sua idea del possibile scenario, sicuramente in ansia perché lì, in trasferta a Växjö, c’è venuto con una collega che diventa sua amante. Cosa che non favorisce di certo le indagini. Che saranno portate presto a compimento quando il nuovo capo della polizia manda due donne poliziotto ad aiutare sul campo Bäckström ed i suoi (che ormai sono alla settima inconcludente settimana). In men che non si dica, basandosi su una foto trovata in casa della madre, un pullover e dei fili di lana trovati sul luogo del delitto, trovano l’assassino, lo arrestano. Il romanzo però continua il suo corso, che a Persson poco interessa la dinamica della morte (pur spiegandocela a dovere). Ma interessa la Polizia, i suoi meccanismi, i suoi uomini corrotti, le sue insondabili ragnatele di rapporti umani. L’assassino forse sarà riconosciuto mentalmente disabile o forse no, ma Bäckström non subirà conseguenze alle sue malefatte, se non un accantonamento verso una sezione innocua del meccanismo poliziesco (tipo Ufficio Oggetti Smarriti), mentre delle due poliziotte che hanno risolto il caso, Lisa si dimette e si laurea in filosofia, mentre Anna fa carriera (e diventerà il capo di Bäckström). Un ultimo commento sulla frase sotto riportata, che non è memorabile in sé, ma che è ripresa in un libro posteriore di due anni di Camilla Läckberg “Il bambino segreto”, dove il poliziotto inutile come detective la utilizza per dare il suo assenso a non so che richiesta. Ricordo per i poco attenti che la Parton è nota per il suo prosperoso seno. Alla fine però, seppur interessante nella sua contro lettura del mondo poliziesco svedese, di certo poco gentile con il nostro autore, e foriero di alcune riflessioni sull’uso etico delle tecnologie moderne, rimane ancora leggermente troppo involuto per i miei gusti “noir”.
“Dolly Parton riesce a dormire sulla pancia?” (145)
Leif GW Persson “Uccidete il drago” Corriere della Sera GialloSvezia 21 euro 7,90
[A: 21/12/2016– I: 01/03/2017 – T: 03/03/2017] - &&& --
[tit. or.: Dem som dödar draken; ling. or.: svedese; pagine: 415; anno 2008]
Dovendo leggere un nuovo giallo della serie “GialloSvezia”, la lotteria delle mie scelte, mi fa cadere proprio sulla seconda storia scritta da Persson con protagonista il commissario Evert Bäckström. Devo dire che cade a proposito, che il primo libro mi aveva lasciato insoddisfatto. Ora ho anche approfondito sia l’autore che il personaggio, scoprendo che è diventato il protagonista di una delle tante serie americane tipo “Law&Order”, “Major Crimes” e via discorrendo. La sorpresa, positiva, è che qui, procedendo nelle fotografie del mondo poliziesco svedese, Evert, pur rimanendo prigioniero del suo pessimo carattere e delle sue pessime battute, fa un salto di qualità, riuscendo, nell’ordine, a diventare più simpatico, ad usare meglio le sue appendici sessuali, ed a risolvere (o quantomeno indirizzare verso la soluzione) il caso della morte di un ubriacone in una fatiscente casa della periferia di Stoccolma. A seguito dell’omicidio di Karl Danielsson, Evert viene fatto uscire dal suo limbo e per evitare complicazioni sindacali. Dove viene chiamato a collaborare alle indagini dove per lui scatta subito la voglia di rivincita. In particolare verso il suo collega Toivonen, che lo ha sempre trattato malamente, e tutta la cricca di quelli che lui definisce “i finlandesi”, cioè, appunto, svedesi di origini finniche. Tra l’altro, l’unico motivo per cui si muove e si agita è il modo di riottenere il permesso di portare con sé una pistola. Permesso che gli avevano tolto per l’imperizia totale dell’utilizzo di qualsiasi arma. Ma si sa, che la pistola è un potente simbolo di surrogato del “machismo”, quindi Evert deve averla. Dopo un po’ di giri intorno al tema degli ubriaconi, la morte dell’immigrato somalo che consegnava i giornali, di certo incasina la trama, ma darà modo, alla lunga, a Evert di andare verso la soluzione. Questo per farci vedere che la Svezia non è solo il paese di belle stangone bionde o atletici giovanotti. È un paese dove il 16% della popolazione è immigrata (di prima o seconda generazione). In questa peregrinazione tra momenti di digiuno (Evert è a rischio infarto e dovrebbe dimagrire) e crisi alcoliche (idem, ma al contrario), Evert comincia a muoversi elefantiacamente nell’indagine aiutato da un'altra investigatrice un po' anomala, l'agente Annika “Ankan” Carlsson, trentatré anni, bella, robusta, altissima, forse lesbica e forse no. La vittima, infatti, disponeva di più contanti di quanto fosse lecito attendersi. Inoltre aveva delle frequentazioni varie e complicate, che andavano da ex-poliziotti amanti del bere sino a qualche pezzo grosso della malavita. Il banale caso “di due ubriaconi” diventa ben presto la punta di un iceberg, che nasconde sott’acqua una complicata faccenda di riciclaggi, malavita e rapine. Il che, se basta a scompigliare le indagini che la polizia “seria” sta conducendo, con straordinaria inefficienza, da anni, non fornisce elementi utili all'identificazione dell'assassino, finché l'intrepido Bäckström, con un'intuizione alla Sherlock Holmes, non individuerà tra i tanti personaggi coinvolti nell'indagine, quello che, come si usava un tempo, sembra il meno probabile tra i candidati all'arresto. Concluderà così l'indagine in un alone di gloria e godrà (forse) di una meritata ricompensa, grazie all'imprevedibile disponibilità dell'agente Carlsson. Facendo in modo che Persson riesca, nei dettagli e nelle pieghe del romanzo, a mettere informazioni di vario genere. Da un primo indizio fuorviante, nel taccuino del morto ci sono somme destinate a degli acronimi (HJ, BJ, FJ) che Evert e la polizia riconduce ad una terna di arabi malavitosi: Hassan Jamal, Bassam Jassim e Farouk Jassim. I tre hanno invero dei traffici con il morto, tentano di corrompere anche Evert, che, usando l’appena riconquistata pistola nel modo meno idoneo possibile, riesce a metterli fuori combattimento. Peccato che gli acronimi si riferiscano a prestazioni sessuali (scritte in inglese) handjob, blowjob e fuck junckie (che penso conosciate tutti, o almeno possiate interpretarle se vi do l’indizio che la prima si riferisce a qualcosa fatto con la mano…). Solo quando il fratello del primo marito di una sessantenne presente nel condominio del morto spiega ad Evert il vero significato, il commissario farà quel salto che porta alla conclusione di tutta la vicenda. Poiché inoltre c’è qualcosa di quasi losco che unisce Ankan ad Evert, mi aspetto e spero che in un prossimo libro i due diano sfogo meglio alla loro vena investigativo-truffaldina. Insomma, Persson continua da un lato a mettere alla berlina il tradizionale mondo poliziesco scandinavo (memore delle angherie da lui subite) dall’altro ci dà un piccolo spaccato che tanto avrebbe gradito il vecchio commissario Beck (qualcuno lo ricorda?) con sprazzi di vita vissuta, storie sbandate, ed altre piccole zeppe da inserire nel lubrificato modo di vivere svedese. Come qualcuno ha scritto, ripeto e sottoscrivo, un giallo interessante, divertente anche se non comico. E con questa inversione di scrittura intorno al perno Bäckström che mi ha fatto sicuramente piacere. Non è bello, come nel primo libro, trovarsi a girare pagina dopo pagina senza trovare nessuno per cui fare il tifo.
Camilla Läckberg “La sirena” Marsilio euro 14 (in realtà, scontato a 10,50 euro)
[A: 12/06/2015– I: 04/03/2017 – T: 09/03/2017] - &&--
[tit. or.: Sjöjungfrun; ling. or.: svedese; pagine: 445; anno 2008]
Per una volta tanto che i traduttori italiani (ed in particolare l’ottima Laura Cangemi) non si erano messi a fare salti pindarici ed onirici particolari (e so che il titolo è corretto per aver letto in rete di “Den Lilla Sjöjungfrun” di Walt Disney), ecco che è proprio Camilla che comincia a fare le bizze. All’inizio il libro scorre abbastanza bene, veleggiando su di un’onesta sufficienza. Poi, quel vezzo ormai ricorrente delle ultime scritture della scrittrice svedese di prevedere intarsi temporali (non li chiamerei flashback, ma solo salti nel tempo) che si inseriscono in corsivo nel corpo della storia narrata al presente, ecco cominciano a portare verso il basso il gradimento del libro. Un vezzo che è stato utile in “Il bambino segreto”, ma che ora comincia ad essere troppo usato ed abusato. Ma sarebbe rimasto sul 2 e ½ con tranquillità, se non avesse voluto strafare nell’ultima pagina dove Patrick è colto da un collasso e viene ricoverato in ospedale, e contemporaneamente le sorelle Erica e Anna (entrambe incinta, Erica di due gemelli, Anna di un bimbo da collegare alla famiglia allargata con le due figlie del precedente matrimonio di Dan ed i due figli del suo precedente matrimonio) hanno uno scontro automobilistico con Louise, la moglie di Erik, uno degli elementi chiave del libro. Direte voi, possono capitare eventi particolari. Certo, ma non nell’ultima pagina, e senza dirci se Patrick ha un infarto, se ne uscirà, se Erica, Anna o Louise si salvano dall’incidente, se si salvano i tre nascituri. Non si fa! Certamente, nel libro successivo ne sapremo di più, ma è un modo scorretto nei confronti del lettore di portare avanti le storie. A meno di non essere un Charles Dickens che pubblica i suoi libri a puntate sul supplemento domenicale di un giornale inglese dell’Ottocento. Camilla non è Charles, ed i libricini scendono definitivamente. Anche se la storia, tendenzialmente, è ben congeniata. Abbiamo uno scrittore debuttante, cui Erica (che ricordo è l’eroina dei libri di Camilla, insieme al marito poliziotto Patrick) fa da editor. Christian ha un buon successo con il libro che (ma lo sapremo in corso d’opera) ha in qualche modo reinterpretato le vicende della sua vita. Vita che, anche qui ricostruendo con quegli intarsi in corsivo, è stata ben complicata: figlio senza padre di una madre schizofrenica, ubriacona ed obesa, rimane solo a tre anni per la morte della suddetta, viene adottato da una coppia con la madre surrogata bellissima e piena di attenzioni, fino a che non rimane incinta di Alice. Da quel momento è tutta Alice e niente Christian. Che è geloso come tutti i bambini, che tenta di affogare Alice, non ci riesce, ma l’ipossia provoca alla piccola scompensi cerebrali. Rimarrà deficitaria per tutta la vita, sviluppando solo (inconsapevolmente) un grande amore per il fratello “cattivo”. Christian passa tutta la giovinezza nella cittadina di Erica e Patrick, bersagliato da un trio di coetanei molesti: Magnus, Kenneth ed Erik. Poi, a 18 anni Christian va via di casa (sapremo solo alla fine perché e non ve lo dico), si fa una vita altrove, trova una donna con figlio, va a vivere con lei. Tuttavia qualcosa va storto: la donna ed il figlio vengono trovati annegati nella vasca di casa. A questo punto Christian (cambiato anche nell’aspetto) torna nella nostra cittadina, sposa senza amore una donna con la quale fa altri due figli. Entra in contatto con i tre (che non lo riconoscono), diventando un quartetto di amici. Da qui parte il corpo “grande” del romanzo. Muore Magnus, ucciso a coltellate e poi gettato nel mare. Christian, Erik e Kenneth ricevano lettere minatorie. Muore stranamente la moglie di Kenneth, che ha un incidente per cui viene ricoverato in ospedale quasi in fin di vita. Erik (il più subdolo del vecchio trio, ma anche quello con più risorse, proprio perché senza cuore) tradisce a lungo la moglie e quando si accorge che la strana vendetta si sta abbattendo su di lui, cerca di fuggire dalla Svezia, ma viene denunciato dalla moglie ed arrestato. Ma per tutto il libro, fino alle catarsi finali, come quella del suicidio (o forse no?) di Christian, Camilla ci mette una benda sugli occhi e mescola le carte. Sembra che Christian non abbia mai avuto un passato. Non si capisce come faccia la misteriosa “Sirena”, del titolo di questo libro e di quello di Christian, ad apparire ogni volta senza essere vista. Ci sono tutti gli intrecci familiari complicati. L’amore di Cia e Magnus. Quello di Lisabeth e Kenneth. Il non-amore di Erik e Louise. Il profondo amore tra Erica, Patrick e la figlioletta Maja. L’ottuso capo della polizia, il suo amore per il nipotino Leo e per il cane Ernst. Insomma tutta la solita carne al fuoco dei romanzi di Camilla e della vita di Fjällbacka. Alla fine si scopre che se qualcuno avesse letto bene il libro di Christian, avrebbe capito qualcosa prima e meglio. Ma Erica non ne era stata l’editor? E come aveva fatto a consigliare Christian senza leggere profondamente il testo? Questo unito ai difetti esposti all’inizio, mi fa dare un giudizio complessivo di leggibilità con insoddisfazione. Spero sempre si torni alla principessa di ghiaccio!!
“Nessuno sa mai tutto di un’altra persona. Neanche di quella che ama e con cui divide la vita.” (49)
Camilla Läckberg “Il guardiano del faro” Marsilio euro 14 (in realtà, scontato a 11,90 euro)
[A: 01/11/2015– I: 09/03/2017 – T: 11/03/2017] - && +
[tit. or.: Fyrvaktaren; ling. or.: svedese; pagine: 444; anno 2009]
In base agli insondabili algoritmi che governano misteriosamente le mie letture (e di cui forse un dì parlerò, ma solo sotto minacce pesantissime) leggo il seguito de “La Sirena” subito appena finito il libro. Rimangono così ancora vividi gli ultimi collegamenti, e si possono fare raccordi e dare anche qualche giudizio. Intanto, sembra che Laura Cangemi ed il marketing Marsilio abbiano trovato un accordo, tanto che anche questa volta si mantiene il titolo come l’originale. E non è poco, di questi tempi. Come immaginavamo, a meno di improbabili colpi di scena, il malore di Patrick (uno dei due protagonisti-leader della serie) è solo un po’ di angina e non un infarto. Come immaginavamo, Erica non muore nello scontro automobilistico che chiudeva il libro precedente. Né muoiono i due gemelli che aveva nel pancione. Anzi, seppur precocemente, nascono e qui li ritroviamo nei loro primi mesi di vita, il focoso Noel-Erica ed il riflessivo Anton-Patrick. Né muore Anna la sorella di Erica, che però perde il bambino. E per tutto il libro ci dovremo sorbire il suo crollo nervoso, i sentimenti di colpa di Erica, e via discorrendo sul lato dolente. Anche se questo è un filone che poco intacca le indagini. Che invece riguardano, principalmente, la morte di tal Mats, esperto di economia, da pochi mesi tornato nella natia Fjällbacka, per fuggire da qualcosa successagli a Göteborg (ma di cui si troverà il bandolo solo in fine di libro). Prima di morire ha fatto visita a tal Annie, che seguiamo dalle prime pagine fuggire un fatto di sangue dove sicuramente muore il marito (losco figuro) e rifugiarsi con il figlio Sam nella sua proprietà a Fjällbacka, il faro di Gråskär, da sempre noto come il faro dei fantasmi. Qui la nostra Camilla ci “delizia” con i suoi soliti inserti corsivi: la storia di tal Emelie, rinchiusa nel faro prima con il marito Karl e l’amante (del marito) Johnson, poi anche con il figlio Gustav. Una storia del 1870 (circa) che si capisce fin dai primi istanti essere destinata con la morte di Emelie e Gustav (e la scomparsa dei due uomini). Tanto che tutti compariranno come fantasmi al faro, per stare vicino a Annie. Le complicazioni immaginate da Camilla sono poi legate all’apertura di una spa, condotta da due fratelli: Vivienne e Anders. La prima circuisce Erling, una figura dedita alle brutte figure come avevamo imparato ne “L’uccello del malaugurio”, il quarto episodio della saga (ricordo che ora siamo al settimo). Il secondo cerca (riuscendo) di sottrarre soldi al comune, dove lavora Mats. L’autrice fa di tutto per farci credere che i due siano implicati nella morte di Mats, ma noi non ci caschiamo (rimane solo l’interrogativo su chi sia l’amante di Anders, forse lo sapremo in futuro). Inoltre, ogni tanto compare tale Madeleine, donna vittima di maltrattamenti da parte del marito, tanto che fugge di nascosto in Danimarca con i figli. A questo punto direi che potremo fare un inciso con una piccola critica a due difetti che si stanno palesando in questa scrittura: l’andamento della storia affonda in una lentezza (che Eco definirebbe pornografica, anche se nel libro non ci sono scene di sesso) e disperde l’attenzione ricalcando alcuni sentieri del libro precedente. C’è troppa carne al fuoco, e quando si abbonda bisogna saper dosare bene i sapori, per non rendere il cibo poco appetibile. Inoltre, chi ha da poco letto il precedente, si accorge che sembra diventare un cliché quella della presenza di un morto che sembra non avere un passato. Per fortuna, verso la fine Camilla cerca di riannodare le fila e di farci avere (quasi) tutte le storie che tornano al loro posto. Mats lavorava a Göteborg presso un centro che si occupa di donne maltrattate, dove conosce la Madeleine di cui sopra, e ne nasce una storia, anche se contro le regole. Il marito di Madeleine, saputolo, lo riempie di botte, e mentre è all’ospedale il centro fa sparire Madeleine in Danimarca. Dove però il marito cattivo la rintraccia, e lei tornerà in Svezia dove, probabilmente, farà una brutta fine (metto il condizionale perché questa parte non è sviluppata o per mancanza di volontà o per riprenderla in libri futuri). Mats, sconvolto dalla partenza dell’amata, torna a Fjällbacka, dove rincontra Annie e poi gli succede quello che sappiamo. Ma chi lo uccide? Un indiziato è Anders, ma lo escluderei per il fatto che decide di rimanere in Svezia nonostante il furto dei soldi. Poi c’è sicuramente il cattivo marito di Madeleine. O forse una terza persona dalla mente sconvolta che non riesce a distinguere il vero dall’immaginario che si sta svolgendo nella sua testa. Tutto precipita quando la polizia di Stoccolma comincia ad indagare sulla morte del marito di Annie e quando Erica, al solito, comincia ad indagare sulle storie dei fantasmi del faro. La fine lascia un po’ di amaro in bocca, per le sfortunate circostanze in cui molti attori della storia sono coinvolti. Come se ci fosse un destino più grande che li trascina verso eventi sfortunati. A noi rimangano comunque sulla tavola Patrick ed Erica con i loro tre figli, il rapporto tra Bertil e Rita (di cui non ho parlato che è un inciso pur interessante), l’evolversi della storia di Anna e Dan, dove la sorella di Erica sembra poter uscire dal suo baratro personale. Ma Camilla lancia qualche frase che ci fa presagire che tutto non sia ancora risolto. Speriamo che nei futuri romanzi la nostra brava scrittrice riesca ad annodare meglio i propri fili, e ci faccia tornare ad assaporare i suoi serial book, con la stessa aria dei primi volumi.
Terza domenica del mese, e color che da più tempo mi seguono (magari leggendomi ancora) sanno che è la domenica dedicata ai libri che ci aiutano a vivere felici. Dove questo mese ci rivolgiamo ancora ai libri che alleviano (dovrebbero almeno) le pene d’amore.
E come (quasi) tutti sanno, visto che si avvicina una nuova partenza, è (molto) probabile che per qualche domenica dobbiate fare a meno della mia scrittura. Non vi dolete, che tutti saluto con un arrivederci al prossimo mese.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

MAGGIO 2017
Avendo letto (in ritardo) un altro libro di Gabo, torno ad occuparmi delle terapie d’amore, ormai alla sesta puntata. Ormai dovreste essere in grado di essere felici da soli, ma un piccolo aiuto serve sempre.

TERAPIE D’AMORE (VI)
IL GRANDE GATSBY di FRANCIS SCOTT FITZGERALD (1925)

Pillole di trama
Long Island, ruggenti anni Venti. Jay Gatsby è un miliardario dall’oscuro passato che organizza nella sua mega villa sfarzose feste mondane a cui partecipa tutta New York, tranne lui, che passa le notti in solitudine fissando una luce verde al di là della baia. È il vicino Nick Carraway a raccontare la misteriosa storia di quest’uomo e del suo impossibile sogno d’amore per Daisy, un sogno (o un’illusione) in funzione del quale ha costruito tutta la sua vita. Per essere all’altezza della donna amata (o meglio delle sue pretese), Gatsby si è inventato un passato eroico e ha accumulato ricchezza e prestigio con ogni mezzo, lecito e illecito. Ora è tornato, ma la volubile e viziata Daisy, sposata con il ricco e meschino Tom Buchanan (che la tradisce con la volgare e sensuale moglie di un benzinaio), non è in grado di rinunciare alla sua vita e così il sogno di Gatsby è destinato a infrangersi drammaticamente.
Supposta-saggezza
Oltre a essere una straordinaria allegoria del tramonto del sogno americano, che l’autore rievoca con una prosa cinematografica ritmata da dialoghi e immagini che si susseguono come a ritmo di jazz, “Il grande Gatsby” è anche una delle più drammatiche storie d’amore mai raccontate. D’amore non corrisposto, ovviamente. Ma niente sentimentalismi, sospiri o personaggi lacrimosi perché i protagonisti del romanzo di Francis Scott Fitzgerald sono praticamente tutti negativi. Inquieti e inquietanti, si muovono come ombre illuminate a tratti dallo sfavillio di una mondanità e di una ricchezza che nasconde il vuoto abissale di un’umanità sola e fragile nella sua arroganza autodistruttiva. Se Daisy è viziata, annoiata, conformista e incapace di seguire le proprie passioni mentre suo marito Tom è rozzo d’animo e di modi, snob, brutale e pure traditore, gli altri bizzarri personaggi che affollano le stravaganti feste di Gatsby non sono certo migliori: cinici, corrotti e storditi sono tutti ubriachi di un’ebbrezza vacua. E alla fine non possiamo che essere d’accordo con il narratore Nick: il malinconico Gatsby, archetipo del “self-made man” che ha conquistato una posizione sociale all’ombra dell’illegalità, vale più di tutti gli altri messi insieme ed è “grande” perché quantomeno è un grande sognatore, l’unico di questa drammatica storia e uno dei più grandi e malinconici di tutta la letteratura, commovente e a tratti perfino tenero nella sua ingenua speranza di far rivivere il passato. Ma i sogni hanno ancora spazio in un mondo indifferente e senza scrupoli dominato dalla logica del denaro e del potere? Pagina dopo pagina, si decompone il sogno americano proprio come quello di Gatsby, il benessere economico non assicura la felicità né l’amore e, così, finita la musica, l’alcol, le feste e le illusioni, non restano che la crisi e l’incubo della Grande Depressione. La frase finale arriva come una sentenza senza possibilità d’appello per il destino dell’uomo che quando pensa di essere a un passo dal proprio sogno di felicità non si rende conto di averlo già alle spalle, perso per sempre. E “così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato”. E chi non ha, più o meno tutti i giorni, la sensazione di remare controcorrente? Ma basta immergersi nel capolavoro di Fitzgerald per annegare temporaneamente le proprie depressioni (amorose, economiche o esistenziali) nel sogno di uno dei romanzi più belli e dolenti della letteratura americana.
Posologia
“Il grande Gatsby” è un collirio antibiotico per il trattamento di quelle infiammazioni oculari che sono all’origine di uno dei più dolorosi acciacchi del cuore: l’amore mal riposto, perfino più distruttivo dell’amore non corrisposto. Tali infiammazioni provocano un difetto della vista che, annebbiandosi, porta il paziente a idealizzare l’oggetto del proprio desiderio. Scambiare la realtà con una fantasia romantica può trasformarsi in un incubo nel momento in cui l’infezione oculare passa e si scopre che la persona idolatrata non è quella che si pensava. In realtà è molto difficile rendersene conto (l’infezione si diffonde rapidamente nell’organismo intaccando altri organi vitali, tra cui il cuore e il cervello) quindi il rischio è quello di continuare a fissare la luce verde, restando ipnotizzati e accecati da un abbaglio. Gatsby costruisce tutta la sua vita e la sua fortuna con l’unico scopo di compiacere Daisy che, sebbene infatuata di lui, non è capace di ricambiarlo con la stessa passione. È volubile, civettuola e indifferente e il suo nome, Daisy ovvero “Margherita”, rimanda proprio all’incostante cantilena infantile del “m’ama non m’ama” che si ripete spampinando il malcapitato fiore. Gatsby è così infatuato del suo sogno da non accorgersi che Daisy, malinconica e sofferente, è però egoisticamente distratta e crudelmente superficiale, capace di frantumare cose e persone senza rendersene conto. Per evitare fratture incurabili, «restate grandi» e capaci di sogni incorruttibili, ma sognate a occhi aperti. Per trarre il massimo beneficio dalla cura oftalmica è necessario utilizzare con costanza il prodotto.
“Il grande Gatsby” è anche un’iniezione ricostituente per convincersi ulteriormente che «i soldi non fanno la felicità», un’affermazione di cui tutti, in teoria, diciamo di essere convinti. Ma se in questi tempi di crisi economica vi ritrovate a fine mese costretti a mangiare in solitudine latte e biscotti tarocchi del discount (tipo i “pan di stalle”, i “m’abbracci” o le “sgocciole”) e vi accorgete di un abbassamento delle difese immunitarie e di un conseguente proliferare di virulenti e leciti dubbi sulla fondatezza di quest’affermazione, procuratevi una copia del romanzo e consolatevi con la triste storia di Jay Gatsby, al quale ricchezza e potere non sono serviti a nulla se non a distruggerlo.
Se siete soggetti malinconici che tendono a vagheggiare il passato, incapaci di godere il presente, consiglio di applicare una o più volte al giorno sulle tempie fino al totale assorbimento il concetto che «il passato non ritorna».
Effetti collaterali
Dopo l’applicazione del collirio antibiotico, gli occhi possono reagire pizzicando un po’. Aprirli bene per guardare in faccia la realtà può essere fastidioso, ma si consiglia di sopportare con pazienza il disagio perché è temporaneo. E più facile curare gli occhi arrossati che un’emorragia cardiaca.
È stato riscontrato che i soggetti con varie forme di allergia a party ed eventi mondani rischiano di vedere i suddetti sintomi acuirsi ulteriormente, sviluppando una reazione di ipersensibilità con conseguente ricerca spasmodica di solitudine.
Terapia cinematografica sostitutiva
Se le ristrettezze economiche vi costringono davvero a stare chiusi in casa, la biblioterapia abbinata alla cineterapia, potrebbe risollevarvi l’umore.
La prosa di Fitzgerald è portentosamente cinematografica e le immagini scorrono sulle pagine come frammenti di pellicola. Paradossalmente proprio questa è la ragione per cui nessuna delle trasposizioni del romanzo può dirsi pienamente riuscita. Detto questo, e visto che si parla di sogni e sognatori, sfido qualunque donna a non provare una certa qual forma di piacere abbagliante nel vedere Robert Redford o Leonardo di Caprio nei panni di Jay Gatsby. La versione del 1974, diretta da Jack Clayton con la sceneggiatura di Francis Ford Coppola, è molto elegante e piuttosto fedele al libro ma sfiorando quasi il didascalico risulta un po’ noiosa. Robert Redford, però, è incorruttibile e meraviglioso come il sogno di Gatsby. Altra cosa è l’adrenalinico adattamento di Baz Luhrmann in cui il regista ha combinato il suo stile visionario con l’esuberanza ruggente dell’età del jazz e la stravaganza delle folli feste a casa Gatsby. Messa in scena scintillante e musiche travolgenti per una giostra vorticosa in cui spicca Leonardo di Caprio in gran forma, ipnotico come la luce verde al di là della baia. Le donne sono libere di sognare a occhi aperti. Al termine della proiezione, potrebbero avere bisogno di un buon collirio per ovviare all’imbarazzante controindicazione degli occhi a forma di cuore.
Un consiglio: una pillola per aumentare la resistenza amorosa.
Con “resistenza amorosa” non è da intendersi il vigore garantito sotto le lenzuola dalla famosa pillola blu, ma la tenacia di aspettare con pazienza il coronamento di un sogno d’amore, ovvero quella perseveranza, altrimenti nota come cocciutaggine sentimentale, che contraddistingue il protagonista di “L’amore ai tempi del colera”. Consiglio di assumere il romanzo di Gabriel Garcia Márquez subito dopo la somministrazione de “Il grande Gatsby”, come coadiuvante specifico nel trattamento di quel processo metabolico che consente di distinguere tra l’amore mal riposto dietro al quale si rischia di sprecare una vita intera, come nel caso dell’infelice protagonista di Fitzgerald, e l’amore che ha bisogno di tempo per maturare e per il quale vale la pena impiegare l’attesa di una vita. Florentino aspetta precisamente la bellezza di cinquantun anni, nove mesi e quattro giorni durante i quali il suo amore per Fermina non traballa davanti a niente. Rifiutato dopo anni di corteggiamento da una donna che idolatra (e che gli preferisce un uomo ricco di cui non è innamorata), proprio come Jay Gatsby anche Florentino imposta tutta la sua esistenza sull’unico obiettivo di elevarsi all’altezza delle aspettative di Fermina. Pur non smettendo di pensare a lei per un solo istante, però, Fiorentino continua a vivere la sua vita. Non si fa mancare, per esempio, le donne che non sono da intendersi come un tradimento (lui stesso confessa di essersi mantenuto vergine per la sua donna. Vergine nello spirito, ovviamente) perché le sue avventure sono solo un modo per riempire quel vuoto lasciato da Fermina, una voragine che neanche 622 donne (puntigliosamente annotate su un taccuino) hanno potuto colmare. Florentino vive nell’attesa, Gatsby si annulla nell’illusione. Se il sogno d’amore di Gatsby è incorruttibile e si frantuma scontrandosi contro un’umanità corrotta, di cui la sua Daisy fa parte, il sentimento di Florentino è incrollabile e quindi impermeabile agli eventi. Banalmente si dice che la speranza è l’ultima a morire, il problema è che nel romanzo di Fitzgerald il protagonista muore prima della speranza mentre il tenace Florentino continua a nutrire il suo sentimento fino al tanto desiderato lieto fine che arriva solo quando i tempi sono maturi. Ovvero quando i due personaggi sono maturi, in una parola anziani. Ma l’amore non ha età e le relazioni sono spesso tutta una questione di tempismo e richiedono tanta, tantissima pazienza. Sicuramente Florentino risente dell’indomabile ottimismo dei sudamericani e così la sua storia d’amore e di speranza trasuda ottimismo, passione e un pizzico di ironia. Per questo consiglio di ricorrere al romanzo ogni volta che si sente il bisogno urgente di incrementare la propria resistenza amorosa, alimentando la speranza per la felice conclusione di un lungo corteggiamento e reintegrando l’ottimismo necessario per credere con convinzione nella fondatezza del proprio sentimento. Messi in guardia da Fitzgerald e spronati da Márquez, sarà più facile trovare il giusto equilibrio per non rinunciare all’amore senza rimanere abbagliati da nessuna luce verde che non sia una speranza fondata.
Quale medicina migliore per curare gli acciacchi del cuore di un libro in cui l’amore è paragonato al colera, malattia contagiosa che provoca stati d’animo febbrili e fa compiere gesti insensati? Nessuno di noi ne è immune, possiamo solo imparare a gestirne i sintomi. “L’amore ai tempi del colera” si rivela un’ottima medicina.
Nel caso vi trovaste in una situazione analoga a quella di Florentino, per ingannare l’attesa e la solitudine, potrebbe essere utile ricorrere nuovamente a Gabriel García Márquez con una somministrazione del suo libro più famoso (e decisamente voluminoso), “Cent'anni di solitudine”.

Commenti

Ho letto Gatsby tanti anni fa servandone ricordi solo nella testa, ma il commento di Giulia mi porta ad un libro di Gabo da poco letto, e che mi ha riportato verso momenti felici della scrittura del grande colombiano.
Gabriel Garcia Marquez “L’amore ai tempi del colera” Mondadori euro 9,50 (in realtà, scontato a 7,15 euro)  
[trama scritta il 2 aprile 2017]
Mi ero accostato con un po’ di timore ad un ulteriore libro di Gabo, dopo che le ultime letture mi avevano sinceramente deluso. Non che volessi tornare all’epifania interna che mi sconvolse con “Cento anni”, ma mi sarebbe bastato tornare al piacere di una bella lettura come quella del giovanile “Racconto di un naufrago”, dopo aver passato le pene a sopportare la candida Erendira o il tramonto del patriarca. Timore che era un po’ mitigato dalla spinta verso la lettura che mi stavano dando sia le libropeute di “Curarsi con i libri”, che lo consiglia ai settantenni, sia l’allegra Giulia Fiore che lo consiglia come antidoto a “Il grande Gatsby”. Buoni consigli, ed altrettanto buona lettura. Qui, il quasi sessantenne Gabo riprende il bandolo dei suoi giri infiniti, dei suoi mille personaggi, che poi a ben vedere si riducono a due o tre, e ci trascina in meno di quattrocento pagine alla ricerca di uno sbocco ad una vicenda che, bene o male, durerà una sessantina di anni. Lo fa con la sua vecchia maestria, cominciando da un punto A, spostandosi a B, poi a C e D, ed intessendo tutto un intreccio di situazioni e di svolgimenti, che mi hanno tenuto incollato alla pagina più di quanto mi aspettassi. All’inizio ero un po’ dubbioso, seguendo le pagine sulla morte dello strano Jeremiah de Saint-Amour, starno personaggio, piombato all’improvviso nella cittadina teatro della vicenda, ricucitosi uno spazio di vita come fotografo e di relazioni come giocatore di scacchi. Personaggio che decide di non dover invecchiare ed a sessanta anni si uccide. Morte che coinvolge il suo compagno di scacchi, il dottor Juvenal Urbino. Di cui vediamo i turbamenti per la morte, che cominciamo a seguire con le sue manie di vita, con le sue esuberanze sociali, conosciamo di sfuggita la moglie Fermina Daza. Veniamo ben presto coinvolti nella vita del dottore, nel ricordo dei suoi viaggi giovanili a Parigi, delle sue dotte lezioni di medicina, delle sue letture. Venendo all’improvviso coinvolti nella sua morte, lo stesso giorno dell’amico, per una caduta accidentale e ben ridicola. Prende allora il centro della scena la moglie Fermina, che sembrava sino ad allora vissuta nell’ombra del marito importante, ma che esegue i giusti passi per il funerale, per il ricordo, per il rapporto con il figlio Urbino Daza, anche lui dottore, e con la figlia Ofelia. E nel momento culminante di questo inizio pirotecnico abbiamo lo squarcio che farà girare tutto il romanzo. L’anziano a sua volta Florentino (sia lui che Fermina sono poco oltre i 70), che alla fine del funerale dichiara il suo imperituro amore a Fermina. Un amore che dura quasi nascosto da 53 anni, 7 mesi ed 11 giorni. Dichiarazione che permette all’autore una capriola appunto di più di cinquanta anni all’indietro, dove ritroviamo la giovane Fermina, assediata dalle lettere e dalle poesie di Florentino. Siamo nella fine dell’Ottocento, non facili sono i rapporti tra maschi e femmine. Inoltre Fermina è figlia di un oscuro malversatore, che finirà i suoi giorni tornando scornato in Spagna, mentre Florentino è figlio naturale di uno dei maggiorenti locali. Ma non riconosciuto, quindi di poco peso sociale. Inoltre Florentino ha un suo aspetto triste, è aiuto-telegrafista, miope. Ha solo la parola dalla sua, novello Cyrano di sé stesso. Seguiamo allora Fermina che decide di lasciarlo per sposare senza amarlo il ricco Juvenal, con cui costruirà un rapporto bene o male felice nel corso degli anni, con picchi di bellezza e di amore e con abissi non proprio di dolore, ma di crisi. Che verranno superate, avendo sempre ormai la nostra buona Fermina seppellito il ricordo del giovane amore con Florentino. Che invece non si rassegna, che decide, lì sui venti anni che quella sarà sempre la sua donna. E che comincerà la sua scalata sociale, aiutato dalle sue capacità e dal padre naturale che gli offre la possibilità di sfruttarle. Vediamo Florentino perdere la verginità del corpo su di un battello fluviale. Ma anche salire, gradino dopo gradino, proprio le fortune dei battelli, di cui alla fine diventerà il capo e padrone indiscusso. Avrà anche la capacità di soddisfare i suoi ardori, andando a letto con 622 donne come puntigliosamente registra nei suoi diari. Il funambolismo di Gabo ci fa quindi saltare di donna in donna, seguendone brevemente il fugace rapporto con Florentino, ma dipingendole a tutto tondo. Anche l’ottima Leona, l’unica con cui non andrà a letto, ma che sarà il motore segreto della sua ascesa. Dopo questa lunga cavalcata, allora ritroviamo i nostri due eroi, anziani ma non vecchi. Dove vediamo Florentino riprendere il leggero corteggiamento, delicato e pieno di un tatto sempre presente nelle sue manifestazioni, anche quando sembra non essere capace di mantenersi centrato. Vediamo Fermina leggere le sue lettere, capire i percorsi suoi e del suo amor di gioventù. Gabo ci infioretta tutta una bella parte su queste basi, mettendoci dentro anche i corpi di questi due settantenni, il loro scivolare verso la inevitabile morte, che fortunatamente non vedremo. Fino però ad imbarcarsi su una delle navi della flotta di Florentino, quasi a ripercorrere una fuga giovanile di Fermina verso parenti che le facessero passare i dolori e quel momento d’amore di Florentino. Cosa succederà sulla nave, dovrete leggerlo, perché è il momento chiave del libro. E non vi anticipo cosa succederà. Tutto il libro è corso via su questi binari, l’ho letto legato alla pagina nei pochi momenti liberi di queste giornate ad altro dedicate. E vi confesso che avrei anche dato maggior punteggi, se non ci fossero alcuni passi che mi hanno lasciato un po’ di dubbi. Uno su tutti, il famoso diario di Jeremiah, di cui tanto si parla nelle prime pagine, che mi aveva solleticato, ma di cui poi se ne perde traccia. Con dispiacere. Un libro sulla vecchiaia e sull’amore e sul fatto che comunque possano convivere. A dispetto di tutti.
“Era ancora troppo giovane per sapere che la memoria del cuore elimina i brutti ricordi e magnifica quelli belli, e che grazie a tale artificio riusciamo a tollerare il passato.” (116)
“Un uomo sa quando comincia a invecchiare perché comincia ad assomigliare a suo padre.” (183)
“Con lei … aveva imparato quello che aveva già provato più volte senza saperlo: che si può essere innamorati di diverse persone al contempo … senza tradirne nessuna.” (293)
“È incredibile come si possa essere tanto felici per così tanti anni, in mezzo a tante baruffe, a tante seccature …  senza sapere in realtà se è amore o se non lo è.” (356)

Finalino


Ritorno a non commentare Scott Fitzgerald, ma sostengo, con passione, l’utilità di questo lungo amore, della possibilità che, alla fine, riesca nel suo intento. Come lessi anni fa in Spagna, l’impossibile non esiste, è solo qualcosa che, magari, tarda ad arrivare.

domenica 14 maggio 2017

Svezia, forse

Iniziamo con queste trame la lettura e la scrittura sulla collana del Corriere della Sera, intitolata “Giallo Svezia”. Una collana nata dalla buona resa che in libreria hanno i testi di Mankell, della Marklund, la trilogia di Larsson e via leggendo. Purtroppo, per i cattivi curatori della collana, i primi tre titoli che ho letto della serie … non sono svedesi. Due danesi ed un francese (anche se da anni vive nei paesi scandinavi). Certo non un bell’inizio per una collana intitolata alla Svezia. Paradossalmente, poi, questi tre titoli sono più che sufficienti, mentre l’unico svedese doc non mi è molto piaciuto.
Jussi Adler-Olsen “La donna in gabbia” Corriere della Sera GialloSvezia 4 euro 7,90
[A: 01/09/2015– I: 08/01/2017 – T: 10/01/2017] - &&& +
[tit. or.: Kvinden I buret; ling. or.: danese; pagine: 460; anno 2007]
Finalmente, dopo tanto girarci intorno, cominciamo a leggere uno dei volumi editi dal Corriere della Sera sotto l’egida della collana “GialloSvezia”. E cominciamo male, non per il libro in sé, che, tutto sommato, con alti e bassi e qualche lunghezza di troppo, è decente. Ma per la collocazione: perché inserire in una collana che porta in bella vista una nazione (la Svezia) un libro scritto da un danese in danese ed ambientato a Copenaghen? Anzi a København? Mistero. Fortuna, comunque, che sia in ogni caso il primo libro della serie che Jussi dedica all’ispettore Carl Mørck, così che abbiamo modo di introdurci nel suo mondo e cercare di capirne i connotati. Il mondo di Carl, allora, è costituito da una ex-moglie, Vigga, da cui è separato ma non divorziato perché il divorzio sarebbe troppo oneroso, il figlio di Vigga, Jasper, che vive con Carl, in quanto ancora studente, anche se non con brillanti risultati (l’unica cosa brillante è il volume della musica che ascolta), un inquilino, Morten, un po’ gay, ma soprattutto l’unico che cucina e tiene in ordine la casa (basta non toccargli i suoi pupazzetti playmobil, dove ho scoperto che c’è veramente gente che ne fa collezione). Carl è un poliziotto discretamente capace e con un carattere discretamente insopportabile. Ed è appena uscito da una brutta storia (o forse non ne è ancora uscito): nel corso di un sopralluogo sulla scena di un crimine, l’assassino era ancora in giro, e coglie di sorpresa la squadra di Carl, uccidendo un collega e ferendo il secondo, Harry, che rimane paralizzato dalle spalle in giù. Carl ha qualche graffio in testa, ma se la cava. Tornato al lavoro dopo due mesi di malattia, per “toglierlo dalle palle”, il suo capo adotta il metodo latino: “promoveatur ut amoveatur”. Per ottenere soldi dal governo viene istituita una nuova sezione (la sezione Q) che dovrebbe dedicarsi ai “casi freddi” (se Jussi fosse un patito delle serie TV americane, ci avrebbe fatto due palle così su “Cold Case”). Dandogli come assistente, autista e tuttofare il siriano Assad, che si rivela prezioso in molti frangenti, anche se il suo passato è avvolto dal mistero più fitto. Scegliendo a caso tra i possibili casi (a caso che non vorrebbe fare nulla, e guarda caso prendendo una vicenda che potrebbe …) Carl si imbatte nella storia di Merete, donna in carriera di uno dei partiti d’opposizione, scomparsa misteriosamente sul traghetto per Kiel, quando voleva fare una gita a Berlino con il fratello Uffe. Inciso, Kiel è la capitale dello Schleswig-Holstein, e sede di una società con cui lavorai negli anni ’90, insieme ad una società danese, non sapendo (ma lo scoprii durante le liti che ne seguirono) che i danesi dal 1918 rivendicano lo Schleswig (cioè la parte nord del land) come un loro territorio. Ma ovvio che questa è tutta un’altra storia. Nelle indagini, Carl (ma soprattutto Assad) ricostruisce la storia di Merete. Coinvolta da bambina in un terribile incidente stradale dove morirono i genitori, ed il fratello Uffe ebbe una complessa emorragia cerebrale, che lo rese afasico e ne bloccò lo sviluppo mentale. Lo scontro frontale coinvolse un’altra macchina, dove morirono il padre e la sorella di Lars, la madre rimase paralizzata mentre partoriva sul luogo dell’incidente due gemelli: uno morto, l’altro, soffocato dal cordone ombelicale, anche lui ritardato. Il signor Jensen era, tra l’altro, il titolare di una industria di punta danese, che si occupava della costruzione di camere iperbariche a perfetta sicurezza. La squadra Q scopre inoltre che: Merete, poco prima del viaggio, sembrava essersi innamorata di un biondino; biondino che si faceva chiamare Dennis, ma non lo era. Anzi il vero Dennis muore, il giorno dopo la scomparsa di Merete, in un incidente stradale provocato da tale Daniel. Il quale, a sua volta, in poco tempo, muore anche lui in circostanze misteriose. Devo dire che poco c’era di suspense in tutto ciò, che fin dalle prime battute si capisce che la scomparsa di Merete ha un collegamento forte con l’incidente di cui sopra. Noi, lettori onniscienti, vediamo procedere la trama, andando su e giù nel tempo, tra le indagini di Carl e le vicende che cominciano cinque anni prima, e si sviluppano di anno in anno, dove vediamo Merete rinchiusa in una gabbia ermetica dove ogni anno aumenta la pressione atmosferica di un’atmosfera. Il giallo sta tutto lì: quando arriverà il punto che la pressione sarà non più sopportabile per Merete? Riuscirà la squadra Q a capire chi gestisce la gabbia e dove sta la suddetta? Inoltre, ammesso e non concesso che Carl risolva i problemi al contorno, riusciranno a penetrare i nostri eroi in una gabbia ermetica? E sarà ancora viva Merete? Tutti interrogativi che potrete sciogliere leggendo lo scorrevole scritto di Jussi. Seguendo anche tutti i risvolti della vita di Carl, che non sono solo questa indagine, ma i rapporti con il figlio, con la moglie, con gli altri poliziotti, e soprattutto con il tetraplegico amico Harry. Insomma, una trama che si stende aldilà del giallo in sé, che ha poco del misterioso, parlando di situazioni e di rapporti umani, nel solco di quella tradizione giallo-sociale cominciata questa sì in Svezia con i bellissimi romanzi di Sjöwall & Wahlöö.
Anna Grue “Nessuno conosce il mio nome” Corriere della Sera GialloSvezia 11 euro 7,90
[A: 10/10/2015– I: 11/01/2017 – T: 13/01/2017] - &&& e ½
[tit. or.: Dybt at falde; ling. or.: danese; pagine: 331; anno 2007]
Eccoci allora al secondo libro della collana “Svezia” e, casualità vuole, anche questo secondo libro NON è svedese. Anna Grue è danese, scrive in danese e la storia è ambientata vicino alla capitale danese nei sobborghi della fittizia città di Christianssund (che dalla descrizione che ne dà la scrittrice potrebbe essere Frederikssund, ad una quarantina di minuti da Copenaghen affacciata sul bel fiordo di Roskilde). Terminati quindi i lamenti per le imprecisioni della collana, veniamo invece al libro che, pur non eccelso, ha un suo fascino per almeno due ordini di motivi: introduce un personaggio (è il primo libro di una serie) e lo fa senza che noi dobbiamo pensare di conoscerlo da sempre (per gradi, quasi costruendosi insieme alla lettura) ed affronta temi sociali che non guasta affrontare (ovviamente ci si tornerà sopra). In effetti, il libro è duplice, mostrandoci, accanto ad una trama gialla, la nascita di un personaggio: il detective calvo Dan Sommerdahl. Che all’inizio della storia è tutt’altro che detective (è solo calvo). Anzi, è un marketing pubblicitario in crisi depressiva. Ha una moglie medico, Marianne, due figli grandini usciti di casa (per lavoro o per studio) ed un lavoro che lo appassiona. Ma, promosso in posizione di responsabilità, non regge lo stress ed il tipo diverso d’approccio. Ha anche un amico storico, il commissario Flemming Torp (casualmente fidanzato con Marianne per una settimana prima che lui prendesse il sopravvento). Sarà Torp ad iniziarlo ad uscire dall’apatia coinvolgendolo in un’inchiesta intorno alla morte di una fantomatica Lilliana, donna di pulizie proprio nell’azienda di Dan. Fantomatica perché di lei sembra non sapersi nulla: non si sa il vero nome, la nazionalità, il contratto di lavoro. Certo, pulisce, per una ditta abbastanza grande, ma lavora in nero, ed anche la titolare della ditta non sa (o non rivela) quello che dovrebbe sapere. Mentre Torp avanza nella sua indagine usando canali ufficiali, Dan si muove come battitore libero, sfruttando il fatto di conoscere la ditta e le persone che ci lavorano. Il capo della ditta, Sebastian Kurt, sua moglie Henrietta, la segretaria del capo, Elisabeth, e tutti i principali attori che si muovono nello spazio dell’ufficio (pubblicitari, registi, disegnatori, e via discorrendo). Il primo sospettato, tra l’altro, è il giovane Benjamin, partner di Lilliana nelle pulizie. Che tuttavia, a parte reticenze varie, sembra non essere della partita. Sarà proprio Dan, tra discorsi buttati lì e ricerche da proto-detective, che comincerà a far uscire qualche barlume. Usando le registrazioni degli ingressi scopre che Benjamin ha visto il corpo di Lilliana ma è subito fuggito per non farsi coinvolgere. Perché Benjamin (e la madre di lui) non possono uscire alla luce del sole. Vivono sotto copertura, anche se non ufficiale, per sfuggire al padre di Ben ed ex-marito della madre, violenta figura di ex-poliziotto. Che l’aveva riempita di botte, che aveva trovato la famiglia dopo una prima copertura, ed altre nefandezze da femminicidio che qui tralascio. Parlando con Ben, il nostro clavo Dan scopre anche che Lilliana ha partorito mesi prima e che ha un’amica nigeriana, Sally, con la quale viveva. Seguendo questa traccia, scopre il condominio dove vivevano le due, pieno di immigrati più o meno clandestini. Scopre Jo, l’amica nigeriana di Sally. Scopre che Lilliana aveva un amante nella ditta. Tutto questo mentre Torp e la polizia brancolano un po’ nel buio, seguendo solo alcune tracce di mail strane partite dal desktop di Elisabeth. Quando finalmente Torp e Dan si decidono a vincere timori vari e confrontano i loro avanzamenti, molto viene alla luce. Nella pacifica cittadina c’è una rete occulta di supporto a donne con problemi, spesso alla fuga da bordelli vari. Qualcuno li segnala ad Elizabeth che usa la sorella (capo della ditta di pulizie) per dar loro un lavoro ed Henrietta (moglie del capo di Dan) per dargli un tetto, visto che la donna possiede diversi stabili in città. Si scopre anche che un’altra dottoressa, che lavora nello studio di Marianne, viene utilizzata per curare le profughe, visto che queste non hanno copertura sanitaria. Peccato che venga trovata morta anche Sally, uccisa di botte e gettata nel fiordo. Peccato che la rete faccia acqua da tutte le parti: la ditta delle pulizie lucra alla grande sul lavoro nero. Ma è soprattutto Henrietta che ci puzza: qualcuno le aveva detto che Sally era l’amante del marito. Per cui lei pensa di chiedere aiuto a suo fratello, che, guarda caso, gestisce i bordelli da cui le povere ragazze fuggivano. Fratello che ha come uomo di punta nella brutalizzazione delle donne proprio il cattivone padre di Ben. Che trova le tracce di Sally. E scopre chi ha ucciso Liliana, iniziando un personale ricatto. E scopre anche che lì sono rifugiati Ben e la madre, che da cinque anni cerca per continuare a vendicarsi. Ovviamente sarà Dan, nella sua nuova veste di investigatore, che farà saltare tutti i meccanismi, portando alla luce il losco traffico, ed arrivando al giusto castigo per tutti i cattivi. Piccole altre storie sono presenti, ma quello che ci preme è la descrizione della nascita di una vocazione (che alla fine Dan si dimette dall’azienda, e penso in successivi romanzi si evolverà). L’ultimo accenno è a quel secondo filone che accennavo all’inizio. I clandestini che arrivano, vengono presi in carico da bande di malviventi, e, se donne, avviate alla prostituzione. Quello che sottolinea Anna Grue è il meccanismo perverso cui soggiace chi si ribella: fa magari arrestare qualche sfruttatore, ma, essendo in clandestinità, viene ben presto rimandato all’origine. Dove cadrà nuovamente nella rete di chi l’ha già sfruttata. L’autrice, oltre al grido di dolore, non può fare altro. Io mi associo, sottolineando che spesso chi emigra lo fa sotto minacce diverse. Ogni caso è un caso a sé, dove purtroppo, ora, in questo momento storico, l’aumento esponenziale dei casi, non favorisce la possibilità di trattarli singolarmente. Si mescola tutto, e non se ne esce più. Grazie Anna per questo piccolo tassello di discussione.
Olivier Truc “L’ultimo lappone” Corriere della Sera GialloSvezia 7 euro 7,90
[A: 14/09/2015 – I: 17/03/2017 – T: 20/03/2017] - &&& +
[tit. or.: Le dernier Lapon; ling. or.: francese; pagine: 446; anno 2010]
Nuova lettura della collana dei Giallo Svezia, e, come per le prime lettura, nuovamente sono indignato della superficialità dei curatori. Peccato che quando torneremo a parlare del libro in sé vedremo che non è male, e pone qualche problema interessante. Ma tanto per iniziare, si può inserire nella collana un libro “Giallo Svezia” un nuovo libro scritto non in svedese da un autore, come vedete sopra, francese? Truc è di certo un francese che conosce bene le terre scandinave, da anni è corrispondente da Stoccolma per “Le Monde”. Inoltre, la sua scrittura (quasi) di piglio giornalistico è discretamente attraente (qualche lungaggine, ma ci può stare). Comunque è francese. E comunque parla di Lapponia (Sami in lingua locale) che non è una regione “solo” svedese, ma si estende tra Norvegia, Svezia, Finlandia ed una parte in Russia. Inoltre, la maggior parte della storia si svolge a Kautokeino. Dove vivono sì 2500 sami (la più alta concentrazione di tutta la regione), ma giuridicamente è norvegese e non svedese. Fatte queste premesse, incluso il fatto che gli “eroi” della saga (perché è uscito un secondo libro che prosegue le vicende di questo) sono due esponenti della “polizia delle renne”, Klemet Nango (sami) e Nina Nansen (svedese), veniamo a parlare della storia e non di queste considerazioni forse marginali ma per me importanti per connotare, ancora una volta, il mercato librario come un mercato che tende a raggirare il pubblico e non ad aiutare il lettore. Venendo al contesto, elementi di sicuro interesse sono gli spunti che l’autore ci dà con la sua conoscenza della cultura e della vita attuale del popolo sami (preferisco questa dizione al più generico lappone). Uno degli altri popoli che il progresso ha “benevolmente” sterminato. Prima imponendo confini, a volte invalicabili (come quello verso la Russia), che hanno reso difficile se non impossibile il mezzo di sostentamento dei sami: l’allevamento delle renne. I sami nascono nomadi ed allevatori. Anzi, l’allevatore è il punto più alto della loro piramide sociale. Costringere le renne ad obbedire ai confini degli uomini rende praticamente inattuabile l’allevamento di animali nati per essere liberi. Secondo, requisendo le terre sami per sfruttare i grandi giacimenti presenti sul terreno. Petrolio, oro e soprattutto uranio. Ovvio che portando alla luce materiale radioattivo, ad esempio, si inquinino falde acquifere, e si introducano malattie una volta sconosciute. Così svedesi, norvegesi e finlandesi si appropriano di queste terre, negando a volte anche il riconoscimento dello status autoctono dei sami. Potere che emargina, anche perché la lingua sami solo nell’Ottocento ha una sua svolta verso la scrittura. E sappiamo come chi detiene la scrittura detiene la giustizia, ha modo di indirizzare la vita altrui verso il proprio tornaconto. Studioso e quindi conoscitori del mondo sami, Truc ci presenta anche i due elementi caratteristici dei locali: i tamburi rituali ed il canto denominato “joick”. Avendo una tradizione orale, è attraverso il canto, ed i poeti cantori, che si tramandano le storie e le informazioni culturali. Provate a fare un giro anche su “YouTube” e potete sentire dove sono, ad esempio, le radici di Bjork e dei Sigur Ros. I tamburi poi, oltre che di accompagnamento per le cerimonie tribali, erano utilizzati come modo di tramandare informazioni. Sul territorio, sugli avvenimenti, insomma delle graphic novel condensate. Ovvio che i colonizzatori li prendessero di mira, tanto che i missionari si posero un punto d’onore di distruggerne il maggior numero. Si dice che siano rimasti meno di cento tamburi originali, rispetto alle migliaia tramandati dalla tradizione. Alla fine, immerso in tutto questo affascinante mondo (che spero si visiterà di nuovo) c’è anche la storia. Che proprio da questi elementi tradizionali prende l’avvio. Dal furto di uno degli ultimi tamburi rituali, che dovrebbe avere indicazioni per la scoperta di un favoloso giacimento. Dall’uccisione di Mattis, un allevatore sami, molto legato alla tradizione dei tamburi. Oltre alla polizia tradizionale, anche i nostri “poliziotti delle renne” vengono convolti, che di mezzo ci sono di sicuro allevatori locali. Seguiamo allora Klemet e Nina nelle loro indagini, pagina dopo pagina, sfogliare il problema come fosse un carciofo cui andiamo togliendo le foglie esterne per scoprire il cuore. Vediamo l’ultimo lappone, Aslak, unico che ancora usa metodi tradizionali nell’allevamento, che si sa muovere nella vidda, il nome sami degli altopiani locali. Vediamo Olsen, il malvagio svedese, che cerca con tutti i mezzi di trovare il giacimento. Anche coinvolgendo il cattivo Racagnal (con pervicace malizia, l’autore francese incarna il peggior soggetto del libro proprio in un suo compatriota). Racagnal che era già stato anni prima nella zona, che conosce bene in quanto geologo, che inoltre ha un debole per le minorenni. Un cattivo soggetto, che con la forza costringe Aslak ad aiutarlo nella ricerca del giacimento. Basandosi sulla mappa fornita da Olsen, cui l’aveva data il padre, che l’aveva rubata cinquanta anni prima ad un geologo tedesco, uccidendolo. Vi risparmio tutti i passaggi di conoscenza che ci fa seguire l’autore nel suo denso libro. Però Klemet e Nina capiranno il mistero del tamburo, capiranno chi lo ha rubato, capiranno chi e perché ha ucciso Mattis, capiranno com’è formata la squadra dei cattivi. Noi capiremo anche perché è impazzita la moglie di Aslak, e perché Aslak si deve vendicare. E vedremo come riuscirà nell’intento. Pur tuttavia, la storia, anche se intrigante ed incasinata, serve solo a presentarci il mondo sami. A farcene capire le bellezze. E le stranezze. E le durezze (come si fa a vivere bene in un paese dove d’inverno si viaggia tra i 20 ed i 40 sotto zero e dove a gennaio le ore di luce sono circa due?). uUna buona scrittura, indubbiamente, ma una storia forse troppo ampia ed ambiziosa per un libro solo. Comunque, in conclusione, sono però contento che qualcuno mi abbia aperto questo spiraglio. Vedremo cosa ne uscirà fuori, in futuro.
Magnus Montelius “L’inganno del passato” Corriere della Sera Svezia 12 euro 7,90
[A: 19/10/2015– I: 25/04/2017 – T: 30/04/2017] - &&--
[tit. or.: Mannen från Albanien; ling. or.: svedese; pagine: 366; anno 2011]
Allora, finalmente un libro della collana svedese scritto da uno svedese. Tra l’altro, di vasta e risonante discendenza (in patria, almeno), che la famiglia Montelius annovera tra i suoi membri diverse personalità di spicco, come il nonno, lo zio ed il cugino di Magnus (scrittore, registi, attori), nonché la sorellastra Martina (figlia dello stesso padre Mons). Esperto consulente ambientale, vissuto tra i Balcani e l’America Latina, quasi cinquantenne esce con questo libro. Che ha alcuni punti di interesse (conoscenza della materia, ambiente spionistico tentacolare), ma che, purtroppo, decade molto non riuscendo a tenere salda tutta la complessa materia di cui tratta. Risultato: si fa fatica nella lettura, non scorre come dovrebbe. I personaggi principali a volte hanno dei passaggi a vuoto, mentre in altri punti accelerano le loro agnizioni quasi senza che noi poveri lettori riusciamo a tenerne il passo. Intanto, Tobias, il personaggio che sembra essere il fulcro, il motore della storia, non esce con nitidezza dalle pagine. Più o meno trentenne, dedito a tanti lavori in cui mette una buona capacità, senza riuscire in nessuno in maniera decisa, ha una formazione da storico ed una vocazione giornalistica. Noi iniziamo seguendolo in uno scoop che gli dovrebbe consentire uno scatto nell’ambiente della carta stampata, che gli si ritorce contro, poiché si scontra con politici molto più attenti e maneggioni di quanto, ingenuamente, suppone. Ma questo ci dà solo la sua connotazione di perdente, come perdente è il suo rapporto con Hanna, che lascia dopo i primi capitoli. Tuttavia si imbatte in una possibile storia inciampando in un morto. Che sembra una disgrazia, ma alla fine sarà omicidio. Un morto senza nome, o meglio, con un passaporto albanese. Falso, come falsa tutta la sua storia. Lui indaga, prende delle dritte da un barbone (che verrà ucciso ben presto anche lui), si incaponisce a voler farne una storia. Fortunatamente, una sua collega giornalista, Natalie, sembra capirne le potenzialità (della storia). Anche perché lei stessa ha avuto dei problemi con i politici ed è stata licenziata dalla televisione. Insomma, quadri foschi di gente onesta che viene stritolata dal potere. Montelius, ogni tanto, prende questi spezzoni, si immerge in rivoli laterali, perde il filo cercando di darci immagini complete delle persone che abbiamo davanti. Ma si perde. Come si perde seguendo il commissario Tilas, che non sappiamo perché anche lui emarginato, ma che segue il filone indagativo capendo, per primo, che stiamo di fronte ad omicidi (ce ne saranno un certo numero). La svolta, anche narrativa, l’abbiamo quando Tobias scopre che il “morto albanese” è in realtà Erik Lindman. Qui comincia tutta la grande saga della storia della sinistra svedese negli anni sessanta e settanta, nonché il ruolo della Svezia come punto nodale di spionaggio da e per i paesi d’oltre cortina. Dimenticavo, la storia si svolge nel 1990, poco dopo la caduta del Muro di Berlino, quando molti cadaveri, veri o presunti, escono dagli armadi. Erik era un giovane di sinistra, uomo di punta di gruppetti comunisti o vicini a, fidanzato con la bella Sonia, amico del giovane Carl, mentore del più giovane Åke. Erik, ad un certo punto, scompare, Sonia chiede aiuto alla polizia, e si scopre che, forse, Erik era una spia russa che stava per essere scoperta, e per questo ripara oltrecortina. Montelius ci fa viaggiare con dovizia di particolari (in fondo è ben documentato, per quanto si può vedere dal nostro punto di osservazione). Comunque Erik non compare, Sonia poco dopo sposa un politico traffichino di nome Peter. Ma dopo cinque anni, inspiegabilmente, divorziano e lei abbandona la politica per fare il giudice. Carl, dopo gli anni di opposizione, rientra nell’alveo parentale della grande famiglia industriale e politica da cui proviene. Peter continua a fare il politico, anche se, rispetto alle capacità dimostrate i primi anni, un po’ defilato. Ma Erik aveva detto a Åke che si allontanava di nascosto. Il clamore che invece viene suscitato fa precipitare tutto. Erik era andato in Albania, che negli anni ’60 sembrava un’isola promettente di comunismo realizzato, benché isolato. Tuttavia, uscendo sui giornali che lui poteva essere una spia russa, gli albanesi lo prendono di mira, rinchiudendolo per anni in prigione. Solo ora, nel ’90, con tutti i cambiamenti in atto, riesce a tornare. Volendo ricostruire la verità. Che non era lui la spia, ma, e questo Tobias riesce a capirlo, poteva o doveva essere uno del suo giro. O una. Poteva essere Sonia o Carl o Peter. Sarà Natalie a trovare il bandolo per far uscire l’asso dal mazzo. Non vi sto a tediare con i lunghi tentativi della polizia segreta di insabbiare tutto strada facendo. Cercando di impaurire Tobias. Cercando di emarginare Tilas. Mettendo in mezzo i giornalisti cattivi. Alla fine Tobias verrà comunque licenziato (per lui finisce sempre male) e Natalie verrà riassunta con incarico a Londra. Purtroppo non sappiamo che sarà di Tilas. Ed altri pezzi del grande puzzle non andranno mai al loro posto. Troppa carne al fuoco. Troppo veloce la fine che non spiega tutto, all’insegna che i politici cattivi fanno sapere molto poco della verità e quella che noi verremmo a conoscere sarà solo frutto di logiche deduzioni. Per questo, pur pieno di buone intenzioni, non lo trovo un libro ben riuscito. Due annotazioni: non so se presente nell’originale o solo nelle edizioni estere, ma le paginette introduttive sulla storia dell’Albania sono poco utili. Meglio se le stesse notizie fossero venute nel corso del libro. In fondo non è un libro di storia, ma un giallo. Secondo poi, perché mettere quel titolo italiano senza capo né coda? Certo nel passato, da dove viene Erik, ci sono stati inganni e menzogne. Me il titolo originale è “L’uomo venuto dall’Albania” che voleva probabilmente riecheggiare un grande classico delle spy story, quel bel libro di Le Carrè, che in svedese era riportato come “Spionen från kylan”, e se lo confrontate con il titolo originale che ho riportato sopra, penso mi abbiate capito.
Seconda domenica del mese, quindi un bell’allegato dedicato alla memoria, ora che, in molti, ci lascia (o forse siamo noi che la lasciamo?).
Un Maggio, pieno, fiorito, più difficile del previsto, ma, forse, con più ampie prospettive. Per ora, nel pieno della giornata festiva, non posso mancare di mandare un saluto a tutte le mamme.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
MAGGIO 2017
Maggio, mese delle mamme, dei compleanni, e quindi, in modo diretto ed indiretto, a ricordare ed a fissare tutto nella memoria. Cosa di meglio che parlare allora della sua perdita.

MEMORIA, PERDITA DELLA

Samuel Beckett                 “L’innominabile”
Gabriel García Márquez       “Cent'anni di solitudine”
Mordecai Richler                “La versione di Barney”
L’errore che commettete, ovviamente, è quello di pensare alla memoria come se esistesse davvero, in un luogo speciale, mentre non è altro che una proiezione del momento. Vi lasceremo, tuttavia, perseverare nell’errore fino al confine estremo della vostra follia, e allora potrete affrontare di nuovo la questione, facendo attenzione a non compromettervi con l’uso di termini, se non di concetti, accessibili per l’intelletto umane. Un supplemento di riflessione potrebbe dimostrarvi che in realtà venite spinti a dimenticare, e che l’ora del ricordo, lungi dall’essere scoccata, potrebbe non scoccare mai. Perché dunque non pensare ad altro, a qualcosa la cui esistenza sembri in qualche modo già misurabile, a qualcosa che possa essere nominata? E insomma, lo preferiamo, bisogna dire che lo preferiamo, perché il vostro atteggiamento verso di noi è cambiato, siamo ingannati, e potreste essere voi la porta verso la memoria. Se solo l’ascoltaste, la voce vi direbbe tutto.
Vi chiedete, non sentite una bocca su di voi, non sentite gli spintoni delle parole sulle labbra, e quando pensate a un libro che vi piace, ammesso che vi piacciano i romanzi, sull’autobus, o a letto, le parole sono lì, le parole che cadono, non si sa dove, non si sa da dove, gocce di silenzio, si sente un orecchio, si sente un naso, anche se francamente adesso non vi sembra, ed è necessario che vi facciate una testa.
Pensate di cambiare voi non cambiate mai continuerete a dire la stessa cosa finché non morirete. Dove, ora? Chi, ora? Quando, ora? Lo dimenticate sempre, e dobbiamo riprendere, dovete riprendere, non smettere mai di raccontare storie a voi stessi, e domandarvi dove le avete prese, se nella terra dei vivi, dove immagazzinate i ricordi, nella testa, e non ve la sentite la testa, voi siete fatti di silenzio, noi siamo fatti di storie, noi saremmo voi, noi saremmo il silenzio, voi sareste le storie, vi siete lasciati indietro, vi state aspettando. Dovete andare avanti, non potete andare avanti, vi abbiamo condotto sulla soglia della vostra storia, prima che la porta si apra sulla vostra storia, resterete sorpresi, la porta si aprirà, voi sarete voi.
In ogni caso, sappiate che ci sono due eccellenti metodi per far fronte a questo progressivo buco nero che si propaga nel vostro cervello. Il primo fu adottato nel villaggio di Macondo quando venne colpito dalla peste dell’insonnia e della smemoratezza. Le due calamità sono collegate: “la cosa più temibile dell’insonnia non era l’impossibilità di dormire, dato che il corpo non provava alcuna fatica, bensì la sua inesorabile evoluzione verso una manifestazione più critica: la perdita della memoria. Significava che quando il malato si abituava al suo stato di veglia, cominciavano a cancellarsi dalla sua memoria i ricordi dell’infanzia, poi il nome e la nozione delle cose, e infine l’identità delle persone e perfino la coscienza del proprio essere, fino a sommergersi in una specie di idiozia senza passato”. Quando questa malattia divampò in pochi giorni, José Arcadio Buendia riunì tutti i capifamiglia per adottare delle misure che impedissero al flagello di propagarsi alle altre popolazioni della palude. Macondo si mise così in quarantena, perché “tutte le cose da bere e da mangiare erano contaminate di insonnia” ed Aureliano escogitò un sistema di difesa. Scrisse su un foglio il nome delle cose che stava per dimenticare, a cominciare dagli strumenti del suo laboratorio di oreficeria, e glielo appiccicò sopra. “A poco a poco, studiando le infinite possibilità del dimenticare, si accorse che poteva arrivare un giorno in cui si sarebbero individuate le cose dalle loro iscrizioni, ma non se ne sarebbe ricordata l’utilità. Allora fu più esplicito. Il cartello che appese alla nuca della vacca era un modello esemplare del modo in cui gli abitanti di Macondo erano disposti a lottare contro la perdita della memoria: Questa è la vacca, bisogna mungerla tutte le mattine in modo che produca latte e il latte bisogna farlo bollire per aggiungerlo al caffè e fare il caffellatte. Così continuarono a vivere in una realtà sdrucciolosa, momentaneamente catturata dalle parole, ma che sarebbe fuggita senza rimedio quando avessero dimenticato i valori delle lettere scritte”.
Più semplice è invece l’esercizio a cui ogni giorno si sottopone Barney Panofsky per tentare affannosamente di sottrarsi alla sua storia di perdita, della memoria come degli affetti. Non stancarsi di porsi sempre le stesse decisive domande:
Qual è il nome dei sette nani?
E dei fratelli Marx?
Quanti decimi di vista aveva Omero?
Chi è il più grande cabarettista della storia?
Per sapere se è ancora in forma, vi basterà passargli una matita e un foglio e vedere se a quest’ultima domanda risponderà ancora Dio, scrivendolo alla rovescia.

Bugiardino

Di Beckett ho letto altro, e questo attacco alla memoria da parte delle mie scrittrici terapeutiche mi ha lasciato un po’ destabilizzato, anche se è in puro stile beckettiano. Un flusso di parole che si attorcigliano al mio ed al vostro cervello. Ovviamente invece ho letto, divorato, digerito e riletto, il capolavoro di Gabo, ma molto, molto prima delle mie trame. Rimane il canadese che non mi ha mai convinto del tutto, che ho letto dieci anni fa, e di cui riporto le scarne righe che allora scrissi.
Mordecai Richler “La versione di Barney” Adelphi euro 10
[trama pubblicata il 07 giugno 2007]
Mi è sembrato una specie di Lamento di Portnoy degli anni ’90. Non posso dire che non mi sia piaciuta, l’autobiografia romanza di Mordecai (anche se lui negava). In effetti il libro era stato fatto diventare l’icona del politicamente scorretto, di tutto quello che si pensa e non si dice. Ma se si riesce a tornare alla pagina, dopo aver personalmente mitigato la delusione di pensare di trovarmi davanti ad un “vecchio Holden”, esce fuori la descrizione di una persona che non riesce ad essere sincero con la vita, e tanto meno con sé stesso. E che vorrebbe, vorrebbe, ma alla fine ricade sempre sui propri errori, senza sembrare di comprenderne i meccanismi. In fondo, tuttavia, sono contento di averlo letto adesso e non dieci anni fa.
“Non credo di averglielo mai detto, ma avrei potuto passare la vita a guardarla”

Conclusioni


Penso che l’unico libro appropriato sia proprio il sudamericano, soprattutto per quella trovata stupenda dei nomi appiccicati alle cose, per sapere come si chiamano. E poi per la spiegazione di come usarle. Non mi convince Richler, come non mi convinse allora. Ma, sinceramente, avrei messo come efficace contraltare il Funés di Borges. Domanda finale, quindi, è meglio ricordare tutto o scordare tutto?

domenica 7 maggio 2017

Beatles forever - 07 maggio 2017

Cosa c’entrano i Beatles si capisce alla fine della trama, ma solo per i più attenti. Intanto, inopinatamente, ecco invece quattro gialli sempre italiani, ovvio, che rimangono il mio pallino principale. Una nova avventura dell’ispettore Grazia Negro del buon Lucarelli, ancora lontano, però, dai suoi momenti migliori. Due nuovi gialli storici di Giulio Leoni e di Alfredo Colitto, quasi sufficienti e niente più. Inaspettatamente in testa, un giallo di un nuovo autore per me, il napoletano Gaetano Amato, rivalutato anche dalla ormai finita, purtroppo, vacanza ischitana.
Carlo Lucarelli “Il sogno di volare” Einaudi euro 13 (in realtà, scontato a 6,50 euro)
[A: 01/12/2015 – I: 05/12/2016 – T: 08/12/2016] – && e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 265; anno 2013]
Ben nota è la mia frequentazione con Carlo Lucarelli, anche se pochi ricordano come cominciò. Con una chiacchierata, orami quasi ventennale, sulla nascita di un possibile modo di crearsi un alibi, durante una presentazione estiva in Santa Maria in Trastevere. Fatto sta, che continuo a seguirlo, ed ora non posso che essere contento del ritorno sulla scena dell’ispettore Grazia Negro, in un romanzo completo, e non in quel pur intrigante cammeo di intrecci con Montalbano che Lucarelli e Camilleri imbastirono sei anni fa. Abbiamo aspettato tredici anni, ma eccoci di nuovo qui. Purtroppo, la storia nel suo complesso mi è piaciuta meno. Anche se ha qualche spunto, mi è sembrata da un lato un tirare di nuovo fuori le assi portante dei casi già noti (mi riferisco a “Lupo mannaro” ed “Almost blue” ovviamente), dall’altro un tentativo di aggiornare la scrittura, che non è felice come altrove. Ultimamente Lucarelli si era dedicato maggiormente a storie africane, che mi sono sembrate di più felice respiro. Qui, abbiamo tutta l’evoluzione di Grazia Negro, della sua storia con il non vedente Simone, il tentativo di rimanere incinta (purtroppo non riuscito). E questa parte, dolente ma preponderante, rende l’ispettore vulnerabile e poco attenta a dettagli che prima le sarebbero balzati agli occhi con facilità. Dall’altra, come detto, l’efferatezza del crimine riporta subito alla mente altre storie, altri romanzi. Inoltre, proprio il modo in cui Lucarelli presenta i fatti, proprio la pluralità delle voci che escono fuori, con i loro diversi registri, fa capire non che ci troviamo di fronte ad una banda di criminali (cosa che potrebbe essere), ma al solito ad un criminale, dalla personalità multipla. Un’espediente che avevamo già visto in un romanzo di Patricia Cornwell, e che ritengo non sia facile da gestire. Come non è facile qui. Anche se sulle tracce dei crimini, senza caprine subito le implicazioni, c’è una bella squadra, anche interforze, che a Grazia Negro, al suo storico aiutante Matera ed al suo capo il commissario Carlisi, si affiancano i carabinieri, con il tenente Pierluigi (di cognome) ed il colonnello De Zan. Lucarelli fa in modo anche di mettere qualche ruscello parallelo alla storia, tra cui, di grande portata ma di scarso flusso, la rivalità sempre presente tra le forze dell’ordine. Rivalità che, spesso e volentieri, porta a competizioni che incasinano le indagini invece di agevolarle. Così mentre Carlisi e De Zan si fanno la guerra, Negro e Pierluigi collaborano anche al di là dei loro doveri istituzionali. Non solo ma tra i due si instaura un meccanismo di reciproca simpatia, alimentato dal momento negativo che intercorre tra Grazia e Simone. Anche se è più Pierluigi che sbava per la bella Negro. Ma anche lei ci mette del suo. Ci sono anche altri momenti del Lucarelli classico che non ci stanno male. Un intervento di Simone, che ascoltando una registrazione sonora, come ai tempi classici quando stava sempre con gli auricolari in posa ad ascoltare musica 24 ore al giorno, riesce ad isolare brandelli di informazione che il campionatore del computer non era riuscito a trovare. Inoltre, c’è anche qui un omaggio ad un sodale di Lucarelli, Massimo Picozzi, con il quale ha firmato ben sei libri, utilizzato nella sua veste precipua. Quello di profiler. Il suo intervento, direttamente con il proprio nome, è un omaggio all’amico (come candidamente ci rivela Lucarelli in finale), ma anche una piccola spinta nella giusta direzione della risoluzione delle indagini. Che avverrà peraltro con l’aiuto di una delle stesse personalità multiple, che spesso sono in conflitto tra loro (basti pensare al primo caso “letterario” di disturbo dissociativo, come andrebbe chiamato con termine medico, l’inarrivabile “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” di Stevenson). La personalità buona si mette in conflitto con le altre, e permette all’ispettore, pur con fatica, di risolvere il caso. Che ha la complicanza finale di vedere almeno tre personalità presenti nel malato. Il lato umanitario e progressista di Lucarelli non viene poi meno dato che una delle cause scatenanti è la non punizione che viene continuata a perpetrarsi negli ambienti marginali a quei oramai molti casi di morte sul lavoro di migranti senza permesso. Che lavorano in nero, che non hanno protezione, e che quando muoiono nessuno se ne prende cura. In primis, le forze dell’ordine anche se queste potrebbero accampare la non sussistenza di procedure legali opportune. Lucarelli si scaglia facilmente contro questo sistema, purtroppo senza poter, né lui né noi, trovare una soluzione al problema. Un ultimo ringraziamento al nostro scrittore è per la colonna sonora che punteggia il romanzo, ribadendo il concetto precedente. Lucarelli è sempre attento alla musica, ed in questo sono sempre con lui. Ma a parte usuali suoni da Marina Rei o da Luca Carboni, quello che esce potentemente dalle pagine, e che sorregge la trama, è la musica degli Arangara, ed i testi di Andre Buffa. Non li conoscevo, li ho cercati, e sono da tenere in considerazione. Una band bolognese che viaggia nel solco della canzone popolare, con qualche occhio a Guccini, loro nume tutelare.
“Prese il cellulare e sfiorò i tasti con il pollice. Avrebbe voluto mandargli un messaggio ma non sapeva cosa scrivergli e alla fine neanche perché.” (172)
Giulio Leoni “Il testamento del papa” TEA euro 10 (in realtà scontato a 8,50 euro)
[A: 12/02/2015 – I: 02/01/2017 – T: 04/01/2017] - && e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 430; anno 2013]
Ho cominciato a leggere i libri di Giulio Leoni non per l’assonanza né per la co-inizialità, ma affascinato, come al solito io sono, delle contaminazioni. Perché Leoni ha scritto una decente, almeno nelle prime intenzioni, trilogia su un detective del Trecento: Dante Alighieri. Certo un po’ forzato, che non vediamo certo il buon poeta fiorentino intento ad indagare su diversi misteri ed altrettante morti, tra l’Arno e il Tevere. Tuttavia, di un discreto interesse (quando si riesce a coniugare rigore storico ed invenzione). Qui l’esponente di punta del thriller storico italiano si cimenta in una diversa contaminazione, a diversi livelli di intreccio e di tempo. Forse alza un po’ troppo il tiro, ed il risultato non è dei migliori. Certo, fa passare il tempo, come lo ha fatto passare a me, nel lungo (ma non lunghissimo) viaggio verso Treviso e la mostra impressionistica (anche se non impressionante). Ma torniamo allo scritto. Che, appunto, intreccia due vicende temporalmente disgiunte e che, ma con qualche volo funambolico, Leoni riesce a raccordare. La prima, quella filologicamente più interessante, è legata alla figura di Papa Silvestro II. Papa con almeno due interessanti caratteristiche: è il primo papa francese (nasce infatti Gerberto di Aurillac) e siede sul seggio pontificio a cavallo dell’anno Mille (dal 999 al 1003). Altri punti di interesse di questo papa che (forse) non voleva esserlo è la scelta del nome: come Silvestro I fu il papa di Costantino e quindi dell’istituzione del papato e della Chiesa Cattolica come religione ufficiale del Sacro Romano Impero, Gerberto sceglie questo nome in quanto è molto legato all’imperatore del tempo, il germanico Ottone III (di cui era stato precettore). Voleva in un certo modo ripercorrere l’unità di politica e religione in due figure distinte ma strettamente in collaborazione. La leggenda (più o meno accreditata) di Silvestro II, e sulla quale si innesta l’idea di Leoni, è che fosse anche un “mago”. Di certo aveva avuto molte frequentazioni con le culture altre dell’epoca: frequentò arabi leggendo di Aristotele, di Boezio, di Isidoro di Siviglia. Sapeva di musica e di matematica. Tanto mago che si dice abbia costruito un automa che potesse riprodurre la voce umana. Tanto mago che nel 1648 ne fu aperta la tomba trovando intatto il corpo, che come nel sepolcro di Tutankhamon si dissolve all’aria (vero), insieme ad un cilindro che da quel momento viene conservato in Vaticano (pura leggenda). Su questa “historia” che poteva portare interesse e sviluppi (ma cui Leoni dedica solo pochi capitoli sparsi), l’autore innesta un thriller che invece si svolge tra il 1928 ed il febbraio del 1929. Qui sì invece che si dipana un guazzabuglio inestricabile, il corpo del libro purtroppo, dove Leoni apre tante porte, faticando non poco a portarle a termine. Ci sono i servizi segreti tedeschi, non ancora hitleriani, che cercano di recuperare una macchina per generare codici cifrati, la prima versione di “Enigma” quindici anni prima della sua evoluzione e della sua decifrazione durante la Seconda Guerra Mondiale ad opera di quel genio matematico di Turing. La spia tedesca (uomo? donna?) deve contattare il possessore di una macchina Enigma, un ingegnere italiano fondatore di una setta esoterica che vuole il ritorno alla grandezza di Roma contrastando l’avvicinamento che sta avvenendo in quegli anni tra il Fascismo di Mussolini e la Chiesa cattolica. Riunione che, come sappiamo, porterà l’11 febbraio 1929 ai famosi Patti Lateranensi. La spia deve scambiare la macchina con armi. Vengono coinvolti anche i servizi segreti inglesi, sia perché quando ci sono le spie è bene che ci siano inglesi, sia, e soprattutto, perché la spia tedesca avrebbe contribuito all’affondamento dell’incrociatore Hampshire nel 1916 dove viaggiava il grande stratega inglese Lord Kitchner. Inglesi che cercheranno di contrastare i tedeschi, senza riuscirci e facendo figure barbine. La parte del leone (scusa Leoni) la fa invece un architetto, Cesare Marni, che viene coinvolto casualmente nella vicenda, quando un oscuro muratore gli mette pulci nell’orecchio sull’automa di Papa Silvestro II. Lì Cesare si inserisce nella vicenda, trovandosi sempre nei punti focali, dove in genere muore qualcuno. Aiutato da un certo punto in poi dalla giovane Marcella, una fan di Marinetti, del futurismo e di altre “diavolerie”. Cesare riuscirà alla fine a capire chi sia la spia tedesca, senza riuscire a fermarla, a decifrare il nascondiglio del pazzo conte italico, fermandolo prima che con la mitragliatrice tedesca riesca a falciare il corteo di Mussolini che sta attraversando i Fori Romani, allora in grande lavorazione, dovendo i fasci creare quell’arteria inutilmente pomposa di via dei Fori Imperiali. E tutto finisce. Non sappiamo che fine fanno gli inglesi. Sappiamo che la spia tedesca torna in patria con il prototipo di Enigma. Non sappiamo (cioè lo sappiamo da altre storie) come andrà avanti la cifratura. Non sappiamo, soprattutto, se Cesare e Marcella avranno una positiva evoluzione della loro storia. Insomma, poteva essere una storia interessante, dove purtroppo Leoni non ha avuto la forza di scriverne in maniera sintetica, senza aprire tutti questi fronti che non ha saputo gestire. Peccato. E tra l’altro, perché quel titolo sul “testamento del Papa”? Silvestro, al limite, avrebbe potuto fare un lascito con quell’automa finto. Ma testamento? Per poi centrare tutta la storia nel Ventennio, dove tra l’altro “regnava” Pio XI. Forse perché, memore di Costantino e di Ottone III, Pio XI fu il primo sovrano dello Stato della Città del Vaticano? Mah!
Alfredo Colitto “La compagnia della morte” Piemme euro 1,90 (in realtà scontato a 1,52 euro)
[A: 21/03/2016 – I: 29/01/2017 – T: 01/02/2017] - && e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 178; anno 2014]
Viaggiando pe il nord del Laos, ecco che mi tiene compagnia un nuovo (o quasi) scritto di Alfredo Colitto, buon rifinitore di gialli storici. Lasciatasi alle spalle la trilogia di Mondino de’ Liuzzi, una buona prova ambientata nella Bologna del 1300, agli albori della storica Università, Colitto fa un balzo in avanti portandosi a metà del 1600 e spostandosi a Sud, per arrivare in quel di Napoli. Prima di entrare nel merito, facciamo una piccola riflessione sull’operazione di marketing che coinvolge questo ed il seguente lavoro dello scrittore bolognese. Non vi meravigli il costo di questo libro, veramente irrisorio. È dovuto ad una operazione di prequel e di lancio. Per spingere le vendite del volume “Peste” cui si è maggiormente impegnato (e che non ho ancora nei miei scaffali), l’autore e la casa editrice si inventano un prequel alla storia stessa, che funga da traino. Per fare questo, lanciano il libro a meno di 2 euro, sperando (ed in parte riuscendo) ad avere una buona resa di vendite. L’operazione (già nota al mercato anglosassone) è divertente in quanto i prequel in genere vengono confezionati dopo che il prodotto maggiore ha avuto un discreto successo, per viaggiare veloci sulla scia delle vendite. Ricordo a chi non fosse aduso che il prequel è il contrario del sequel. Il sequel è il seguito della storia, il prequel ce ne racconta gli antefatti. La peste, che sarà oggetto del volume maggiore, scoppia a Napoli nel 1656, provocando una mortalità che secondo statistiche recenti sfiora il 50% dell’allora popolazione napoletana. Ma qui ci poniamo dieci anni prima, per seguire le vicende di Sebastiano Filieri, pittore napoletano dalle discrete capacità e dalla vita tumultuosa. Nel 1645, appunto, Sebastiano, con altri pittori (falso storico dovuto alla penna di tal De Dominici, pittore e storico dell’arte settecentesco) entra a far parte di un’accolita di altri a lui sodali, che avrebbero appunto fondato la “Compagnia della Morte”. I pittori sono realmente esistiti, e rispondono a nomi quali ad esempio Aniello Falcone, Micco Spadaro e Salvator Rosa. Per ribellarsi agli Spagnoli che allora governavano la città, durante la notte i nostri non si peritano di andare in giro a far fuori notabili ed altri benestanti. Della Compagnia fa parte anche Ugo Mantovani, cognato di Sebastiano avendo sposato la sorella della di lui moglie Angela. Ma da sempre in lotta con lui, in quanto Ugo voleva Angela e non Maria. Altro elemento di disturbo è Lucrezia, arricchita puttanella che sta cercando di sposare il padre di Sebastiano, intortandolo con la sua giovinezza. Peccato che Sebastiano l’abbia vista, di sera, accompagnarsi ad altri uomini. Per non farsi denunciare la stessa Lucrezia tenta di coinvolgere Sebastiano in accuse inventate di molestie varie. In tutta questa confusione, siamo, per l’appunto, negli anni che precedono la rivolta napoletana del 1647, quella guidata dal famoso capopopolo Masaniello. Al fine di salvaguardare la rivolta, o parte di essa, Sebastiano convince la Compagnia ad allearsi con Masaniello, soprattutto nel fermare una nave spagnola che, con i suoi cannoni, potrebbe mettere subito fine alla rivolta stessa. Seguiamo tutti i preparativi nonché la riuscita dell’impresa. Peccato che nei tumulti susseguenti, Angela, la moglie di Sebastiano, e Beata, la figlioletta, perdano la vita. Avvenimento che distrugge la vita di Sebastiano, e lo mette nell’angolo. Ora però vediamo che Maria, la moglie di Ugo, in punto di morte rivela al cognato la terribile verità: sono stati Ugo e Lucrezia a tramare per la morte dei suoi cari. Vendetta, tremenda vendetta! Così Sebastiano la organizza, e riuscirà a portarla a termine. Non vi dico come, che 2 euro potete investirli se vi va. Intanto, nell’ultimo capitolo, c’è l’aggancio. A Sebastiano, che ha ripreso anche a dipingere chiede aiuto la giovane Cecilia, in fuga inseguita da scherani del conte de Guzman. Conte che lei aveva sentito complottare in oscure trame che coinvolgono Spagna e Francia. Ma qui questo romanzo si chiude, per permettere, a chi sia interessato, di seguire le successive vicende comprando e leggendo la “Peste”. Per finire, ripeto, che mi h divertito questa operazione id marketing. Mi ha permesso un po’ di leggerezza leggere queste pagine di certo non impegnative, ma altrettanto certamente scritte bene e che si fanno seguire senza troppi patemi. Colitto è sicuramente uno scrittore con buone capacità. Ed i suoi gialli storici si leggono e si fanno leggere con buon gradimento.
Gaetano Amato “Il mistero della I lunga. Di Palma investigazioni” Edizioni CentoAutori euro 12 (in realtà, scontato a 10,56 euro)
[A: 21/09/2016 – I: 02/02/2017 – T: 04/02/2017] – &&&  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 185; anno 2016]
Allettato dal prezzo invitante, nonché dalla presenza di un autore italiano a me ignoto, mi sono rivolto a questo libro. Anche perché avevo avuto modo di apprezzare la cura editoriale (anche se non la piena riuscita) del libro che ha permesso a questa giovane casa editrice di raccogliere un piccolo successo di nicchia nell’ambito dei libri gialli. Mi riferisco al poco noto “L’omicidio Carosino” di Maurizio de Giovanni (di cui parlai circa quattro anni fa). Ho così scoperto che, al contrario, Amato è un personaggio discretamente noto in ambito televisivo (ovvio che non ne sapessi molto, vista la mia astinenza dal mezzo), che ha fatto parte per anni nella compagine televisiva del serial “La Squadra”, partecipando inoltre ad una trentina di film come caratterista. Ignorando tutto ciò, mi sono invece dedicato alla scrittura, ed alla ambientazione del libro. Sempre gradevole quest’ultima, laddove non si parla di una Napoli fittizia, lucida e patinata, ma di quella reale, sporca, brutta e pur viva. Quella che va con la barca a fare il bagno a Procida. Quella che gira tra San Gregorio Armeno e i Tribunali. Quella, infine, che pochi conoscono ma che invito a scoprire, della Napoli sotterranea. Dove si trovano e si può ammirare una lunga storia cittadina dai resti dell’acquedotto greco-romano ai rifugi anti-aerei della Seconda Guerra Mondiale. Infine, non è il primo libro che l’autore dedica a questo suo personaggio, Gennaro Di Palma, ex-poliziotto ed ora investigatore. Un personaggio discretamente simpatico, ben inserito nel tessuto cittadino, che ha conosciuto da poliziotto, e che ora ripercorre per trovare il bandolo della matassa di misteriosi furti che avvengono ad un supermercato napoletano. Che, qui forse con scarsa fantasia, ribattezza “I lunga”, tanto per non tenersi lontano dalla vera catena di supermercati, la famosa “Esselunga” di Bernardo Caprotti, recentemente tornata alla luce della ribalta in seguito alla morte del fondatore (anzi, sarebbe meglio dire co-fondatore, visto che il supermercato nacque nel lontano 1957 da un accordo commerciale tra una cordata italiana facente capo ai Caprotti ed un certo magnate americano di nome Nelson Rockefeller). Ma qui si sta divagando un po’. La vita da investigatore di Gennaro è poi ben complicata dalla contemporanea sparizione della sua portinaia, nonché segretaria senza incarico, Lisa. Scomparsa che terrà sulle spine Gennaro per tutto il tempo dell’indagine. Avendo però alla fine un risvolto positivo, quando Gennaro ritrova miracolosamente il testamento del parente di Lisa (che lui aveva utilizzato come stabilizzatore in una gara di tiro a segno con degli ex-colleghi) e con il quale Lisa riesce ad ottenere quanto dovutole da dei parenti terribili (certo si sa, che i parenti sono come le scarpe: più sono stretti più fanno male). Ma l’indagine è sui furti, e su di una strana prosperità che la comunità di Don Mario, amico di Gennaro, ha dà un po’ di tempo, riuscendo a soddisfare sempre meglio i diseredati con una mensa finalmente ben fornita. Gennaro si rivolge allora anche al poeta e conoscitore dei misteri di Napoli, l’amico Filuccio, che lo introduce, appunto, nelle segrete cose della Napoli sotterranea. Lì, nei cunicoli bui che innervano tutta la città, Gennaro scopre che sono un’accolita di personaggi in fondo buoni che sottraggono del surplus alimentare al supermercato per foraggiare (nascostamente) Don Mario ed i suoi. Scoperto l’arcano, ci si trova davanti al dilemma: denunciare i ladri per beneficenza, interrompendo il flusso di generi alimentari, o tacere, venendo meno sia al ruolo di investigatore sia alla deontologia imparata da poliziotto. Gennaro e Filuccio trovano un ghiotto escamotage, che fonda sulle mitologie ataviche napoletane: il monacello ("piccolo monaco" in napoletano) uno spiritello leggendario del folclore napoletano. Per chi non fosse aduso alla leggenda, ricordo che una delle origini più accreditata è che il monacello fosse l'antico gestore dei pozzi d'acqua (il "pozzaro"), il quale riusciva (per la sua statura piccola) ad entrare nelle case passando attraverso i canali che servivano a calare il secchio. Poiché spesso i pozzari non venivano pagati dai loro committenti, costoro si "vendicavano" entrando nelle case dei Signori e rubando per sé oggetti preziosi. Gli stessi oggetti preziosi, talvolta, venivano poi donati dai pozzari alle loro amanti, nelle cui case i gestori dei pozzi si intrufolavano sempre attraverso i canali per calare il secchio. Anche per questo la leggenda vuole che il monacello talvolta rubi, talvolta doni. Facendo finta di credere alla leggenda, i gestori della “I lunga” tengono sotto controllo gli ammanchi fisiologici, la comunità di Don Mario riceve aiuti preziosi per i poveri, e Gennaro riesce ad ottenere quel po’ di denaro che serve per la piccola sopravvivenza come investigatore-pensionato (ah come lo capisco). Certo la narrativa non è sempre scorrevole, ma, ripeto, ne ho apprezzato soprattutto la napoletanità non di maniera (d’altra parte l’autore è pur nato a Castellamare di Stabia, no?).
Essendo la prima domenica, anche se non la prima trama, del mese, ecco che vi riporto l’elenco dei libri letti nel mese di febbraio. Non molti i libri letti, complice il bel viaggio asiatico. In compenso, un alto tasso di giudizi tesi verso l’alto: Borges, Saramago e Zucconi su tutti. Da leggere, assolutamente.

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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Alfredo Colitto
La compagnia della morte
Piemme
1,90
2
2
Gaetano Amato
Il mistero della I lunga
Edizioni CentoAutori
12
3
3
Margherita Oggero
Il rosso attira lo sguardo
Mondadori
9,50
2
4
Jorge Luis Borges
L’idioma degli argentini
Adelphi
14
4
5
José Saramago
Caino
Feltrinelli
8
4
6
Clive Cussler & Graham Brown
Uragano
TEA
9,90
2
7
Leif GW Persson
Anatomia di un’indagine
Corriere della Sera Svezia
7,90
3
8
Vittorio Zucconi
Gli spiriti non dimenticano
Mondadori
s.p.
4
9
Enrico Pandiani
Lezioni di tenebra
Instar
11
3

Ma, e i Beatles? Essendo questo giorno felice non ancora finite, ve ne dò un indizio, citando quella bella canzone che inizia con I seguenti versi “When I get older losing my hair, / Many years from now.” Avete capito? Spero di sì, tanto che non posso che lasciarvi qui.