domenica 28 febbraio 2021

Altri raccontini in giallo - 28 febbraio 2021

Proseguiamo rapidamente con la seconda tornata dei raccontini in giallo di Repubblica. Quattro autori classici ed una nuova entrata. I classici un po’ deludono, che ci si aspettava di più soprattutto sa Carlotto e De Silva. Mentre sono sui loro classici standard sia Malvaldi che il grande vecchio Macchiavelli. Buona l’impressione della nuova autrice, Cassar Scalia, che attendiamo a espressioni più lunghe.

Massimo Carlotto “Morte di un confidente” Repubblica “Italia in giallo” 6 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 01/11/2020 – I: 06/11/2020 – T: 06/11/2020] && +

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 2005]

Continuiamo queste veloci letture dei libri omaggiati dalle “Editoriali Gedi”, quella di Repubblica, tento per intenderci. Qui siamo dalle parti patavine care a Massimo Carlotto. Uno scrittore ed un personaggio, molto presente nella mia libreria, ed anche nel mio personale. Infatti, e credo ne parlai altrove, ebbi con lui un proficuo incontro e scambio di idee, a valle di una presentazione libraria nell’esimia libreria romana “Odradek” (uno dei caposaldi della resistenza libraria romana, insieme a “Fahrenheit” di Campo de’ Fiori).

Carlotto ha una serie molteplice di personaggio, anche se quello a me più caro, rimane sempre il suo primo, Massimo Buratti detto l’Alligatore. Perché mi è caro, e il perché del soprannome, li trovate nelle mie prime scritture delle sue avventure. Poi ne vengono altri, come “le Vendicatrici”, il sadico Pellegrini, nonché l’esimio ispettore Giulio Campagna. Che un po’ fa da crossover, essendo presente in diverse serie, un po’ lavora in solitaria, come nella raccolta “Crimini” di Einaudi da cui è tratto questo mini-romanzo, o nella successiva raccolta “Cocaina”.

Certo, non essendoci l’Alligatore, la storia ha su di me un impatto minore. Non solo, anche come storia, pur densamente complessa nonostante l’esiguo numero di pagine, rimane con poco mordente. Vediamo il succedersi degli eventi, ma abbiamo pochi sussulti interpretativi su chi fa cosa e perché. Certo anche che nel finale qualche buono spunto Carlotto ce lo deve pur mettere, onde non esser tacciato di leso “noir”.

Cominciamo comunque (almeno io comincio) a conoscere meglio l’ispettore, che fino ad ora avevo lasciato un po’ ai margini. Buon intuito, ottima conoscenza della malavita cosiddetta “onesta”, quella alla Rossini della serie maggiore, tanto per capirci. Una buona rete territoriale. Ed una pessima rete personale di affetti e relazioni. Pare (ma qui dobbiamo fare solo delle ipotesi) che non si tiri indietro quando vede delle belle donne, motivo per cui è in rotta con la moglie Gaia, architetto sempre in giro a far progetti. E motivo per cui affidi sempre più spesso la figlia Ilaria alla nonna.

Conosciamo qui parte della sua rete. Un oste con qualche passato di stupefacenti, con moglie croata. Motivo per cui viene ricattato da una banda di croati, malavitosi e tifosi di calcio (che lì spesso le due cose coincidono). Non sembra esserci dolo, ma Campagna non viene assecondato, anzi la possibile indagine gli viene sottratta dai Servizi. Peccato che questi non si sappiano muovere con discrezione, ed il confidente muore.

Campagna cerca la vendetta, seguendo le poche informazioni che ha, ed assecondato da Amelia, sua collega e forse altro. Trova un bandolo, ne esce un conflitto a fuoco, in cui qualcuno ci lascia le penne, ed il capo croato fugge ferito. Poiché sono i cinesi a gestire le medicazioni fuori legge, è ad un altro suo confidente che si rivolge, e da cui trova le informazioni ed arresta i cattivi. Peccato che anche il cinese venga ucciso, tanto che alla fine verrebbe di volgere il titolo al plurale. Fortunatamente, Campagna sa tirare le fila ed incastrerà anche il secondo cattivo. La storia come detto è densa. La scrittura come sempre adeguata. Certo in così poche pagine si lasciano molti motivi in sospeso che dovrebbero (potrebbero) essere ripresi in altre storie.

Così che, alla fine, pur dopo una gradevole lettura, non riesco ad innalzare troppo l’indice di gradimento. Anche se spero si noti che, come i libri di Massimo qui citati, anche tutti i capoversi presenti in questa trama hanno la stessa caratteristica.

Marco Malvaldi “Aria di montagna” Repubblica “Italia in giallo” 7 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 01/11/2020 – I: 07/11/2020 – T: 07/11/2020] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 2014]

Come avete capito, utilizzo questi mini-libri in forma di racconto, come riempitivo di momenti di stanchezza verso letture troppo serie. Essendo sempre intorno alle cinquanta pagine, si leggono con facilità. Ed anche se, come in questo caso, il tono è leggero, il risultato è di varia natura. Qui, tratto dall’antologia “Vacanze in giallo” edita da Sellerio nel 2014, il risultato è discreto, e migliore rispetto ad altre uscite.

Rispettando l’assunto del titolo antologico, i nostri simpatici vecchietti del BarLume sono in vacanza in un imprecisato luogo alpino, dove si recano tutti gli anni, per una settimana, in un tipico dopolavoro toscano (qui organizzata dal Circolo Ricreativo Aziendale dei Lavoratori delle Poste).

Assistiamo quindi ad un quasi assolo del nostro amato “barrista” Massimo, anche se la dimensione del racconto consente pochi voli dei soliti che in genere amiamo in Malvaldi. Niente atmosfera da bar, niente “Tiziane” o altre banchiste, e niente pineta ed altre amenità locali. Visto che però Malvaldi è filologicamente corretto, almeno c’è la donna che da un po’ di tempo fa coppia fissa nelle indagini (e forse anche dentro qualche altra cosa) guidate da Massimo: il commissario Alice.

Unico punto un po’ ironico è per l’appunto l’attacco con il falso gioco erotico che poi si rivela essere nient’altro che una partita a scacchi. Ma si sa che tutti i combattimenti, anche quelli scacchistici, possono ben essere rappresentati come tensioni erotiche.

Comunque, la piccola trama si dipana con i nostri alpinici pensionati che scoprono una donna morta in un supermercato della loro zona vacanziera. Si offrono di aiutare la polizia, millantando gli aiuti che sono soliti dare ad Alice. Questa fuga in avanti si ritorce contro molte cose: Alice viene diffidata di occuparsi delle indagini, motivo per cui, da buona bastian contraria, alle stesse si applica alacremente. Non è certo un caso che sia l’unica che osa ordinare un cappuccino anche dopo mezzogiorno!

Indagini che hanno un loro senso, che la morta si dice essere una persona proveniente proprio dall’ambiente “pinetino”. Mettendo in moto alcuni dettagli, alcune richieste a Pilade e compagnia, alcune elucubrazioni e molti giornali d’epoca, si svela una parte del mistero.

La morta era una ex-terrorista implicata negli anni di piombo, co-autrice di attentati mortali, poi pentita e messa sotto protezione. Inoltre, messa anche bene, che le viene fatta una plastica facciale completa, insieme ad un integrale cambio di identità.

Possiamo sospettare che la morte si dovuta ad un rigurgito del passato, ma come ed in quale modo sia potuto avvenire (e soprattutto da chi), è un piccolo tocco noir che Massimo e Alice riescono a porgerci con classe ed eleganza.

Non è facile che un racconto, soprattutto nero, arrivi alla sufficienza, dove invece qui ne tocchiamo pienamente la buona sponda. Certo, più agio abbiamo quando Pilade & co ci ammorbano con i loro ragionamenti. Ed ancor molto di più quando Massimo, ricordando il suo passato matematico e scientifico, ci delizia con alcune delle sue divagazioni.

Ma non ci lamentiamo, rimandandovi questo come uno dei racconti della collana che merita una lettura.

“Quando uno è importante te ne rendi conto solo quando non c’è.” (9)

Cristina Cassar Scalia “Filinona di fine estate” Repubblica “Italia in giallo” 8 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 01/11/2020 – I: 13/11/2020 – T: 13/11/2020] &&& 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 61; anno: 2020]

L’ottavo volume della collana “Italia in Giallo” riporta in alto giudizi e considerazioni, nonché stimoli per altre letture. Non conoscevo l’autrice, e devo dire che la scrittura interessante, il tratteggio siciliano della trama, ed altri piccoli episodi, mi spingono ad approfondirne la conoscenza.

Intanto, rimaniamo su questo racconto e sulla presentazione dei personaggi che forse (o sicuramente) sono gli attori principali dei suoi libri. Prima di tutto, il titolo con quel termine potentemente siciliano: filinona. Sembra derivi dall’unione di filo e nona, cioè filo nel senso di verso, di tendenza, e nona come l’ora del giorno secondo le antiche usanze contadine. Si pensa quindi ad un orario intorno alle ore 15 (nove ore dopo l’alba). Un’ora tipica per riposarsi, dopo un pranzo, anche frugale, e sedersi all’ombra per godersi il tempo caldo sonnecchiando.

Ed è così, sotto il suo albero, che sembra riposare Giambattista Tommasello detto Titta, innamorato della filinona, tanto da chiamare così la varietà di arance che coltiva nel suo agrumeto, nonché l’aranciata che ne ricava. Purtroppo, non riposa, ma è morto, e da molti segni avvelenato.

Da questo quadro rurale, cominciamo a conoscere i vari personaggi di Cassar Scalia: l’ispettore capo Carmelo Spanò, ultima ruota del carro poliziesco, ma profondo conoscitore del luogo (siamo nel catanese e nel suo entroterra); quindi l’attrice principale, il vicequestore Vanina Guarrasi, che capiamo essere fuggita dalla natia Palermo, dove pur esercitava, per una qualche questione di mafia che prima o poi conosceremo. Ora lavora ai “Reati contro la persona” a Catania, vivendo in una casa fuori città, coccolata dalla vedova Bettina, e cercando di capire ed inserirsi nella vita cittadina. Infine, entra in scena anche Biagio Patanè, commissario in pensione, che serve a Vanina un po’ come “dottor Watson”, non partecipa attivamente alle indagini, ma ragiona con la nostra, trovando insieme vene d’analisi agli eventi delittuosi. Ci sono altri “attori non protagonisti” che fanno comparsate, e che forse conosceremo in altri contesti: Calì, l’anatomo patologo che scoprirà il veleno utilizzato ad uccidere Titta (si tratta di acanto) e Giulia, avvocato, amica di Vannina e conoscitrice del lato alto del mondo catanese (il coté borghese del proletariato di Spanò).

Per rimanere sulle indagini, due sono i filoni che Vannina e Patanè analizzano nei loro discorsi: la gelosia professionale e la gelosia amorosa. La prima impersonata dal vicino di Titta, cui il morto aveva sottratto tratti di agrumeto forse con qualche marachella, e che è l’ultimo ad aver avvicinato il morto prima della sua brutta fine. La seconda invece molto più estesa, che il morto è stato per anni un grande sciupafemmine, solo da pochi mesi rinsavito, ed avviato a giuste nozze con la giovane e piacente Valeria.

C’è Valeria, quindi, che potrebbe aver avuto un soprassalto di gelosia nello scoprire gli altarini di Titta, c’è Ilaria Lo Verde, l’ultima amante quasi ufficiale di Titta, c’è la Sammartino, l’agronoma che ha aiutato il morto a costruire la sua impresa e che con lui si accompagnava volentieri se non spesso. E forse altre donne.

Il tutto sarà legato allo scoprire come e chi si poteva procurare l’acanto, che è sì un potente veleno, ma in quantità non reperibile normalmente sul mercato.

La parte nera, tuttavia, non è così coinvolgente e misteriosa come potrebbe essere (alcuni indizi portano verso la soluzione sin dalle prime indagini). Mentre è bella e a me piaciuta tutta la descrizione del contorno: la campagna ed i suoi colori, la discesa a mare, il pesce mangiato nel porto di Catania, nonché la bevanda che solo lì ho anch’io bevuto ed apprezzato: selz, limone e sale. Buona e dissetante.

Una discreta lettura, ed un’autrice da seguire per capirne meglio le attualità visto come sono qui le sue potenzialità.

Diego De Silva “Patrocinio gratuito” Repubblica “Italia in giallo” 9 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 08/11/2020 – I: 19/11/2020 – T: 19/11/2020] && 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 2014]

Torniamo dopo molto tempo a leggere qualcosa di De Silva, un autore che, seppur ben presente tra i miei libri, ha sempre avuto un andamento di gradimento altalenante. Ne ricordo con simpatia i primi che lessi. Poi Diego si è infilato in una caverna di scrittura con un suo personaggio, l’avvocato Vincenzo Malinconico. Ed ha perso molto del suo fascino, sia di scrittura che di ironia. Tributo quindi un omaggio a Fako che me ne sconsigliò la lettura.

Il primo che lessi di De Silva era un racconto, che utilizzava le canzoni comi filo rosso della trama, per dire, comunicare, anche stravolgere sensi e situazioni. Dissi allora, come ripeto, che era uno scippo bello e buono quello di prendere le mie (inespresse) idee sui testi delle canzoni, e farne materia narrante.

Certo che dopo di lui ce ne sono stati altri, come Piccolo e i Pooh, che ritengo inarrivabile. Qui, con mia grande soddisfazione, vi ritorna, utilizzando la grandissima Mina. Con un’analisi su cui torneremo per una bella chiusa.

Perché il resto del testo è palesemente piazzato male in questo contesto. Certo non come Pastor, autore non italiano in una collana dedicata all’”Italia in giallo”. Ma certo come con giallo. Diego è napoletano, la vicenda si svolge a Napoli, ma di giallo non c’è non dico un’ombra, ma neanche una lontana parvenza.

Ci sono le solite elucubrazioni di Malinconico, che ormai sembrano parte integrante dell’esprimersi del nostro scrittore. C’è una filippica contro gli amici (e soprattutto gli amici degli amici) che chiedono favori come fosse loro dovuto. Anche quando il favore riguarda l’ambito professionale, che invece andrebbe riconosciuto economicamente, anche se in maniera lieve. Ci sono improperi vari per tutta una serie di personaggi, che magari chiedono delle cose come se (Malinconico dixit) il mestiere di avvocato fosse una specie di viatico factotum per tutto fare. Ed è questo che succede al nostro Vincenzo, da parte di una amica di un amico di cui non ricorda mai il nome, e che non ricorda neanche perché né come si siano incontrati.

Ma Clelia (questo il nome) lo costringe a calarsi nei panni di anti-stalker, che qualcuno assilla la poveretta con telefonate in cui assume la parte di Alberto Lupo nel bellissimo duetto con Mina di “Parole parole”. A parte tutti i tentativi di ingarbugliare la trama, il filo da seguire è molto semplice, che Clelia sa bene chi telefona, lo indica a Vincenzo, che ha anche facilità nel trovare il modo di spaventarlo e (forse) convincerlo a desistere. Anche se poi lo stalker gli confessa che questo suo assillare Clelia deriva dalla timidezza e dalla voglia di trovare il modo di avvicinare Clelia, dalla cui avvenenza è stato fulminato.

Così che il nostro esimio avvocato si trova prima a fare il consulente, poi l’investigatore, poi il “poliziotto cattivo” (in mancanza di quello buono) ed infine il paraninfo. Ma capite bene che, seppur con qualche grado di piacevolezza, non è certo un testo da inserire in un contesto “giallo”, che già nella sua prima uscita, nella raccolta “Giochi criminali” di Einaudi, non se ne comprende la collocazione con i testi di De Giovanni, De Cataldo e Lucarelli.

Altro invece è l’epilogo finale, in cui De Silva si lancia in una disamina del testo del duetto Mina – Lupo, con effetti esilaranti e coinvolgenti. Che come al solito ne fanno vedere l’andamento in una luce diversa dall’usuale. L’assillo di Lupo a recitare poesie, verso l’insofferenza di Mina che invece vorrebbe qualcosa di più concreto, di più maschio. C’è lo stesso stravolgimento (anche se meno accentuato) di quando si leggono i testi di altre canzoni, il cui ritmo entra nella testa e che prosegue lì senza che noi ci si presti attenzione.

Come in “Tanta voglia di lei”, quando i Pooh dicono “mi dispiace devo andare, il mio posto è là” (cara amica di una sera). O in “Ti amo”, quando Tozzi confessa “oggi ritorno da lei” (quella che fa un vino leggero quando non c’ero). Del testo analizzato da De Silva, invece, non voglio parlare, che merita al contrario di essere gustato nelle sue cinque paginette svolazzanti.

Loriano Macchiavelli “Il confine del crimine” Repubblica “Italia in giallo” 10 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 08/11/2020 – I: 21/11/2020 – T: 21/11/2020] &&& 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 45; anno: 2008]

Il grande vecchio dei gialli italiani non si smentisce mai. Pur nella brevità, pur nel non sempre completo coinvolgimento del suo personaggio principale (o forse unico ricorrente), la sua penna rimane lucida, così che condensa, anche in un numero ristretto di pagine, alcune idee non banali, ed alcune riflessioni che condivide con noi lettori, anche a volte non esplicitamente.

L’alter ego di Macchiavelli in tutte le sue storie poliziottesche è sempre Sarti Antonio, nominato sempre così, all’ungherese come si dice in grammatica: prima il cognome e poi il nome (in Ungheria è un must, essendo il cognome un attributo del nome come per noi l’unione tra aggettivo e sostantivo). Un poliziotto di cui abbiamo nel tempo seguito la carriera, sino al grado massimo da cui non si sposta più: sergente. Perché, come l’autore, non cede a compromessi, e pur risolvendo casi rognosi, rimane sempre fedele ad una sua dirittura morale. Disincantato, sempre, ed afflitto da una colite incurabile. Che lui aggrava con una dose eccessiva di caffè (elemento che se possibile me lo rende ancora più caro).

In questa storia, tratta dalla raccolta “Crimini italiani” edita da Einaudi nel 2008, seguiamo una sarabanda di avvenimenti in cui Sarti Antonio entra, cerca di risolvere qualcosa, capisce, e alla fine viene inesorabilmente sconfitto da forze più grandi di lui, come spesso accade nella vita.

In realtà, più che un racconto è in effetti un micro-romanzo, dove avvengono tante cose, e dove, forse, un respiro più ampio avrebbe messo in luce molto più di quello che in queste meno di cinquanta pagine si riesce ad accumulare.

L’avvio segue una serie di furti ripetitivi di grandi macchine di lusso, in particolare SUV. Il nostro è sulle tracce del colpevole, Marcella Carlotti, detta Rasputin. Ma quando sta per coglierla sul fatto, Rasputin riesce a scappare e si inserisce in una trama più grande di lei. Con il SUV rubato si trova intrappolata in una strana missione dove ci sono un arabo probabilmente terrorista che cerca di sfuggire ad un inseguimento da parte di qualcuno legato in qualche maniera ai Servizi Segreti.

Loriano ci fa partecipi di un improbabile ma possibile concatenarsi di eventi. Una pattuglia ferma il trenino di fuggitivi, mettendo in custodia l’arabo e Rasputin. Un manipolo, guidato o aiutato da Antonio, forse un agente sotto copertura, assalta la caserma, rapisce i due e massacra il comando dei carabinieri. Nella susseguente fuga, Rasputin riesce a fuggire, ma non l’arabo.

Così, pagina dopo pagina, rivelazione dopo rivelazione, Sarti Antonio e tutto il comando dei poliziotti alla ricerca dei fuggitivi scopre prima l’arabo massacrato, poi anche Antonio ucciso ed abbandonato in un campo. Solo Rasputin è sempre in fuga, riuscendo a volte a mettersi in contatto con il nostro. Ma per poco, che sappiamo bene che i cattivi, quando sono potenti, hanno modo di rintracciare i cellulari attivi. Così che Rasputin ha modo di dare solo indicazioni parziali al nostro. Che tuttavia ne comprende il senso, e cerca di sfruttarle per salvare la nostra.

Operazione che non riuscirà, con tutto il dolore che il sergente proverà alla fine. Ma non c’è niente da fare, quando si muove la CIA con l’ordine di “kill or capture” tutti i possibili infiltrati iraniani in Iraq, anche fuori dai confine arabi.

L’idea dell’autore è quella, come dice il titolo, di ragionare intorno ai confini del crimine: fin dove c’è un crimine diciamo “legittimo”, come il furto d’auto, e fin dove lo si persegue. Ma più in grande, se il crimine è legato a possibili sovversioni statuali, dove è il confine tra crimini e istituzioni che devono trovare il modo di fermarlo. Una problematica ben più ampia del solo Sarti Antonio, ma è uno dei classici problemi cui Loriano si è sempre applicato.

Il nostro quasi novantenne autore non si è certo tirato indietro quando si doveva cercare di capire, ad esempio, cosa successe ad Ustica. Né tanto meno, nel lungo sodalizio con Francesco Guccini, pone sempre all’ordine del giorno del lettore una domanda dalla risposta non facile: il brigante che ruba per mangiare è colpevole lui o la società che lo affama?

Macchiavelli ha sempre presente il lato sociale delle azioni delittuose, anche qui, in un racconto che ho gradito più della solita media dei racconti gialli (che sapete bene come a me siano indigesti).

Ultima nonché quarta domenica di un febbraio finalmente non bisestile, quindi settimana di riposo per allegati ed altro.

Si viaggia su ruote, in situazioni protette, tra regioni gialle ed arancione pallido. Come detto la settimana scorsa, è tempo di consolidare piuttosto che fare fughe in avanti.

Sul fronte citazionista, questa settimana facciamo un pensiero al mio amato e lontano Giappone, con Inoue Yasushi che in “Amore” ci ammonisce così: “Una persona che non conosce l’amore non può capire il dolore di chi lo ha perso”.

E la contentezza di chi lo trova, e di chi, avendo voi per amici e lettori, può continuare a salutarvi con

un bacio

Giovanni

 

domenica 21 febbraio 2021

Raccontini in giallo - 21 febbraio 2021

In ottobre, come spiego nel primo librino letto, Repubblica decide di regalare alcuni racconti “in giallo”. Poiché non ripetere è meglio, rimando alle considerazioni sotto espresse per giudizi sulla collana e sull’operazione editoriale. Qui parlo dei primi cinque, dove De Giovanni, Manzini, Lucarelli e De Cataldo si attestano su di un livello basso di gradimento. Sul quinto ho già scritto male sotto, ed allora non ripeto.

Maurizio de Giovanni “Febbre” Repubblica “Italia in giallo” 1 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 10/10/2020 – I: 27/10/2020 – T: 27/10/2020] && e ½ 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 47; anno: 2014]

Da quando ha cambiato proprietà, Repubblica si industria nell’invogliare all’acquisto del giornale attraverso l’omaggio di libri, o per meglio dire, di racconti. Ha quindi messo in cantiere questa mini-collana di autori italiani (almeno così recita il lancio ed il nome “Italia in giallo”, vi rimando all’uscita n.5 per considerazioni diverse), ripescando racconti in gran parte pubblicati in altre raccolte. Dato che, in generale, non sono aduso all’acquisto di quest’ultime, mi fa comunque piacere leggere, in regalo, alcune prove. Tra l’altro, molto in anticipo con i tempi, visto che, nel giro polacco (per chi ne capisce), avendo poco spazio, ho portato i primi quattro esemplari, e li ho letti.

Questa prima uscita proviene dalla raccolta “Giochi criminali”, pubblicata da Einaudi nel 2014, e mi consente di tornare a leggere del mio amato commissario Ricciardi, nello splendore delle sue indagini, prima che l’autore, incartandosi nelle storie, lo portasse alla sua conclusione lo scorso anno.

Quindi, è con piacere e gradimento che si torna a Napoli, con il commissario ed anche con il brigadiere Maione. Non solo, ma entrando anche in una specificità napoletana, il gioco del lotto. Con tutti gli annessi e connessi: smorfia, interpretazione dei sogni e via discorrendo. Il nostro scrittore, ora che è ancora lontano dalla necessità di porre un termine a queste storie di morte e di fantasmi, si lascia andare a descrizioni che, come nei primi romanzi, risultano vivide e coinvolgenti. Che ci portano in una Napoli che si può amare, dove il contesto storico rimane dietro le quinte, e risalta solo il contesto sociale.

Così, vediamo la morte di un “assistito”. Impieghiamo del bello e del buono, noi non napoletani, per capire cosa si intenda. Per farla breve, il morto è una persona che sa interpretare sogni e simili input per giocare al lotto. Praticamente cieco, poiché “indovina” molti numeri, viene assistito dalla carità popolare, che lo sostiene con vitto. Mentre l’alloggio lo fornisce proprio il gestore di un banco del lotto, avendo il tornaconto che chi va a chiedere numeri, poi non fatica a giocarli subito lì.

La solita capacità di de Giovanni lo porta, pur nel breve spazio di meno di cinquanta pagine, a regalarci anche delle piccole storie, di contorno e sostegno a quella principale. La famiglia del proprietario del banco, con il figlio possente ma forse non proprio di vivida intelligenza, e la figlia bruttina assai. Poi ci sono le persone che hanno visitato il morto poco prima che morisse, in particolare un conte che si è giocato soldi, case e onori, per inseguire sogni che non si realizzano. Un ludopata ante-litteram, con una moglie piacente e dignitosa che cerca di tirarlo fuori da quel baratro.

Tutto legato a quelle ultime parole che sappiamo essere il marchio di fabbrica del commissario. E l’assistito ripeteva 21, 9 e 19. Che nella smorfia stanno per “la donna nuda”, “il parto” e “la risata”. Ma che potrebbero essere interpretati come bellezza, distacco e dispiacere. Ovvio che Ricciardi troverà la giusta interpretazione, che, purtroppo (ed è questo il motivo dell’abbassarsi del gradimento) la solita scrittura anticipatoria in corsiva, ce ne fa capire i contorni sin dalle prime righe della prima pagina.

Comunque, è un peccato che lo scrittore faccia evolvere il nostro Ricciardi fino ad un punto dove non riesce più a seguirlo e che lo vedrà costretto ad abbandonarlo. Se fossimo un centinaio d’anni indietro, farei seguire a tutto ciò la sommossa di popolo che costrinse Conan Doyle e far resuscitare Sherlock Holmes.

Ma “or non è più quel tempo e quell’età”. Accontentiamoci di un buon prodotto, e speriamo in altre scritture similmente valide.

Antonio Manzini “Castore e Polluce” Repubblica “Italia in giallo” 2 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 10/10/2020 – I: 28/10/2020 – T: 28/10/2020] && + 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 2015]

Eccoci subito alla seconda uscita della collana omaggio di Repubblica. Anche qui con un gradito riorno: Rocco Schiavone al meglio delle sue Clarke. Qui, la raccolta originale era invece “Turisti in giallo” uscita da Sellerio nel 2015.

E per fortuna che siamo dalle parti del Rocco ancora non invischiato in storie altre e (quasi) senza sbocco. E che quindi, pur nella sua brevità, riesce ad essere più simpaticamente leggibile di storie più lunghe ed ingarbugliate.

Inoltre, c’è solo un intervento della morta moglie Marina, ed anche questo non può che essere a favore dell’isolare meglio le capacità e l’intuito di Rocco. Non abbiamo interventi altri, non c’è l’aiuto degli amici romani. C’è Rocco, c’è Italo (anche lui abbastanza sereno e non invecchiato nelle future ludopatie pokeristiche), e c’è una trama nera. Non eccelsa, che si capisce quale ne siano i contorni. Aspettiamo solo le intuizioni di Rocco per capire meglio i come. E magari del magistrato Baldi, per svelarne i perché. Ma è un Rocco del 2015, e quindi un Rocco che ci piace, anche a prescindere da Giallini e dalla TV.

La storia, dovendo rispettare l’assunto della collana (come impone la Sellerio in queste uscite), si svolge ad avvolge intorno a tre rampanti architetti, che festeggiano la presentazione di progetti possibilmente facoltosi, con passeggiate in alta montagna. Seguiamo i tre nella loro scalata, notando che c’è fin dall’inizio una possibile contrapposizione tra due sodali ed il terzo, che è sempre più nervoso, che per non fumare mastica chewing-gum. Non ci meravigliamo verto quando si verifica la tragedia: il masticatore perde la corda, o forse l’appiglio, insomma precipita e muore.

Rocco, santiando alla grande, deve prendere in mano la faccenda, e recarsi anche sopra le montagne aostane, anche a più di 4000 metri (ma in realtà, controllando in Internet, visto che si fermano al rifugio Guide d’Ayas, questi si trova a 3420 metri). Sempre con le Clarke ai piedi, ma in elicottero. Vede subito, o abbastanza presto, incongruenze nel possibile incidente, nel modo di chiamare i soccorsi, nella posizione del corpo e delle mani del morto, dell’orologio ed altri piccoli elementi che se non costituiscono una prova, almeno accumulano indizi.

Anche perché la sua squadra investigativa scopre alcune problematicità legate ai progetti presentati dallo studio. Non ultima la possibilità che i tre potrebbero aver deciso di separare le loro responsabilità lavorative. Comunque, Rocco somma due più due più due, e trova il bandolo della matassa.

Ah, dimenticavo, Castore e Polluce sono due monti del massiccio del Monte Rosa. Il Polluce è di 4091 metri, mentre il Castore è di 4228. E furono scalati per la prima volta intorno agli anni tra il 1860 ed il 1870.

Ah, e per finire, essendo ancora nella fase di “salita di interesse”, compare anche la simpatica Caterina, prima che, succedendo quello che altrove ho narrato, arriveremo alle soglie di quanto leggeremo nei prossimi romanzi (credo).

Non eccelso quindi, non all’altezza schiavonica solita. Sia per la poca consistenza del giallo, sia perché (e vedremo se è vero in un libro che devo ancora leggere) la dimensione racconto non credo si addica bene alla lentezza di Rocco.

Carlo Lucarelli “A girl like you” Repubblica “Italia in giallo” 3 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 17/10/2020 – I: 29/10/2020 – T: 29/10/2020] &&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 47; anno: 2014]

Terza uscita, sempre legata ad uno degli autori classici, ormai, del giallo italiano. Anche qui, come per de Giovanni, il racconto era uscito nella raccolta “Giochi criminali” pubblicata da Einaudi nel 2014. Rispetto, ai classici del primo Lucarelli (quelli con il commissario De Luca all’epoca della Repubblica di Salò), passando per la serie dell’ispettore Coliandro (che non mi aveva entusiasmato), qui vediamo il ritorno della sua ben riuscita ispettrice Grazia Negro.

Non torno sull’evoluzione che il personaggio ha attraverso i vari romanzi (ne parlai al tempo di “Il sogno di volare” del 2013), ricordo soltanto che ormai fa giusta coppia fissa con il non vedente Simone. E che qui (un anno dopo il precedente) è invece finalmente incinta. Certo, non esita a mettere a rischio anche questa gravidanza, quando ci si trova di fronte al dovere ed alle indagini. Ma il tempo sta finendo, e davanti agli ultimi 30 gradini per portare il risultato delle indagini al suo capo, dovrà decidere chi o cosa privilegiare. Leggetelo per saperne.

Malgrado sia incinta, e visto che sta facendo dei controlli per la gravidanza, il suo capo la manda ad interrogare un mafioso di bassa tacca, che è saltato in aria con tutta la famiglia. Vuole capire di più, e scopre così che il colpevole è il nipote, fattosi saltare in aria come un kamikaze arabo, per punire la famiglia che (secondo lui) aveva costretto la sua bella a fuggire. Una bella senza nome, ma con un tatuaggio sul piede molto particolare.

Tanto che la nostra brava ispettrice lo collega ad un’altra morte particolare. Da lì risalendo, con piccole analisi, con tabulati telefonici, con telefonate ed altre astuzie poliziesche, Grazia risale tutta la catena degli omicidi. Non diretti, ma omicidi procurati o indotti o istigati. Trovando l’ultimo bandolo in …

Beh, certo non vi dirò chi è l’ultimo anello della catena, ma ben presto, dall’analisi di chi siano i vari morti, si capisce che sono tutti legati ad una sala giochi, legale quanto si vuole, ma che dovrebbe far entrare solo i maggiorenni. Mentre potrebbe esservi entrato, ed ammalatosi di ludopatia grave un under 18. Tanto grave che quando potrebbe essere smascherato, non trova di meglio che uccidersi.

E chi gli vuole bene decide di farla pagare a tutti. Attaccandoli nei punti deboli di chi ruotava intorno alla sala giochi. I gestori, i mafiosi che ne proteggevano l’esistenza, gli assessori che ne avevano autorizzato l’apertura, financo i giovani compagni del morto che non avevano avuto la forza o la volontà di fermarlo.

L’ispettore Negro, benché affaticata dalla pancia all’ultimo stadio, segue questa catena di eventi all’incontrario. Trovandosi alla fine con un ultimo nome di una persona ancora vivente. Ma minacciata da quella stella ai piedi che si aggira libera per la Romagna.

Lucarelli, con la sua solita pervicacia, a volte, di non voler chiudere tutto, perché tanto siamo circondati da tanto amaro, che capite bene voi come andrà a finire, non ci dice se l’ultimo nome sarà avvertito, né come. Né, ancora, se ha un senso ed uno scopo avvertirlo. Oppure lo fa capire nelle pieghe del discorso.

Così vi lascio anch’io nel dubbio e nelle domande: l’ispettore Nigro avvertirà il suo capo? Grazia farà quei trenta scalini? Grazia e Simone riusciranno a coronare il loro di sogni d’amore avendo finalmente un pargolo per casa?

Come direbbe Battisti, “lo scopriremo solo vivendo”.

Per ora, mi basta riavere un po’ della verve del buon Lucarelli, che quando lascia trasmissioni televisive un po’ bollite, e torna alla sua onesta e piacevole scrittura, ritorna ad essere quel simpatico imbonitore di storie, che incontrai in una festa letteraria a Trastevere nel 1999, e con il quale passai una mezz’ora di divertente e proficuo colloquio (ne parleremo un giorno, di quel 2 giugno).

Giancarlo De Cataldo “Medusa” Repubblica “Italia in giallo” 4 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 17/10/2020 – I: 30/10/2020 – T: 30/10/2020] && -

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 2014]

Quarta uscita, anch’essa legata alla raccolta “Giochi criminali” pubblicata da Einaudi nel 2014. Ma stiamo, seppur di poco, sempre calando. Anche tenendo conto il fatto che, normalmente, non è che sia un grande fan di De Cataldo.

Certo, ho apprezzato “Romanzo criminale”, per la scrittura, per l’argomento, per il modo di trattare il tutto, per la suspense. Ma non per quanto ne esce dopo, il film, le serie televisive, il seguito scritto dallo stesso De Cataldo ma con poca sostanza rispetto al primo. Non ho invece apprezzato molto il resto degli scritti che ho letto, e sono più di due anni che non ritorno su questo autore.

Ora, appunto, nell’orgia di inserti del gruppo Gedi, si torna a leggerne e si torna a non essere convinti. Torniamo nella natia Taranto, ed è un bene. E ne vediamo i contrapposti sentimenti: l’alta borghesia, con i suoi birignao, il suo modo di parlare altezzoso, le citazioni colte; ed i criminali, ma anche i piccolo borghesi di mezza tacca, con un uso eccessivo del dialetto e delle espressioni triviali, cosa che ne fa più macchiette che personaggi.

Anche la storia non è che prenda tanto. Al centro, l’anziana professoressa di latino in pensione, Emma Blasi. Una che ha avuto molta parte della Taranto d’oggi tra i suoi banchi. Che da sempre è presa da follie amorose per il barone Stefano de Mallarmé, barone di Belcastro. Peccato che il barone sia omosessuale, e che tra i due esistano solo fantasie erotiche, tutte celebrate sulla falsariga del film di Alain Resnais “Stavisky, il grande truffatore”, quello con Jean-Paul Belmondo.

Il giallo inizia quando Stefano viene trovato morto apparentemente per un ardito gioco erotico. Il commissario Ardenzi, anche lui ex-allievo della Blasi, archivia presto il caso. Non così Emma, presa dal suo amore incorrispondibile verso Stefano. Ma anche piena della sua conoscenza del mondo locale, del bello e del cattivo che attraversano la sua Taranto.

Emma Blasi è da sempre (soprattutto dai suoi allievi) soprannominata Medusa, con quello sguarda che pietrificava durante le interrogazioni. Ma che continua ad essere inquietante per chi ora la frequenta. Che non si può avvicinarla, mai, guardandola negli occhi. Occhi che diventeranno indagatori, soprattutto quando scopre di essere l’erede universale del morto Stefano. E per di più, nell’occhio del mirino di camorristi e faccendieri che avevano messo più di un occhio sulla dimora avita del barone.

La Medusa, indagando in questa direzione, si troverà di certo in pericolo, ma avrà modo di esplorare la profonda ludopatia di Stefano capace di giocarsi montagne di soldi e di averi alle carte. E non in un gioco qualsiasi, ma in una follia di carte: scommetteva (ed in genere perdeva) giocando alla “carta più alta”. Non una pazzia, ma molto di più ne converrete. Ma se questa volta avesse vinto? Parlando, e guardando con i suoi occhi di ghiaccio, Emma capirà, noi capiremmo. Capirà anche la giustizia? Dubbio che lasciamo ai perseveranti lettori.

Racconto veloce, poco impegnativo, scritto senza troppi patemi, e letto senza troppo coinvolgimenti. Poco giallo, come al solito, seppur tanta Italia. L’inizio di questa collana regalo si rivela altalenante. Staremo a vedere.

Mentre continuiamo, come sopra espresso, ad avere dubbi sulla scrittura di De Cataldo. E qui, non so se vedremo ancora.

Ben Pastor “Il giaciglio d’acciaio” Repubblica “Italia in giallo” 5 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 01/11/2020 – I: 06/11/2020 – T: 06/11/2020] &

[titolo: The Iron Bed; lingua: inglese; pagine: 46; anno: 2011]

Come detto nella prima trama dedicata a questi volumetti in regalo fine settimanale con Repubblica, l’editore cerca di dare una forma al “nero italiano”, riprendendo racconti usciti spesso in precedenza, ed in particolare editi da Einaudi e Sellerio. Qui, purtroppo, avviene una palese mistificazione in due tappe.

La prima deriva dal fatto che, benché l’autrice sia di origine italiana (Maria Verbena Volpi sposata Pastor, da cui la firma Ben Pastor) è naturalizzata americana, e scrive tutte le sue opere in inglese. Sebbene molta parte delle sue opere sia ambientata in Italia, non può essere considerata “autrice italiana” e quindi viene inserita in un contesto improprio.

La seconda è che nella fattispecie di questo racconto, nulla vi è di giallo, di noir, di thriller. Il racconto è tratto da “Un Natale in giallo” di Sellerio, e parla di un ben particolare Natale, quello passato a Stalingrado dalle trippe tedesche nel dicembre del 1942.

Il filo conduttore di questo, e della maggioranza degli scritti di Pastor, è la storia della vita di Martin-Heinz Douglas Wilhelm Friederick von Bora, più facilmente identificato come Martin Bora. Un militare tedesco che attraversa molta parte della storia germanica che va dal 1930 al 1950 (almeno), trovandosi su di un duplice crinale: ogni volta è coinvolto nella risoluzione di casi polizieschi ed in parallelo si deve confrontare con l’evoluzione tedesca durante il nazismo. Motivo che lo rende altamente schizofrenico, essendo ligio come militare ma antinazista come costituzione sociale. Una duplicità che non viene mai risolta pienamente, anche se ne intuiamo i contorni, e le implicazioni. Considerando anche il fatto che buona parte del retroterra di Martin è ripreso dalla storia colonnello Claus Schenk von Stauffenberg, quello che organizzò il fallito attentato ad Hitler, note come “Operazione Valchiria”.

Gli editori della collana sono stati sfortunati a trovare in me un assiduo lettore degli scritti di Pastor (ho in libreria 11 dei 12 libri ispirati a Martin). Per cui, anche qui, mi aspettavo che durante l’assedio russo alle truppe tedesche in quel di Stalingrado, uscisse fuori un qualche elemento caratteristico del personaggio. Invece ne abbiamo la descrizione umorale e comportamentale, lì mentre ribatte ai colpi russi, e tenta di convincere i generali tedeschi alla necessità di una onorevole ritirata. Scrive il suo diario (come sappiamo dalle altre opere), si rivolge spesso alla sua sposa Benedikta (che però sappiamo che in un vicino futuro lo lascerà), cerca di sollevare il morale delle sue truppe. Ma è tutto interno al personaggio, che di certo, per chi non lo conosce, viene tratteggiato in maniera congrua. Si capisce anche l’attrito che il maggiore Bora ha con le gerarchie, attrito che si ripercuote in tutte le sue prese di posizione contro il nazismo.

Bora non si oppone apertamente, ma cerca di agire dall’interno delle istituzioni, sostiene l’aspetto militare dell’interventismo, rifiutandone quello politico. Tanto che aiuta nascostamente gli ebrei, cerca prove per i massacri in Ucraina, si rivolta contro le violenze verso i civili.

Pastor non mi risulta abbia ancora scritto una pagina relativa alle possibili riflessioni di Bora a valle della disfatta militare.

Per concludere, pur conservando il testo come ulteriore tassello della fiction biografica di Bora, sono rimasto molto deluso dal racconto e dal suo inserimento in questa collana (così come sottolineato all’inizio).

Terza domenica ed allora un ulteriore, forse ultimo, capitolo dei libri felici dedicato questa volta all’adolescenza.

Passati i compleanni passati, ed in attesa di altri, dopo aver ricordato che la data odierna è un quasi-anagramma (anzi una riflessione 02 à 20 ed una ripetizione sul 21), ci siamo concentrati sulle vacanze. Visto che non si vedono orizzonti viaggianti, allora meglio mettere mano a consolidare quello che c’è. E così si sta facendo.

Sulle citazioni settimanali siamo sul versante non giallo del giallista Gianrico Carofiglio che, ne “Il passato è una terra straniera” ci consola con una osservazione che molti sanno di aver fatto nel proprio cuore: “Penso che anch’io vorrei dirle grazie, ma non sono capace”.

Io invece a voi continuo a dire grazie di continuare a leggermi.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

FEBBRAIO 2021

Abbiamo quasi scritto di tutto, così possiamo serenamente tornare all’adolescenza.

ADOLESCENZA

Ogni età è complessa a modo suo, ma l’adolescenza è una fase decisamente critica.
Non più bambini ma non ancora adulti, si è in evoluzione come il bruco che diventa farfalla ma al contrario, ovvero con la fastidiosa sensazione che, da spensierata e leggiadra farfallina, ci si ritrovi improvvisamente negli scomodi e viscidi panni di un bruco che striscia nervoso, impacciato e quasi perennemente arrabbiato.
Anche se sembra impossibile all’adolescenza si sopravvive, più o meno indenni. Durante questo periodo di grande confusione, alcuni rimedi letterari possono aiutare a stare meglio e a farsi un po’ di coraggio. Si tratta di letture balsamiche che facilitano a espettorare quell’opprimente senso di irritazione che preme sul petto, a fluidificare quel gomitolo di rabbia, lacrime, euforia, ribellione e tanta, tanta confusione che tormenta il lettore adolescente come una fastidiosissima tosse cronica. Poco inclini a confidare i propri rodimenti interiori, i ragazzi troveranno sollievo sviluppando empatia con personaggi che condividono le loro stesse problematiche e le esprimono con quelle parole che spesso non trovavano. Forza, giovani inguaribili lettori: inspirate, immergetevi nella lettura e fate un bel colpo di tosse. Non sarete guariti ma vi sentirete meglio.
Un consiglio: in caso si manifesti una forma acuta di nostalgia per l’infanzia (appena abbandonata), il modo più rapido e indolore per alleviarne i sintomi è ricorrere alle medicine dei bambini. Saranno una boccata d’ossigeno, come l’aerosol ma molto più piacevole.

Peter Cameron “Un giorno questo dolore ti sarà utile” (2007)

Pillole di trama

James ha diciotto anni, è introverso, solitario, non ha nessuna intenzione di andare all’università, vive a New York e lavora a tempo perso nella galleria d’arte di sua madre. I genitori lo vorrebbero sistemato e vincente mentre lui vorrebbe solo “sistemarsi” in una casetta nel Midwest dedicandosi esclusivamente alla solitaria lettura di libri. Il romanzo è il divertente e frizzante racconto in forma di diario dei pensieri che frullano nella testa di questo ironico giovane, spaesato e confuso di fronte ai primi malesseri della vita adulta.

Supposta-saggezza

Il protagonista del romanzo di Peter Cameron richiama subite alla mente “Il  giovane Holden” di J.D. Salinger. Ma con le dovute differenze. James è decisamente più posato e tranquillo ma come Holden si trova alle prese con il passaggio alla vita adulta di cui non condivide l’ingrediente principale: gli adulti. A disagio coni i grandi, ma altrettanto con i coetanei («Ho passato tutta la vita con i miei coetanei e non mi piacciono granché»), James va d’accordo solo con il cane e l’adorata nonna, l’unica persona con cui riesce ad avere un rapporto sincero, l’unica che lo sa ascoltare rispettandolo nella sua diversità e non caricandolo di ulteriori ansie. Gli adulti che lo circondano sono una madre con una collezione di matrimoni falliti alle spalle e il vizio di perseverare nell’errore, un padre convinto che mangiare pasta sia poco virile ma che non disdegna ritocchi di chirurgia estetica e una sorella maggiore che ha una storia con un professore universitario che non brilla per acume, quindi la sua sfiducia nei confronti della categoria è più che motivata. James è un outsider. Fuori posto ovunque e con chiunque, preferisce la beata solitudine alle finte compagnie. Non è un adolescente immaturo che si rifiuta di crescere, ma un “diverso” che non sente il bisogno di uniformarsi e vuole restare out. I genitori lo vorrebbero “in”, “cool”, realizzato e di successo, secondo i loro parametri ben inteso, e vedendolo introverso, solitario e infelice (ma chi può essere davvero felice, si domanda James) lo mandano da una psichiatra, come se voler essere diversi fosse un problema da curare. La terapia dovrebbe, nelle loro teste, insegnare a James a vivere secondo gli standard imposti dalla società del successo. In sostanza il rapporto è l’inverso di quello tra Pinocchio e il Grillo Parlante: qui l’intervento della guida, la psichiatra, servirebbe a trasformare James in un burattino. Ma lui non ci sta. Disadattato ma non sbandato, sveglio e curioso, confuso ma molto lucido nei suoi ragionamenti, con ironia, inquietudine, malinconia e saggezza, James ci porta per un po’ a spasso nella sua vita, condividendo con noi le sue riflessioni nelle quali ogni outsider dotato di senso dell’umorismo non farà fatica a rispecchiarsi. Che sia un adolescente o un adulto.

Posologia

Ti senti un disadattato, nel senso che non ti “adatti” ai comportamenti imposti dalla società?

Ti consideri un outsider?

Ti senti sempre fuori posto?

Sei adolescente e non vai d’accordo con gli adulti?

Non sopporti le pressioni dei tuoi genitori?

Non ti vanno a genio neanche i coetanei?

Condividi questa affermazione? «Ho solo 18 anni. Come faccio a sapere cosa vorrò dalla vita? Come faccio a sapere cosa mi servirà?». (Che poi, detto fra noi, non è detto che crescendo sia più facile trovare una risposta).

La tua massima aspirazione è leggere libri in solitudine?

Hai la tendenza ad analizzare tutto ciò che ti capita con implacabile e pungente ironia?

Sci reticente e poco conciliante nei confronti di analisti e terapeuti?

Se hai risposto «sì» anche a una sola di queste domande, sappi che la lettura di “Un giorno questo dolore ti sarà utile” avrà lo stesso effetto di un balsamo lenitivo e rinvigorente. Già il titolo ha un effetto placebo, una sorta di promessa alla quale bisogna dare fiducia, una versione intellettuale del vecchio detto “non tutti i mali vengono per nuocere”. Attenzione a non fraintendere, però: Peter Cameron non fornisce una soluzione al dolore di vivere, ma ci rivela che è possibile riuscire a mediare tra sé stessi e il mondo. Scendendo a compromessi? No, imparando a trovare un equilibrio. Il romanzo è effervescente come l’aspirina e come l’aspirina garantisce un senso di sollievo immediato liberando dai malesseri elencati sopra.

Effetti collaterali

Contagiato dal desiderio di James, l’inguaribile lettore potrebbe sentirsi legittimato a rinchiudersi in casa, leggendo libri a ripetizione. Suggerisco di evitare il sovradosaggio facendo attenzione che la cura non diventi una malattia. Si legge per affrontare meglio il mondo, non per fuggire. Comunque, se il lettore porta a termine la terapia e legge tutto il romanzo, l’effetto collaterale non dovrebbe verificarsi.

Terapia cinematografica sostitutiva

Chi vuole prolungare la cura contro la confusione esistenziale può farlo integrando la lettura del romanzo con la trasposizione cinematografica di Roberto Faenza. Girato completamente in America, vanta un cast di attori stranieri che ne è il punto di forza.

Un consiglio

Il titolo del romanzo è preso in prestito da una frase di Ovidio contenuta nell’opera giovanile “Amores”. Il poeta latino invita a sopportare il mal d’amore con la consapevolezza che tutta la sofferenza patita un giorno risulterà utile: «Perfer et obdura: dolor hic tibi proderit olim». “Amores”, “Ars amatoria” e “Remedia amoris” sono da considerarsi pratici manuali da consultare al bisogno per prevenire o curare scottature amorose.

Commenti

Letto Cameron da non molto, e pubblicato solo un anno fa, ne ripropongo la trama. Anche se sull’adolescenza, appunto, avrei letto altro.

Peter Cameron “Un giorno questo dolore ti sarà utile” Repubblica Duemila 48 euro 9,90

[trama pubblicata il 26 aprile 2020]

Una specie di giovane Holden in minore, questo libro scritto cinque anni dopo “Quell’estate dorata” che mi aveva a suo tempo piacevolmente sorpreso. Non sembra, comunque, che io sia molto originale, se questo libro, pur con le opportune diversità, mi ha fatto pensare a Salinger e Holden. Anche se sono in sintonia con chi poi lo trova diverso.

Entrambi sono due ragazzi sulla soglia della maturità, qui con il nostro James Sveck che, diciottenne, deve decidere cosa fare dopo il “liceo”: università o autonomia solitaria nel più piccolo stato americano, il Rhode Island. Entrambi hanno un adulto di riferimento, qui c’è la nonna che tutti vorremmo avere: accogliente, che non fa domande, e che dà consigli parlando d’altro. Ma Holden ha fobia di tutto, non vuole vedere nessuno, mentre James è affascinato dal mondo degli adulti, considerando i suoi coetanei (ed a ragione) immaturi, illetterati, capaci solo adorare le inutili compagnie per paura di rimanere soli con sé stessi.

James ci fa sentire al centro delle sue riflessioni, condividendo con lui il dolore che accompagna la crescita. Un dolore esorcizzato da un ricordo di un campo estivo il cui motto era “Sii forte e paziente: un giorno tutto questo dolore ti sarà utile” e dalle parole della nonna, che gli ricordano come siano poco interessanti le persone che sono sempre felici. Come dice ad un certo punto, “godersi i momenti felici è facile; il difficile è non lasciarsi abbattere dai momenti brutti.” James è sempre accompagnato da un perenne senso di inadeguatezza, e quindi si rifugia nel suo porto sicuro, la solitudine, unica chiave che James considera per arrivare a conoscere sé stesso.

James viene anche considerato un disadattato, dai suoi coetanei e compagni, ma anche dalla sua famiglia. Dalla madre compulsivamente spinta a nuovi matrimoni dopo il divorzio dal padre. Dal padre stesso, che da un lato si accompagna con ragazze molto più giovani di lui, dall’altro si rende irreperibile al figlio per un intervento chirurgico mirato. In altre parole, per una chirurgia estetica tesa ad eliminare le rughe intorno agli occhi. Dalla sorella invischiata in una relazione clandestina con un suo professore dell’Università. Ovviamente non dalla nonna, di cui abbiamo parlato. Ed anche da John, il giovane gay che gestisce l’inutile galleria d’arte della madre, almeno fino a che lo stesso James non gli fa uno scherzo stupido che rovina i loro rapporti.

Si capisce, quindi, che Cameron porta avanti anche una critica, feroce e puntuale, della società attuale. Attuale almeno rispetto alla data di scrittura ed al tempo di svolgimento del racconto. Infatti, il testo è del 2007, e l’azione si svolge dal marzo al settembre del 2003. Devo dire che questa collocazione temporale non mi ha ancora convinto, né sono riuscito a trovarne una spiegazione. Personalmente non conosco così a fondo la storia americana per capire al volo cosa succede nel tempo del racconto.

Il nucleo del racconto parte dalla sfortunata “gita scolastica” nella capitale, dove James, non sopportando i suoi inutili compagni, sparisce per due giorni, rintanandosi nella Biblioteca Nazionale. Fuga che lo porta a dover frequentare una psicologa, e lì apprezziamo il modo con cui Cameron descrive le sedute psicoanalitiche, ed anche capiamo come, pur nell’inutilità delle sedute, James comincia a maturare. Lì nelle riflessioni e nel discorso con la psicologa, James riesce a ragionare sull’altro nucleo del romanzo: l’inesprimibilità dei propri pensieri. Nel passaggio tra il cervello e la bocca avviene una trasformazione che non consente (almeno quasi mai) di comunicare esattamente con il nostro interlocutore. Per questo ognuno rimane sostanzialmente solo, nella monade della sua vita. E quando James non introduce un filtro tra pensieri e parole (grazie ai grandi Mogol e Battisti, per chi ne sa), è difficile che il mondo esterno capisca chi sia veramente.

Il terzo ed ultimo nucleo è quella paura del futuro, quell’indecisione sulle scelte da fare che attanaglia i giovani, i diciottenni quando cominciano a diventare adulti. Ricordo ancora con tremore il tempo dal luglio all’ottobre del 1971. Aspettare il giorno dell’esame di maturità sapendo di sapere, ma sapendo anche che un piccolo passo falso, sempre possibile, avrebbe portato disastri e rovine. Stare in fila in segreteria alla Sapienza, con due moduli in mano: matematica o lingue? Voi sapete quale scelta ho fatto, anche se dopo 50 anni ancora ho dubbi e pensieri diversi.

In fondo, non succede molto in tutto il romanzo, è solo un susseguirsi di pensieri, e di elementi che ci consentono, non senza un intimo piacere, di entrare in sintonia con James. Che in fondo è un po’ come noi, come me, un giovane che non è disturbato, e che a me suscita affetto e sintonia. Noi e James, alla fine, abbiamo un solo grosso problema: non riuscire a rapportarsi con le persone superficiali. Solo la fine, ad una lettura in sintonia con il libro, mi sembra troppo veloce. Avrei meglio diluito le ultime avventure e le decisioni finali di James. Rimane comunque uno dei migliori libri che ho letto negli ultimi tempi.

“Se uno divorzia, secondo me perde il diritto a fare commenti sui comportamenti o sul carattere dell’altro.” (38)

Finalino

Avrei senz’altro aggiunto Holden (anche troppo facile), magari stemperato con “Noi siamo infinto” di Stephen Chbosky, e corroborato con una robusta dose de “L’isola del tesoro” di Stevenson.

domenica 14 febbraio 2021

Scrittrici "latine" - 14 febbraio 2021

Nel senso che provengono da quelle radici. Due italiane, due di lingua spagnola. Il risultato migliore è della venezuelana Karina, seguita a ruota dalla cilena Isabel. C’è di sicuro affetto nella lettura di Rossana Rossanda, ma non mi ha convinto del tutto. Come mi ha lasciato un po’ distante, pur con tutto l’affetto alla persona, il libro di Barbara Garlaschelli.

Karina Sainz Borgo “Notte a Caracas” Repubblica Latinoamericana 21 euro 9,90

[A: 19/06/2020 – I: 02/09/2020 – T: 04/09/2020] - &&&  

[tit. or.: La hija de la española; ling. or.: spagnolo; pagine: 189; anno 2019]

Con questa nuova scrittrice inauguriamo due cose: una collana che spero porti libri interessanti, essendo dedicata alla letteratura latino-americana, ed una scrittrice venezuelana, paese che non annovero tra i più frequentati delle mie letture.

Anzi, cominciando dall’ultima affermazione credo, a memoria, di non aver letto sino ad ora nessun autore di questo paese. Che pure è presente nel mio immaginario, essendo uno dei pochi dell’America del Sud che non ho visitato, e per tutta la storia sociale e politica che ci hanno tramandato le ultime presidenze del paese, da Hugo Chavez a Nicolas Maduro.

Per la collana, ritengo che sia un inizio interessante, anche se la lettura del libro ha avuto alti e bassi di coinvolgimento e di rigetto. Perché è un libro politico, laddove c’è una politica che conosco poco nei suoi risvolti quotidiani. Perché è un libro personale, laddove il dolore delle perdite è sempre un dolore universale.

La storia di Adelaida Falcon è breve, intensa e sconvolgente. C’è la morte della madre, cui era legatissima, che trasfigura nel cuore della protagonista anche la morte della Patria. Dilaniata da una discesa nella povertà a rotta di colla, dove sorgono (in un tempo sospeso che può essere collocato nell’oggi, anche senza una data precisa) movimenti e sommosse molto tipiche dei paesi in via di disfacimento. Drogati anche da una non sempre ben intesa collocazione marxista e rivoluzionaria, che nell’intimo non sembra essere né l’una né l’altra. Questa è per me la parte più difficile, non conoscendo a fondo la quotidianità venezuelana. Ma posso immaginare che, nel momento di una discesa nella miseria, ci siano dei “si salvi chi può” che organizzano sé stessi in bande che assumono tutti i colori del mondo per sopravvivere. Quello che è certo ed immutabile, è il ruolo di puntello del potere dell’esercito e della polizia. Che, lì come in Cile a suo tempo, come in Argentina, come in Brasile, in vari modi e forme, non esita ad imprigionare, uccidere, sobillare. Come esemplificano le “Figlie della rivoluzione” che mascherano i traffici del mercato nero con occupazioni simboliche di case che non si riesce a difendere.

Come la casa di Adelaide, che si trova in poco tempo orfana e senza dimora. Per puro caso, riesce ad intrufolarsi in casa della vicina Aurora, sperando in un rifugio. Dove trova al contrario una situazione difficile ma foriera di possibilità. Che Aurora è morta (naturalmente) e non ha nessuno che ne sappia nulla. Aurora con la madre era fuggita dalla Spagna qualche decennio prima. Erano sole a Caracas. Anche più solo dopo che la madre di Aurora muore cinque anni prima. Adelaide, girando per la casa non sua, scopre tante cose, di sé, di Aurora, della vita di persone che pensava erroneamente di conoscere.

Mentre intorno infuria la bufera dei tumulti e delle uccisioni senza motivo, Adelaide intravede una possibilità: impersonare Aurora, falsificare i documenti, e con il passaporto spagnolo della vicina tentare la fuga verso la Spagna e la libertà. Ci riuscirà o sarà fermata prima di poter compiere l’ultimo passo? Beh, questo ve lo leggete voi, se vi va. Magari dandomi un conforto sul resto del libro e sui passi che non sempre sono riuscito a fare miei.

La scrittura è discretamente coinvolgente, visto che Karina è anche giornalista, e sa tenere desta l’attenzione. Come sa fare qualche gioco di scatole cinese, andando su e giù per la storia. Che vediamo la storia di Adelaide e della madre. Di Adelaide e della sua amica Ana. Di Ana e suo fratello Santiago. Di Adelaide e del suo amore Francisco, il giornalista di tutte le inchieste pericolose. Delle zie di Adelaide e della loro pensione in riva al mare. Dei Figli della Rivoluzione e dei detenuti. Insomma, tanti piccoli pezzi di puzzle per disegnare un Venezuela che non conosco, e che mi domando cosa sia realmente. Poiché Karina non lo spiega ed io non lo capisco, qualcosa di dubbioso rimane in fondo ai pensieri. Ma l’inizio della lettura di questa collana è incoraggiante.

Certo, un piccolo grande punto di domanda sorge alla fine: va bene inserire un cenno a Caracas, per localizzare il luogo di svolgimento dell’azione. Ma il libro non a caso si intitola “La figlia della spagnola”, perché è attraverso Aurora che Adelaide capisce ed agisce.

“La frivolezza era il meno penoso dei suoi mali. Nessuno voleva invecchiare, né sembrare povero. Occultare, truccare. Ecco il moto patrio: apparire. Non importava che il denaro scarseggiasse, non importava che il Paese cadesse a pezzi: la questione era abbellire, … diventare … la più alta, la più bella, la più scema … Allora potevamo permettercelo. … O così pensavamo.” (39) [una descrizione che adatterei a molti paesi, il mio compreso]

Barbara Garlaschelli “Il cielo non è per tutti” Frassinelli s.p. (Natale degli  Ossicini)

[A: 25/12/2019 – I: 11/10/2020 – T: 12/10/2020] &&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 255; anno: 2019]

Come spesso accade, dobbiamo subito separare testo e contesto. Che Garlaschelli è una persona di una straordinaria capacità di vita e di riscossa. Paralizzata agli arti inferiori in seguito ad un tuffo (odissea da lei descritta nel suo libro più famoso “Sirene”), ha fatto tutto un suo percorso di vita, riuscendo a raggiungere importanti tappe personali. E non perdendo mai la voglia di raccontare e di scrivere.

Per suo istinto personale, spesso la sua scrittura è rivolta all’infanzia, sia per i libri per ragazzi che ha scritto, sia per fare dei ragazzi stessi gli eroi dei suoi romanzi. Come accade appunto in questo appena finito di leggere. Dove, arrivando al testo, la sua facile scrittura non è sorretta da una trama adeguata. Il romanzo scorre, ma, pur nella bravura di presentare personaggi con diverse ed emozionalmente interessanti psicologie, non arriva mai al cuore. È discretamente prevedibile, in una direzione da un lato un po’ scontata, dall’altro verso una meta che non mi aspettavo fosse diversa da quella raggiunta.

Dato quindi l’interesse per le giovani generazioni, non ci si meraviglia che al centro ci siano due tredicenni: Giacomo e Alida.

Lui di famiglia italiana ex-agiata, ora in ristrettezze; il padre licenziato, devono campare con i soldi del nonno, un tipo duro e “comandino”. Per anni era stato solidale con il diciassettenne fratello Samuele, che ora però, compresosi gay, vive la sua nuova vita in funzione dell’amico-compagno Elia. La morte del nonno lo sconvolge, perché aveva sempre sperato se ne andasse, e si sente quasi responsabile dell’accaduto. Non servono le consolazioni che gli può dare la madre Anna, che, unica, prova a tenere unita la famiglia, nonostante il nonno. E nonostante il marito Riccardo, che non si riprende né dal licenziamento, né dalla morte del padre.

Lei di famiglia albanese emigrata, con una madre iperprotettiva, che si deve difendere dai guasti, fisici e psicologici che le ha provocato il marito, manesco e quasi femminicida. Con lui sperava di costruirsi una vita lontano dagli stenti albanesi. Ma si ricrede, deve lottare, fugge dal marito, aiutata dall’addetta ai servizi sociali, Dalia, e dal fratello Christian. Riversa tutte le sue ansie su Alida, praticamente impedendole di vivere non dico la sua vita, ma una vita. Niente fronzoli, niente regali, e soprattutto, mai stare a contatto con l’altro sesso.

Non è quindi un caso che, trovatisi per motivi vari, nello stesso giardino vicino casa, Giacomo e Alida solidarizzino. Ed in conseguenza di un ennesimo rimbrotto della madre e della morte del nonno, i due decidono di fuggire. Con l’innocenza e l’incoscienza dei tredici anni. Un capanno conosciuto da Giacomo. Un treno verso Riccione dove abita lo zio Christian. Insomma, una fuga in piena regola.

Che mette a nudo i rapporti tra tutti. Anna capisce di Samuele ed Elia, ma, nella confusione generale sembra un problema minore (dove si saranno cacciati i piccoli?). E nei giri di quartiere per cercare Giacomo, incontra Regina, la madre di Alida, e le due solidarizzano. Riccardo sfronda in una sempre maggiore crisi, capendo (era ora!) che è realmente un perdente come diceva il padre. Regina, sotto lo stimolo di Anna e Dalia, capisce che deve modificare qualcosa. Dalia non si dà pace di non aver controllato meglio Regina, ma era stregata anche dal fatto che era nato qualcosa con Christian.

Si arriverà ad un punto cruciale, come tutti i drammoni che si rispettino.

Tutti vi prenderanno parte, secondo il profilo che fino ad allora hanno seguito. Tutti ne usciranno un po’ acciaccati, ma con qualche consapevolezza in più.

Insomma, tutto scontato fin dall’inizio, ma la scrittura scorre abbastanza, anche se, come ho detto, non prende. Soprattutto, mi hanno un po’ respinto quei capitoli che venivano nominati con i personaggi che, nelle poche pagine seguenti, ne erano i protagonisti. Un po’ troppo scontato anche questo. E poco coinvolgente, che sappiamo che per qualche pagina saranno solo quelli al centro dell’azione. Una lettura in minore, di passaggio.

Inciso finale, ringrazio comunque mia cugina Annalisa che lo scorso Natale mi ha regalato questo ed altri libri rimasti da un premio letterario. E che, come tutti i regali in libri, sono sempre da me ben accetti (vedi anche la citazione).

“I soldi spesi in libri sono i soldi spesi meglio, ricordalo.” (142) [e come non essere d’accordo]

Rossana Rossanda “La ragazza del secolo scorso” Einaudi s.p. (Prestito di Fako)

[A: 20/10/2020 – I: 22/10/2020 – T: 26/10/2020] && +

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 385; anno: 2005]

Anche qui, sono stato gentilmente obbligato a leggere fuori dai tempi programmati, un libro, prestito del mio amico Fako, che lo voleva indietro quanto prima. Pur apprezzandone una parte dei contenuti, mi ha tenuto distante la freddezza della scrittura (anche se era una freddezza connaturata al personaggio) ed alcuni flussi di memoria, a volte in contrasto con lo scorrere normale del tempo.

In realtà, mi aspettavo altro, forse conoscendo poco la Rossanda (almeno come altri la conoscevano). Mi aspettavo un percorso logico e conseguente, che partendo dal 23 aprile 1924 a Pola, città istriana dove nasce Rossana, ci portasse fino ai giorni nostri. Inciso, nasce solo cinque mesi e mezzo prima di mia madre, e, da un certo punto in poi del romanzo, ho cominciato a fare arditi paralleli tra quello che leggevo e quello che sapevo ed avevo visto nella mia famiglia (con un rimando che svelo alla fine).

Questo percorso lineare non c’è stato (almeno non come linearmente mi aspettavo), ed alla fine del libro, rimango interdetto che si fermi al XII Congresso del PCI (settembre 1969) e dalla ragazza del secolo scorso non venga tracciato nulla (o molto poco) di quello che io avevo visto e sentito verso la Rossanda, Pintor, Parlato, il Manifesto, Mineo, e tanti altri nomi che porterò sempre nella mia memoria.

Di sicuro, e per iniziare, devo convenire che una delle cose molto belle è la copertina, dove vediamo un ritratto della Rossanda eseguito da quel grande fotografo (soprattutto dei tempi della contestazione) che è Uliano Lucas. Faccia serena, bianco e nero, viso racchiuso dalle mani, e capelli bianchi. Così diventati, come lei ci dice, a 32 anni dopo i “colpi” morali ricevuti nel ’56 a valle delle rivolte ungheresi.

E tuttavia, questo mi rimanda alle due parti più intense, personalmente, della sua storia. L’infanzia e la presa di coscienza. Infanzia iniziata in Istria, a Pola dove nasce, e da dove deve scappare, con i parenti, a valle della crisi del ’29 che manda in rovina la famiglia. Così che lei e la sorella Marina si ritrovano sballottate tra gli zii di Venezia ed i genitori a Milano. Dolente eppur ben assorbito, il passaggio dalla borghesia che parlava solo tedesco (che fa fine) alle povere cose che affettano ogni giorno, chi deve capire come arrivare alla fine del mese, se non alla fine della settimana. Eppure, a Milano rialza la testa, in particolare attraverso lo studio, e la maturità passata con un anno di anticipo. Inciso: esattamente come mio zio Nano (diminutivo, ovvio), che affrettò i tempi della maturità e della laurea per sostenere la famiglia (nonna Bianca ed i suoi sette fratelli, che il nonno muore quando lui ha quindici anni).

Belle anche le parole dei tempi universitari, nel suo rapporto con il professor Banfi, non scopertamente comunista, e di cui per una ventina d’anni sarà nuora (divorzierà nei primi anni Sessanta da Rodolfo). Ed in quello con il critico d’arte Matteo Marangoni, che le insegna ad usare la vista, per vedere non solo i quadri.

L’altro punto fondamentale è l’inizio, quasi incosciente, della partecipazione alla Resistenza. Quasi che a diciannove anni fosse poco più che un gioco. Ma non lo era, come mi insegnò anche mia madre, che, da staffetta partigiana interna alla città di Roma, portava spensieratamente una borsa piena di pistole a resistenti di là dal ponte (in particolare, era Ponte Sisto, ed i partigiani si nascondevano intorno a Piazza Trilussa, laddove c’era anche mio padre e la sua casa di famiglia in vicolo del Bologna; ma queste ancora sono note personali).

La Resistenza da un lato la avvicina al Partito Comunista, che segnerà tutto il resto della sua vita adulta. Dall’altra, le impone alcune riflessioni, molto interessanti, sulla non palese presenza di guerra e rivolta nel territorio italiano. Sì, c’era la guerra. Sì, c’erano i tedeschi. Ma per anni, decenni c’era stato un vivere sotto tutela per non pensare a molto. Ed ora, non è che ci fosse una palese guerra civile. C’erano elementi, comunisti, socialisti, liberali e democratici, che si opponevano al ritorno di schemi retrogradi e “sovranisti ante litteram”, tra fascismo vetero e minoritarismo di Salò. E sono riflessioni interessanti.

Poi, purtroppo, si scivola molto, sul filo della memoria, che come detto per il mio sentire è troppo ondivaga per essere sempre seguita con coerenza. Ma non è male leggerne, vedendo sfilare sotto gli occhi Togliatti, Longo, Natta, Berlinguer (un cammeo) e poi Pintor, Parlato, Magri, Natoli, e via manifestando.

Come detto, mi aspettavo di più da questa parte. Come mi aspettavo di capire meglio il suo rapporto lungo ed amoroso con Karol Kewes, più noto come K.S. Karol, suo compagno per molti e molti anni. Anche se poi, tutto quello che penso, e quello che mi rimane di lei è la frase che sotto ho riportato.

Ancora un ultimo accenno personale, quando, nei primi anni Cinquanta, Rossanda girava per l’Italia, a suscitare dibattiti nelle sezioni del PCI, a cercare di tirarne su il lato culturale, ad ipotizzare, eventualmente, alleanze e motivi d’azione comune con forse non organiche e vicine. In questo, ad esempio, incontrando il sindacalismo bianco e contadino di Guido Miglioli nelle campagne emiliane. Il segretario di Miglioli, all’epoca (dopo aver rotto per un po’ con l’amico Rodano) era Franco Leonori, mio padre.

“Le scelte prima le facciamo poi ci fanno. Il povero e l'oppresso non hanno sempre ragione. Ma i comunisti che si fanno odiare hanno sempre torto.” (176)

Isabel Allende “Lungo petalo di mare” Feltrinelli s.p. (prestito di Alessandra)

[A: 28/02/2020 – I: 03/01/2021 – T: 05/01/2021] - && e ½    

[tit. or.: Largo pétalo de mar; ling. or.: spagnolo; pagine: 344; anno 2019]

Riprendiamo in mano il penultimo libro di Isabel Allende, scritto nel ’19, dove la scrittrice cilena (certo è nata in Perù, ma tutti in lei riviene al lungo e stretto paese sudamericano) torna, anche se non in modo pieno e soddisfacente, agli scritti dei primi tempi. Ai ricordi dei tempi bui del golpe e della dittatura, da una parte allargando le tematiche ad altri e ben noti tempi, dall’altra non entrando in profondo nei disastri cileni, ma sfiorandone i temi, e lasciandoci, in ogni caso, le sensazioni forti di quando si fa fronte a rivoluzioni interne ad un paese.

Il libro è scandito, capitolo dopo capitolo, da versi di Pablo Neruda, che ci comunicano la bellezza del suo paese e la tirannia di chi si mette contro il buon senso ed il rispetto. Neruda avrà anche una parte nel corso della trama, così come il cugino del padre, il dottor Salvator Allende, presidente e martire cileno.

Perché Neruda sarà il fautore della fuga dall’Europa dei reduci spagnoli della Guerra Civile, utilizzando il piroscafo “Winnipeg”, dove troverà posto la famiglia Dalmau, il centro della vicenda del libro. Non solo, ma Victor Dalmau, come medico, conoscerà in ospedale il dottor Allende, e diverrà suo sodale in lunghe partite a scacchi, dagli anni Quaranta sino alla Presidenza.

Questo serve a riportare alla mente l’utilizzo che Isabel fa delle vicende storiche. Ci sono sempre, nei suoi libri migliori, momenti alti e bassi. C’è la Storia (e Neruda e Allende e altri lo testimoniano) e c’è la storia, quella dei miliziani che muoiono sull’Ebro in Spagna e quelli che muoiono nei campi di calcio in Cile durante la dittatura.

In mezzo a tutto ciò, appunto, c’è la storia della famiglia Dalmau. Gente catalana, che impariamo a conoscere e che seguiremo per sessanta anni. Il padre Miguel che dà l’impronta a tutti con la sua onestà ed empatia. La madre Carme che si sacrificherà per i figli, ma alla fine troverà il modo di ricongiungersi con coloro che ama. Il figlio Guillem impegnato fino alla morte nella Guerra Civile, con la breve parentesi rosa con la piccola Roser. Il figlio Victor che imparerà a fare il medico durante la guerra, per poi laurearsi in Cile e diventare medico di fama nonché protagonista centrale della storia. Infine, c’è Roser, adottata non formalmente da Miguel, avviata allo studio della musica, e secondo elemento portante della storia.

Guillem e Roser, prima della morte del giovane, hanno una storia dove Roser rimane incinta. Alla fine della Guerra civile, Roser, aiutata dal basco Aitor, si rifugia in Francia e partorisce Marcel. In Francia viene ritrovata da Victor. Per poter fuggire dall’Europa in fiamme, i due si sposano, anche se solo formalmente, per potersi imbarcare sul Winnipeg di Neruda. E con il piroscafo sbarcano a Valparaíso il 3 settembre del ’39, il giorno dello scoppio della guerra in Europa.

In Cile i due si rifaranno una vita, aiutati da Felipe del Solar, uno strano aristocratico dagli slanci umanitari. Troveranno un loro spazio, e per un periodo Victor diventerà l’amante della sorella di Felipe, Ofelia. Che inopinatamente rimane incinta. Incolpandone Victor lei si allontana, forse partorisce un bambino che muore, e sposerà il gentile Matias, che da sempre l’amava.

Victor, scioccato dallo strano comportamento di Ofelia, si avvicina a Roser, dove finalmente riusciranno ad avere una vita in comune. Lui proseguendo la sua carriera di medico, lei proseguendo nel pianoforte e nell’insegnamento della musica. Tra l’altro, la carriera artistica di Roser la porterà spesso in Venezuela, dove ritroverà l’amico Aitor, uno che casca sempre in piedi.

La vita sembra rifiorire, sino agli anni ’70, quando il golpe della destra che porta alla morte Allende, costringe alla prigione e quasi alla morte anche Victor, amico del presidente. Riesce ad uscirne, grazie alla sua abilità di medico. E di nuovo Victor e Roser riprendono la via dell’esilio, e come molti cileni ripareranno in Venezuela.

Dovranno aspettare la fine della dittatura per tornare in quella che ormai è la loro patria. Dove Roser avrà la pace ed il chiarimento finale con Victor. Dove Victor invecchierà un po’ triste ed un po’ risollevato da una sorpresa che non vi anticipo.

Non entro nelle descrizioni delle guerre, delle lotte, dei momenti cruenti che pervadono comunque il libro in modo funzionale alla storia. Anche se affrontati a volte con quel tono un po’ troppo leggero delle ultime trame di Isabel. Non è un saggio, quindi non è corretto criticare i pochi approfondimenti della Guerra Spagnola, dell’atteggiamento di Francia e Inghilterra di fronte a Franco, delle lotte tra anarchici e comunisti, dell’ingerenza americana nel golpe cileno, e via elencando cose che penso ben sapete tutti.

Rimane una scrittura che torna fresca e più pianamente leggibile di altre prove della nostra scrittrice che non mi avevano molto convinto.

“La data delle nozze venne fissata per … settembre … il mese dei matrimoni eleganti.” (166)

“Aveva scoperto che alla gente piace parlare e bastano un paio di domande per farsi degli amici e imparare molte cose. Ogni persona ha una sua storia e vuole raccontarla.” (223)

“Patria è dove riposano i nostri cari.” (256) [e per estensione anche luogo degli affetti]

“Neruda: come posso vivere tanto lontano da ciò che ho amato, da ciò che amo?” (294)

Anche se siamo solo in febbraio, mi fa piacere fornirvi un bell’allegato su i libri che (potrebbero) essere portati in vacanza.

Come dicevo, mese denso (anche di altro cui non torno), ma dove non posso tirarmi indietro sia al tondo compleanno del mio amico Amos, che alla beatlesiana festa della mia pur sempre rosellina anagrammata.

Siamo allora dalle parti dei grandi temi, quindi vi sforno una dotta citazione tratta da “Alcune questioni di filosofia morale” di Hannah Arendt: “Le nostre decisioni sul bene e sul male dipendono dalla scelta … di coloro con cui vogliamo passare il resto dei nostri giorni”. Io, e tutti voi, tante decisioni ho preso, tra cui quella di continuare ad abbracciarvi.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

FEBBRAIO 2021

Un allegato che spero sia un augurio per tutti.

VACANZA, NON SAPERE QUALI LIBRI PORTARE IN

Nel titolo sopra riportato c’è l’essenza di questa “malattia”.

CURA:

Scegliere per tempo, onde evitare acquisti dettati dal panico

Non commettete lo stesso errore di tanti di noi, che pensano di trovare il romanzo perfetto da portare in vacanza alla libreria dell’aeroporto. Andrete di fretta, e avrete una scelta limitata - e finirete probabilmente per agguantare il best-seller più vicino, fidandovi del gran parlare che se ne fa. Non sprecate la vostra preziosa vacanza con un libro qualsiasi. È l’occasione perfetta per buttarvi su chi vi trasporterà in un’altra epoca. Passatela con qualcosa di altamente leggibile e splendidamente, edonisticamente storico.

I DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE SULL’AMACA

Peter Cameron         “Quella sera dorata”

Piero Chiara              “Vedrò Singapore?”

James Clavell           “Shogun”

Kazuo Ishiguro         “Un pallido orizzonte di colline”

Doris Lessing           “L’erba canta”

Elsa Morante            “Menzogna e sortilegio”

Alberto Moravia        “La noia”

Haruki Murakami    “Norwegian wood”

Cesare Pavese          “La casa in collina”

Jonathan Swift         “I viaggi di Gulliver”

Bugiardino

Allora, Swift, Pavese, Moravia, Morante e Lessing provengono da letture giovanili lontane nel tempo, di cui poco ricordo (come commento). Di Ishiguro ho letto e commentato altro e di questo non ho traccia. Che invece ho di Clavell, che tuttavia tengo ancora tra i leggituri. Per gli altri tre, di diverso interesse, vi sottolineo solo che questo Murakami, per me, è il migliore che ho letto.

Peter Cameron “Quella sera dorata” Adelphi euro 11

[tramato il 10 maggio 2015]

[tit. or.: The City of Your Final Destination; ling. or.: inglese; pagine: 318; anno 2002]

Non so perché avevo sempre preso sottogamba questo autore, non riuscendo a convincermi a leggerne (forse respinto da quel secondo titolo pubblicato “Paura della matematica”, che mi sembra ancora oggi di difficile approccio per uno che, come me, i numeri li adora). Spinto dalle recensioni dei libri curativi, ho al fine preso in mano questo primo libro dell’autore americano e devo dire che mi ha preso molto, tanto da non riuscire quasi a staccarmene ogni volta che lo prendevo in mano. In questo, per una rara volta, concordo con la quarta di copertina e con i giudizi colà espressi da Giuseppe Montesano.

Un libro di dialoghi, anche se ci si muove tra il Kansas, l’Uruguay e New York, che qualche bravo sceneggiatore potrebbe anche ridurre in una pièce teatrale. Con cinque personaggi che si muovono lungo la trama, ed un sesto che non c’è ma che aleggia. Il sesto, Jules, è l’autore di un solo libro e di cui il profugo iraniano Omar, ora dottorando in Kansas, vorrebbe scrivere la biografia per poter restare nel mondo universitario.

Omar ha una relazione conflittuale con Deirdre, ricercatrice volitiva, di quelle che conoscono sempre la soluzione, mentre il povero Omar non sa fare quasi nulla, è impacciato e maldestro. Ma la sua richiesta ai parenti di Jules per l’autorizzazione alla biografia viene respinta. Omar decide allora di recarsi in Uruguay, dove questi vivono, per far loro cambiare idea. Ed in una sperduta comunità, di difficile raggiungimento, trova questo piccolo mondo che si incarta nella vita, imbozzolandosi in momenti di ripicche e rancori reciproci.

C’è la moglie di Jules, Caroline, pittrice che non sa più dipingere e che per questo fa solo copie di quadri famosi. C’è l’amante di Jules, Arden, che vive la sua piccola vita con la figlia dello scrittore. C’è il fratello di Jules, Adam, gay con amante thailandese che sembra essere un po’ lo stanco burattinaio delle vicende. Omar, con la sua inadeguatezza, arriva a scombussolare la vita a tutti quanti. Sono pagine e pagine di dialoghi tra Omar e Arden, tra Omar e Adam, tra Caroline ed il mondo.

La bellezza dei dialoghi è il modo con cui l’autore riesce, pagina dopo pagina, a farci comparire anche la figura di Jules. Di cui all’inizio sappiamo solo che si è ucciso. Poi ne scopriamo la vita, con la lunga fuga dalla Germania nazista dei genitori ebrei, il rifugio in Sudamerica, le case, la miniera, la gondola, il lago. Jules che si occupa di letteratura, che a Parigi si innamora di Margot, ma che a New York, Caroline, la sorella di Margot, glielo sottrae e se lo sposa. Il ritorno a Montevideo, l’università, l’incontro con Arden, il nuovo amore. E poi la vita laggiù, in cui tutti continuano ad essere insieme, nonostante non ci sia affetto tra di loro.

Adam, con la sua aria da gay anziano sembra avere delle chiavi per aprire quelle porte chiuse. Ma è il quasi dramma di Omar che poi si pone al centro della vicenda. Punto da un’ape, ha uno shock anafilattico, entra in coma, Deirdre lo viene a salvare, ma a me continua ad irritare con quell’aria di “so tutto io”. Fortunatamente Omar guarisce, e si ricorda di aver baciato Arden prima dell’ape. Nel suo modo poco appariscente, Omar comincia a ragionare su sé stesso, su cosa vuole veramente nella vita (ahi, quanti di noi se lo chiedono ancora).

Nella parte finale, l’autore cerca di tirare delle somme un po’ velocemente, che altrimenti ne uscirebbe un libro di un numero doppio di pagine. Ed ognuno, come rammenta il titolo inglese, va verso la città della sua destinazione finale (e perché stravolgere il titolo con una seppur dotta citazione di Elisabeth Bishop?).

L’amante di Adam si trasferisce a Montevideo, lasciando il nostro povero gay a trascinarsi inconcludentemente per gli ultimi anni della sua vita. Caroline riceve in eredità dalla sorella la casa di New York, dove si trasferisce e dove ricomincia a vivere. Deirdre va di università in università con le sue ricerche per poi finire quattro anni dopo anche lei a New York. Omar, lasciata l’antipatica, pensa di tornare dai genitori a Toronto. Però, in un assalto di follia che hanno solo le persone innamorate, decide di tornare in Uruguay, e confessare il suo amore ad Arden.

Qui non vi svelo il finale ultimo, su come prosegue la vita di Omar e di Arden, che sono pagine che vanno lette. Anche perché l’autore ce le svela in controluce, così come in controluce si vede molta parte del libro. Le questioni ci sono, vengono poste, ma le soluzioni non sono quasi mai espresse direttamente.

Confermo, un piccolo capolavoro dell’arte del dialogo. Di quelli che fanno tornare ad amare i romanzi, le storie ben congeniate, e la capacità di autori, come Cameron, di rendercele e di farcene partecipi. Invito quindi chi non lo avesse ancora fatto a leggerlo, per rinsaldare il nostro comune piacere alla letteratura.

“Sono abbastanza educato da sapere cosa non si deve dire, ma non abbastanza per riuscire a non dirlo.” (39)

“- Io ti amo, lo sai che ti amo. Anzi, ti dico queste cose proprio perché ti amo. – Non sembra amore, sembra rabbia. – Certo che sembra rabbia. È rabbia. Sono arrabbiata ma questo non esclude l’amore. Le due cose possono coesistere.” (54)

“Sai, spesso penso, spesso mi dico: devo cambiare vita radicalmente. Ora, ora, ora. Negli ultimi capitoli succedono spesso cose straordinarie, non è vero? Tu non pensi mai alla tua vita come ad un romanzo? Io sì.” (187)

“Amo i libri e basta, non ho la passione per l’insegnamento, non amo scrivere e non sono bravo.” (273)

Piero Chiara “Vedrò Singapore?” Mondadori euro 10 (in realtà, scontato a 9 euro)

[tramato il 17 maggio 2015]

Mai facile il mio rapporto con lo scrittore Piero Chiara. Certo per problemi di mie “follie giovanili” e non certo imputabili all’autore. Ero, infatti, ancora sotto le ali genitoriali e mi capitò tra le mani, pescato nella già enorme libreria familiare, un libro del nostro (“Il piatto piange”). Iniziato a leggere, portato avanti con sentimenti alterni, per problemi a me tuttora ignoti, purtroppo, mancante di un certo numero di pagine del finale (se non ricordo male erano le ultime 28 pagine). Direte voi: e allora? Niente, cestinai il libro e decisi (incolpevole l’autore) che non era un autore che avrei letto o riletto spesso. Misteri della gioventù.

Ora, sotto la sempre solerte spinta libropatica, tiro fuori questo veloce scritto. L’ultimo pubblicato in vita, anche se tra i primi ad essere concepito, e poi pensato, corretto e rivisto per anni e anni. Leggendone, e ricordando quella prima lettura, vedo facilmente una delle radici da cui è venuto fuori quell’Andrea Vitali che di tanti libri ha riempito i miei scaffali. Con tutti gli ovvi distinguo del caso, ma è lì, nella piccola provincia italiana che nascono momenti di letteratura (e non arrischio di certo giudizi se sia alta, bassa o così così) di sicura presa verso un lettore che non sia distratto. Certo, questo libro di Chiara è più filologico e biografico dei veloci appunti del medico di Bellano. E Chiara, inoltre, ha di certo un umorismo più datato e se vogliamo meno scoppiettante.

Pur tuttavia, è lo scrittore luinese che traccia la strada. Quella della descrizione minuta dei caratteri, quella dei caratteri che riempiono i giorni e le notti dei più sperduti punti italici, quella dell’ironia sulla sovraesposizione che nel fascismo facevano di sé personaggi tronfi e forti solo del loro grado e non della loro esistenza.

Libro in gran parte biografico, ripercorre l’anno 1932 quando il giovane Piero, dopo mille lavori saltuari, arriva 118° su 119 posti per la carica di scrivano di atti giudiziari. Essendo quindi uno degli ultimi, dopo un periodo avventizio a Pontebba, per decreto del commissario Mordace, si ritrova spedito nella sperduta località di Aidussina, ora in Slovenia. Qui il ventenne avventizio s’immerge, e ci fa vivere a pieno, la vita sperduta di una cittadina quasi sospesa in un limbo fuori dal mondo.

La pensione dove trova alloggio, con i suoi pubblici funzionari che lì si ritrovano a cena. Il bar – trattoria dove si gioca a biliardo, ed a carte. E l’ufficio, con il pretore Merdicchione e il cancelliere Semitocolo. Da un lato conosciamo i bei tipi della pensione e del bar, ognuno con una storia alle spalle, ognuno con piccole o grandi cose da nascondere. O da raccontare, dopo un bel bicchiere di vino. Ci sono anche due ragazze in ufficio. C’è anche l’ufficio del catasto, che, essendo eredità dell’Impero Asburgico, è un catasto tavolare, cui solo il geometra Zciuka sa maneggiare.

Piccole storielle passano, il nostro cerca di entrare nelle grazie delle due ragazze con poco successo. Entrerà invece nel giro del pretore che, per passare le giornate, organizza un tavolo di poker in ufficio. Il tutto precipita quando il solito Mordace chiede al pretore di cambiare quel nome poco onorevole. Al rifiuto di questi, il fascistone comincia una subdola caccia che porterà a scoprire il pokerino pomeridiano, la poco chiara carriera del pretore, nonché qualche elemento oscuro anche del geometra. Immediato sarà il trasferimento di Chiara dalla Slovenia a Cividale nel Friuli.

Dove si ripeterà molto, anche se con cambiamenti significativi. Piero inizia una duratura relazione con un’insegnante di un vicino paese che lo viene a trovare (e mi scuso l’eufemismo) tutti i sabati in ufficio. Ma il giovane è preso dalla bella cassiera Brunilde detta Ilde, che però sembra inarrivabile. Sarà sempre Mordace a sconvolgere i piani del nostro, irrompendo in ufficio nel corso di un convegno amoroso. Per non essere cacciato, Piero si finge disturbato, viene mandato in ospedale dove conosce un maresciallo con cui simpatizza, ma che gli rivela una notizia “bomba”: Ilde ha chiesto il libretto da “prostituta”, per fuggire da Cividale. Bella la ricostruzione storica delle case di chiuse e delle donne avviate al meretricio.

Piero segue a Trieste la bella Ilde, cercando di convincerla al matrimonio, che lei, realisticamente, rifiuta. E sarà nel casino dove lei esercita che avverrà l’ultimo fattaccio. Si presenta despota ed insolente il solito Mordace. Il giovane sbrocca, e gli da un calcio nelle parti basse. Viene anche arrestato, e per sfuggire ad una probabile condanna, accetterà l’aiuto di un amico triestino per imbarcarsi come scrivano su di una nave che dirige la propria rotta verso Oriente. Riuscirà il nostro a vedere Singapore? Non è importante e non ve lo dico.

Seppur con un po’ di lentezza, è invece importante la concatenazione di eventi che si susseguono lungo tutto il libro. E la presenza e la descrizione di tutti questi personaggi che in un solo anno il nostro incontra nella pur bella provincia italiana. Alla fine, mi ha rimandato alla memoria quel garbato libro in francese letto non molto tempo fa (“Le front russe”), soprattutto per quelle atmosfere ministeriali delle preture di provincia, con pretori ed altri pubblici ufficiali alla ricerca di un’auto affermazione del proprio altrimenti inutile ruolo. Insomma, ho recuperato una bella scrittura, anche se in un libro “normale” di lettura e di gradimento.

“Un uomo può vivere più vite. Io ne ho vissute molte, buone e meno buone. Ora ne vivo una nuova che sarà forse l’ultima, perché ho cinquantotto anni.” (67)

“Non è il primo amore che conta, ma l’ultimo, quello che accompagna l’uomo alla morte, che lo aiuta a morire.” (75)

“Alla luce di una lampada da tavolo, leggeva. Cosa mai poteva interessarlo alle soglie della morte? Leggeva, imparava ancora, a novant’anni.” (165)

Haruki Murakami “Norwegian Wood” Einaudi euro 12

[tramato il 10 maggio 2011]

Grazie alla curiosità seguita ad un cenno in un libro di Licalzi (ed ai ricordi di discussioni con Rosa) ho finalmente affrontato Murakami (metto il nome nella giusta prospettiva europea: prima il nome, Haruki, poi il cognome, Murakami). E, nonostante le quasi 400 pagine, l’ho letto in un fiato. Bello, complesso nei sentimenti, ma come facevo a lasciarlo lì? E poi così pieno di musica, tanto che mi verrebbe la voglia di farne una compilation (tra l’altro, ho letto il libro solo ora perché non mi piaceva il primo titolo italiano di Feltrinelli, Tokyo blues, che non rispettava la colonna sonora dei Beatles che punteggia il romanzo, e soprattutto ne falsava un’interpretazione, se ben vi ricordate i primi due versi di John Lennon).

Non posso dire di conoscere Murakami, e, soprattutto (dalle poche notizie sullo scrittore di Kyōto, capricorno del ’49), mi pare di capire che questo sia un romanzo atipico della sua produzione. Non solo perché parla d’amore, ma anche perché venne scritto in Europa, tra Atene e Roma, dal trentasettenne scrittore, che lascia la sua traccia proprio nell’incipit (“Avevo 37 anni, ed ero seduto a bordo di un Boeing 747”). Da questo ricordo, parte un lungo flashback sulla formazione del protagonista, che ci fa piombare nel suo primo biennio universitario a Tōkyō, ed in tutta l’elaborazione per la costruzione di un’identità adulta.

Certamente, la bella introduzione di Giorgio Amitrano (nonché la sua traduzione, a parte un punto da chiarire di cui dirò in finale), e che io, al solito, avrei spostato come postfazione, chiarisce molto meglio di me sia la genesi che la scrittura del romanzo. Ed accenna ad analisi (altrove approfondite) sul parallelismo tra questo libro e sia il David Copperfield di Dickens che il Giovane Holden di Salinger (entrambi citati in omaggio nel testo).

Ma non è su questo che volevo tramare. Solo prenderne spunto, ribadendone il carattere di “libro di formazione”. E poi passare al testo, ai personaggi. A Tōru, il protagonista, l’io-narrante, che inizia a parlare della sua formazione, e sa già dove andranno a finire i personaggi, ma non ne anticipa mai lo sviluppo, con un grande equilibrio tra il sapere ed il narrare.

Tōru, che come Holden, è un alieno nel Giappone della fine degli Anni Sessanta (epoca del romanzo), perché non è imbevuto di samurai e tradizione (anche se li conosce), ma legge libri occidentali, segue corsi universitari su Euripide, e, soprattutto, ascolta jazz, rock e pop della migliore qualità. Si aggira per la città, e per la campagna, facendo quello che un po’ fan tutti i suoi coetanei (beve, scopa, studia, e così via), ma con una sua idea di fondo, etica e morale, sul trovare qualcosa di giusto per sé, senza cedere alle lusinghe del facile e dell’apparire. Qualcosa che lo realizzi, cercando di fare il meno male possibile agli altri, anche a costo di non figurare, di non stare sempre in primo piano.

Per questo (ed è una cosa che mi ha fatto un piacere enorme) tace se non ha niente da dire. Cerca, nei limiti del possibile, di essere sincero. Anche a costi dover rimediare ad errori (bello e terribile quando non si accorge della pettinatura di Midori). Ma pagare per i propri errori è proprio la cresta dell’onda morale su cui viaggia. Anche a costo di dire le cose sbagliate, o di far capire di non avere un’opinione sulla domanda che gli si rivolge.  E Tōru attraversa questa sua formazione incrociando due, o forse tre, donne, che avranno peso e sostanza per farlo maturare.

Naoko, il lato-ombra della vita, la donna del suo amico Kizaki che si è suicidato a 17 anni senza un motivo, cui si lega affettivamente ed emotivamente. Anzi, direi che se ne innamora. Che vuole tirarla fuori dalla cupezza che ne avvolge la vita. Perché Naoko non capisce la morte di Kizaki, e questo condiziona tutto il suo modo di essere. Con quella difficoltà di articolare un discorso ben formato, che troppe parole ed idee le affollano la testa ed a cui non riesce a mettere ordine. Ordine di uscita. Per cui tace. E le passeggiate silenziose di Tōru e Naoko per la città sono bellissime.

Midori, il lato-luce della vita, anche lei con problemi (la famiglia, la morte della madre per un tumore, e via discorrendo), ma che li affronta e li supera (o cerca di farlo). Come quando, accorgendosi di non volere più tanto bene al suo ragazzo, decide di lasciarlo senza prospettive, perché, in un certo senso, non sa fingere. E lei parla, inventa, tira fuori storie e coinvolge Tōru in avventure pazze, tra cinema pornografici, terrazze notturne, visite a malati.

Tōru viaggia tra questi due poli, cercando di capire, dove dirigere la sua bussola, e facendo anche lui delle scelte, difficili, dolorose, ma scelte. Poi c’è la terza, la “vecchia” Reiko (che quando loro hanno 20 anni già sta sui 37), che diventa amica di Naoko, e poi amica, confidente e mentore di Tōru, cui (un po’ come il deus ex-machina del suo amato Euripide) tirerà fuori quello che Tōru sa di avere dentro, le sue decisioni. E nei colloqui con Reiko riesce a chiarirsi.

La vita continuerà a non essere facile, ma sono arrivato contento all’ultima pagina. Rimpiangendo di aver aspettato questi 20 anni per leggerlo. Ma, come so bene dentro di me, la formazione non finisce mai. Guai se finisse. Qui finisco la trama, ahi quanto lunga, ma sarei rimasto a parlarne ancora. Non vorrei solo togliere il piacere a chi sarà spinto da me a prendere in mano il libro, se non lo ha già fatto.

Termino rispettando la promessa iniziale, con una domanda al traduttore. A pagina 258 si parla di ragazzini che giocano a baseball (uno degli sport nazionali giapponesi), ma si traduce qualcosa con “un gioco pieno di falli e fuorigioco”. Ora, se c'è una cosa che NON esiste nel baseball sono proprio i fuorigioco (tipici del calcio in genere). L’unica cosa fuori nel baseball, sono i fuoricampo, che sono uno dei punti vincenti di una delle due squadre. Ebbene, se ha tradotto fuoricampo con fuorigioco, merita un 2- in traduzione; se invece ha tradotto qualcosa d’altro forse arriviamo a 3, ma non molto. Certo, una riga su 379 pagine può sfuggire, ma, si sa, io sono maniaco.

“Svegliati, sforzati di capire! È per questo che sto scrivendo. Sono uno di quelli che per capire le cose ha assolutamente bisogno di scriverle” (6)

“Non [leggi] proprio gli autori del momento. – È proprio per questo che li leggo. Se uno legge quello che leggono gli altri, finisce col pensare allo stesso modo” (41)

“Sei proprio un tipo strano, tu. Fai battute con l’aria di chi dice la cosa più seria del mondo.” (93)

“Comunque, sai che cosa ho pensato? Come sarebbe bello se il primo bacio della mia vita fosse stato questo! … Non sarebbe bello, arrivare, che ne so, a cinquantotto anni, pensare: chissà dove sarà adesso … il ragazzo che per la prima volta mi diede un bacio sulla terrazza tra i fili per stendere la biancheria?” (221)

“Ho bisogno di tempo … Tempo per pensare, per fare ordine dentro di me, per capire. Mi rendo conto che non è giusto nei tuoi confronti, ma per adesso è tutto quello che posso dire…. – Va bene, aspetterò… Ma quando mi prenderai, dev’essere solo me che prendi. E quando mi stringerai dev’essere a me che pensi.” (337)

“La morte non è qualcosa di opposto ma di intrinseco alla vita, che questo fosse vero era fuori di dubbio. Nel momento stesso in cui viviamo, cresciamo in noi la morte. Ma questa era solo una parte della verità che dobbiamo imparare…. Per quanto uno possa raggiungere la verità, niente può lenire la sofferenza di perdere una persona amata. Non c’è verità, sincerità, forza, dolcezza che ci possa guarire da una sofferenza del genere. L’unica cosa che possiamo fare è superare la sofferenza attraverso la sofferenza, possibilmente cercando di trarne qualche insegnamento, pur sapendo che questo insegnamento non ci sarà di nessun aiuto la prossima volta che la sofferenza ci colpirà all’improvviso.” (349)

Conclusioni

Non so se porterei Chiara in vacanza, certo leggerei con piacere Cameron e Murakami (e forse anche Clavell) sia in riva al mare che sotto brezze campagnole. Ribadendo, che, a qualsiasi età, “Norwegian Wood” DEVE essere letto.