domenica 22 gennaio 2017

Libri e cucina - 22 gennaio 2017

Torniamo dopo qualche mese a parlare di libri e di cucina, prendendo sempre spunto dalla collana del Corriere della Sera, ma aggiungendovi un libro “extra”, che Vitali avrebbe diritto senza alcun dubbio all’inserimento in questa collana, anche se il libro ha il gradimento medio della collana stessa. Che un po’ si risolleva per le capacità più descrittive che culinarie in sé di Nora Ephron e di Ruth Reichl, mentre precipita (e con merito) verso il basso con il libro di Laurie Colwin.
Andrea Vitali “Le tre minestre” Mondadori euro 9
[A: 12/06/2015 – I: 22/03/2016 – T: 23/03/2016] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 185; anno 2013]
Un pastiche di passaggio, tra un libro e l’altro dedicato all’amata Bellano. Qui Vitali si butta nei ricordi, in un gioco d’infanzia. Tra l’altro, scegliendo l’uscita con Mondadori, si butta (come altri autori ed autrici) verso la cucina e le ricette. E tra i libri di cucina vi cucinerò questa trama. La cui prima parte si gioca tutta sul filo della memoria, sul ricordo delle sue tre zie che lo hanno allevato, accudito e sorretto. Tre zie con spiccate attitudini complementari: Colomba, dedita all’approvvigionamento, Cristina, dedita alla gestione della casa, Paolina, dedita ai rapporti con l’esterno. Diventano, per il giovane Andrea, i tre ministri della gestione della vita: Ministro dell’Agricoltura, Ministro degli Interni e Ministro degli Esteri. Se poi, come tutti i bambini, ci si mette a giocare con i nomi, i ministri essendo donne diventano ministre. E ci vuol poco che da ministre si passi a minestre. Ecco spiegato il titolo. Ma anche l’impianto generale, perché, pur narrandoci delle zie, si narra, e molto, del cibo. Del cibo contadino degli anni ’60, dell’usar molti elementi non tanto e solo genuini, ma facenti parte dell’universo accessibile al tempo. Purtroppo, seppur piacevoli le vicende del retroterra da cui nasce il narratore Vitali che conosciamo, ci sono almeno due pecche, per il mio gusto di lettore. Vitali ci ha abituato a periodi brevi, diretti, capitoli scarni ed efficaci. Qui ci si sbrodola un po’, tanto che per narrare della vicenda di un panino di farina bianca si va avanti per oltre quaranta pagine, tra notizie digressioni e ritorni. Panino comprato da Colomba per la guarigione del padre, che il padre dà a Paola, che Paola dà a Cristina, che Cristina ridà a Colomba, che Colomba non mangia, lascia ammuffire, e con la muffa (e la penicillina naturale) guarisce le galline. Da quattro righe a quaranta pagine ce ne vuole… L’altro elemento è la scarsa attenzione temporale. Ora, è ben chiaro che una serie di passaggi sul cibo e sul rapporto di Vitali con le zie, avvengano con lo scrittore in età giovanile, preadolescenziale sicuramente. Poi, si corre, si salta, si arriva agli studi universitari dove le zie spingono Vitali verso la facoltà di Medicina (e medico diventerà Vitali, medico di base in quel di Bellano e dintorni, dove avrà modo di sentire tutta la gente che passa per il suo studio, dove ne annoterà le storie sui suoi foglietti, e da quelle storie nasceranno i suoi libri migliori) ma rimanendo instaurata, tra lui e le zie una modalità di rapporti che mal si connette con uno studente che, per essere universitario, dovrebbe avere almeno vent’anni. Certo Vitali è bravo nel delineare le caratteristiche delle persone, delle zie, dei suoi mondi “in riva al lago”. Ma non riesce ad incidere in questo piccolo giro di giostra. Certo, si capisce qualcosa del mondo contadino degli anni ’60, dato che il nostro è nato nel febbraio del ’56, e che quindi saluto come da poco sessantenne (parlo del tempo della scrittura mia, ovvio, che non so quando uscirà questa trama). Si capisce il parente prete, il cugino pilota, gli armadi di legno che nascondono chissà cosa. Si capiscono le tre zie, le loro paure e le loro piccole o grandi vittorie. Poco altro. E poco, anche se con un piccolo interesse, nel ricettario finale. Dove Vitali, o chi per e con lui, riporta un elenco di ricette contadine. Nel senso di ricette che usano elementi, come dire il grande Petrini, a chilometro zero, a volte irrimediabilmente perduti. Ottime tutte le elencate polente, come la ripresa dei ravioli di San Vincenzo, una delle ricette che nel corso della narrazione viene spiegata passo dopo passo, ingrediente dopo ingrediente, con ogni personaggio dedito ad un elemento che compone il grande risultato finale. Ma dopo averli preparati, andate a rileggere le pagine in cui Vitali descrive il martirio di San Vincenzo, che nella fattispecie risulta essere San Vincenzo di Saragozza, martirizzato dal turpe Daciano, prefetto in Valencia di Diocleziano. Una bella elaborazione delle leggende agiografiche del martirio del Santo. A me, tuttavia, rimangono solo impresse le ricette di castagne, memore delle grandi mangiate sorianesi. Ed anche il rimpianto che tra le ricette, Vitali non riporti quella della mela alla cannella, con quel tocco in più che ne fa, nel racconto, un bel punto in favore delle zie. Ma, fatte le somme, sono rimasto deluso, che mi aspettavo qualcosa più in linea con i romanzi bellanesi, ed anche deluso dalla parte culinarie, che poco sugo (scusate la facezia) ha un solo elenco di ricette.
Nora Ephron “Affari di cuore” Corriere della Sera 19 euro 7,90
[A: 12/06/2015– I: 25/07/2016 – T: 01/08/2016] - &&& e ½  
[tit. or.: Heartburn; ling. or.: inglese; pagine: 216; anno 1983]
Nora è stata (purtroppo è morta di leucemia 4 anni fa a 71 anni) una donna di lettere che in una delle sue incarnazioni, quella di sceneggiatrice, ho venerato per l’arguzia e la comicità che sapeva infondere alle sue trame. Non c’è bisogno certo di ricordare che il suo più grande successo fu “Harry ti presento Sally” (“When Harry Met Sally”). Ma prima di questo picco, sceneggiò nel 1986 il film “Heartburn” con Meryl Streep e Jack Nicholson, a partire proprio da questo saggio – romanzo – nonsocomeclassificarlo, che scrisse nel 1983. Perché questa è in realtà una “novel”, una novella, un ricordo autobiografico traslato, punteggiato di momenti di vita, ed infarcito, giustamente visto che siamo nel lato “Storie di cucina”, con qualche ricetta. Intanto, il titolo, che in realtà “Heartburn” sta ad indicare in inglese “bruciori di stomaco” o, meglio “indigestione”. Ed anche se si parla, se ne è il filo conduttore, la storia di vita e d’amore della stessa Nora, è per l’indigestione, per la pesantezza di stomaco che le viene dalla difficoltà di vita con il suo secondo marito, che nasce il libro, che nasce la storia. Un romanzo ricco di spunti divertenti, a metà strada tra romanzo di vita e libro gastronomico. La narratrice, Rachel Samsat (Nora) è un’esperta di cibo e nel libro sono presenti ricette (quindici per l’esattezza) a metà strada tra la tradizione americana e quella ebraica (dal cheesecake ai russli). Ma tutto questo cibo, anche tutta questa dolcezza non fa diminuire il dolore di una donna incinta al settimo mese che scopre il tradimento del marito. Rachel è sposata con Mark Feldman (Carl Bernstein nella realtà, uno dei due giornalisti che condusse l'inchiesta che svelò i retroscena dello scandalo Watergate, spingendo il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon a rassegnare le dimissioni). Rachel, newyorchese, si è trasferita a Washington per sostenere la carriera del marito. Hanno una figlia e Rachel è incinta del loro secondo figlio. La capacità narrativa di Nora ci fa viaggiare all’interno di questa coppia intellettuale della middle class americana, con tutte le sue nevrosi e tutti i suoi tormenti. Infarcita di aneddoti che ce la rendono cara e divertente. Mark che si tormenta perché non trova i calzini. Rachel che, per superare i suoi momenti di crisi, affronta una terapia di gruppo. Contrappuntando la narrazione con quelle ricette buttate lì come se niente fosse, un po’ per prendersi in giro (come dovrebbe scrivere un libro di ricette) un po’ per prendere ogni tanto le distanze dai dolori quotidiani. Fatto sta che Rachel scopre la tresca di Mark con Thelma Rice (in realtà, Margaret Jay figlia dell'ex primo ministro britannico James Callaghan). Facendo scattare i suoi primi veleni (Rachel va dicendo in giro che Thelma è affetta da malattie veneree). Punto nodale della trama è il furto di un prezioso anello di Rachel al termine di una seduta della terapia di gruppo. Il ladro viene preso, l’anello restituito, ma ha le pietre allentate. Rachel lo porta al gioielliere di famiglia dove scopre che mentre lei era in ospedale per il parto Mark aveva comperato una costosa collana per Thelma. Allora lei, nascostamente, vende l’anello e con i soldi si può permettere di tornare a New York e riprendere la sua vita come prima del tradimento. Ma il bello non ci sarebbe se non arrivassimo alla scena madre, al modo per Rachel di capire e di far capire che il matrimonio è finito. Sono ad una cena da amici e Rachel ha portato una torta di lime fatta da lei. Si spettegolezza su matrimoni e coppie in crisi e Rachel capisce che Mark l’ha tradita anche prima di Thelma e che lo farà ancora. Non riesce a convivere con l’idea di stare con Mark sapendo di non essere rispettata. Se lui non la ama, lei deve prendere la torta e gettargliela in faccia. Lo farà? Chi ha visto il film lo sa. E noi sappiamo che ammiriamo Rachel-Nora perché saprà ricostruirsi una vita a partire da queste ceneri. Tanto che cinque anni dopo finalmente troverà il partner definitivo in Nicholas Pileggi, che sarà con lei fino alla fine. Il libro l’ho trovato discretamente divertente, anche se nessuna delle ricette mi ha veramente incuriosito. Mi ha anche dato un nuovo pilastro alla costruzione della visione femminile sul tema dell’infedeltà, costruzione che poggia sulle altre gambe con Siri Hustvedt (“L’estate senza uomini”) e Elena Ferrante (“I giorni dell’abbandono”). Forse questo, oltre la simpatia per l’autrice, l’ha fatto lievitare un po’ sopra quella sufficienza che da solo forse non avrebbe raggiunto.
Ruth Reichl “La parte più tenera” Corriere della Sera Cucina 1 euro 7,90
[A: 06/03/2015– I: 09/08/2016 – T: 13/08/2016] - &&& --   
[tit. or.: Tender at the Bone; ling. or.: inglese; pagine: 334; anno 1998]
Questo è il primo libro della serie dedicata alle storie di cucina edite dal Corriere della Sera. Nelle intenzioni dei curatori, quindi, quello che dovrebbe dare l’impronta alla collezione, che dovrebbe invogliare l’acquirente a continuare ad investire i suoi soldi nella collana. Fortuna che ne ho letti altri prima, che invece, pur se con delle punte di interesse, per me raggiunge una sufficienza stiracchiata. Dovuta più ad alcune circostanze esterne, ed al fatto che alcuni passi riportavano altro alla mente. La prima circostanza è stata il luogo di lettura. Vacanze itineranti in Croazia, dove si trovò ogni volta appartamentini con uso di cucina, così che si poteva cucinare in casa la sera, per mantenere una dieta importante e rigorosa. E mentre ci si attardava con cibi di base, si può anche sognare con il gigantesco “Boeuf à la Bourguignonne” (che non sarà quello di Julia Child, ma ci va vicino). Inoltre, più che un vero e proprio libro di storie di cucina, Ruth Reichl si concentra su sé stessa, e sulla sua storia, dove da onesta e basilare conoscitrice del cibo elementare, si andrà evolvendo, nel corso della sua vita, verso il ruolo di uno dei più importanti critici gastronomici americani, direttrice per anni (purtroppo però anche gli ultimi) di quella rivista cult che fu “Gourmet”. Ed allora lasciamo un attimo da parte le ricette, e seguiamo Ruth ed i suoi rapporti con le altre donne (certo ci sono uomini nel libro, ma marginali come dei contorni poco riusciti). La madre, in primo luogo, sempre eccessiva, sempre dedita ad esperimenti culinari azzardati (sarà un caso che lei la chiama “la regina della muffa”?), che ha sempre altro da fare. Un esempio illuminante: la madre ha un impegno, la bambinaia ha il suo giorno libero, allora la madre paga lei, bambina e per di più impaurita, per farsi da sola la babysitter. Fortuna che c’è Alice, la governante caraibica, che le insegna del cibo isolano, e le offre quelle “mele con salsa dura” che saranno conforto per tutta la sua vita. Fortuna che c’è la signora Peavey, governante e cameriera, corpulenta plurilingue che la introduce nei meccanismi classici della cucina. Fortuna che, sulla parte affettiva, c’è zia Birdy, che appunto è l’unica cui rivolgersi, certo non per cucinare, visto che l’unica cosa che abbia mai cucinato in vita sua è l’insalata di patate. Fino alla fortunata coincidenza che la fa invitata alla mensa di una sua ricca compagna di classe, dove le viene servito un filetto di bue, che si scioglieva talmente dolcemente in bocca, che da quel punto in poi capì la cucina essere la sua strada. Certo la parte dell’infanzia è più intrigante, poi diventa storia personale come di molte donne americane di quegli anni. Un po’ hippie, un po’ no. Qualche esperienza tipo comune californiana, dove Ruth continua tuttavia ad esercitarsi con il cibo. E tante persone che si incontrano durante il corso della propria vita, e con le quali si condivide la tavola. Se poi a quella tavola si porta il proprio cibo, la propria sapienza culinaria, allora i piaceri sono moltiplicati in modo esponenziale. Come quando riesco a mangiare le torte al cioccolato o le quiche di Ale. Ma Ruth continua, continua ad essere aperta alle esperienze diverse che le si presentano, passa diversi stadi di consapevolezza culinaria: cameriera pronta a seguire consigli e suggerimenti di chi ne sa più di lei, cuoca per i propri amici, cuoca in alcuni ristoranti, fino a diventare, casualmente se si vuole ma di certo consapevolmente, una critica gastronomica attenta e tenace. Un viaggio di vita, un’autobiografia certo, dove il cibo aiuta Ruth a capire le persone che incontra, le persone che la circondano, le persone che la sostengono. Quel che ne esce, di Ruth come figura, è quello di una donna che, con tutte le difficoltà che ognuno ha, nel cibo trova una via e nel suo trattamento il modo di camminare per la propria strada. Capisce le persone vedendo cosa mangiano. Capisce come si possa e si debba cambiare il modo di gestire un ristorante per mantenersi equidistanti tra il successo economico ed il rigore alimentare. Tuttavia, non è un libro che mi ha soddisfatto pienamente. Perché ho trovato le ricette presentate di difficile esecuzione, perché non ho trovato un indice delle ricette stesse (che invece sarebbe stato utile), perché come “memoir” ha dei punti di interesse, ma altri che, forse, interessano solo a chi la conosce meglio di me. Credo (spero) che la collana mi riservi elementi di maggior interesse e coinvolgimento.
Laurie Colwin “Home cooking” Corriere della Sera 20 euro 7,90
[A: 06/07/2015– I: 21/12/2016 – T: 24/12/2016] - & e ½ 
[tit. or.: Home Cooking. A writer in the Kitchen; ling. or.: inglese; pagine: 248; anno 1988]
Ecco un esempio di come NON dovrebbe essere confezionato non dico un libro di cucina (ognuno lo confeziona come può e vuole), ma un libro inserito in una collana di libri di cucina. O meglio di “Storie di cucina”, come recita sapientemente la manchette di questa collana edita dal Corriere della Sera. Ho detto in altre critiche ed uscite di questa collana, che se parliamo di storie di cucina mi aspetto racconti, romanzi ed anche mini-saggi che si leghino, si armonizzino e girino intorno al cibo. Penso ad “Affari di cuore” di Nora Ephron o “Dolce come il cioccolato” di Laura Esquivel (di cui ho già parlato qui ed altrove). Poi ci sono libri di ricette, ma non è questa la sede di fare un libro di ricette, altrimenti avremmo comperato altro. Se invece NON abbiamo un racconto, NON abbiamo un romanzo, ma dei pensieri sparsi o si ha la capacità di un Julian Barnes (“Il pedante in cucina”) di prendere pezzi sparsi, e poi amalgamarli in una grande unica ricetta, oppure si dovrebbe mettere a corredo del libro qualche articolo esplicativo per chi non è nato “sapiente tuttologo”. Cosa appunto che NON succede qui (mi dispiace mettere tutti questi maiuscoli forzati che stanno a sottolineare il mio dispiacere per una collana ed un libro che avrebbero potuto essere meglio letti e gustati). Se infatti prendiamo il testo in sé, è slegato, e non si capisce perché l’autrice ammicchi tanto come se fossimo amici da anni. Stiamo imparando a conoscerci, quindi cominciamo con un po’ di formalismo. Perché Laurie Colwin, ignota praticamente al pubblico italiano (pare che solo 5 persone abbiano avuto il coraggio di dire di possedere questo libro), è stata, al contrario, un personaggio importante della scena culturale americana. Stata perché benché giovane (nata nel 1944) muore a soli 48 anni di infarto. In questi men che cinquant’anni scrive 5 libri di racconti, e raccoglie in due libri i suoi trafiletti dedicati al cibo e pubblicati sul magazzino americano “Gourmet”. Ora se qualcuno ne avesse scritto un minimo, probabilmente avremmo meglio apprezzato anche il sottotitolo dell’edizione originale (“Uno scrittore in cucina”), e avremmo sorvolato appunto su tutti quegli aspetti che, leggendo “senza paracadute” mi hanno storto alquanto durante la lettura. Quel continuo riandare ad americanismi (libri di cucina americani d’antan, ingredienti americani difficilmente recuperabili altrove, gusto americano di stare insieme, bere drink, fare barbecue) anche criticandoli, e ci sta tutto, ma che si vede che sono prettamente “localizzati” e quindi se decontestualizzati lasciano il tempo che trovano. Si apprezza lo sforzo di Laurie di non spaventare i neofiti che si avventurano in cucina con quelle “barriere architettoniche” che, a noi improvvisatori, fanno sembrare i nostri tentativi di “uova fritte” come un video di disabili proiettato affinché luminari della medicina ne possano discutere. Sono d’accordo, ma l’enfasi è senza dubbio eccessiva, che non c’è bisogno di batterie enormi di utensili per avere una cucina in grado di funzionare. Sono d’accordo che bisogna saper leggere le ricette, ed adattarle a sé stessi, all’occasione, ed alle successive uscite e riuscite. D’altra parte, Alessandra è una grande maestra, capace di cucinare “ordinary food” per la famiglia o imbastire cene “da ricevimento”. Guardarla organizzare e gestire il cibo, la spesa, la cucina è una grande lezione (peccato solo sia astemia, e io debba pensare alla sezione vini, ma ci sta, ne sono comunque contento e gratificato). Ma torniamo brevemente al testo. È piacevole svolazzare con Laurie nelle sue accennate vicende familiari, la sua origine ebrea (è stata traduttrice di Singer dall’yiddish), il marito di origine lettone (favolosa la torta lettone di compleanno), i suoi amici, le sue cene massimo per sei persone (altrimenti non si riesce a parlare). Meno le sue accennate ricette. Un po’ perché anche se descritte usano quei termini che tanto avevo sottolineato della loro inusabilità con Barnes (quant’è grande una cipolla media?), un po’ perché utilizza ingredienti che non conosco o di cui non conosco la reperibilità. Fagioli neri fermentati. Lattuga Iceberg o Libbs. Bologna di Lebanon. Patate di Minorca o Patate dell’Idaho. Ricette difficili da replicare senza di loro. E ricette con un uso smodato, per me eccessivo, di cetrioli. Divertenti, ma poco di più. Una lettura veloce, non impegnativa, ma molto sotto la sufficienza. Con un errore che non mi aspettavo, anche se sfuggito ai molti che non sono rimasti come me incuriositi da un “Suffolk Pond Pudding”. Come pensare di mangiare un dolce in cui: si fodera una bacinella da budino con pasta sfoglia al grasso di rognone; si taglia a pezzettini il burro mescolato con lo zucchero; si prende un limone intero, lo si punzecchia, lo si ficca sopra la miscela di burro e zucchero, lo si riveste con altro burro e zucchero, si copre con il coperchio fatto di pasta, si avvolge tutto in uno strofinaccio per budini e si fa cuocere a bagnomaria per quattro ore. A parte il sapore che deve essere tremendo, il piatto, come ho scoperto su Internet, in realtà si chiama “Sussex Pond Pudding”. Peccato!
“Cenare da soli costituisce uno dei piaceri della vita.” (44)
“Perfino di domenica sera, nella maggior parte delle case si possono trovare un po’ di burro, un po’ di olio di oliva e in genere delle uova.” (118) [falso!!]
“Conosco una coppia che tiene una sorta di registro delle cene: segna chi è venuto, chi ha fatto amicizia con chi e che cosa è stato servito.” (135) [vero!!]
“Un sandwich alla bistecca fredda è qualcosa di disgustoso, ma è al contempo qualcosa di meraviglioso … con una grossa tazza di caffè.” (190) [ne vogliamo parlare?]
Per una serie incresciosa di concomitanze pensavo di saltare la trama di questa settimana. Ma la futura e prolungata assenza, nonché l’omaggio che alcune di queste righe portano ad una provetta “cucinera”, mi hanno forzato ad uscire anche questa settimana. Sperao che gli strascichi del 16 si arenino quanto prima regalandoci un luminoso 17.

domenica 15 gennaio 2017

Senza vittorie - 15 gennaio 2017

Un titolo-rebus che farebbe contento il mio amico Ennio. Per chi non lo avesse decrittato, mi riferisco alla casa editrice di questi quattro insufficienti romanzi (cioè …). Purtroppo di autori italiani, che, come i miei lettori sanno, sono una mia annosa debolezze. Qui ai livelli più bassi che si siano registrati nei miei quartetti, sebbene almeno tre abbiano vinto il ben noto Premio Tedeschi. L’ultimo, ed anche il più insoddisfacente, è frutto anche di un mio errore. Se volete, leggetene i miei sunti, astenendovi vi prego di leggerne.
Aldo Budriesi “Identità violate” Mondadori euro 4,90
[A: 06/01/2015 – I: 28/06/2016 – T: 30/06/2016] - && +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 244; anno 2015]
Il solito periodico premio delle edizioni Mondadori, il ben noto premio Alberto Tedeschi, di cui tante volte negli ultimi anni ho scritto, questa volta premio un autore romano, Aldo Budriesi. Autore di gialli per lo più usciti in edizioni minori, tipo le edizioni Delos, qui si presenta con un’opera più articolata, anche se, e si nota dei miei giudizi, non mi ha soddisfatto pienamente. Sapete anche la mia passione per gli autori italiani in generale, e per il loro uso delle modalità poliziesche per descrivere realtà locali. Ebbene, seppur non si può negare la capacità di reggere le più di 200 pagine con una scrittura discretamente coinvolgente, questo libro lascia insoddisfatti. Vengono infatti utilizzati molti stereotipi del genere, senza però che scatti quel meccanismo di identificazione con i personaggi e con la storia che fa la differenza tra un libro ed un buon libro. Siamo a Genova, dove spesso si svolgono per gli autori italici, anche non genovesi, fatti di sangue e di mistero. Penso ad una autrice mondadoriana doc come Annamaria Fassio o ad un cultore dei carruggi come Bruno Morchio. Budriesi ci fa seguire le indagini del commissario Santagata, tipico esempio di poliziotto con delle buone idee e delle pessime azioni. Ci viene detto (forse il nostro è protagonista di altre storie che non sappiamo) che fu coinvolto in indagini legate alla camorra, dove mise qualche piede in fallo, e dove il sistema lo salvò da conseguenze peggiori. Ovvio che questo lasci un debito, cui viene chiesto presto di saldare il conto. Quando, in un cascinale isolato viene ritrovato il corpo senza vita (e molto devastato) di un personaggio ben in vista della società genovese, il commendator Giacomo Meneghetti. Per tacitare i sospetti, Santagata viene convinto dai suoi superiori a spostare il corpo nella villa padronale. In modo da contenere un possibile scandalo di grandi dimensioni, trasformando così un omicidio efferato in un delitto passionale. Ovvio che la messa in scena, pur ben orchestrata, mostri qualche falla, che Santagata all’inizio tenta di rabberciare. Ma da buon commissario e servitore dello Stato, non può fare a meno di continuare ad indagare. Indagare sul commendatore, sulla sua strana vita ritirata, sulla famiglia dello stesso, sulla moglie, sulla madre, sui suoi affari. Scopre ben presto che qualcosa non torna. Perché Meneghetti ha liquidato molte delle sue attività prima di essere ucciso? Perché era pronto un aereo privato con destinazione ignota, cui Meneghetti non è mai arrivato? Santagata è soprattutto colpito dall’atteggiamento della moglie, e del suo strano servitore giapponese. Ovvio anche che, mentre indaga sui traffici del commendatore, il sistema politico gli metta continuamente bastoni tra le ruote, quasi ad indurlo a chiudere tutto al più presto come omicidio commesso da ignoti. La svolta avviene quando muore anche il segretario di Meneghetti. Indagando su questo secondo delitto, Santagata, aiutato dalla fedele assistente (e anche qualcosa in più) Carla Galletti, scopre (e ci fa scoprire) il mondo dello “shibari”. Un bondage raffinato, una sessualità ai limiti estremi, di cui si legge, e di cui mai ho avuto interesse ad approfondire. Una pratica che Kojima, il maggiordomo di casa Meneghetti, praticava con la moglie del commendatore. Io sono per una sana e diretta sessualità, per un uso altrettanto diretto del corpo, e tutte queste “impalcature” mi lasciano discretamente freddo e poco coinvolto. Da questa morte si scoprono a catena ricatti nonché la successiva morte dello stesso giapponese. Nonché viene alla luce la figura della madre di Meneghetti, avviata con il suo Alzheimer ad una morte prossima e straniante, e ricoverata in una clinica in territorio francese. Indagando presso di lei, Santagata viene a capo di molti misteri. E si palesano le violazioni del titolo. L’identità di Santagata come servitore dello Stato, più e più volte violata dallo stesso Stato. L’identità del segretario, omosessuale e guardone. L’identità della moglie di Meneghetti, piegata a giochi poco salubri dal giapponese. L’identità stessa infine di Meneghetti, che ci viene rivoltata come un calzino in un deciso colpo di scena, forse l’unico che in effetti mi ha lasciato sorpreso. Alla fine, per buona pace del sistema politico genovese e delle sue corruttele, Santagata riconduce tutto nel suo giusto ambito, dove finalmente i colpevoli pagheranno il fio. Ma tutta l’ultima parte si avvia troppo velocemente verso l’atteso finale, senza che il povero lettore riesca a “prenderne parte”. Si legge, si capisce, ma non si attua quello scatto felice che i migliori autori riescono a produrre a questo punto. Insomma, una buona capacità di scrittura, sorretta da una storia dalle premesse interessanti ma dalle conclusioni troppo “consolatorie”. Dovrei essere più selettivo verso questa massa di autori italiani che si affacciano al genere, ma a volte le passioni sono difficilmente selettive. Speriamo meglio in altro, che molti autori ho da leggere nella parte italiana della mia libreria. Infine, comunque, un grazie a Budriesi per questi versi di Caproni.
“Se non dovessi tornare, / sappiate che non sono mai/ partito. / Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai. (Giorgio Caproni)” (54) 
Diego Lama “La collera di Napoli” Mondadori euro 5,90
[A: 03/10/2015 – I: 01/08/2016 – T: 03/08/2016] - && +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 238; anno 2015]
Una buona famiglia di scrittori, questa dei Lama. Diana mi fece una buona impressione con un Noir di due anni fa uscito per la collana del Sole 24ore. Ora Diego, il fratello, scrive un giallo di discreto impatto, con il quale vince il periodico premio messo in palio dalla Mondadori, il ben noto, per chi mi segue, Premio Alberto Tedeschi. Una buona scrittura, anche, con la presenza di un nuovo personaggio, il commissario Veneruso. Che con le sue riflessioni, sempre un po’ nere, che ondeggiano tra il pessimismo e la depressione, dà una impronta a tutto il romanzo. Il suo rapporto con il sottoposto Serra, che lui maltratta ma che a lui serve da contraltare alle riflessioni per dipanare le intricate matasse. E che lascerà un’ultima vena di tristezza nel commissario, morendo anche lui di colera, come migliaia di napoletani. Perché, ovvio se si parla di così tante morti, siamo sì a Napoli, ma ci collochiamo nel 1884. Devo anche dare atto ad una buona ricostruzione dell’ambiente dell’epoca, con le descrizioni della città che ne riportano il carattere di allora, già degradato. Il porto, le passeggiate a mare, le discariche, la visita di re Umberto I (che per i soccorsi portati fu chiamato “Re Buono”, prima di essere coinvolto nel famoso scandalo della Banca Romana del 1898 e nella repressione guidata da Bava Beccaris, per cui il soprannome fu cambiato in “Re Mitraglia”). Ma torniamo al testo. L’altro lato di Veneruso è una buona dose di empatia verso i “malfattori casuali”, come il giovane falegname che, per una serie di ragioni che vi lascio leggere, uccide la matrigna e la sega in più pezzi pe disfarsene. Infine, c’è il rapporto assai conflittuale con la Chiesa, ma soprattutto con i suoi esponenti, preti e suore, che poi saranno l’ossatura della storia principale. Perché l’altro lato caratterizzante del romanzo è l’accavallarsi delle storie, una sorta di affabulazione, che si disperde in una serie di rivoletti. Del falegname si è detto. Così di Serra. Poi c’è anche il commercio dei neonati, che i meno abbienti vendono ai “signori”, ed alla scoperta della mezzana che gestisce il traffico. Niente di nuovo sotto il sole, comunque. Il filone principale però è dato dall’inchiesta, che stenta comunque a decollare, sul ritrovamento di cinque cadaveri di giovanette. Tutte portate a mare dalle fogne e difficilmente riconoscibili, per i morsi di topi ed altre bestie di cattivo gusto. Il tutto complicato dall’epidemia di colera di cui accennavo, e che portò alla morte di 7.994 persone nella città di Napoli (pari a circa il 2% della popolazione cittadina del tempo). Veneruso non sa che pesci prendere, dando spesso la colpa alle sue scarse capacità per non riuscire a trovare nessun appiglio. Che gli viene fornito quando suor Giuseppina, del convento di Santa Maria Vergine a Porta Capuana, denuncia la scomparsa di una giovinetta del convitto, la bella Linda. Da qui, pur con tutti i contorcimenti e le lentezze del caso, si comincia a risalire la china. Ben presto, aiutato anche se obtorto collo da suor Elvira e suor Angela Maria, Veneruso scopre che tutte le giovani erano ospitate dalle suore. Come ben presto (a noi) ed un po’ più lentamente a Veneruso viene in mente che ci sia un legame tra tutte. Infatti erano tutte, compresa Linda, parte di una consorteria che venerava come nume tutelare Saffo. Linda, tra tutte, era la più bella, e la più intraprendente. Tanto che cade anche nelle trame di don Tommasino con cui ha frequenti rapporti. Cosa che scandalizza le “sorelle” che la bandiscono. Soprattutto il capo della setta, che scopriamo essere proprio suor Elvira. Grandi scene melodrammatiche, confessioni estorte, storie a pioggia, che portano anche a scoprire che le giovani morte avevano anche torturato Linda con una candela. E che suor Angela Maria, in realtà, era anche la madre di Linda. C’è di tutto per farne un dramma “alla Carolina Invernizio”, e questa fa cadere molto il tono dell’ultima parte del libro, dove già sappiamo come andrà a finire, ed aspettiamo di capire solo come si muoverà il nostro commissario. In sintesi, una buona scrittura, un buon personaggio, una giusta dose di mescolanza tra le storie, che arricchiscono e rendono vivido il quadro della Napoli di allora. Uno sguardo non compassionevole sui personaggi al limite della società, laddove appunto si muove il commissario Veneruso. Che aspettiamo in altre e magari più stringate trame.
Andrea Franco “L’odore dell’inganno” Mondadori euro 5,90
[A: 19/01/2016 – I: 07/11/2016 – T: 09/11/2016] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 177; anno 2016]
Avevo letto il primo libro (non i racconti che li ho saltati a piè pari) scritto da Franco quando uscì per i Gialli Mondadori in quanto vincitore del Premio Tedeschi. Ne parlai, trovandolo non eccelso ma sicuramente ben scritto e dosato. Ora esce una nuova puntata degli “odori” di Franco. Questa volta però, mi convince assai meno. Faccio un piccolo passo di lato, per dire appunto che Franco mette in piedi una sua saga, basata sulle gesta investigative di un monsignore, don Attilio Verzi, e svolgentesi intorno alla meta del 1800. La particolarità di don Verzi è, appunto, di sentire gli odori, e di usare questo fiuto per risolvere i misteri in cui viene coinvolto. Un’idea interessante (potremmo parlare del “fiuto dell’investigatore” con una facile battuta), anche se a me suona come un riecheggio di altri investigatori con altre particolarità. Mi viene infatti subito in mente l’ispettore Ricciardi di Maurizio de Giovanni ed il suo vedere le ombre dei morti ammazzati. Torniamo però nel solco narrativo, e nel mezzo del tempo di don Verzi. In queste vicende, infatti, siamo nel pieno dell’inizio (scusate il tentato ossimoro) del pontificato di papa Mastai, cioè Pio IX. Che, scoperte le doti di don Verzi, lo chiama alla guida dell’Ufficio delle Inchieste del Regno Vaticano (siamo, lo ricordo, nel 1846). Ma se nella prima storia tutto era funzionale e ben inserito, qui i personaggi, la storia, e soprattutto don Verzi sembrano servire solo alla descrizione di un clima, propedeutico ad altre avventure, come ci lascia intuire il sottofinale del libro, di cui non parlerò qui. Ciò rende questo libro un poco lento e di difficile appassionamento. I comprimari ci sono ancora, don Giani, con il suo ottimismo, suor Rebecca, che sa di pulito e serve sempre da ottimo contraltare quando contrasta i dubbi del nostro monsignore, il capitano Iacoangeli, capo della Milizia urbana, la mano operativa delle attività quando si svolgono fuori della cinta vaticana. Ma sono comprimari che non risaltano gran che. D’altra parte se tutto il libro è moscio, perché non loro? Purtroppo, poi, sparisce lo scrivano Attenni, che per motivi di blues mi aveva attirato. Dicevo la storia è un pretesto per farci entrare nel clima dei primi mesi del pontificato di Pio IX e nel mondo e nel modo di vivere della Roma bene. Sparisce misteriosamente la nipote di un conte, promessa sposa al nipote di un cardinale. Don Verzi è quindi costretto, suo malgrado, a visitare i luoghi alti dei benestanti romani. Dove, com’è ovvio, si trova male. E ce ne illustra i difetti. Alterigia, presupponenza, mania di grandezza. Il conte ed il Cardinale sanno di avere potere, e lo usano. A scapito di tutto e di tutti. Soprattutto verso il clero si scagliano le idee di don Verzi, che ha un altro, ed alto, concetto di cosa debba fare un prete in primis, ed un porporato, a maggior ragione. Eponimi poi della dabbenaggine dei potenti sono Demetrio, il figlio del conte, ed il promesso sposo Palmiro (che scelta infelice del nome, che a noi rimanda sempre a tutt’altro clima e tutt’altra persona). Che per sfuggire la noia, non trovano di meglio che uscire nottetempo, e mescolarsi alla “plebe”, giocando e bevendo. Dedicandosi, in particolare, a quella modo di bere tipico romano detto “passatella”. In cui c’è un caporione che comanda da bere a scapito di un malcapitato che viene sbeffeggiato da tutti. Per chi se ne ricorda, se ne parla nel “Rugantino”. Ovviamente, nelle loro scorribande notturne, Demetrio e Palmiro coinvolgono anche la bella Chiara, anche se poi nella notte ognuno fa per sé. Ed in quelle notti, Chiara viene a lungo corteggiata dal popolano Ernesto. Il quale, come capiamo subito, è scelto dai potenti come capro espiatorio, a ragione o a torto. Il dilemma di don Verzi nel coinvolgere Ernesto, è l’amicizia di questi con il capopopolo romano Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio (che in romano vuol dire “grassottello”). Dopo essersi dibattuto in un grande nulla per circa 150 pagine che si trascinano stancamente, con il “basso continuo” di don Verzi sul profumo di inganno che tutta la vicenda emana, nelle ultime venti pagine, finalmente, il prete decide di agire. Risolve quindi a suo modo la vicenda, con l’inganno anche lui. Convocando tutti i potenti, conti, cardinali e loro parenti, ed esibendo una finta prova. Che farà cadere il colpevole in trappola, che salverà l’onore di Ernesto, ma che lascerà la decisione sulle pene e quant’altro ad altri che questo poco interessa al prete. Preso da quel sottofinale cui accennavo. C’è simpatia in me verso l’autore, la sua scrittura, e l’ambiente romano a pochi anni dalla Repubblica Romana di mazziniana e garibaldina memoria. Tuttavia c’è poco altro, che il giallo non appassiona ed il libro si trascina senza infamia verso la fine. Dove arriva, purtroppo, anche senza lode.
“Ne approfitterò per fare una passeggiata e riflettere un po’. Sai bene quanto mi piace camminare.” (81)
“Ma dove sta scritto che non si debbano mai commettere errori?” (142)
“La risposta più importante è già nel domandare … nel momento in cui capiamo di non potercela fare solo con le nostre forze.” (160)
Alberto Marini “Bed Time” Mondadori euro 5,90
[A: 07/11/2014 – I: 19/11/2016 – T: 21/11/2016] – ½
[tit. or.: Mientras duermes; ling. or.: spagnolo; pagine: 272; anno 2011]
Lettura frutto di un errore e di una incomprensione. Non dovevo leggerlo, infatti. Ed è risultato uno dei peggiori libri entrati nella mia biblioteca. L’errore deriva dal fatto che, essendo un fan dei gialli italiani, visto il nome dell’autore, l’ho comperato ad occhi chiusi. Per scoprire poi, ora che mi apprestavo a leggerlo, che l’autore è sì italiano, ma vive da sempre a Barcellona, e scrive in spagnolo, come certifica il titolo originale (che significa “Durante il sonno”). L’incomprensione deriva dal titolo inglese, che è poi il titolo non da cui è tratto il film (del regista cult horror spagnolo Jaume Balagueró) ma il contrario: Marini scrive la sceneggiatura e poi la “allarga” in un libro. Già sono difficili i rapporti tra film e libri, quando vanno nella direzione “normale”. Nella direzione inversa si rivelano in genere deludenti. Ora non ho visto, né credo vedrò mai il film, ma posso confermare che il libro è deludente. Tanto da meritare il voto più basso dei quasi 2000 libri che ho recensito. Intanto, non è un giallo, un poliziesco o qualcosa che gli si possa avvicinare. Secondo i recensori del film (non del libro che fortunatamente non ne ho trovati) è un “thriller psicologico”. Che intanto, e sfortunatamente, il buon Marini decide di spostare dall’originale Barcellona, ad una improbabile New York. Scelta poco felice, che l’ambientazione catalana poteva dare un tocco di intimismo alla strana vicenda del portiere dello stabile (César nel film e Cillian nel libro, che tra l’altro è un nome irlandese, traducibile in italiano con riferimento a certo San Chiliano martire a Wurzburg nel 689). Detto portiere è convinto di non poter mai essere felice, viene assalito ogni notte da pulsioni suicide, e per sopportarle e continuare a vivere, decide che l’unico modo è rendere infelici gli altri. In questo suo squarcio di vita fa per l’appunto il portiere, avendo quindi la possibilità di prendere contatto con i numerosi inquilini dello stabile, e cercare di rovinare loro la vita. Fa così con l’anziano signor Samuelson, cui nasconde le lettere che una sua vecchia fiamma gli invia da un ospizio. Così con l’italo-americano Alessandro, ex fanatico di “parkour”, ora paralizzato in seguito ad una caduta fatale. Inciso, per chi non lo sapesse, il “parkour” Consiste nell'eseguire un percorso, superando qualsiasi genere di ostacolo vi sia presente con la maggior efficienza di movimento possibile, adattando il proprio corpo all'ambiente circostante, naturale o urbano, attraverso volteggi, salti, equilibrio, scalate, arrampicate, ecc. Il portiere spinge Alessandro a muoversi (centimetri alla volta) per arrivare ad una finestra e suicidarsi. Così con la signora Norman, cui prima fa disperdere un cane, poi cerca di uccidere con la cioccolata gli altri tre. Così con altri inquilini, su cui sorvoliamo. Che tutto è più incentrato nel suo rapporto con la solare Clara. Rapporto unidirezionale, che Clara non sospetta nulla, ma il portiere si introduce nel suo appartamento, e quando dorme le aumenta il sonno con il cloroformio, per poi dedicarsi alla ricerca di un modo, come dice lui, “per toglierle quel sorriso dalla faccia”. Le prova tutte. Prima soft, bagni schiuma sbagliati, indumenti intimi strofinati con l’ortica. Poi sempre più hard, mosche della frutta, topi, scarafaggi. Ovviamente, Clara è terrorizzata dagli animaletti (come scopre il portiere leggendo degli appunti). Ma anche così, non scompare il sorriso ed il buonumore. Allora i giochi si fanno pesanti. Prima mentre lei dorme ne abusa sessualmente. Poi ha uno scontro con Mark, che ha scoperto i suoi traffici. Tanto che, durante una colluttazione, lo uccide. Per poi riuscire a fuggire senza essere incolpato di nulla. Si pensa ad un suicidio, avendo Mark scoperto che Clara è incinta ma non di lui. Finalmente Cillian può finire la sua roulette russa, ha raggiunto il suo scopo, ma prima fa un ultimo orrido scherzo alla suddetta ed ormai distrutta Clara. Tutto ciò si trascina, senza suspense e senza coinvolgimento per tutte le quasi trecento pagine del libro. Che ho continuato a leggere sperando in una svolta. Sperando nella comparsa di un personaggio cui appassionarsi. Poi ho continuato nella speranza che Cillian prendesse qualche batosta. Tutto inutile. Tutto si avvia verso la sua già scontata fine. Tutti i personaggi avranno solo cattiverie da Cillian. Anche Cillian stesso. Finalmente allora l’ho finito e posso dedicarmi a qualcosa di più umano, di più poliziesco, di meno thrilling, di meno falsamente psicologico.
“Ce l’ho in testa tutto il giorno, ogni singolo istante. Non mi abbandona mai. Lei e il suo … sorriso.” (62)
Siamo già alla terza domenica del mese, ed abbiamo quindi anche lo spazio per dedicarci ai libri che ci aiutano a vivere felici, ponendo mano ad un arguto intreccio terapeutico- culinario.
Ancora a combattere con gli asiatici, dove ogni volta penso di trovare una chiave interpretativa dei loro modi di vita (non a caso ho letto molto di Banana ed Haruki) ed ogni volta mi sorprendono con il loro modo sfuggente di reagire alle situazioni complicate. Non sopporto chi, invece di rispondere ad una critica, preferisce non rispondere del tutto, isolandosi in un silenzio inattaccabile. Spero che i miei contatti indocinesi la smettano di farmi impazzire, ed allora mi consolo con voci amici e lettori, mandandovi un abbraccio.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

GENNAIO 2017
I libri felici non hanno paura di andare su e giù per le pagini, ed ecco quindi, che prima di procedere con altre malattie, torno ad occuparmi delle terapie per i mali d’amore, magari perché mangiare è sempre un’attività che aiuta.

TERAPIE D’AMORE (V)
AFFARI DI CUORE di NORA EPHRON (1983)

Pillole di trama
Rachel è soddisfatta della sua vita, pienamente realizzata come donna (è una cuoca provetta e i suoi libri di cucina vanno forti), come madre (è in attesa del secondo figlio) e come moglie (è felicemente sposata con un giornalista in carriera). Rachel è realizzata finché non realizza che Mark la tradisce con una «spilungona» di sua conoscenza. A quel punto mette tutto in discussone, ma con ironia, una spietata e catartica ironia.
Supposta-saggezza
«Il primo giorno non mi è sembrato molto buffo. Non mi è sembrato molto buffo nemmeno il terzo giorno, ma ho cercato ugualmente di scherzarci su». Nell’incipit di Affari di cuore c’è già tutto lo spirito di questo gustosissimo romanzo con ricette fortemente autobiografico. Quando si scopre che il marito numero due ti tradisce (ma anche se fosse il numero uno o un fidanzato nuovo di zecca le cose cambierebbero di poco) non c’è davvero niente di buffo, eppure ci può essere da ridere, può essere una cosa seria da prendere in giro e Affari di cuore ne è la prova. Lungi dal diventare una palla di rabbia e rancore, schiacciata dal peso delle reiterate coma ramificate a mo’ di selva oscura sulla sua ignara testa, tra dubbi, paure, fragilità, spigolosità e nevrosi, Rachel non perde la diritta via ma inizia una spassosissima e intelligente riflessione sulle relazioni sentimentali, i matrimoni, gli amori, le amicizie, gli uomini, le donne, il cibo e la cucina, su tutta la sua vita insomma, che guarda con echi nuovi, ovvero con gli occhi aperti. Senza privarsi del gusto, sacrosanto e lecito, di infierire sul marito fedifrago impenitente, Rachel mette in discussione, con implacabile autocritica, prima di tutto sé stessa; perché se lui è senza dubbio un bastardo traditore e privo di coraggio, anche lei ha le sue colpe. La verità è che «il problema dell’infedeltà diventa irrilevante di fronte al danno cerebrale che subiamo nello scoprire che una grossa parte della nostra vita è tutt’altra cosa da quello che pensavamo». Si tratta della presa di coscienza di quel fenomeno piuttosto diffuso che in gergo esistenziale si chiama “avere sugli occhi due fette di prosciutto di montagna tagliato a mano”. A essere ferito da un tradimento non è solo il cuore, ma anche il cervello e proprio i danni subiti dall’intelligenza sono spesso causa di insane reazioni e gesti inconsulti che hanno tutto il sapore (spesso molto appetitoso, ad essere sinceri) della vendetta ma che, dopo una iniziale sensazione di apparente soddisfazione, non fanno altro che mortificare ulteriormente l’autostima. Allora è meglio fare come Rachel-Nora Ephron che sotto i colpi implacabili di battute irresistibili, riflessioni intelligenti e constatazioni fortemente condivisibili seppellisce affanni e rancori verso l’intera categoria maschile, mettendoci una pietra, o una torta, sopra. Noi mettiamoci un libro. Accettando che nella vita si sbaglia, abituandosi con rassegnazione al caos sentimentale e venendo a patti con le nevrosi e le inevitabili complicazioni e delusioni che la vita comporta, l’autrice suggerisce la ricetta per essere donne intelligenti, autoironiche e vulnerabili, dimostrando che è possibile trasformare un fatto tragico in una commedia, basta continuare a usare il cervello quando il cuore va in tilt. Come dice Nora Ephron «preferisco che si rida di me piuttosto che mi si compianga». Vietato piangersi addosso, quindi, meglio riderci su. Ridere è liberatorio, fa bene al cuore e all’umore. Ridere è la migliore medicina. E comunque è sempre meglio ridere che farsi rodere.
Posologia
Il titolo originale di Affari di cuore è Heartburn che alla lettera può essere inteso come “bruciore di cuore”. Pertanto il romanzo è indicato soprattutto nel trattamento del bruciore di stomaco provocato da dispiaceri sentimentali e stress emotivi che, notoriamente, si somatizzano a livello gastrico. Consente di digerire tradimenti e delusioni amorose contrastando efficacemente il reflusso gastroesofageo correlato all’acidità che viene neutralizzata grazie all’alta percentuale di autocritica e autoironia, la cui azione combinata evita il rischio che la condizione di donna tradita degeneri in quella di erinni rancorosa.
Per attenuare il mal di testa (le corna pesano, il che si ripercuote anche sulla cervicale) e l’infiammazione del cuore, il romanzo è un’aspirina effervescente due volte più veloce contro il dolore. Grazie alla sua formulazione a base di simpatia e arguzia si assorbe più rapidamente di un’aspirina classica ed è facilmente digeribile L’alta percentuale di serotonina, “l’ormone del buonumore”, diluita tra le righe lo rende un utile alleato per rimediare ai danni cerebrali causati dal tradimento.
Si consiglia di assumere Affari di cuore a stomaco vuoto perché stimola l’appetito. All’efficacia catartica del divertimento, infatti, Nora Ephron unisce quella confortante e terapeutica del cibo. Sono tante le ricette che la protagonista condivide con i lettori mentre racconta la sua storia perché, come in tutta la produzione letteraria e cinematografica dell’autrice il cibo è sempre un modo per raccontare le persone, le situazioni, la vita. Per Rachel (e Nora) cucinare è una confortante sicurezza alla fine di giornate dure: sapere che la farina e il brodo caldo, aggiunti al burro fuso, si amalgano formando un composto cremoso, consente di poter essere certi di qualcosa in un mondo privo di certezze. Certo questo non funziona in caso di allergia ai fornelli, quando anche un bicchiere di latte e Nesquik viene fuori con i grumi, ma un momento di crisi potrebbe essere l’occasione per imparare una buona volta a stare in cucina oltre che al mondo (vedi a proposito anche i pancake con la Nutella).
Effetti collaterali
Come tutti i medicinali anche Affari di cuore può causare effetti indesiderati, sebbene non tutte le persone li manifestino. Tra questi è stato riscontrato il forte impulso di emulare il liberatorio lancio della torta in faccia al traditore, una pratica sportiva che dovrebbe essere inserita nelle Olimpiadi della sopravvivenza amorosa. È il modo in cui Rachel comunica al manto che il matrimonio è finito. Nonostante ne sia innamorata decide che non può fare finta di niente (perché a lui andrebbe bene lasciare tutto com’è, ovvero non dover rinunciare né alla moglie né all’amante), non vuole più stare zitta e sceglie di lasciarlo in modo estremamente teatrale. Nonostante sappia che probabilmente resterà sola e che sarà dura, non vuole vivere nell’incubo di doversi tenere stretto il marito frugando nel suo cassetti e domandandosi dove sia ogni volta che non c’è, non vuole avere sul cuore una bomba inesplosa di rabbia, sofferenza e lacrime. Meglio esplodere, magari lanciando una torta. Da notare la forma patologica tipicamente femminile manifestata dalla protagonista quando, nel momento in cui sta compiendo il gesto più coraggioso e avventato di tutta la sua vita, si rallegra che il lancio avvenga in cucina dove il pavimento è di linoleum, che è più facile da lavare. Ai primi sintomi di prurito alle mani si consiglia di compiere il folle gesto (oh, io non vi ho detto niente e non mi assumo nessuna responsabilità) con la torta al limone di Rachel (trovate la ricetta nel libro), conservandone una fetta per celebrare l’evento. Se pensate che il vostro ex non meriti neanche il tempo necessario a preparare un dolce, compratene uno già fatto, ma che sia farcito con panna, crema o cioccolato. Anzi, meglio se con tutti e tre.
Consigli
Cimentarsi in cucina, magari provando una delle ricette della protagonista, potrebbe aiutare a stare meglio. Se vi sentite particolarmente giù di morale, preparatevi un purè perché, a detta di Nora Ephron «non c’è niente come un purè quando ci si sente a terra» (effettivamente anche la sua consistenza assomiglia allo stato semidenso e “spappolone” in cui versa l’umore di chi è sentimentalmente depresso). Sembra che le patate siano ottime per fare da contorno alle varie fasi dell’innamoramento. Se crude sono un vecchio e noto rimedio casalingo contro le bruciature, cotte a dovere riducono l’infiammazione e calmano il dolore anche in caso di scottature amorose. Sotto forma di purè, al forno, fritte, lesse o al cartoccio (tanto sono buone comunque) s’invita a consumarle rigorosamente a letto, leggendo il libro o guardando il film che ne è stato tratto.
Terapia cinematografica sostitutiva
Sceneggiato dalla stessa Nora Ephron, Heartburn - Affari di cuore è diretto da Mike Nichols, regista estremamente sensibile nel raccontare il mondo femminile. Meryl Streep è un’allibita e disorientata Rachel mentre Jack Nicholson, con la sua aria furfantesca da irresistibile canaglia (per la sua alzata di sopracciglio
ci vorrebbe il porto d’armi), rende più comprensibile quella forma di perversione per la quale una donna intelligente perde la testa per un uomo che, sentimentalmente parlando, è un gran bastardo (il vero marito di Nora Ephron, a cui il personaggio è dichiaratamente ispirato, era Carl Bernstein, uno dei giornalisti del caso Watergate, quindi non il primo babbeo di passaggio) perché chi è brillante nel lavoro non lo è necessariamente anche in amore, che della vita è un capitolo a parte per il quale serve intelligenza ma anche sensibilità. E purtroppo le due qualità non sempre vanno d'accordo. Nel passaggio al grande schermo l’incontenibile ironia delle riflessioni della protagonista sfuma in una maggiore malinconia dovuta alla scelta di Mike Nichols di insistere sulla dolorosa presa di coscienza che a volte non può esistere una seconda possibilità. In questo modo il film diventa soprattutto un'amara riflessione sul matrimonio e sulla fragilità delle illusioni su cui poggia la vita di coppia.
Suggerisco di allietare, la proiezione con una fetta di torta al limone (magari quella conservata prima del lancio), purè di patate o budino di riso, seguendo ovviamente la ricetta di Nora.
Nora Ephron è la sceneggiatrice di un film cult come Harry ti presento Sally nonché la regista di Insonnia d'amore, C'è posta per te, Julie & Julia. La visione di questi film è sempre consigliata in qualsiasi percorso di ricerca della felicità.

Commenti

Pur avendo letto solo questo libro, ho visto tutti i maggior film diretti e sceneggiati da Nora Ephron, e li ricordo tutti per lo stato di gentile allegria che mi hanno trasmesso.
Nora Ephron “Affari di cuore” Corriere della Sera Cucina 19 euro 7,90
[trama scritta il 1 agosto 2016 e non pubblicata]
Nora è stata (purtroppo è morta di leucemia 4 anni fa a 71 anni) una donna di lettere che in una delle sue incarnazioni, quella di sceneggiatrice, ho venerato per l’arguzia e la comicità che sapeva infondere alle sue trame. Non c’è bisogno certo di ricordare che il suo più grande successo fu “Harry ti presento Sally” (“When Harry Met Sally”). Ma prima di questo picco, sceneggiò nel 1986 il film “Heartburn” con Meryl Streep e Jack Nicholson, a partire proprio da questo saggio – romanzo – nonsocomeclassificarlo, che scrisse nel 1983. Perché questa è in realtà una “novel”, una novella, un ricordo autobiografico traslato, punteggiato di momenti di vita, ed infarcito, giustamente visto che siamo nel lato “Storie di cucina”, con qualche ricetta. Intanto, il titolo, che in realtà “Heartburn” sta ad indicare in inglese “bruciori di stomaco” o, meglio “indigestione”. Ed anche se si parla, se ne è il filo conduttore, la storia di vita e d’amore della stessa Nora, è per l’indigestione, per la pesantezza di stomaco che le viene dalla difficoltà di vita con il suo secondo marito, che nasce il libro, che nasce la storia. Un romanzo ricco di spunti divertenti, a metà strada tra romanzo di vita e libro gastronomico. La narratrice, Rachel Samsat (Nora) è un’esperta di cibo e nel libro sono presenti ricette (quindici per l’esattezza) a metà strada tra la tradizione americana e quella ebraica (dal cheesecake ai russli). Ma tutto questo cibo, anche tutta questa dolcezza non fa diminuire il dolore di una donna incinta al settimo mese che scopre il tradimento del marito. Rachel è sposata con Mark Feldman (Carl Bernstein nella realtà, uno dei due giornalisti che condusse l'inchiesta che svelò i retroscena dello scandalo Watergate, spingendo il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon a rassegnare le dimissioni). Rachel, newyorchese, si è trasferita a Washington per sostenere la carriera del marito. Hanno una figlia e Rachel è incinta del loro secondo figlio. La capacità narrativa di Nora ci fa viaggiare all’interno di questa coppia intellettuale della middle class americana, con tutte le sue nevrosi e tutti i suoi tormenti. Infarcita di aneddoti che ce la rendono cara e divertente. Mark che si tormenta perché non trova i calzini. Rachel che, per superare i suoi momenti di crisi, affronta una terapia di gruppo. Contrappuntando la narrazione con quelle ricette buttate lì come se niente fosse, un po’ per prendersi in giro (come dovrebbe scrivere un libro di ricette) un po’ per prendere ogni tanto le distanze dai dolori quotidiani. Fatto sta che Rachel scopre la tresca di Mark con Thelma Rice (in realtà, Margaret Jay figlia dell'ex primo ministro britannico James Callaghan). Facendo scattare i suoi primi veleni (Rachel va dicendo in giro che Thelma è affetta da malattie veneree). Punto nodale della trama è il furto di un prezioso anello di Rachel al termine di una seduta della terapia di gruppo. Il ladro viene preso, l’anello restituito, ma ha le pietre allentate. Rachel lo porta al gioielliere di famiglia dove scopre che mentre lei era in ospedale per il parto Mark aveva comperato una costosa collana per Thelma. Allora lei, nascostamente, vende l’anello e con i soldi si può permettere di tornare a New York e riprendere la sua vita come prima del tradimento. Ma il bello non ci sarebbe se non arrivassimo alla scena madre, al modo per Rachel di capire e di far capire che il matrimonio è finito. Sono ad una cena da amici e Rachel ha portato una torta di lime fatta da lei. Si spettegolezza su matrimoni e coppie in crisi e Rachel capisce che Mark l’ha tradita anche prima di Thelma e che lo farà ancora. Non riesce a convivere con l’idea di stare con Mark sapendo di non essere rispettata. Se lui non la ama, lei deve prendere la torta e gettargliela in faccia. Lo farà? Chi ha visto il film lo sa. E noi sappiamo che ammiriamo Rachel-Nora perché saprà ricostruirsi una vita a partire da queste ceneri. Tanto che cinque anni dopo finalmente troverà il partner definitivo in Nicholas Pileggi, che sarà con lei fino alla fine. Il libro l’ho trovato discretamente divertente, anche se nessuna delle ricette mi ha veramente incuriosito. Mi ha anche dato un nuovo pilastro alla costruzione della visione femminile sul tema dell’infedeltà, costruzione che poggia sulle altre gambe con Siri Hustvedt (“L’estate senza uomini”) e Elena Ferrante (“I giorni dell’abbandono”). Forse questo, oltre la simpatia per l’autrice, l’ha fatto lievitare un po’ sopra quella sufficienza che da solo forse non avrebbe raggiunto.

Finalino


Ovvio che Nora ed i suoi mi mettano il buonumore, anche se a Rachel e Mark preferisco Meryl e Jack. E soprattutto vorrei l’indirizzo del ristorante per prenotare un’insalata “alla Sally”. Quella sì che fa passare tutti i mali…

domenica 8 gennaio 2017

L’equilibrio di Biancaneve - 08 gennaio 2017

Riprendiamo le trame domenicali, dopo il turno epifanico straordinario. Dedicando il titolo ai due gialli che, in questo quartetto, si innalzano sugli altri. Il ritorno dell’avvocato Guerrieri di Carofiglio ed il bell’intreccio tedesco di Neuhaus. Dispiace per la Pastor, ma questa mia prima lettura non mi ha convinto. Ancor di più l’inutile libro del finto Castle (meglio la serie TV, e di molto).
Richard Castle “Heat Wave” Repubblica Agenda Noir 12 euro 7,90
[A: 14/09/2015– I: 30/06/2016 – T: 02/07/2016] - && e ½  
[tit. or.: Heat Wave; ling. or.: inglese; pagine: 253; anno 2009]
Molti di voi sanno che, non avendo televisione in casa, non seguo in modo particolare nessun fremito che esce dal tubo catodico. Pur tuttavia, spesso con Alessandra, mi capita di vedere alcuni episodi di qualche serial. In quest’ambito, uno dei due che tuttavia non disdegno (pur nella sua semplicità rispetto ad altri che mi dicono meglio realizzati) è la serie TV “Castle” (inciso, l’altro, di maggior interesse culturale, almeno per me, è “Elementary”, blandamente basato su una modernizzazione del vecchio caro Sherlock Holmes). In “Castle” c’è uno scrittore di gialli, Richard Castle, che si accoda ad un gruppo investigativo del NYPD per seguire dal vivo le indagini poliziesche e trarne spunti per i suoi libri. Castle è uno scrittore, e durante gli otto anni della serie scrive anche libri, e capita (nella fiction) che se ne parli, magari per farne promozione. Gli autori della serie, allora, per sfruttare la pubblicità indotta, ecco che riescono a produrre un divertente spin-off. Prendono un medio autore americano (pare che sia Tom Straw, anche se non ci sono notizie certe) e gli fanno scrivere dei libri che hanno il titolo di quelli che Castle cita in TV. Poiché poi Castle televisivo fa anche accenni di trama, ecco che una buona parte del libro risulta già scritta prima di cominciare. Come succede in questo “Heat Wave”, cioè “Ondata di calore”, riferita all’afa di un’estate newyorchese. Come sanno poi coloro che seguono la TV, nel libro sono riversati sotto altro nome i personaggi televisivi. Il personaggio principale si sposta sul detective Nikki Heat, basato sul personaggio di Kate Beckett, che si innamora di Castle (e poi lo sposerà) e qui ovviamente si incontra-scontra con l’avatar dello scrittore, il giornalista Jameson Rook. Tra i maggiori altri co-protagonisti abbiamo Margaret Rook (la madre di Castle Martha Rodgers) ed i due detective Miguel Ochoa (cioè Javier Esposito in TV) e Sean Raley (cioè Kevin Ryan in TV). Ma se la serie TV ha un suo piccolo fascino, questo libro indotto ne ha veramente meno. La trama è orecchiata da spunti diversi degli episodi, e, come detto, i personaggi fanno le mosse che ci si aspetta da chi conosce la serie. Da sottolineare però che questo è il primo libro della serie di Nikki Heat, quindi serve al Castle scrittore per mettere “in bella luce” la poliziotta di cui sappiamo essere innamorato. Ed ovviamente, forzando il passo, l’autore del libro farà in modo, ad un certo punto, anche senza troppi preliminari, che Nikki e Jameson finiscano a letto. Quasi che lo scrittore tenti di mandare messaggi al polizotto del film. Insomma, sarebbe carino se l’autore, cioè Tom Straw, sapesse barcamenarsi tra le varie strutture (film che rimanda al libro che rimanda al film). Purtroppo non ne ha le capacità, ed il libro in sé non ha un particolare interesse. Tanto che la quasi sufficienza mi viene solo perché mi sono piaciuti gli episodi televisivi. Mentre qui, entrando nel merito, c’è la morte violenta per defenestrazione (come direbbero i comunisti ungheresi del ’56) di un immobiliarista, Matthew Starr. Nikki, indagando sulla persona, scopre ben presto che: la giovane moglie Kimberly lo tradiva da tempo (e più di una volta), il suo segretario Noah cercava di coprirne gli ammanchi finanziari con magie contabili (coprendo anche qualche buco che lui stesso creava), e lo stesso Matthew era in una situazione disperata. A corto di soldi, perseguitato da allibratori cui doveva cifre ragguardevoli, con un’unica arma a suo vantaggio: la sua collezione artistica, eterogena ma di valore. Sarà proprio questa però che lo porta alla rovina. Avendo necessità di contenti vuole venderla e la fa valutare da Sotheby’s. Ma la collezione è un falso, i quadri veri sono spariti da tempo. Per questo, viene prima ucciso l’esperto della casa d’aste, poi Matthew stesso, poi il sicario che avrebbe dovuto uccidere Matthew. C’è qualche momento d’azione (come nel film), c’è sempre Jameson-Richard che si mette nei guai ed è salvato da Nikki. C’è la soluzione del caso, che arriva nelle ultime pagine per chi voglia leggerlo tutto, ma che è già pronta sin dalla metà del libro stesso. Tutto il resto è contorno, che serve per far comprare il libro a chi vede la televisione. Insomma, la domanda reale è perché si sia voluto inserire questo episodio-libro in una collana di Noir. Non ne ha l’altezza, con quella scrittura un po’ stiracchiata, quegli ammiccamenti che vanno bene sul piccolo schermo, ma qui sono deludenti. Un esempio? Nelle prime pagine, quando Matthew cade dal cielo, Ochoa e Raley cominciano a cantare “It’s raining man” di Geri Halliwell (e già questo fa penare), per poi imbarcarsi con Rook sulla ricerca degli autori del brano. Per poi, alla fine, dimenticare di dirci la soluzione (per chi fosse curioso gli autori sono Paul Jabara e Paul Shaffer, e quella di Geri è una cover, che il brano fu lanciato da un gruppo denominato “Weather Girls”). Passiamo velocemente oltre, please.
Nele Neuhaus “Biancaneve deve morire” Repubblica Mondo Noir 13 euro 7,90
[A: 29/09/2014– I: 20/09/2016 – T: 23/09/2016] - &&& e ¾   
[tit. or.: Schneewittchen muss sterben; ling. or.: tedesco; pagine: 459; anno 2010]
Notizie false e tendenziose: gli scrittori tedeschi, da Goethe in poi, sono pallosi. O meglio gli scrittori che scrivono in tedesco, così che ci mettiamo anche gli svizzeri, gli austriaci e qualche altro sparso per il globo. Ecco poi che ti arriva questa donna, Cornelia Neuhaus detta “Nele” (con quel cognome che in italiano sarebbe Casanova), che scrive un bel noir, con una bella trama ed una bella scrittura. Tra l’altro, una scrittrice ostinata, visto che i primi due libri se li pubblica da sola poiché gli editori tedeschi si tiravano indietro. Poi, visto il successo, si piazza con una buona casa editrice, e comincia a sfornare altri libri, anch’essi d’interesse. Come questo, ovvio, che tuttavia ha un piccolo difetto che non lo fa svettare su più alti lidi. È il quarto libro che Nele dedica alla coppia di investigatori Oliver von Bodenstein e Pia Kirchhoff. Purtroppo, qualche parte delle loro storie irrompe anche in questa, e non è ben gestita. Non tanto la storia di Pia, che i suoi problemi di casa vengono ben affrontati da lei e dal suo compagno. Quanto la lunga storia di vita di Oliver e Cosima, che è giunta al capolinea ormai, dopo quanto? Venticinque anni ed una figlia grande. Ma l’intreccio di rabbia, gelosia ed altre componenti non pertinenti all’amore lo sentiamo esterno, non ne penetriamo i misteri, che forse erano presenti nei primi tre libri. Quindi ci rimane un elemento di fastidio, che poteva anche essere omesso dal corpo della trama senza recar danno. E noi li omettiamo, questi elementi storico-seriali, per rimanere sul filone principale della narrazione e sul sapiente intreccio che ne fa la scrittrice. Una trama che viene da lontano, che inizia dieci anni prima con la morte (presunta) di due ragazze diciassettenni. Della loro morte viene accusato Tobias, che prima stava con Laura, poi la lascia per Stefanie. Accusato e condannato senza prove (lui non ricorda nulla che quando si ubriaca perde conoscenza), ma è minorenne e fa solo dieci anni di prigione. Per tutto il libro, quando ogni tanto si va con la lente della scrittura vicino a Tobias, si sente la sua impotenza di non ricordare, di domandarsi se, d’altronde, fosse anche possibili che lui sia il colpevole. Tutta la storia deflagra quando Natascia, un tempo sodale dei ragazzi del paese ed ora diva di successo con il nome di Nadja, lo prende dal carcere e lo porta nella cittadina teatro delle tragedie. La cittadina di Altenhain, realmente esistente nella regione di Taunus, contornata dai due grandi fiumi tedeschi, il Reno ed il Meno, nonché vicina alle città di Francoforte e Wiesbaden. Ma che rimane cittadina di provincia, dove, come in tutte, sembra che ci sia molto da nascondere, che tutti sappiano tutto degli altri, anche cose che non si dovrebbero sapere, e che si faccia a gara di non aprirsi all’esterno. Che rimanga tutto tra noi, che ci si lava i panni in casa. Tanto che venne quasi fatta terra bruciata intorno alla famiglia di Tobias. Nessuno va più alla locanda del padre, che si riduce in miseria, tanto che la madre se ne separa. Ma all’arrivo di Tobias, casualmente, resti umani vengono scoperti vicino al vecchio aeroporto militare e la madre di Tobias viene fatta precipitare da un cavalcavia ed entra in coma. Qui entrano in gioco Oliver e Pia. Qui entra in gioco anche la giovane Amelie, stranamente somigliante a Stefanie, giovanottina simpatica, cameriera di una birreria locale, che entra presto in sintonia con Tobias. E con l’autistico Thies, un ragazzo che se potesse parlare saprebbe dire tante cose. Sa solo disegnare, e bene. Quando l’ostracismo locale si fa pressante, vengono messi in gioco i potenti locali: Claudius Terlinden (il padre di Thies e del suo gemello, normale, Lars) ricco e sembra gran filantropo, ma in realtà padrone di quasi tutta la città, Demetra Lauterbach, un tempo moglie del fratello di Claudius, poi, alla morte di questi, sposa il più giovane di venti anni Gregor, facendogli fare una grande carriera politica, sino alla nomina a ministro di qualche cosa. Poi ci sono i giovani ex-amici di Tobias. Infine c’è Natascia-Nadja, l’unica donna del vecchio gruppo, sin da giovane innamorata di Tobias, e macerantesi nelle scelte che questi fa verso tutte le donne del mondo, esclusa lei. Sono i disegni di Thies che fanno capire tutto il meccanismo perverso che c’è dietro le morti antiche. Sono questi disegni che costringono una delle persone implicate a vario titolo nella vecchia storia ad organizzare il sequestro di Amelie ed altre nefandezze. Seguiamo tutto con il fiato sospeso, che anche se lungo lo scritto non è prolisso. Arriveremo anche alla fine, dove, già sappiamo, ovvio, che Tobias non uccise le due dieci anni prima. Ma riuscirà ora a salvare Amelie? Riuscirà con Amelie, con Pia, con Oliver, a mettere la parola fine a tutto questo? Chi e quanti si salveranno? Non dispiace questa corsa finale, di cui non vi dico molto. Anche se alcune cose, alcuni dettagli, alcune ammissioni, avvengono un po’ in modo anodino. Quasi non dico inaspettato, che sappiamo, vediamo, capiamo. Ma, questo forse il secondo punto debole, che dico qui, dove pochi di voi arriveranno, Nele alcune “soluzioni” le lascia uscire un po’ troppo facilmente. Tuttavia, ripeto e sottolineo, è un bel noir con un ritmo intenso, con qualche pagina di troppo (le storie pregresse di Oliver, alcuni modi di restituirci le angosce di Tobias o di Amelie). Non è escluso che si cerchi altro di questa scrittrice. Finale disvelante: la storia cerca di avere un andamento fiabesco, con buoni e mostri come nelle fiabe dei fratelli Grimm, e come nelle fiabe, Stefanie era tanto bella che veniva chiamata Biancaneve. Ma c’era anche qualcosa d’altro, tanto che, come dice il titolo, “deve morire”. A voi la lettura.
“Per quanto riguardava il sesso era ancora un novellino. Rispetto a ciò che aveva fatto con lei, le esperienze del passato sembravano piuttosto infantili.” (109)
“L’ho fatto solo perché voglio vivere con te … Sappi che non ti libererai di me tanto facilmente.” (454)
Gianrico Carofiglio “La regola dell’equilibrio” Repubblica Agenda Noir 5 euro 7,90
[A: 27/07/2015 – I: 26/09/2016 – T: 28/09/2016] - &&&& --
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 269; anno 2014]
Eccoci di nuovo alle prese con l’avvocato Guerrieri, protagonista dei primi, entusiasmanti romanzi di Gianrico Carofiglio, che, letti ben prima dell’inizio di queste trame, mi avevano fatto innamorare del personaggio e dell’autore. Dopo un lungo intermezzo ne uscì un quarto (“Le perfezioni provvisorie”) di cui parlai sei anni fa. Poi Guerrieri scompare nei meandri di altre cose scritte, dette e fatte dall’autore. Ne ho letto ora, in questa dignitosa collana di Repubblica, con un sentimento ambivalente. Mi aspettavo qualcosa di più dalla storia, che invece è debole ed in alcuni punti scontata. Anche se mette al centro una domanda etica di non facile risposta, almeno per un avvocato. Tuttavia il libro, i libri di Carofiglio hanno sempre qualcosa d’altro. Che invece mi è piaciuto, pur negli incisi lunghi, pur nelle seppur poche scivolate in dotti riporti. Forse è quel sentimento del passare degli anni, del capire che passano, e del tentativo, non velleitario, di opporre una barriera al tempo. Magari con la musica, magari con i libri, magari, forse meglio, con l’amore. La storia, quella dell’equilibrio, come detto è lineare, attuale, un po’ scontata a tratti. C’è un giudice noto per la severità delle sue sentenze che viene indagato per probabile corruzione, concussione o altro di tutte quelle possibili accuse che si hanno in questi periodi. Il giudice Larocca è amico dell’avvocato Guerrieri e chiede a quest’ultimo di assumere le sue difese. Tutta la prima parte è un po’ di reminiscenza di attività dell’avvocato, di sentenze, e di altre diavolerie giudiziarie. Torniamo pian pianino nel mondo di Guerrieri, però con dolenza, che gli anni passano anche per lui. Ed assistiamo alla costruzione della strategia difensiva per le disavventure del giudice. Poi, una voce qua, una parola là, qualche zeppa si mette nel meccanismo, Guerrieri si comincia ad interrogare su alcune incongruenze, e farà presto ad arrivare a rispondersi che bisogna vederci chiaro. I suoi collaboratori, Carmelo Tancredi il poliziotto ed Annapaola l’investigatrice gli forniscono il materiale di supporto. Ora sta a lui decidere come agire. Ci sono una decina di pagine nel finale che sono un po’ pompose e ridondanti, quasi un eco di quello che Carofiglio probabilmente (o almeno così immagino io) ha sentito durante la sua esperienza in Parlamento. Così fan tutti, è il sistema generale, non faccio male a nessuno, e via dicendo stupidaggini che servono solo a dire bugie a sé stessi (come da ultima frase sotto riportata). Guerrieri tenta con le buone ed immagina le cattive. Cosa userà per mettere all’angolo Larocca? Non è una metafora, che ricordiamo che per scaricarsi, il nostro avvocato usa i guantoni ed un sacco da boxe (anzi Mr. Sacco, come lo chiama lui). Questo ve lo lascio volentieri scoprire quando avrete tempo di leggere questo libro che comunque merita. Per gli altri punti che dicevo prima. Per quell’ipocondria che prende ad una certa età, quando ci si sente attenti ai segnali del corpo, quando il medico ci chiede delle analisi, quando possiamo passare dal bianco al nero senza che ce ne accorgiamo. D’altra parte, per quella parte di amore che mai ci abbandona. Ci sarà pure differenza di età ed atteggiamenti della vita, tra Guido e Annapaola, ma quando qualcuno decide di mettersi in gioco, niente resiste. Questa la lezione che ci manda Carofiglio. Non è questione di salute, non è questione di età, è tutta una questione di volontà. Se ne potrà morire, ma avendo scelto la strada. Ovvio che poi noi si sta più dalla parte di Guido, perché noi, io cioè, mi ricordo di “Bella” cantata da Umberto Balsamo, e delle sue criniere di cavalli. Come ricordo l’empatia che ho provato a pagina 44, quando Carofiglio cita i titoli assurdi (così li definisce Guido) della sua infinta raccolta di libri. Quanti siamo a conoscere le “Meditazioni per la stanza da bagno. Massime di saggezza per la vita di tutti i giorni” di Michelle Heller o le “101 cose che devi sapere per combattere l'insonnia” di Elena Barbàra? Ma soprattutto io posseggo ed ho letto “Come Proust può cambiarvi la vita” di Alain de Botton. Quanti punti ho vinto? Spero almeno quanti me ne riserverà qualche prossima lettura del nostro avvocato, magari al ritorno da una gita in moto in Valdichiana.
“Quando entro in una libreria i miei freni inibitori si disattivano. Posso acquistare di tutto.” (44)
“Mi sembra di essere nel mezzo di un movimento centrifugo. Cose e persone si allontanano da me mentre io resto fermo.” (138)
“Era stata una bella serata, era piaciuta ad entrambi, ma non poteva avere un seguito … Era stata una piacevole digressione, nulla di più.” (195)
“La regola dell’equilibro morale consiste … nel non mentire a noi stessi sul significato e sulle ragioni di quello che facciamo e di quello che non facciamo. Consiste nel non cercare giustificazioni, nel non manipolare il racconto che facciamo di noi a noi stessi e agli altri.” (251)
Ben Pastor “Luna bugiarda” Repubblica Agenda Noir 16 euro 7,90
[A: 10/10/2015– I: 14/10/2016 – T: 16/10/2016] - &&+  
[tit. or.: Liar Moon; ling. or.: inglese; pagine: 267; anno 2001]
Dato il mio vizio di evitare di leggere risvolti e quarte di copertina, mi sono sorbito tutto questo libro pensando ad un Ben(iaminio) magari amante delle guerre ed altri ammennicoli. Alla fine, leggendo la postfazione scopro invece che Ben Pastor è una signora italo-americana che all'anagrafe fa Maria Verbena (Ben) Volpi (nome del padre) Pastor (nome del marito), ed è docente di Scienze Sociali oltreoceano. Non è che questo stravolga il giudizio complessivo su un’opera che ha degli spunti interessanti, ma che non risulta avvincente e coinvolgente come dovrebbe essere. Comunque, dati gli interessi dell’autrice, è una storia ben collocata nella realtà italiana, anche se datata e incastonata in una memoria collettiva descritta in mille e mille storie (anche se forse dei lati non chiariti sono sempre presenti). Il protagonista dei questa (e di molte storie della Pastor) è l’ufficiale tedesco di stanza in Italia, Martin Bora. Il cui nome completo in realtà è Martin-Heinz Douglas Wilhelm Friederick von Bora. Quindi un nobile, come verremo a sapere da questa ed altre storie, nato nel 1913 ad Edimburgo da padre direttore d’orchestra e madre scozzese. Alla lontana, Pastor modella il nostro Martin sulle sembianze del colonnello Claus Schenk von Stauffenberg (quello che nel 1944 fu autore del fallito attentato a Hitler). Quindi ufficiale integerrimo verso le gerarchie militari, ma non supino alle ordinanze nazi-fasciste. Tanto che capiamo che ha fatto e che fa fuggire ebrei per non doverli deportare nei campi di concentramento. Ma da soldato combatte, con tutte le forze, contro partigiani e lealisti, considerandoli “banditi”. Certo, non ha simpatia verso i fascisti d’accatto, in particolare quelli che poi si riuniranno sotto le bandiere di Salò. Ma si trova di stanza vicino Verona, ha risolto altri casi complicati in Polonia (almeno a quanto traspare da alcune frasi), quindi lo stato maggiore tedesco lo invia alla ricerca di una spiegazione e della ricerca di un colpevole per la morte violenta di tal Vittorio Lisi, maggiorente fascista locale. Il tutto complicato dal fatto che, proprio nelle prime pagine, Martin subisce un attentato con la conseguente asportazione della mano sinistra, ed uno stato di non perfetta lucidità dovuta alle schegge di granata nella gamba. Certo, è comunque Martin-Superman, visto che solo due settimane dopo il “taglio”, prende in mano l’inchiesta (ovviamente con la mano rimasta) e si comporta come se avesse da sempre avuto una mano in meno. In vero, poco credibile. Comunque, il “nostro” Martin viene da subito affiancato da un ispettore di polizia locale, Sandro Guidi, che agisce un po’ da “mano” di Martin, anche se, rispetto all’impassibile tedesco, si lascia coinvolgere dalla trama. Dalla “povera” Clara, moglie da poco separata da Vittorio, bella e indiziata del delitto. Martin invece non è convinto, ed indaga sulla personalità di Lisi, fascista dalla marcia su Roma, dove venne investito, perde l’uso delle gambe, viaggia su di una sedia a rotelle, ma non per questo perde la sua virilità. Vitalità che invece preoccupa Martin, non perché con una mano in meno…, ma la lontananza dalla moglie Benedikta induce pensieri necrofori. Intanto vediamo che oltre ad aver messo incinta signore e signorine qua e là, con conseguenti aborti e talvolta morti sui tavoli operatori, Lisi non si peritava di fare l’usuraio, mettendo nella sua rete sia il caporione locale, il fascista-macchietta De Rosa, sia il notabile di campagna, tal Moser, nella cui villa avita, la “Villa della Mezzaluna”, nel Settecento, passò e suonò il giovane Mozart. Anche Clara non disdegna la bella vita, magari con qualche suo ex, e via straziando cuori, tanto che, in carcere, scoprirà di essere incinta. Alla fine, a pochi si ridurranno i sospetti: l’ex di Clara, tal Carlo, la suddetta Clara ed il nobile Moser. Il tutto legato ad una “C” che Lisi graffia sul selciato. O era qualche cosa d’altro come parrebbe suggerire il titolo? Intanto imperiamo anche il detto latino “Luna Mendax”, dove si discetta di lune crescenti e calanti e delle lettere che le indicano. Alla fine, sarà ovviamente Bora a tirare le fila di tutto, portandoci alla soluzione. Un po’ moscia, ma comprensibile. Come capibile (ma fin dalle prime righe) l’atteggiamento anti-hitleriano del maggiore, e la sua sospettabilità verso le gerarchie. Capibile l’atteggiamento un po’ da “galletto” di Guidi, che ne rimarrà scottato. Con un contorno macchiettistico della madre di Guidi e del suo sottoposto siculo. Però sempre in tono minore, come, appunto, un Mozart con la sordina. Si, abbastanza ben scritto, con una buona conoscenza della storia italica. Ma non tale da creare una spasmodica voglia di leggerne altro. Alla prossima Verbena, ma non sappiamo quando.
Essendo la seconda domenica del mese, ecco che vi propino una nuova puntata di trame e malattie, dedicata questa volta al mal d’auto ed a come evitarlo andando in treno.
Per il resto dobbiamo solo registrare l’avanzante freddo che ci taglia il viso e rallenta le azioni, anche se non si demorde per l’attesa e la programmazione dei viaggi. Si salutano amici che si spostano (bye Vito, see you in London), amici che transitano (un forte abbraccio a Raoul e Viviana), amici che tornano (magari dal Senegal…). 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

GENNAIO 2017
Iniziamo il nuovo anno con una ripassata ad un nuovo malore come ci suggeriscono le nostre ormai usuali libropeute. Come dicono subito, se soffrite in auto, prendete il treno. Magari soffrite anche lì ma avrete tempo e modo di leggere.

MAL D’AUTO

Se soffrite di mal d’auto, scendete e prendete il treno. I viaggi su rotaie offrono opportunità senza precedenti per immergersi in un libro. Quando, altrimenti, si avrebbero a disposizione, e senza sensi di colpa, alcune ore in cui non fare altro che leggere in anonima compagnia di altri lettori, e con un panorama sempre diverso fuori dal finestrino? Anche gli scrittori, a quanto pare, adorano i treni, che usano per lanciare i personaggi verso un futuro sconosciuto. Inoltre, lungo il tragitto sarà sempre possibile allacciare qualche inatteso legame...
I DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE SU UN TRENO

 Agatha Christie           Assassinio sull’Orient Express
 Michael Crichton          La grande rapina al treno
 Graham Greene          Il treno d'Istanbul
 Patricia Highsmith        Sconosciuti in treno
 Bohumil Hrabal           Treni strettamente sorvegliati
 Ben Lerner                 Un uomo di passaggio
 Edith Nesbit               I figli della ferrovia
 Philip Roth                 Pastorale americana
 Georges Simenon        L’uomo che guardava passare i treni
 Mario Vargas Llosa      Chi ha ucciso Palomino Molero

Bugiardino

Guà cominciamo bene, che anche io sono un estimatore della lettura in treno. Inoltre, di questi dieci libri, ne ho letti sette, ma ve ne propongo “solo” cinque. Infatti, Hrabal lo lessi sulla soglia dei quaranta, in un periodo di passione per le letterature dell’Est (e compravo E/O a spron battuto). Mentre la Highsmith lo avevo letto ancora prima, sull’onda del magistrale film che ne trasse l’inarrivabile Hitchcock (che in Italia passò sotto il titolo “Delitto per delitto”!!!). Gli altri treni ne ho letto in tempo di trama, e ve li propongo in ordine di lettura.
Agatha Christie “Assassinio sull’Orient-Express” Repubblica/CSGM euro 3,90
[trama pubblicata il 15 novembre 2009]
Dopo aver visto non so quante volte il film, finalmente ho il tempo e la possibilità di leggere il libro. Che maestria. Quanti anni ha? Circa 75, ma, a parte alcuni elementi d’epoca, la trama è perfetta, l’intreccio singolare, e la soluzione di Poirot magistrale. Il plot è stupendo: un omicidio in un vagone dell’Orient-Express bloccato tra i monti jugoslavi dalla neve. Una dozzina i possibili sospetti con l’aggiunta della presenza casuale di Poirot, che comincia ad indagare. Un’indagine di parole, dove accompagniamo il buon belga a spasso tra le cuccette per scoprire indizi, e nel vagone ristorante ad interrogare a più riprese i vari personaggi. Affastellando informazioni, tutte utili per arrivare insieme a Poirot alla soluzione (o alle soluzioni, in quel gioco magistrale di finali e sottofinali che fanno la maestria della scrittrice). Non ci sono elementi esterni, nessun deus ex-machina che interviene portando soluzioni imprevedibili. Tutto al solito è lì, sul piatto. Bisogno solo saperlo vedere. Certo, a volte leggendo, i volti degli attori vengono dietro le palpebre a rendere più robusto questo the inglese con velo di latte. Ripenso allora ai vari Albert Finney (Poirot), Lauren Bacall (Mrs. Hubbard), Ingrid Bergman (Greta Ohlsson), Jacqueline Bisset (Contessa Andrenyi), Sean Connery (Colonnello Arbuthnot), John Gielgud (Beddoes), Anthony Perkins (Hector McQueen), Richard Widmark (Ratchett) o Vanessa Redgrave (Mary Debenham). Che cast per questo grande film del… Vi ricordate che anno era? E poi ripenso anche alle vicissitudini della scrittura e della scrittrice. Infatti, il romanzo fu scritto dalla Christie durante un suo soggiorno a Istanbul, nella stanza 411 del Pera Palas Hotel, oggi adibita a piccolo museo in suo onore. Inoltre, durante il regime fascista in Italia, il romanzo, alla sua prima pubblicazione ebbe diverse "censure". Il personaggio italiano naturalizzato americano Antonio Foscarelli divenne, infatti, un brasiliano di nome Manuel Pereira mentre la vittima, anziché avere il cognome italiano "Cassetti" venne ribattezzato chi sa perché "O'Hara". Ma alla fine di tutto, del libro, degli attori, della scrittura, rimane lei, Agatha e tutta la bravura di una pennivendola di grande classe.
Philip Roth “Pastorale americana” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama pubblicata il 30 ottobre 2011]
Una palla mega-galattica. E continuo a convincermi, anche se ne ho letto molto poco, che Philip Roth non è un autore a me congeniale. Certo, in gioventù mi aveva affascinato “Il lamento di Portnoy”, ma per due evidenti motivi: le scene di sesso che da adolescente sembravano fantastiche ed il sentirsi sempre un po’ out, un po’ perdente, del protagonista. Non so che effetto mi farebbe ora. Forse lo stesso di questa Pastorale, salutata come il capolavoro dell’autore. Ed è in dubbio che abbia una signora scrittura. Soprattutto per la lunga scivolata che fa dal soggettivo dell’inizio, dove parla in prima persona l’alter-ego dell’autore, lo scrittore Nat Zuckerman, che viene chiamato dal fratello del suo grande compagno di gioventù, dal “grande Levov lo svedese” che dice voler fargli scrivere la storia di suo padre, grande guantaio di Newark, all’oggettivo del resto del libro. A poco a poco, infatti, Roth-Zuckerman passa ad introdurre la famiglia Levov, passando per Jerry il suo compagno, ora cardiochirurgo pluridivorziato, e poi centrando il tutto proprio sullo Svedese. Chiamato così non perché lo fosse, anzi è un ebreo come tutti i personaggi clou di Roth, ma perché alto e biondo e da giovane pluridecorato campione degli sport americani studenteschi (football, baseball e pallacanestro). E ne traccia la parabola, dai fasti giovanili, al matrimonio, lui ebreo, con la cattolica Dawn ex-miss New Jersey 1949, alla nascita della figlia Meredith detta Merry. Dalla balbuzie giovanile di Merry alla grande catarsi, quando Merry si avvicina ai gruppi contrari alla guerra del Vietnam, mette un ordigno scoppiettante in un emporio e provoca la morte di un uomo. E passa tutta l’ultima parte del libro a farsi pippe su pippe, in soggettiva su Levov, se questo, se quello, e perché ho avuto una figlia così, e le crisi depressive della moglie, ed il suo tradimento con Sheila, e quello della moglie, e soprattutto, pagine su pagine su come si fabbricano i guanti. L’ho letto un po’ alla Totò (“vediamo dove va a finire…”) ma più andavo avanti e meno mi convinceva. Per terminare (non la lettura, ma il punto più alto di scassamento) con le dieci pagine dell’interrogatorio di Levov padre alla cattolica Dawn su perché vuole sposare suo figlio lo Svedese. Sarà un compendio delle paranoie ebree, ma stavo quasi per cestinarlo, nonostante si stava già a pagina 400! Certo, in tutto il libro, così come una grande elegia, Roth passa in rassegna i grandi stereotipi americani. Il mito del successo, della bellezza, repubblicani contro democratici, come aver successo, barbecue in camicia hawaiana, la frattura della morte di JFK, la guerra del Vietnam come momento mai risolto della convivenza locale, la spocchia dei borghesi radical-chic tutti pieni di parole. Ma stancamente, senza riuscire a farmi emozionare per più di mezza battuta. Mi è sembrato più incisivo e dirompente l’età dell’innocenza della Wharton, pur ambientato quasi cento anni prima. Tra una pagina e l’altra, qualche momento Roth l’ha fatto anche rivivere, come la festa degli ex-alunni di liceo, con quel ritrovarsi cinquanta anni dopo “pieni di acciacchi e di sventure”. Ma poi, quando passa a narrare le vicende dell’allevamento di bestiame della moglie dello svedese, si ricade nella pura rottura di cabasisi. Come, ripeto, quando dedica pagine e pagine a descrivere come si fanno i guanti, e la pelle, e il taglio, e … che palle. Come quando, anche se non aiutato dalla traduzione, gioca con le parole. La moglie dello Svedese si chiama Dawn, che significa alba, e spesso al mattino in tarda età, lo Svedese si gingilla con “after and before Dawn”, non solo prima e dopo l’alba, ma anche prima e dopo del matrimonio. E la figlia Merry, utilizzando il nome come epiteto augurale, laddove la figlia è sempre un disastro completo. Anche se, più correttamente, noi diremmo che un disastro è il modo con cui viene cresciuta da genitori incapaci e inadeguati. L’unico punto a favore, il fatto che le mucche di Dawn siano di razza Simmental, che ho scoperto come sia realmente una razza bovina svizzera, che ha poi dato il là alle ignobili confezioni di carne in scatola. Insomma, se volete farvi del male, leggetelo pure. Altrimenti dedicatevi a passatempi più divertenti.
“Ho passato i sessant’anni, non sono propriamente uno che abbia, nella vita, le stesse prospettive che aveva da ragazzo.” (27)
“Scrivere ti trasforma in una persona che sbaglia sempre … [con] l’illusione che forse un giorno l’imbroccherai.” (74)
“Perché le cose sono come sono? Una domanda senza risposta, e fino a quel momento era stato così fortunato da ignorare addirittura che esistesse la domanda.” (99)
“La vita è solo un breve periodo nel quale sei vivo.” (266)
Georges Simenon “L'uomo che guardava passare i treni” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama pubblicata il 13 novembre 2011]
Si conosce da tempo il mio amore per lo scrittore belga ed in attesa di riprendere le letture di Maigret, ecco che ci si imbatte in un non Maigret, e, nella sua collocazione da Repubblica, anche non “giallo”. Certo non è un poliziesco, ma è più poliziesco di tante scarse riuscite attuali. Intanto ha più di 70 anni, ma, a parte alcuni elementi d’epoca, la trama è ancora attuale. Forse anche perché tratta temi “senza tempo”. Cosa fa, come agisce (o potrebbe agire) un uomo comune davanti ad un imprevisto? Perché facciamo quello che facciamo? Il borghese Popinga si trova, nei suoi quarant’anni, al centro di una vita normale: una moglie, due figli, un lavoro, un po’ di noia nella natia Groeningen (in Olanda, per chi lo dimentica). Ma la ditta per cui lavora fallisce. E qui comincia l’avventura dell’uomo normale, quello che per ingannare il tempo guarda passare i treni (metafora dell’inutilità della sua vita). Popinga, senza paracadute delle convenzioni, decide di essere finalmente sé stesso. O cerca di esserlo. Prova a circuire l’amante del suo capo, fugge a Parigi, si trova a girare nell’ambiente della mala, tra donnine compiacenti e ladri d’auto. E lì si erge, una spanna sopra gli altri. Non perché faccia cose “eccezionali”, ma proprio perché, nonostante tutto, cerca di essere il sé stesso che non è stato per 40 anni. Purtroppo va un po’ fuori o sopra le righe, motivo per cui ben presto sarà ricercato dalla polizia. Ma è geniale il suo girare per la città, trovare, innocentemente, mille modi per sfuggire. E poi, ergersi, in modo “paranoide”, a vindice della sua esistenza quando i giornali cominciano a parlare del “Satiro di Amsterdam”. Le sue lettere alle redazioni dei giornali per correggere le menzogne dette su di lui sono epiche. Il suo modo di rapportarsi al commissario Lucas anche (ricordarsi sempre l’uso dei nomi in Simenon, e del Lucas alter-ego di Maigret). Senza scordare le bettole, i sordidi alberghi e lo strano rapporto con la prostituta Jeanne. Ma, come dice ad un certo punto, non ci si improvvisa sé stessi, bisogna prepararsi, mentre lui rimane un dilettante. E come tutti i dilettanti, sarà vittima del caso (l’incontro con uno strano truffatore) che farà precipitare la sua fuga verso l’ovvia conclusione. Sappiamo già quasi dall’inizio (ce lo dice Simenon) come andrà a finire, in un ricovero per alienati, e non sapremo mai se è lui il pazzo, o se sceglie di esserlo per poter “vivere la sua vita”. Quello su cui Simenon mi fa riflettere è quel piccolo scalino, quel grado che non si supera. Certo Popinga è messo in una situazione estrema, ma se noi lo fossimo, e fossimo capaci di rimanere nell’alveo “ammissibile” sapremmo essere noi stessi? Sapremmo capire cosa vogliamo dalla nostra vita? Saremmo capaci di nascondere un alfiere per non perdere una partita a scacchi? O faremmo finta di aver sbagliato? Mi è piaciuto tutto lo sforzo di Simenon di ricreare ambienti parigini, tra i diversi quartieri. E come non emozionarsi quando qualcuno si aggira per rue des Rosiers? O va verso i Gobelins? O si imbatte nelle Halles di un tempo? A Parigi, o cara. Comunque, una scrittura degna e che mi ha ben consolato, della mancanza di Parigi (e della Francia, ciao Luana), e mi ha fatto, ancora ed ancora, pensare. E questo è sempre un bene. Chiediamoci quale sia la verità sul caso Popinga, ma anche sul “nostro” caso…
Michael Crichton “La grande rapina al treno” Repubblica Giallo euro 5,90
[trama pubblicata il 1 luglio 2012]
C’è stato un periodo delle mie letture che ero affascinato di Michel Crichton. Trovavo affascinante quel suo modo di entrare ed uscire dalla trama per raccontare contorni, motivi, spiegare, informare. Erano i tempi di “Andromeda”, di “Congo” e di “Jurassic Park”. Nonché di quei racconti che poi furono alla base di una delle più belle serie televisive (“In caso di necessità” che fece nascere i telefilm di “E.R.”). Poi è calato nella scrittura, si è dato ad esternazioni improbabili, e l’ho messo da parte. Infine 4 anni fa (nel 2008), a soli 66 anni muore. Ora riprendo in mano uno dei suoi primi libri, che all’epoca avevo saltato. E lo ritrovo come l’avevo lasciato. Solo che gli anni sono passati, e quella scrittura che 40 anni fa era interessante e innovativa, si è fatta sterile. Non che questa grande rapina non sia ben fatta e ben resa. Ma quegli intarsi che mi piacevano tanto, ora sembrano frutto di uno sfoggio di erudizione, di un tentativo di dire: ‘guardate che per capire quello che vi sto narrando di una storia che si svolge nel 1855, dovete sapere fatti e circostanze di vita, e dato che non le sapete, ve le illustro io”. Ecco, or mi sovviene, è quest’aria da sapientone che mi dà e mi dava fastidio. Perché la miglior sapienza è quella che esce fuori dalle righe del testo senza averne l’aria. Quella che dice e descrive e coinvolge e porta a vivere il tempo della scrittura come fosse sempre coevo del tempo della lettura. Peccato, tuttavia. Che la storia, in realtà merita. È la narrazione, oltremodo fedele, di una grande rapina al treno, dove sparisce l’oro destinato alle paghe dei soldati inglesi che combattevano in Crimea. Una storia che seguiamo passo dopo passo. Seguendo le orme dell’artefice, Edward Pierce. Dall’idea alle modalità di attuazione. Ai modi per trovare la possibilità di aprire la cassaforte che viaggiava sul treno, procurandosi le chiavi d’apertura. Al modo di salire sul treno. Al modo di fuggire dal treno. Al modo di sostituire l’oro con qualcosa dal peso equivalente per non far scoprire subito il furto. E poi, velocemente, alla ricerca dei colpevoli da parte della appena nata Scotland Yard. All’arresto. Ed al processo, sulla base del quale, poi, si ricostruisce tutto il pregresso. Non vi narro solo la fine, che non è inventata da Crichton, ma, come tutta la storia, è ben documentata. E devo dire anche decentemente narrata. Ora, ci sono due commenti da fare al testo. Le parti narrate sono in puro stile Crichton, cioè con la sua capacità di farti entrare immediatamente in sintonia con la persona che seguiamo al momento. Quella capacità che poi ben sfruttò in ER, dove in effetti (a parte i personaggi di lunga durata) anche i comprimari, in poche battute, erano ben delineati (parlo ovviamente del tempo di Clooney e della Margulies). E sono piacevoli. L’altra parte è l’utilizzare questa rapina come un simbolo. Un simbolo del mondo che cambia, dell’apice e dell’inizio del tramonto dell’epoca vittoriana, dove se ne narrano fasti e nefasti, per spiegare azioni e situazioni. Le turbe di poveri che vivono con meno di una sterlina alla settimana, i ladri, le prostitute, ma anche l’inizio dell’industrializzazione, il lavoro minorile, l’emarginazione femminile, la tracotanza aristocratica, tra lotte di cani contro topi, e partecipazione a proibiti incontri di boxe. Ma soprattutto rapina simbolica in quanto non attuata da poveri ladri e truffatori, ma organizzata da una persona che ha tutta l’aria di essere se non agiata almeno di una tranquilla classe media. Ed è appunto questo che preme sottolineare a Crichton: alla metà dell’Ottocento, si comincia a percepire che i malviventi non sono lombrosianamente tarati, ma nascono in ogni dove e per tante necessità. Questo passaggio non fu compreso, e l’Inghilterra andò avanti sulla sua strada, e da nazione faro e guida del mondo, cominciò ad imboccare la strada della normalità. Ma non la comprese, e alla fine ne fu spiazzata, lì quando crollò, pezzo dopo pezzo, tutto l’Impero Britannico. Ma stiamo andando molto fuori. Tornando a Crichton, se avesse insistito di più sulla storia, senza dovercene troppo spiegare i contorni (bastava molto meno), avrebbe potuto rendere la rapina, pur se simbolica, una specie di “Ocean Eleven” dell’Ottocento. Peccato.
“In quei tempi la linea divisoria tra un’attrice e una prostituta era estremamente sottile. E gli attori erano, a motivo della loro professione, dei nomadi vaganti che avevano in genere rapporti con i criminali o appartenevano direttamente alla malavita.” (91)
Graham Greene “Il treno d’Istanbul” Mondadori euro 9,50 (in realtà, scontato a 8,55 euro)
[trama pubblicata il 10 maggio 2015]
Non è certo ora che scopriamo le capacità narrative di Graham Greene, anche in questa che è la sua seconda opera narrativa, vergata alla tenera età di 28 anni, con l’intento, come scriverà in una tarda prefazione, di scrivere un romanzo d’intrattenimento, magari per farne un plot da trasferire sullo schermo. In effetti, nel 1934 ne venne tratta una versione cinematografica, che non ebbe particolare fortuna.  Il pur giovane scrittore riesce a gestire con maestria l’intreccio tra i vari personaggi che sono a bordo del treno che fa il viaggio da Ostenda a Istanbul. Anche se sono in viaggio per scopi diversi, la vita di ciascuno dei personaggi centrali riesce a concatenarsi in un blocco fatale. Questi personaggi sono appunto Carleton Myatt, un commerciante ebreo in viaggio per affari che affronta l'antisemitismo di molti dei suoi compagni di viaggio mentre attraversa l’Europa prima della Seconda guerra mondiale, Coral Musker, una ballerina di fila, in viaggio alla ricerca di un nuovo lavoro, il dottor Richard Czinner, medico, insegnante, e leader socialista rivoluzionario, che sta tornando a Belgrado dopo anni di esilio, Mabel Warren, una giornalista, lesbica, che casualmente scorge Czinner e si mette a seguirlo per scriverne articoli, e Josef Grünlich, un ladro, in fuga da Vienna dopo un furto pasticciato finito in omicidio. L’uomo d’affari Myatt è astuto e pratico, anche poco incline alla generosità. Tuttavia offre il suo biglietto di prima classe alla ballerina di fila Coral Musker, ammalata. Coral si sente grata di queste attenzioni e inopinatamente si innamora di Myatt, passando con lui una notte d’amore nel suo scompartimento. Il dottor Czinner, come detto, vuole tornare di nuovo a Belgrado, solo per scoprire che la rivolta socialista di cui aveva avuto sentore ha già avuto luogo e non è riuscita. Decide di tornare comunque per essere processato e fare del processo un gesto politico. Nel frattempo, viene scoperto da Mabel Warren, che viaggia con la sua partner, Janet Pardoe. Per tornare a Belgrado, deve fingere di lasciare il treno a Vienna in modo da seminarla. Quando il treno arriva a Vienna, Warren, pur tenendo d'occhio Czinner, lascia il treno per fare una telefonata ed avvertire la redazione del giornale. E durante la telefonata la sua borsa viene rubata da Josef Grünlich, che ha appena ucciso un uomo durante una rapina fallita. Grünlich poi prontamente sale sul treno con i soldi di Mabel, che, incazzata, e preoccupata anche di perdere Pardoe, promette di ottenere la storia di Czinner con ogni mezzo. Anche se rimane appiedata e dovrà mendicare un aiuto da Myatt per cercare di risolvere la questione. Intanto, a Subotica, il treno viene fermato e Czinner viene arrestato. Con lui sono fermati anche Grünlich, per il possesso di un revolver, e Coral che si trova casualmente con Czinner al momento dell’arresto. Una corte marziale viene prontamente messa in piedi e Czinner fa un forte discorso politico, anche se non vi è alcun vero pubblico presente. Tra l’indifferenza dei giudici è rapidamente condannato a morte. I tre prigionieri sono tenuti in una sala d'attesa per la notte prima dell’esecuzione. Nel corso della notte capiscono che Myatt è tornato con una macchina per salvare Coral. Il furbo Grünlich sfonda la porta e cerca di far scappare tutti e tre, ma solo lui ci riesce. Czinner è ferito e Coral lo nasconde in un fienile, dove Czinner muore poco dopo. Quando arriva Mabel Warren per non perdere la sua storia, decide di prendere sotto la sua protezione Coral e di tornare a Vienna con lei. Ma a seguito di tutte le emozioni Coral, in macchina con Mabel ha un attacco di cuore, e non sappiamo quale sarà il suo destino. L'Orient Express arriva finalmente a Istanbul, e Myatt, Pardoe e gli altri scendono. Myatt si rende conto che Janet, l’ex-amante di Mabel, è la nipote di Stein, un uomo d'affari suo rivale ma anche potenziale partner commerciale. La storia si conclude con Myatt che, dimenticando Coral, pensa di sposare Pardoe, che ha già dimenticato Mabel, blindando così il contratto con Stein. Ci sono anche altri cammei nel libro (il personaggio di uno scrittore, ed altri caratteristi minori). Tuttavia quel che rimane è il sapiente intreccio che riesce a gestire il giovane scrittore. Ma anche un generale senso di disagio, che, benché attribuito al clima europeo di quegli anni ed alla depressione economica inglese, in parte riflette anche la situazione finanziaria dell'autore al tempo della stesura del romanzo, che ancora non riusciva a vivere delle sue fatiche. Il tema di fondo del romanzo è comunque basato sulla fedeltà: il dovere verso gli altri contrapposto al rispetto di sé. Greene si domanda se la fedeltà verso gli altri paga, incentrando i vari personaggi su possibili pieghe di questa fedeltà. E non è molto positivo in queste scelte. Chi rimane fedele (Czinner, Coral) muore, chi tradisce (Myatt, Janet) sembra uscirne vincente. Ma a che prezzo? Insomma, un libro d’intreccio, interessante anche se non sempre ed in tutto riuscito.
“Non si aveva mai niente per niente … non si poteva accettare in dono una pelliccia senza andare a letto con chi l’offriva.” (46)
“La copertina [del libro] era molto logora e sul risguardo figurava l’etichetta di un libro di Charing Cross Road [vedi il libro della Hanff, nota mia].” (58)

Conclusioni

Letture eccelse, e letture che si addicono al treno, al suo andare più che al suo arrivare. Christie, Simenon e Green su tutti. Rimane il dubbio di Philip Roth, che sarebbe utile solo in quanto lettura di un libro di più di quattrocento pagine, ma tra la noia del libro ed il dondolio del treno, credo che ci si addormenti dopo poche righe.