domenica 28 aprile 2024

Italiani più saggi dei giapponesi - 28 aprile 2024

Non una battuta, ma la costatazione a valle di una settimana dedicata ad alcuni saggi o di letteratura poco classificabile. Ci sono due giapponesi storici, Murakami e Yoshimoto, con libri un po’ datati, e con un po’ di delusione per la scrittura di Banana. Mentre a lato ci sono due italiani, D’Avenia e Bianchi. Il primo con un viaggio insieme ad Ulisse che mi ha scaldato il cuore. Enzo Bianchi con due libri dedicati alla morte ed alla vecchiaia che ho letto con attenzione che le riflessioni dell’ex-priore di Bose non lasciano mai indifferenti. Unico cruccio, per ragioni di acquisiti disordinati, ho letto prima la morte e poi la vecchiaia. Ma credo che le mie personali riflessioni ne possano prescindere.

Insomma, alcuni libri che consiglierei senz’altro di leggere. Magari possiamo avere reazioni diverse, ma non sono certo libri banali (in senso matematico).

Alessandro D’Avenia “Resisti, cuore” Mondadori s.p. (regalo di Emilio&Fako)

[A: 12/09/2023 – I: 29/09/2023 – T: 03/10/2023] &&&&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 415; anno: 2023]

Non c’è dubbio: Alessandro D’Avenia è un professore. Conosce le corde affinché la letteratura, tutta, possa entrare in sintonia con l’altro da sé, sia esso studente o lettore. Poiché inoltre conosce bene ciò di cui parla, la resa stilistica è di alto profilo.

Avevo cominciato anni fa con il suo primo romanzo, di buona ma normale fattura. Passati anni, ho letto la sua arte della fragilità, dove mi restituiva un Leopardi finalmente umano. Ora, con decisione e passione, arriva al cuore del suo viaggio, come Ulisse di cui ci parla. Ci arriva perché intreccia la letteratura alla vita, alla sua vita (e d’altra parte è sempre così, la letteratura, il libro è parte di noi, basta lasciarsi cullare dalle pagine, ed accettare che quello che viene detto è per noi e non per altri, come in modo illuminante vien fuori dalle parole di Chesterton che metto in fondo). Ma non dimentico anche che, non sempre ma con sovente curiosità, segue le sue parole periodiche sul Corriere.

Intanto, riprenderei il titolo completo che recita: “resisti, cuore. L’Odissea e l’arte di essere mortali”. D’Avenia, da fine conoscitore del greco e profondo amante della scrittura omerica, ripercorre nel testo il modo di porre il poema epico alle sue classi liceali. Certo, è difficile che ci faccia fare lo stesso percorso, visto che non può indurci a leggere l’Odissea integralmente. Si accontenta di narrarcela, smembrandola e ricomponendola. Intrecciandola poi, come sempre avviene con i libri, con la sua vita personale.

Piena di aneddoti e di rimandi a tutta la sua storia, in realtà non ho interesse ad addentrarmi nel suo personale. Se non per un punto. Alessandro confessa di essere riuscito a porre mano ed a terminare il testo solo avendo nel frattempo incontrato un amore felice, con il quale, mentre noi ne leggiamo, sappiamo ha convolato in giuste nozze. Con l’augurio mio personale di aver trovato quello che vi ho trovato io, che, vi confesso, non è poco.

Tuttavia il personale dell’autore non mi interessa ripercorrere in queste righe. Ne potete leggere, ne potete trarre i vostri giudizi, le vostre simpatie e antipatie. Io vorrei accompagnarmi ad Alessandro in alcune sue osservazioni, che hanno aperto squarci di conoscenza in una materia che, pur presente nel fondo della mente, non è mai risultata così viva come ora che ne ho riletto i punti esaltanti.

Una piccola premessa. In gioventù, era un patito dell’Iliade, ma non per la guerra in sé, né per la figura di Achille, che mai mi ha sedotto. Ma per quell’inarrivabile “Catalogo delle Navi” compreso nel secondo libro. Un elenco che stimolava la mia fantasia di viaggio. Lì di fronte a Troia v’era un concentrato del mondo com’era conosciuto. Ed il catalogo portava a sognare l’esistenza di tutte quelle terre che, se fossi stato allora un viaggiatore, avrei visitato.

Avevo quindi riservato ad Ulisse solo dei piccoli posti speciali e specifici, su cui tornerò. Qui, Alessandro mi spalanca un mondo. Prima di tutto perché mi fa ragionare che, dal punto di vista temporale, l’Odissea si spande in realtà per 40 giorni, dalla partenza di Ulisse da Ogigia dove aveva vissuto con la dea Calipso all’arrivo ad Itaca ed al consumarsi della vendetta e della riconciliazione con Penelope e Laerte. Numeri importanti, che Ulisse sono 20 anni che è lontano da Itaca, i dieci della guerra ed i dieci necessari al ritorno. E 20 è un’unità ciclica ricorrente in molte datazioni (ad esempio nel calendario Maya).

Secondo apporto di conoscenza è la tripartizione del poema, rispetto all’usuale divisione in cinque stadi. Così che vediamo più concisamente divisi i 24 canti del poema, otto per ogni parte. La prima, etichettata partire, ci fa immergere prima nel mondo di Telemaco e della sua partenza da Itaca, e poi nella partenza di Ulisse da Ogigia. La seconda, che si vuol ricordare come viaggiare, è riempita dalla narrazione che fa Ulisse ai Feaci, descrivendo come ha passato gli ultimi dieci anni dopo aver lasciato Troia. Questa è poi quella che rimane nell’immaginario collettivo come la vera “odissea”, nome che diventa eponimo. Infine la terza, tornare, quando sia Ulisse che Telemaco tornano a Itaca. E dove si consuma il finale annunciato dell’Odissea.

Non il finale di Ulisse, che, come sappiamo dalle parole di Tiresia che Ulisse incontra nel breve viaggio tra i morti, il nostro è destinato ad altri viaggi, per infine morire in un lugo lontano dal mare.

L’altra idea dell’autore che mi ha fatto riflettere è la decisione di Ulisse, quando sta da Calipso, di rinunciare all’immortalità, per seguire la sua vena mortale, e ricongiungersi con gli affetti. Penelope, Telemaco, Laerte. Non Anticlea, la madre, che lui sa già essere morta. Ma è l’affacciarsi della morte come elemento della vita che permea tutto il poema e la decisione di Ulisse. Solo perché sappiamo di morire, possiamo dare un senso alla nostra vita. Solo viaggiando verso la morte possiamo nascere ogni giorno nel nostro immenso quotidiano. In modo che il nostro cuore (là dove è la sorgente di tutto il nostro essere, l’anima forse) possa resistere. Filosoficamente, come ci insegna il professor D’Avenia, nel senso di ri-esistere.

A ben guardare, il ritorno verso Itaca è meglio da intendere come un viaggio verso Itaca. Ulisse non vuole tornare all’Itaca del suo passato, ma arrivare ad Itaca per costruire il suo futuro. Ulisse, e noi con lui, invece di fuggire torna, arriva. Ulisse, e noi con lui, invece di morire, nasciamo alla vita.

Abbandonando D’Avenia, ma non Ulisse, questo percorso veloce che lui mi ha concesso di fare insieme, riprende alcuni punti che, nel corso degli anni, hanno saldato il me stesso con la vita che sto vivendo. Legandomi prima (grazie professor Morganti) al canto XXVI ed alla terzina che recita: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Per cui lo studio e le novità hanno sempre legato la mia passione nell’esistere.

Passando poi, durante i turbolenti venti anni, all’amore per Foscolo ed al suo passaggio su Zacinto: “bello di fama e di sventura / baciò la sua petrosa Itaca Ulisse”. Avrei voluto essere bello, ma in fondo, baciando la mia Itaca certificavo una volontà di non arrendersi.

Finendo quindi, dopo tanti viaggi anche mentali, ad approdare a Konstantinos Kavafis: “Quando ti metterai in viaggio per Itaca / devi augurarti che la strada sia lunga, / fertile in avventure e in esperienze”.

Parole che racchiudono, per me, il senso di Itaca e di questo libro. Con il viaggio ad Itaca bisogna avere la capacità di accogliere il viaggio (la vita) per quello che è. Esperienze uniche, irripetibili, casuali, caotiche. Insieme di momenti che modellano in modo unico la nostra unicità di essere umani.

“Ho imparato a leggere prima di andare alle elementari … i libri hanno segnato la mia infanzia … così mi sono messo a rileggere le avventure di Asterix.” (39)

“Raymond Carver: E hai ottenuto quello che / volevi da questa vita, nonostante tutto? / Sì. / E cos’è che volevi? /Potermi dire amato, sentirmi / amato sulla terra.” (81)

“Chesterton: Ogni storia … ha qualcosa che appartiene all’universo. Ogni storia, per quanto breve, comincia con la creazione e termina con il giudizio finale.” (153)

“Bibbia (Salmo 90): Insegnaci dunque a contare i nostri giorni, per ottenere un cuore saggio.” (169)

“Niente come la morte dei genitori, e soprattutto la morte della madre, fa prendere coscienza di non essere immortali.” (245)

Haruki Murakami “Underground” Corriere – Murakami 6 euro 8,90

[A: 18/06/2020 – I: 23/12/2023 – T: 25/12/2023] - &&      

[tit. or.: アンダーグラウンド Andāgurando & 約束された場所で―underground 2 Yakusoku sareta basho de: Underground 2; ling. or.: giapponese; pagine: 502; anno 1997-8]

Una premessa: pur andando avanti nella lettura dell’opera dell’autore, ho inserito questo volume in una trama di scrittura varia, che non solo non è un romanzo, ma è un’opera che diverge dal solco tradizionale delle scritture di Murakami, per cui ne preferisco questa collocazione.

Intanto, come si dovrebbe capire dal titolo originale, questo volume racchiude due saggi di Murakami, intitolati “Underground” e “Underground 2”, dedicati (e vedremo come) ad un momento topico della storia giapponese recente: l’attentato al sarin avvenuto il 20 marzo 1995 nella metropolitana di Tokyo, che provocò 13 morti ed oltre 600 intossicati. Gli attentati vennero ideati da Shōkō Asahara, fondatore dalla setta religiosa dell'Aum Shinrikyō, ed eseguiti da alcuni membri della setta stessa.

L’idea di Murakami, all’epoca da poco tornato in Giappone dopo lunghi soggiorni in Europa, è stata di intervistare le persone colpite dall’attentato, riprodurre più o meno fedelmente le interviste stesse, al fine di far uscire un quadro sulla quotidianità giapponese, su come furono gestiti i soccorsi, visti dalla parte delle persone colpite, e su come, dopo, le stesse persone stessero vivendo quel momento. Murakami ha cercato di non intervenire in prima persona, ma soltanto di organizzare i testi in modo fruibile al lettore.

Una volta però pubblicato “Underground” fu da un lato sommerso di critiche perché, appunto, non erano presenti analisi e considerazioni sull’accaduto, dall’altro (ma questo fu una sua sensazione personale) perché, anche se volutamente, non c’era nessun accenno a chi fosse e cosa pensassero gli adepti della setta. Motivo per cui, decide di dedicare una seconda tornata di interviste ad alcune persone sia ancora appartenenti ad Aum, sia essendosene, per motivi vari, allontanati. Esce così “Underground 2”, dove Murakami è più presente, che ci sono le domande, ed alcune considerazioni dell’autore stesso, anche se il tessuto del testo è fatto delle parole e delle considerazioni dei discepoli di Asahara.

Comunque, il “documentario” (perché sembra quasi una sequenza di immagini piuttosto che un libro scritto) nella prima parte è diviso in sette capitoli, corrispondenti alle diverse linee della metro dove sono avvenuti gli attentati. L’attenzione di Murakami ai dettagli ci introduce con la descrizione e l’operatività del commando per ognuna delle linee della metro interessate. Dopo di che passa alla testimonianza di chi, utilizzando quella linea, era stato colpito dal gas.

Si ha così l’impressione di condividere con i malcapitati i momenti d’angoscia in cui ci si comincia a sentire male e non se ne capiscono i motivi. Si vive una situazione di estrema confusione in tutte le stazioni, dove nessuno riesce a prendere un comando operativo (ma da lì, i giapponesi faranno tesoro ed ora sono molto attrezzati). Si vedono persone mandate in ospedale, ma le ambulanze non arrivano ed allora ci vanno da sole o in taxi. Si vedono gli ospedali sovracaricati di lavoro che non sanno come affrontare. Sarà solo la perizia di un medico, che aveva analizzato pochi mesi prima casi di avvelenamenti da gas tossici, che permetterà di individuare l’elemento scatenante. Da lì sarà tutto più facile, che l’avvelenamento da sarin, se riconosciuto, è facilmente neutralizzabile. Peccato che tra intossicazioni troppo forti e mancanza di cure specifiche immediate, alla fine ci siano 13 morti e più di 6000 intossicati.

In questa prima parte, Murakami è praticamente trasparente. Non entra nelle interviste, si limita a registrare le sofferenze di chi ha subito un danno senza capirne i motivi. Certo, l’impatto è forte, e mi domando, e forse è anche questo che ci chiede Murakami, cosa avremmo fatto noi. Noi, qui, ora, non lo so. Ma leggendone mi viene in mente che a fronte di situazioni eccezionali, i nostri genitori hanno fatto scelte e hanno saputo cosa fare.

Come detto, sentendo il libro monco, Murakami decide di intervistare seguaci della setta Aum. Vediamo così un confronto immediato, non con i colpevoli ma con chi, senza prendere posizione, stava da una parte e non si rendeva conto di quale baratro stava aprendosi. C’erano professionisti, cittadini integerrimi e stimati, che salgono sulla metro con il sarin, e spargono la morte nei vagoni. Il mistero è che anche il leader della setta, durante il processo, non ha mai voluto confessare i motivi del gesto criminale. Certo, il Giappone attraversava un periodo di grande crisi, con una pessimistica visione del futuro. Tra l’altro si avvicinava quell’inutile spauracchio del “Millenium”. Così che possiamo immaginare che menti fragili possono decidere di affidarsi senza contraddittorio ad una persona forte. È capitato nel passato, capita nel presente, capiterà nel futuro.

Non è un caso, e questo esce dalle interviste dove Murakami si fa presente ed instaura un contraddittorio, che quando le ragioni filosofiche e di vita vengono meno, le persone si allontanano dalla setta, o rimangono anche se Aum sembra cambiare profilo, dandosi un’aria più meditativa. Anche se a me rimangono perplessità, laddove, ad esempio, ora, nel nostro presente storico, Aum risulta particolarmente presente ed attiva in Russia.

Alla fine, Murakami riesce ad imbastire un percorso complesso, che parte dalle vittime del gas, attraversa i colpevoli, per arrivare alle vittime della setta. Cioè abbiamo le terribili esperienze delle vittime e le reazioni di coloro che stavano con i cattivi senza saperlo, e probabilmente senza esserlo.

Un libro difficile, con molti spunti di riflessione anche su quanto accade qui ed ora. Ma soprattutto un libro che ci dà uno spaccato del mondo giapponese, una visione complessa della psiche nipponica, una fotografia che non può mancare nel nostro immaginario se vogliamo veramente comprendere quel mondo lontano e pur sempre affascinante. Ma pur se interessante è anche un libro abbastanza pesante da portare fino in fondo.

Banana Yoshimoto “Che significa diventare adulti?” Feltrinelli euro 12 (in realtà, scontato a 11,40 euro)

[A: 02/04/2024 – I: 11/04/2024 – T: 12/04/2024] - &      

[tit. or.: 大人になるとはどういう意味ですか Otonani narutte donna koto?; ling. or.: giapponese; pagine: 90; anno 2015]

Ho sempre letto con interesse la delicata scrittura di Banana Yoshimoto, che anche quando nei suoi romanzi affronta tematiche complesse, risulta di gradevole e coinvolgente lettura. Quasi ci si potesse mettere intorno ad un tavolo, con alcune buone tazze di tè e ci si scambiasse pensieri su tutto.

Qui, però, non siamo in un romanzo, ma in qualcosa che verrebbe da definire saggio, ma forse sarebbe più calzante definire appunti di memoria sul filo di pensieri che vanno e vengono nella nostra mente. Il risultato, tuttavia, è decisamente deludente. Se non si conoscesse l’autrice, sembrerebbe essere caduti di peso in un libro di auto-aiuto anche un po’ debole nella scrittura. Senza voler essere troppo critici (o caustici) sembra di voler iniziare a leggere un libro di Tolstoj e trovarsi tra le mani un testo di Coelho.

Certo, Banana mette subito le mani avanti dicendo di voler scrivere qualcosa che si possa sfogliare senza impegno, che si possa prendere ed aprire a caso, lasciandoci sfiorare dalle parole, magari riuscendo a farcele sentire vicine nel momento di quel bisogno.

Perché Banana si pone (ci pone) alcune domande e su quelle imbastisce un discorsetto morale che però rimane talmente in superfice che a me ha dato l’impressione quasi si volesse fare un fioretto pubblicando parole a ruota libera.

Ci sono, è vero, alcuni elementi che un po’ squarciano il basso velo del testo. Da un lato sono gli accenni al personale di Banana. Quando, per parlare dell’argomento del capitolo, tira fuori qualche elemento personale, di certo il livello sale. Ma sarebbe salito più e meglio con un percorso al contrario. Ti parlo di me, ti racconto brani del mio vissuto, e li intercalo con le questioni che pongono, che mi hanno posto.

Ad esempio, parla del me bambino o quasi adolescente, l’ambiente della scuola, il rapporto con gli altri, e capisco (ti faccio capire) che sto diventando adulto perché ho una piccola indipendenza economica e mi preoccupo non solo di me, ma dei miei affetti, ed anche del mondo in cui vivo. Purtroppo, il libro non è così.

L’altro elemento è il tocco lieve della matita di Goto Tomomi, che, in fondo alla pagina, con pochi tratti disegna montagne, prati, fiori, alberi ed altro. Un tratto che è puro ed essenziale e rimanda sensi di pacificazione. Disegni complessi avrebbero dovuto essere interpretati ed avrebbero appesantito e non alleggerito il testo.

Ma cosa ci (e si chiede) Banana? Che significa diventare adulti? Si deve studiare per forza? Che cos’è la normalità? Eccole, alcune delle domande. E non sono certo di poco peso.

Lasciando la prima ad una diversa e finale riflessione, sono d’accordo che “non si deve studiare per forza”, ma di certo studiare per dare delle basi alla propria esistenza è fondamentale. Come seguire la propria indole, a parte di capire quale essa sia veramente.

E come definire la normalità, in un mondo dominato dal “politically correct”, per cui più che normalità si parla di appiattimento verso una linea di comportamento mediana che non crei problemi agli altri. Oppure vogliamo parlare dell’amicizia? Non ci vuole certo Banana per dirci che l’amico è uno che ci accetta per quello che siamo, che capisce dove possiamo modificarci, e che possiamo non vederci per anni, ma che nel momento in cui ci si ritrova si sente quel flusso di consapevolezza e di fiducia reciproca.

Certo, dovremmo anche contestualizzare il libro nell’ambiente giapponese, che è competitivo, isolante, scostante, e difficilmente amichevole. Forse lì, una saggia sessantenne, di acclamati onori, può essere ascoltata, e può dare qualche input di riflessione magari a quei giovani malati di social che, chi come me ha visto varie volte il Giappone, ne capisce l’esistenza e ne teme la solitudine.

Poi ci sono capitoli di cui anche leggendo, poco capisco il senso. Come “che succede quando si muore?” o “che vuol dire darsi da fare?”. Già dall’enunciazione mi sento provenire da un mondo diverso. Per non parlare, e qui ne finisco l’enunciazione, con un capitolo intitolato “Qual è il senso della vita?”.

Ma volevo prima di chiudere tornare sull’argomentazione del testo. Ebbene, in Giappone ci sono fior di siti che fanno la predica morale ammonendo i giovani (e non solo) che bisogna pensare di più. Che elencano, in modi accattivanti per quei divoratori di manga, le cose da tenere in considerazione per “crescere”.

Facendone una collazione, si evince che, per i Giapponesi, le regole per diventare adulti sono: ragionare con la propria testa, essere finanziariamente indipendente, poter vivere da solo senza essere solitario, avere senso della responsabilità, fare del proprio meglio per il mondo e per gli altri, e, per chiudere, un monito che non esito a definire “fintamente amicale”, cioè, avere buon senso.

Credo proprio che Banana leggendo queste corbellerie in patria, abbia sentito il bisogno di rivoltarle, di affiancarle con la propria esperienza (la felicità dell’infanzia, il rapporto con la madre e le sue ambizioni, le malattie affrontate e superate) e di presentarle ai suoi connazionali con viva preghiera di meditazione.

Io avevo comprato il libro sperando vivamente in un florilegio di appunti e note per accompagnare momenti non direi di tristezza, ma di riflessione matura certo. Un acquisto poco felice.

“Non è necessario diventare adulti, l’importante è che rimaniate fedeli a voi stessi.” (7)

“La salute si può trascurare solo se c’è ancora.” (65)

Enzo Bianchi “Cosa c’è di là” Il Mulino s.p. (Regalo di Emilio&Fako)

[A: 30/08/2023 – I: 14/09/2023 – T: 16/09/2023] &&&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 147; anno: 2022]

Mi accosto sempre con gran piacere, e rispetto, agli scritti di Enzo Bianchi. Ne ho letti e meditati molti, anche se mi dispiace aver saltato “La vita e i giorni”, il suo scritto sulla vecchiaia (che avrei volentieri compulsato con a fronte quello di Norberto Bobbio, per me un punto altissimo di riferimento e riflessione).

Avendo quindi saltato la vecchiaia, ecco che mi ritrovo a pensare su queste parole di Bianchi che toccano un punto fondamentale dell’esistenza umana: la morte e quanto viene (può venire) dopo. Bianchi affronta il suo percorso con brevi capitoli, con piccole riflessioni, che non intendo, non ho la capacità di affrontare unitariamente. Per cui cercherò di fare un colloquio con l’essenza e le sensazioni che mi ha suscitato la lettura.

Cominciando con un pensiero rivolto ad uno dei capitoli centrali, dal titolo: “So che morirò…”. Qui si apre un discorso mentale enorme. Tutti sappiamo di dover morire. Abbiamo visto, anche se giovani o come ora anziani, morire delle persone. Soprattutto persone a noi vicini. Ma è sempre una visione altra. Mia madre è morta (quasi sei anni fa, ormai) ed io sapevo che il suo fisico si stava spegnendo. Ma lei è un altro da me, e se io so che morirò, come lei, come papà, come Giuliano, come Carlo, non riesco a figurarmi la mia morte personale.

Enzo si interroga sulla ineluttabilità della morte, tra l’altro iniziano la sua riflessione dal Salmo 90 che riporto in fondo. Inciso: poco tempo fa ho letto il libro di D’Avenia sull’Odissea ed anche lui citava lo stesso salmo, anche se qualche verso successivo, che dice “Insegnaci a contare i nostri giorni, e acquisteremo un cuore saggio.” Io non so se il mio cuore è saggio, ma la scadenza che ci ricorda Bianchi si lega a quella di Alessandro. Contare i propri giorni significa affrontare, ogni giorno, la vita prima che voli via. Come?

L’antidoto, in tutti e due i libri, è l’amore, come ci ricorda la chiusa del libro stesso. Amore che vince la paura e la solitudine. Amore che ci permette di passare da “io” a “io e tu” a (questo deve essere l’arrivo) “noi due insieme”.

Ritornando anche a Bobbio, un’altra considerazione che condividiamo tutti e tre (io, Enzo e Norberto) riguarda la vecchiaia che deve essere considerata un tempo molto importante da vivere per prepararsi a morire. Solo da anziani, realmente, si percepisce la possibile (e vicina) fine. Mette angoscia ma soprattutto per chi rimane. Certo, personalmente sono atterrito dall’idea di provare dolore, ma ancor di più dalla consapevolezza che chi resta avrà del dolore (ovvio che noi, io, voi, sappiamo che non tutti quelli che restano avranno la stessa reazione, ma a noi interessano alcune razioni specifiche, e di quelle sappiamo).

Un’altra considerazione mi nasce quando Bianchi, citando e parafrasando Hannah Arendt, ci ricorda che non siamo fatti per morire, ma per nascere. Stranamente (ma forse non tanto) è la stessa considerazione che viene dal libro di D’Avenia. Perché Ulisse, eponimo di noi tutti, sceglie di essere mortale (e quindi di accettare che ci sia una fine corporea, anche se non sarà, non potrebbe essere una fine dei neuroni cerebrali) per poter nascere all’amore di Telemaco e Penelope. Rimane quindi la forte considerazione che ci rimanda ad un egloga virgiliana: Omnia vincit amor: et nos cedamus amori (cioè: “L'amore vince tutto, arrendiamoci anche noi all'amore”).

Finisce (cioè finisce il discorso, anche se non è la parte finale del testo) il nostro abate con una considerazione: credere o non credere nell’al di là cambia qualcosa nell’al di qua? No, perché in ogni caso la nostra vita presente, scandita dalle due date che faranno ricordo di noi, deve essere vissuta. Sapendo poi che la morte ci segue ad ogni passo, dobbiamo impegnarci a rafforzare l’altro corno della fiamma antica, quello dell’amore. Dobbiamo immaginare una vita, dubitare delle nostre certezze, meditare sulle nostre azioni al fine di essere creativi. Dobbiamo sperare sempre e lavorare, qui, ora, per costruire la nostra vita d’amore.

Ed alla fine, come ci dice Enzo Bianchi e chi ricorda la morte di Mosè, dobbiamo arrenderci al bacio.

“Salmo 90 (versetto 10): I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni; o, per i più forti, a ottant'anni; ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto, e noi ce ne voliamo via.” (9)

“Rainer Maria Rilke: concedi a ciascuno la sua morte frutto di quella vita in cui trovò amore, senso e pena.” (41)

“È l’amore … che permette di sostenere l’enigma della morte e che rende il vivere una vita.” (146)

Enzo Bianchi “La vita e i giorni” Corriere euro 8,90

[A: 20/03/2024 – I: 19/04/2024 – T: 20/04/2024] &&& e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 138; anno: 2018]

Un libro che cercavo, essendo quasi uscito dal catalogo de “Il Mulino”, ma, fortunatamente, riproposto da una collana del Corriere della Sera dedicata alla “Longevità”. Ed allora, visto, comprato e subito letto. Ha qualcosa in meno di quanto mi aspettavo, tuttavia è, come al solito nelle letture del priore (o ex) di Bose, un momento di sana (e personale) riflessione.

Il testo è una, purtroppo, breve riflessione sulla vecchiaia e sul modo di viverla. Intanto, si potrebbe iniziare ricordando che, secondo Seneca, la vecchiaia è una malattia inguaribile. Dicevo modo di viverla, perché c’è tutto Bianchi nell’excursus che fa. Che non si dimentica mai della sua biografia, da dove proviene, dalla sua terra, e del suo bisogno di vicinanza ad essa, tanto che l’orto, ora, diventa uno dei suoi amici più cari.

Affetto della terra che si lega a chi cominciò con lui i passi su questa terra. Parenti in prima fila, ma fin dall’inizio, gli amici. Ed ecco che il senso dell’amicizia è quello che, amorevolmente, sorregge l’impalcatura di vita del filosofo, come ricorda il bellissimo verso attribuito ad Alfonso XI di Castiglia che riporto in finale. Con quel tocco, che sempre a me risuona, della differenza tra solitudine, a volte di peso anche se ci consente meditazioni, e solitario, una persona che può stare solo, anche e soprattutto perché gli altri, gli amici, gli amori, sono con lui e lui con loro quando realmente servono. Perché, come diceva Gabriel García Márquez: «La morte non arriva con la vecchiaia, ma con la solitudine».

Gli amici che poi cita per nome, e che anche a me risuonano, essendo amici e sodali anche di mio padre, pur non sapendo io (ma ormai è troppo tardi) se papà avesse incrociato nei suoi lunghi giri politici e cristiani anche il priore di Bose. Ma Enzo li cita, ed io con lui ricordo padre Davide Maria Turoldo (e le sue poesie) ed Ernesto Balducci. Persone (ed altre con loro) che se ne sono andate ma che sono sempre vive dentro di noi.

La filosofia di Bianchi, che sempre a me ricorda il Gesualdi di “Sobrietà” è molto impostata sul “lasciare la presa”, che non è una resa passiva all’avanzare del tempo, né un pianto per le cose che si lasciano o si devono lasciare. Né infine, la vecchiaia, può essere una sopravvivenza a sé stessi (quanti esempi orrendi abbiamo di fronte a noi…). Lasciare la presa significa fare un bagno di realtà e capire cosa si può ottenere dal proprio corpo e dalla propria mente. Significa, brevemente, prepararsi. Come?

Fondamentalmente, direi, con l’ascolto. Il primo è l’ascolto del proprio corpo, quando ci accorgiamo, ad esempio, del calo dell’udito. O delle variazioni nelle visioni laddove il nitido diventa opaco ed il vicino, a volte, risalta meglio (e questo lo dico per me, che a voi, invece, succede il contrario). La riduzione della forza che non sparisce ma si affievolisce. Io me ne accorgo camminando, laddove molta gente con passo spedito mi lascia sul posto, sebbene io cammini e non poco. ma non è in piano che si manifesta, ma salendo e scendendo le scale, come spesso mi ricordava mia madre.

Il secondo è l’ascolto della propria mente, ed allora ben venga il nutrimento della propria vita interiore leggendo, scrivendo, ascoltando (molta musica) e vedendo. Anche la televisione, che stiamo parlando di vecchiaia per tutti, e molti anziani solitari trovano conforto in visioni televisive, che non siano i programmi demenziali che ben conosciamo e di cui taccio.

Non posso non ricordare poi che Bianchi, da ottimo credente, sottende al suo discorso un filo rosso cristiano, dove la Bibbia diventa, anche, il metodo interpretativo degli avvenimenti pubblici e privati. Dove, ad esempio, oltre ai momenti ed ai motivi personali, il calo dell’udito per Enzo rimanda subito alla “Lettera ai Romani” dove Paolo si lamenta che chi ascolta non sente. E dove, sempre partendo da San Paolo, rovescia il senso della “nemica morte” della “Lettera ai Corinzi” nella “sorella morte” di San Francesco.

Certo, tautologicamente, è difficile avere una vecchiaia serena se non si ha avuto una vita “bella, buona e felice”. Che anche qui, non significa una vita priva di asperità, ma una dove, affrontare e superare le prove, porta ad un maggiore coscienza di sé, consentendoci di invecchiare mantenendo quella speranza che l’autore ci suggerisce nella penultima frase che riporta. Dove anch’io vorrei riuscire ad aggiungere vita ai giorni futuri.

La vecchiaia, affrontata con tutte queste speranze, poi, non potrà che finire. Ma è proprio la fine che dona un senso a quanto succede prima. Ed in questa fine, tornerei alle parole di Bianchi, all’amore che sostiene tutte le nostre azioni, sia nella sua visione cristiana, ma anche in tutte le visioni eticamente corrette, perché solo attraverso l’amore si vince la morte. E questo è un messaggio per cui vale la pena di vivere, già qui e già ora.

A me leggere le sue parole, a prescindere dalla bellezza degli scritti, dà sempre un senso di pace e di riflessioni. Non mi par poco.

“A ogni tappa della vita l’uomo giunge come un novizio,” (12)

“[C’è] una vecchiaia nella quale l’intelligenza viene a mancare perché durante il resto della vita non la si è esercitata.” (43) [Dal Siracide o Libro di Sira]

“Per la società, la vecchiaia appare come una sorte di segreto vergognoso di cui non sta bene parlare.” (61) [Simone de Beauvoir]

“Occorre avere il coraggio di invecchiare perché … la vecchiaia è un compito e una sfida.” (62)

“La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.” (72) [Gabriel Garcia Marquez]

“Per i vecchi … la lettura è un pellegrinaggio.” (94)

“Voglio vivere la vecchiaia: non aggiungere giorni alla mia vita, ma aggiungere vita ai miei ultimi giorni.” (105)

“Bruciate legna vecchia / bevete vini vecchi / leggete libri vecchi / abbiate vecchi amici.” (122) [Alfonso XI di Castiglia]

Per riscattarmi del (mal) trattamento inflitto ai miei comunque cari giapponesi, propongo allora due serie di citazioni tratte da due loro romanzi.

Da Banana Yoshimoto traggo dal suo “Tsugumi” i seguenti pensieri legati all’amore, alla coppia al crescere:        

“-Tu hai un animo molto forte e una grande tenacia, così che se anche dovessi rimanere qui per sempre, riusciresti a vedere molte più cose tu, di quelli che fanno il giro del mondo. … -Mi sono innamorata di te.” (81)

“Per quanto uno possa invecchiare, l’amore è qualcosa che nel momento in cui te ne rendi conto, ormai lo stai già vivendo. Ce ne sono di due tipi, quelli di cui si riesce a vedere la fine e quelli di cui non è possibile. Siamo soltanto noi stessi che possiamo dire di quale dei due si tratti.” (91)

“Mi piace così tanto che quando lo guardo negli occhi, mi viene voglia di spiaccicargli un gelato in faccia.” (92)

“Le cose ci passavano davanti agli occhi, e noi diventavamo grandi.” (104)

“Quando penso a lei, senza accorgermene, mi viene da riflettere su cose più grandi di me … I miei pensieri vanno ad impegolarsi in questioni immense. Come, per esempio, la vita o la morte. Ma non perché lei è debole fisicamente. Quando la guardo negli occhi … vengo pervaso da un senso di rigore.” (131)

Mentre faccio una grande riverenza, perché di Haruki Murakami estraggo pensieri da quello che per me rimane il suo libro più bello “Norwegian Wood”:

“Svegliati, sforzati di capire! È per questo che sto scrivendo. Sono uno di quelli che per capire le cose ha assolutamente bisogno di scriverle” (6)

“Non [leggi] proprio gli autori del momento. – È proprio per questo che li leggo. Se uno legge quello che leggono gli altri, finisce col pensare allo stesso modo” (41)

“Sei proprio un tipo strano, tu. Fai battute con l’aria di chi dice la cosa più seria del mondo.” (93)

“Comunque, sai che cosa ho pensato? Come sarebbe bello se il primo bacio della mia vita fosse stato questo! … Non sarebbe bello, arrivare, che ne so, a cinquantotto anni, pensare: chissà dove sarà adesso … il ragazzo che per la prima volta mi diede un bacio sulla terrazza tra i fili per stendere la biancheria?” (221)

“Ho bisogno di tempo … Tempo per pensare, per fare ordine dentro di me, per capire. Mi rendo conto che non è giusto nei tuoi confronti, ma per adesso è tutto quello che posso dire…. – Va bene, aspetterò… Ma quando mi prenderai, dev’essere solo me che prendi. E quando mi stringerai dev’essere a me che pensi.” (337)

“La morte non è qualcosa di opposto ma di intrinseco alla vita, che questo fosse vero era fuori di dubbio. Nel momento stesso in cui viviamo, cresciamo in noi la morte. Ma questa era solo una parte della verità che dobbiamo imparare…. Per quanto uno possa raggiungere la verità, niente può lenire la sofferenza di perdere una persona amata. Non c’è verità, sincerità, forza, dolcezza che ci possa guarire da una sofferenza del genere. L’unica cosa che possiamo fare è superare la sofferenza attraverso la sofferenza, possibilmente cercando di trarne qualche insegnamento, pur sapendo che questo insegnamento non ci sarà di nessun aiuto la prossima volta che la sofferenza ci colpirà all’improvviso.” (349)

Con quest’ultima frase che si ricollega ai discorsi sopra fatti insieme ad Enzo Bianchi.

Inoltre, per una serie di motivi non ho voglia né tempo di aggiungere altro. Se non un abbraccio (uno solo)

domenica 21 aprile 2024

Einaudi da leggere - 21 aprile 2024

Dopo una settimana dedicata a Mondadori ed i suoi gialli, eccoci salire di tono con una settimana dedicata ad Einaudi e con libri assolutamente da leggere. In testa a tutti, l’ottimo Paul Auster da me sempre amato e letto, con incollato nel gradimento Cormac McCarthy ed i suoi due ultimi libri. Né manca, anche se poco sotto, l’ultimo libro di Julian Barnes. Quattro libri di imprescindibile lettura.

A completare il quadro, un onesto libro italiano di Marco Balzano, che ricordo solo perché mi ha risvegliato ricordi milanesi.

Marco Balzano “Café Royal” Einaudi 14,50 (in realtà, scontato a 4,30 euro con i buoni di Alessandra)

[A: 01/08/2023 – I: 29/08/2023 – T: 30/08/2023] && 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 120; anno: 2023]

In vista di un agosto di riposo, cercavo qualche libro che “ammodernasse” le mie letture, a volte troppo tese verso classici (seppur moderni). Una lunga seduta da Feltrinelli (che seppur cambio casa rimane la mia libreria di riferimento) mi porta alcuni libri, tra i quali questo, dove avevo sentito il nome dell’autore ma non ricordavo dove né perché.

A valle della lettura, ho ricordato che stava per vincere uno Strega qualche anno fa. Poi, spulciando, ho ricostruito che ne ho letto sul Corriere, che è milanese, insegnante nonché, visto che ne sto leggendo, scrittore.

Il fatto che sia milanese, poi, ben viene rappresentato da questo libro dove, ambientando il fulcro delle azioni in quel di via Marghera, ricostruisce un microcosmo milanese che solo chi ne ha vissuto riesce con pochi tocchi a rappresentare. Le vie di Brera, i negozi che c’erano e poi spariscono (tutto come nei miei trentacinque anni in Prati, quanti negozi “storici” ho visto andar via!), ma soprattutto concentrato la vicenda intorno ad un bar, quello preso in gestione dal Ghigo, e che ora si chiama “Cafè Royal”.

Un bar che non esiste, come non esiste in realtà un romanzo, che stiamo meglio parlando di un agglomerato di diciotto capitoli battezzati con il nome di diciassette personaggi, che costruiscono in modo corale una storia. Sono bozzetti, piccoli spaccati di vita, a volte legati o ricollegati tra loro, ma non sempre. L’unico tratto comune è il bar, dove si va a prendere caffè, cappuccini, cornetti, spritz e altro. Come tutti i caffè del mondo, ma in particolare come tutti i caffè italiani. Riflessione che riprenderemo più avanti.

Seppur alla fine questo frastagliamento si ricompone (abbastanza) il romanzo costruito su microracconti non mi ha consentito di immergermi completamente nella sua atmosfera, risultando al fine un po’ scollegato nella mia testa. Il diradarsi dei rimandi, laddove a volte non ricordavo i nomi degli attori, mi ha dato un po’ fastidio, forse non facendomene gustare al meglio le potenzialità.

Tutti i personaggi, chi prima chi dopo, chi con frequenza che saltuariamente, si ritrovano al “Café Royal”, ed imbastiscono le loro storie personali introno all’odore del caffè, un odore che per me è sempre stato evocativo dei miei momenti di riflessione.

In questo intreccio il là viene dato proprio da alcuni momenti che abbiamo vissuto da poco, al bordo della fine della pandemia che ha creato una barriera pesante, anche mentale, tra il prima ed il dopo. Modificando, a volte in maniera definitiva, molti dei nostri comportamenti.

Così, in un rondò schnitzleriano, vediamo salire e scendere dal palcoscenico personaggi isolati, come Federico medico indeciso. C’è Gabriele che immagina di imbastire una storia gay con Carlo, ma è un miraggio che nasce proprio dalla solitudine indotta dal lockdown. C’è Betti, vissuta da sempre nella via, dove ha cresciuto i figli, sola ed oppressa dalla tecnologia dei figli lontani, la cui storia sarà ripresa verso il finale da una bella lettera della figlia Carlotta. C’è la storia di Luca e Veronica (con Luca unico cui vengono dedicati due capitoli) amanti che si cercano all’uscita di matrimoni a rischio, ma che troveranno modo di esprimersi solo lontano dal caffè, a Torino, nell’unica puntata fuori della città.

C’è Noemi che cerca di vivere la propria giovinezza, osservando la madre Serena, capitata per caso nello stesso bar. E ci sarà Serena stessa che in quel bar capirà di aver paura di invecchiare, ma guardando i giovani (la figlia) capisce anche che non vuole essere ancora giovane.

Ci sono altre storie intrecciate: il manager africano Ahmed che torna dopo anni a Milano, dove era stato giovane e scapestrato, che incontra nel caffè la sua vecchia fiamma Barbara e non si palesa. E c’è Barbara che invece riconosce Ahmed ma volutamente si nega. Ci sono i problemi di Manuel e di Lisa. E ci sono le incomprensioni tra Beatrice e Michele.

Infine ci sono le ultime storie isolate: l’innamoramento platonico di Elena, la progressiva perdita della vocazione del prete Giuliano ed il disperato tentativo di stabilire un contatto esterno dell’ex-drogato Roberto.

Ho detto tanto, ma non ho voluto affondare le parole nel cuore dei racconti, cosa che lascio a voi ed alla vostra capacità di collegarli meglio di quanto abbia fatto io, dove a me rimane, oltre alla Milano che conosco, un senso di desolante solitudine.

Una solitudine che nasce proprio dall’anima dei bar frequentati soli e incomunicativi. A me invece, danno un senso di comunità. Il barista diventa quasi un confessore altro, cui si può parlare (quasi) di tutto. Così ripenso a tutti i miei bar, ripenso ai primi anni Ottanta ed al mitico bar Ottaviani (che non stava a via Ottaviano), e da lì a tutti gli altri, con il bar di Cristian che rimarrà sempre nel cuore per aver condiviso alcuni momenti bui, ed il bar Agostini che adesso culla le mie giornate, con il miglior pane caldo di Lariano che abbia mai assaggiato.

Ma questa è una trama per il Royal, o magari per la libreria Mondadori che mi si dice essere stata collocata lì in via Marghera, e che era uno dei punti di ritrovo del quartiere, forse ispirazione a Balzano di questo bel girotondo umano.

Paul Auster “Baumgartner” Einaudi s.p. (inserito nel regalo di Natale di Mario&Ines)

[A: 25/12/2023 – I: 12/01/2024 – T: 13/01/2024] - &&&& --  

[tit. or.: Baumgartner; ling. or.: inglese; pagine: 153; anno 2023]

Come al solito, non posso cominciare una trama di Paul Auster senza rivolgere un ringraziamento alla mia amica Luana che, ormai molti anni fa, mi convinse alla lettura della “Trilogia di New York”. Da allora ho (quasi) sempre intrapreso le letture del “cantore di New York”, avendo sempre ritorni positivi.

Certo, non ho ancora avuto voglia di affrontare “4 3 2 1”, che mi sembra un po’ troppo voluminoso, al momento. Tuttavia, quando ho visto il nuovo Auster in uscita natalizia, non mi sono potuto fermare. Anche perché avevo da poco letto un articolo – intervista con Siri Hustvedt (la moglie di Paul, di cui ricordo due piacevoli letture) che parlava della malattia del marito. Potrebbe non scrivere più, l’amato Paul, ed allora se ne legga subito.

E se ne legge in un libro tipicamente “austeriano” che mescola fiction e realtà personali, che fa in modo che il protagonista si interroghi su temi esistenziali che colpiscono lo scrittore Auster da sempre ed ora in special modo. Inserendo, ad esempio, accenni ad una meteora di madre del protagonista, che si chiama Ruth Auster. Ed altre amenità.

La bravura di Auster è quella di farci scivolare in un paio di anni della vita del professor Seymour T. Baumgartner detto Sy, con una prosa talmente delicata che il romanzo vola via con una facilità estrema. E mentre seguiamo il presente di Sy, le sue rimembranze ci permettono di ricostruirne la vita a tutto tondo, e di apprezzare questo momento particolare, in cui, per una serie di circostanze, Sy sente di diventare anziano e quindi di conseguenza di porsi, anche, le domande che si pongono gli anziani. Che vita ho fatto? Cosa ho realizzato? Cosa mi aspetta?

Il testo riesce a condensare riflessioni serie ed esistenziali, con momenti comici (o tragicomici) come succedono a tutti nella vita. Così vediamo l’anziano professore scottarsi le mani per prendere un pentolino dimenticato sui fornelli accessi, cascare dalle scale buio del seminterrato, aspettare l’arrivo quotidiano della postina dell’UPS, che porta libri che non leggerà mai ma che ordina solo vederla, angosciarsi per il viaggio in macchina di una sua possibile allieva, tanto da avere lui stesso un incidente di macchina.

E mentre sfilano questi piccoli disastri quotidiani, si svolge il filo della memoria dell’anziano Sy, professore sulla settantina, segnato profondamente dalla tragica morte, dieci anni prima, dell’amata moglie Anna. Ma non si crogiola in quel lutto, anzi lo sfrutta per andare avanti. Per leggere gli scritti di Anna (poetessa e traduttrice) con cui ha vissuto quarant’anni di quieta felicità ed intenso amore. Usa anche quegli scritti per rinverdirne la memoria e chissà anche per aiutare la studentessa di cui sopra a farne una tesi dottorale di alto profilo.

Auster riesce, con le sue brevi frasi e la strabiliante facilità inventiva, a farci seguire i percorsi mentali di Sy. Che sfrutta la memoria di Anna, il rapporto (durato un paio di anni) con l’amica Judith, nonché la tesi con la giovane Babe, per farci entrare nella sua vita. Ne ripercorriamo il passato, di difficile interpretazione, dalle origini ebreo-ucraine, l’incontro con Anna, la nascita dell’amore, la vita, quotidianamente vissuta, tra le sue lezioni ed i suoi libri di filosofia e la presenza della moglie, con tutte quelle scintille di vita che Anna gli portava.

Certo, è un libro sempre pervaso da questa mancanza, ma che proprio questa mancanza lo spinge ad andare avanti. Che non si compiange: non risponde alla domanda “perché capita tutto a me?”, ma la blocca con “Le persone muoiono”. Quindi si va avanti, con una dote impagabile, la gentilezza. Sy è gentile, al limite dell’impalpabilità del rapporto con gli altri per non dare fastidio. Ma fermo. E si accorge che sta avanzando a grandi passi verso la fine della sua esistenza. Una fine che porterà anche quella di tutte le persone che vivono nella sua memoria. Per cui, lui, bene o male artista, vuole continuare a lasciare segni nella vita (continua a scrivere libri) e farlo anche per Anna (pubblicandone poesie e forse altri scritti). Perché, e lo dice espressamente, “la memoria piò tradire, la scrittura no”.

Sono rimasto solo dubbioso dal modo tronco in cui termina il romanzo, forse indice di quel modo tronco che sembra essere vicino all’autore stesso. Un libro – testamento per esorcizzare la morte del figlio Daniel (di overdose) e riflettere sulla propria (in cura oncologico ma non ancora fuori dal pericolo).

A me, alla fine, a valle di tutte le domande, ed i giri di valzer, Auster ha restituito la riconoscenza per aver vissuto. Abbiamo fatto tante cose fino ad oggi, ne faremo altre in futuro, fino a che si potrà. Comunque, e sempre, siamo grati di averle fatte, di aver incontrato tante persone e magari di aver seminato dei piccoli semi che germoglieranno altrove. Come quel piccolo seme che cito all’inizio, involontariamente piantato da Luana, ma che tanto ha germogliato in me.

In finale, un (lungo) accenno al baseball, che compare qua e là nel testo e che è onorato di una menzione a Paolo Castagnini per le spiegazioni fornite alla pur brava traduttrice, Cristiana Mennella, che forse dello sport americano sa pochino. Orbene, io avrei comunque messo una nota con indicazione [N.d.T.] quando un personaggio dice di aver giocato a baseball e militato in “Singolo A”. In quella nota avrei spiegato che la suddivisone dei diversi campionati di baseball, dove c’è la Major League (quella che conosce tutto il mondo) e la Minor League. Quest’ultima a sua volta suddivisa in diverse serie (Singolo A, Doppio A, Triplo A, Alto A). Quindi il nostro tipo avrebbe militato in una delle più basse serie. Come se, parlando di calcio, avesse detto di aver partecipato ad un campionato di Serie D. Ovvio che mi permetto di parlare a lungo di baseball, essendo in realtà l’unico sport da me praticato a livello agonistico (dilettantesco, ma pur sempre in serie B, nei campi di Piazza Mancini a Roma)

“A cosa bisogna credere quando è impossibile appurare la veridicità di un fatto?” (125)

Julian Barnes “Elizabeth Finch” Einaudi s.p. (inserito nel regalo di Natale di Alessandra)

[A: 25/12/2023 – I: 18/01/2024 – T: 20/01/2024] - &&& e ½   

[tit. or.: Elizabeth Finch; ling. or.: inglese; pagine: 176; anno 2022]

Personalmente, e fino ad ora, Barnes non mi ha mai deluso. Alti e bassi di sicuro, ma di interesse certo. Come in questo libro, che avrebbe meritato anche più gradimento se non fosse stato intarsiato da un capitolo che, pur interessante per sé, sarebbe stato meglio altrove.

Un libro particolare, dove non c’è una vera e propria storia da raccontare, ma due punti in cui si gira intorno, cercandone un approfondimento. C’è “l’amore” dell’io narrante verso Elizabeth Finch (che, come Neil, indicheremo solo con EF). Non un amore fisico, ma un sentimento che Neil si porta avanti da quando conosce EF fino ed oltre la morte della studiosa. E c’è il tentativo di Neil di scavare in sé stesso per diventare da “Re dei Progetti Incompiuti”, come lo etichetta la figlia, al realizzare di (almeno) un progetto.

Inciso: leggendone, mi sono sentito parallelo a Neil, ma più come “Re dei Progetti Pensati”, che tra pensare e cominciare a compiere c’è comunque un passo da fare.

Attraverso le parole sempre vicine di Barnes al lettore ci introduciamo in tre momenti di vita, non biografie che, come dice l’autore, è praticamente impossibile descrivere la vita delle altre persone, si può solo parlare di quello che hanno detto e di quello che hanno fatto.

La vita che attraversa tutto il romanzo è quella del narratore, Neil, di cui, in realtà poco lo stesso Neil ci dice. Due matrimoni, almeno una figlia, lavori diversi ma mai realmente redditizi. Studi, quelli sì, forse inconcludenti, almeno fino a che non incontra EF. Un incontro che segnerà tutta la vita di Neil. Lo fa riflettere, lo fa pensare e studiare, perché nei confronti di questa austera (almeno all’apparenza) insegnante non ci si può nascondere dietro le parole.

Un amore, come si diceva, di certo platonico, ma che farà sentire EF sempre vicino a Neil. Che lo spronerà ad andare avanti, anche quando non si sa quale sia questa direzione. Che lo porterà a terminare almeno un progetto (e vedremo quale). E che, alla fine, lo porterà a cercare di capire chi sia stata EF. E perché, se a lui ha fatto un effetto benefico, non sempre alle altre persone incontrate nel corso della vita è successo altrettanto.

La seconda vita è, ovvio, quella di EF. Un’insegnante che ha le sue ferme idee sul mondo, e che assume un atteggiamento euristico verso i suoi allievi. Neil la incontra quando decide di seguire un corso dal promettente titolo “Cultura e civiltà”. Corso ed insegnante che segneranno per sempre Neil. Di cui però non viene dato un racconto continuo, ma pennellate che, spesso, vanno anche su e giù nel tempo.

La vediamo entrare in classe, parlare come un libro stampato, cioè senza quelle pause che caratterizzano chi non è sicuro delle sue idee. Vestita formale, quasi triste. Con le sue lezioni sulla storia risveglia le curiosità di Neil, tanto che i due cominceranno a vedersi, saltuariamente, al ristorante. E lo faranno, ogni tre, quattro, cinque mesi, nel corso di venti anni.

Veniamo anche a conoscenza del dramma “pubblico” di EF quando espone le sue idee in una conferenza, a valle della quale subisce un linciaggio mediatico, dopo di che si ritira nel suo insegnamento senza più “uscire dal guscio”. Immaginiamo che possa aver avuto una vita sociale, ha un fratello, seppur poco frequentato. È stata vista vicino ad un uomo (conoscente? Amante? Altro?). Neil indaga e si interroga, ma, come è giusto che sia, niente trapela.

Anche se Neil potrebbe avere dei mezzi per approfondire le ricerche, che EF, nel suo testamento, lascia tutte le sue carte a Neil, che le legge, non sa cosa esattamente farne, se non essere spronato nel compiere almeno un progetto.

Nasce così la terza vita del testo, quando nel lungo secondo capitolo Barnes ci presenta un breve lavoro di Neil che analizza la vita, le opere e la fama del personaggio centrale delle riflessioni di EF: Giuliano l’Apostata.

Ora, questa parte è la più debole del testo, non tanto per le cose che dice, quanto per essere un corpo estraneo alla narrazione generale. L’idea di base può anche essere stimolante. EF sostiene che la sconfitta di Giuliano, ultimo imperatore romano d’Occidente, nel 363 d.C. dando via libera al cristianizzazione del mondo occidentale, ha segnato un punto di svolta negativo per lo sviluppo degli avvenimenti che portano al mondo come lo viviamo oggi.

Non perché EF sostenga il paganesimo dell’Imperatore, che tuttavia andrebbe letto meglio e meglio contestualizzato. Quanto per l’avvicendarsi delle due culture. Giuliano, non cristiano, dedito al culto di molti dei e di molti vaticini, era una persona in ogni caso tollerante, come si capisce dalla citazione che riporto. Gli imperatori cristiani d’Oriente e d’Occidente che lo seguiranno saranno invece dittatori del pensiero unico. Perché EF, e noi con lei, è contraria a tutti gli ismi del mono: monocultura, monogamia, monocromia, monolinguismo, monopolio, monotematico, monotono.

Barnes fa un lungo viaggio con Giuliano, dal sorgere delle sue idee, dalle sue battaglie, dalla sua morte, fino a tutta la sua fama postuma, nel bene e nel male. Ma tutto ciò rimane un corpo estraneo alla narrazione globale. Ci può far riflettere, mi ha permesso di andare in rete a cercare testi e collegamenti. Ma non coinvolge, né dà luce diversa a Neil ed EF.

Rimane quindi alla fine il filo dell’amore, inteso nel senso globale che si diceva e non nel senso (anche) fisico. Quello che ci fa muovere, che ci fa agire, che ci fa sentire migliore, che ci permette di andare avanti, a sognare, pensare ed a volte realizzare progetti e noi stessi. Quasi a chiosare con Dante, “l’amor che muove il sole e l’altre stelle”.

Finisco con due brevi accenni di ricerca e domanda. Forse Julian Barnes si sente vicino per onomanzia a Giuliano l’Apostata. Forse, nella figura di EF, Barnes riversa qualche carattere della sua amica Anita Brookner, di cui scrisse nel commento funebre: “Nessuno era anche lontanamente come lei”. Forse.

“[La funzione della ferrovia è] quella di consentire alla gente di andare da A a B in modo da poter manifestare la propria stupidità in posti diversi.” (29)

“La storia favorisce i tempi lunghi.” (32)

“Sono un tipo solitario … essere soli è una forza; sentirsi soli una debolezza.” (69)

“Giuliano: È con la ragione che dobbiamo persuadere ed educare gli uomini, e non a furia di botte, ingiurie e torture.” (120)

“Kafavis: da ciò che ho fatto e da ciò che ho detto / nessuno cerchi di scoprire chi sono stato.” (123)

“Epitteto: le cose sono di due maniere, alcune in potere nostro, altre no. [Le prime] sono di natura libere, non possono essere impedite … [le altre] sono deboli, schiave, sottoposte a ricevere impedimento, e per ultimo sono cose altrui.” (140)

Cormac McCarthy “Il passeggero” Einaudi s.p. (inserito nel regalo di Natale di Alessandra)

[A: 25/12/2023 – I: 28/01/2024 – T: 31/01/2024] - &&&& ---  

[tit. or.: The Passenger; ling. or.: inglese; pagine: 385; anno 2022]

Penultimo libro di Cormac McCarthy che, con il successivo “Stella Maris” costituisce un dittico testamentario dell’opera del grande scrittore americano. Uno scrittore difficile, di cui ho letto tutto il leggibile, ma che qui diventa altro, più difficile, quasi un’opera-mondo. Senza rinunciare alle particolarità della sua scrittura, ma innervandola con tutta una serie di divagazioni che ne fanno un libro quasi senza trama. Da leggere, da seguire nei suoi risvolti, ma anche da allontanare da sé, quando le divagazioni cominciano ad entrare in terreni impervi e sconosciuti.

Eravamo abituati al Cormac delle prime grandi epopee western, per seguire fino al monumento apocalittico del suo precedente romanzo, “La strada”, dopo il quale ci sono più di dodici anni di silenzio prima di arrivare a questi ultimi testi. Anche se, stando agli appunti di Cormac ed a quanto ne lessi durante il tempo trascorso, questo testo (non il successivo) era in gestazione sin dai primi anni ’80, per poi diventare un frutto quasi maturo nei primi anni di questo secolo, fino a sbocciare solo adesso. E non a caso.

Ritroviamo, ed ormai ci siamo abituati, la scrittura solita di Cormac, con salti di tono, dialoghi non virgolettati, come fossero un flusso di pensiero, descrizioni di paesaggi, minuziose e piene di termini che non solo in inglese, ma anche in italiano mi danno vertigine. In più, qui abbiamo due nuovi elementi che servono a comporre il libro-monumento: le digressioni che durante gli incontri del protagonista con i vari personaggi del romanzo si addentrano su tanti e difficili temi e le parti in corsivo, dedicate ai deliri schizofrenici della co-protagonista essenziale del libro.

Rispetto al solito andamento dei vecchi libri di Cormac, c’è una sorta di filo conduttore, anche se slabbrato e forse ricostruibile a posteriori. Ma un filo appunto che a volte si spezza, non porta forse da nessuna parte, servendo forse soltanto a dar fondo ai pensieri dell’autore, ed alla domanda fondamentale che, lui vecchio, ma anche noi solo anziani, ci si pone (come da libro di Enzo Bianchi da poco letto): cosa c’è di là?

La trama-contesto segue le vicende dei due protagonisti, uno più in vista, l’altra presenza-ombra (ma c’è). Da seguire intanto i loro nomi: Bobby ed Alice Western; cognome che riporta alle tematiche da sempre nelle corde di Cormac (come dimenticare i non-western alla “Meridiano di sangue”) e nome, Alice, che rimanda al libro di Carroll. E la storia della famiglia Western come esce dai vari colloqui lungo il romanzo.

Western senior dovrebbe essere stato un grande fisico, sodale di Oppenheimer nel Progetto Manhattan (quello della bomba atomica), motivo che fa nascere spesso negli incubi della famiglia le immagini di Hiroshima. Bobby il maggiore, anche lui inizialmente fisico, poi, quando la piccola Alice (dieci anni tra i due) manifesta doti importanti nella matematica, si ritira dagli studi, lasciando spazio alla sorella. Verso cui ha un grande amore, sempre platonico sembra. Nelle more, Bobby parte per il Vietnam come mitragliere.

Alice si immerge nello studio, anche lei innamorata di Bobby, ma poi la sua mente si sfalda (forse ne sapremo di più in “Stella Maris”?). Irrompe una schizofrenia prima latente, che la porterà (ed è l’incipit del romanzo) a togliersi la vita. Ma la sua presenza rimarrà per tutto il libro, sia nella mente di Bobby, sia in quei corsivi (nove capitoli) dove Cormac cerca di dar corpo alla sostanza alienante di Alice. Dove entrano personaggi strambi, quasi presi da favole nere di Tim Burton, ma soprattutto prende la scena Talidomide Kid, piccolo essere con delle pinne al posto degli arti superiori. Scelta emblematica (e forse una delle tante denunce contro i vari sistemi americani) che la Talidomide in realtà era un farmaco, in uso negli anni Cinquanta come sedativo e ipnotico, poi sospeso per la scoperta della sua teratogenicità: le donne trattate con talidomide davano alla luce neonati con gravi alterazioni congenite dello sviluppo degli arti.

Morti i genitori, Bobby torna e seguendo le direttive della nonna, Bobby recupera un tesoro in monete d’oro, che vende per un milione di dollari, lasciandone la metà alla sorella, la quale li usa per comprare un raro violino “Amati” (il primo violino in assoluto). Bobby invece si trasferisce in Europa per diventare pilota di formula 2, fino a che un grave incidente lo ferma. Da lì comincia una sua esistenza errabonda, che lo porta a conoscere emarginati di tutte le risme, che vedremo comparire nel corso della narrazione. Per poi finire a fare il subacqueo di recupero per salvataggi in mare.

Qui, nel 1980, lo vediamo cominciare la sua narrazione diretta, durante il recupero di un aereo da turismo inabissatosi. Dove torva nove passeggeri mentre dovevano essere dieci. Ed è da questo mistero (che non sarà mai sciolto da Cormac) che comincia la sua odissea. Il governo federale lo bracca supponendo che sappia più di quanto dica. Lo perseguita chiudendogli i conti in banca, sequestrandogli auto e bloccando il passaporto. Bobby chiede aiuto ad uno strano avvocato di New Orleans, Kline, a suo tempo sodale della famiglia Kennedy.

Tutto il nucleo del romanzo è il girovagare di Bobby per capire i motivi di questa persecuzione, gli incontri e le discussioni con i vari “dropout” conosciuti nella vita, ed alla fine, aiutato da Kline, cambiare identità. Lo troviamo alla fine, rifugiatosi a Ibiza, portare avanti una vita poco utile, contemplando il mare, pensando ad Alice, e con un finale di assoluto lirismo stilistico che riecheggia il finale de “La Strada”: “le età dell’uomo che corrono di tomba in tomba”.

Questo, seppur lungo, è quanto emerge dalle pagine, ma non è, per Cormac, che il contorno di quello che lui vuole esprimere. Perché la trama è forse solo un contenitore dove lui espone riflessioni personali ed anche interessanti, di carattere storico-filosofico, scientifico, religioso. Cito a volo di uccelli alcuni temi che tocca: i principi della meccanica quantistica (con un excursus sulla teoria delle stringhe che mi ha incuriosito, e sulle riflessioni kantiane di Paul Dirac), la bomba atomica e le sue conseguenze fisiche e morali, l’assassinio di Kennedy (dove il suo avvocato Kline espone la sua personale visione dei motivi dell’uccisione, compresi i coinvolgimenti con la mafia italo-americana), il disagio odierno della nostra vita, che porta a ragionare sulle ragioni dell’esistenza umana e sulla fede in Dio.

Per fare un cenno, Western afferma che la fisica cerca di fornire una rappresentazione numerica del mondo. E Cormac aggiunge da scrittore onnisciente che non si può spiegare tutto e non si può, a parole e con il linguaggio, illustrare l’ignoto.

Una scrittura potente dicevo, che non tradisce le sue origini (di Cormac) che mentre Bobby parla con i suoi amici, Cormac non manca di illustrare a parole molti tratti della vita americana e tanto paesaggio americano. Bobby viaggia in lungo e in largo per gli States (bellissimi i paesaggi dell’Idaho). E poi inserisce un dialogo: perché non ci facciamo dei crostacei; innaffiandoli con del Montrachet (se non lo conoscete, un gran cru bordolese a 500€ la bottiglia).

Un libro anche, come per il Talidomide, di denuncia. Bello, ad esempio, l’accenno a Józef Rotblat, fisico polacco aggregatosi al progetto della bomba, ma poi allontanatosi avendone capito le potenzialità distruttive, e perseguendo da allora un suo percorso di denuncia delle aberrazioni insite nelle ricerche umane. Attività che lo portò al Nobel per la pace nel 1995.

Non possiamo non accennare al fatto che, sull’impianto originario degli anni ’80, le costruzioni e gli intarsi di Cormac sono senza dubbio derivati dalla sua frequentazione del Santa Fé Institute, una istituzione del New Mexico, interdisciplinare, dove convergono scienziati, filosofi e letterati per una ricerca interdisciplinare intorno ai sistemi adattativi complessi. Quale migliore palestra per discutere della complessità del mondo moderno? Una palestra da dove Cormac fece uscire un suo breve saggio dal titolo “The Kekulé Problem” (non tradotto in italiano ma reperibile in rete), dove si pone il problema della distinzione tra inconscio e linguaggio a partire dall’analisi del sogno dello scienziato August Kekulé von Stradonitz che nel 1865 sognando un serpente che si morde la coda ebbe l’intuizione della forma delle molecole di benzene. Dove, brevemente, l’inconscio è una macchina incontrollabile, che fa agire gli animali, mentre il secondo è una creazione culturale umana che cerca di formulare e portare alla realizzazione le infinte possibilità dell’inconscio stesso.

Non ho sinceramente la capacità di entrare in tutti i meandri che questo libro-mondo apre su tutti questi campi, per cui mi fermo qui, elogiando senza riserve questo testamento esistenziale non riconducibile a null’altro. Una prova di scrittura densa e significante. Dove, tuttavia, l’assoluta alta valutazione viene mitigata dall’impervio seguire di alcuni punti, e dall’esaurirsi nel nulla di alcune piste ed altri momenti narrativi. Congiunta a tutta la fase onirica di Alice che non è riuscita a coinvolgermi in nessun punto.

“Condividere la lettura anche solo di qualche decina di libri costituisce un vincolo ben più potente del sangue.” (143)

“Ho studiato molto e imparato poco.” (349)

Cormac McCarthy “Stella Maris” Einaudi s.p. (inserito nel regalo di Natale di Alessandra)

[A: 25/12/2023 – I: 09/02/2024 – T: 11/02/2024] - &&&& --- 

[tit. or.: Stella Maris; ling. or.: inglese; pagine: 194; anno 2022]

Libro fondamentale e conclusivo. È l’ultima scrittura di Cormac McCarthy che, pochi mesi dopo la consegna alle stampe del testo, un mese prima dei suoi novant’anni, si spegne serenamente per cause naturali nella sua residenza di Santa Fé nel New Mexico.

Ma non solo perché ci ha lasciato, conclusivo anche perché chiude il dittico iniziato con il precedente, facendone un complemento ed una chiusa. Ed indicandoci una via. Che la stella del mare è uno dei nomi della stella polare, che serve ai naviganti per seguire le giuste rotte quando tutti gli altri punti di riferimento sono saltati, o oscurati dalla notte (della ragione?). Ed è anche un appellativo di Maria, madre di Gesù, anche se nasce per errore, e viene mantenuto per amore. Inciso: Myriam in ebraico significa “goccia del mare” che San Girolamo, in suo omaggio, giustamente traduce con “Stilla Maris”. Ovviamente, andando di copista in copista, ad un certo punto stilla fu mutato in stella. Che, come detto, è giusto ed appropriato.

Il libro, poi, è la più completa rarefazione della scrittura di Cormac, che riesce a riempire quasi duecento pagine solo di un dialogo, quello tra Alice Western (un cognome, un programma, riferimento all’occidente ma anche a tutti i precedenti mondi di Cormac) ed il suo terapeuta, il dr. Cohen (ovviamente ebreo, come tutti gli psicoterapeuti). Certo non è il primo libro costruito in questo modo (mi vengono in mente “Il signor Mani” di Abraham B. Yehoshua o “Il bacio della donna ragno” di Manuel Puig), ma questo discende direttamente dai dialoghi socratici di Platone. Il dottore pone domande, cerca di stanare Alice, mentre Alice sfrutta le sue risposte per creare la visione di una sua cosmogonia, inserendoci, in maniera abilissima da parte dell’autore, anche pensieri e riflessioni che Cormac stesso ha fatto o stava facendo nell’ultimo periodo della sua vita.

Intanto, facciamo un salto di otto anni indietro rispetto al precedente (laddove ancora mi interrogo su quale sia l’ordine giusto di lettura dei due libri), e troviamo Alice (che sappiamo poi morirà) decidere di entrare in una struttura psichiatrica (appunto la Stella Polare che guida noi “western people”) traumatizzata dal coma del fratello Bobby (che sappiamo poi si salverà). Alice ha quindi bisogno di esternare, di tirar fuori tutta la sua genialità, ma anche la sua malattia, le sue paure, le sue pulsioni, consce e inconsce, tirando fuori, spezzettate le sue allucinazioni, anche se il Talidomide Kid del primo libro fa delle comparsate nelle parole di Alice, rimanendo in secondo pieno rispetto ai temi che Cormac vuole tramandarci.

Perché entrambi vogliono dare un senso alle cose (entrambi, Alice e Cormac) talvolta facendo lo scrittore quasi un’estremizzazione dei suoi pensieri che escono dalla bocca di Alice. Sappiamo infatti che negli ultimi sette-otto anni, Cormac è stato un membro attivo del “Santa Fé institute”, un luogo dove si discute in termini multidisciplinari di tutto (e ne ho già parlato altrove). Così che il libro svaria su (quasi) tutto, interrogandosi sulla natura delle cose fondamentali: il linguaggio, l’inconscio, la matematica, la fisica, finendo con la musica che secondo Cormac è l’unica cosa che rimarrà quando tutto scomparirà (in realtà Cormac scrive “Schopenhauer dice che se l’intero universo svanisse l’unica cosa che rimarrebbe sarebbe la musica”).

Un calderone dove, in forme spesso dualistiche, si discetta di matematica e fisica, sulla differenza tra psicologia e psichiatria, sull’esistenza di Dio e sulla presenza del diavolo, c’è la voglia di vivere e quella di suicidarsi, c’è la morte, con le sue paure ma anche con la consapevolezza che senza la morte non si comprende la vita. Anche se Alice e Cohen stanno fermi in una stanza, con le loro parole girano ovunque: ad un’asta dove Alice acquista uno dei violini più costosi al mondo, a Los Alamos dove il padre di Alice lavorava alla bomba atomica con Oppenheimer, nel Messico dove il padre andrà a morire, in Italia dove il fratello Bobby è in coma in seguito ad un incidente automobilistico, in Romania, dove Alice vorrebbe andare a morire ma non ci andrà. Non torno sul rapporto mentalmente incestuoso tra Alice e Bobby, una delle cose che meno mi ha coinvolto e di cui meno ho capito il senso.

Il tutto per arrivare a farci ragionare sul rapporto fra percezione soggettiva, coscienza umana ed esistenza del mondo. Argomenti da far tremare le gambe ad ognuno. Perché in un mondo insensato il cui unico scopo sembra camminare verso la morte, dove non c’è nessuna medaglia però nell’essere bravi a morire, quello che Cormac sembra salvare è l’inconscio. Che ripropone con il solito accenno al dotto Kekulé che sognando un serpente che si morde la coda, intuì la costituzione molecolare del benzene. E si interroga senza fine e senza una fine sul ruolo della mente e sul suo rapporto con la realtà.

Un romanzo che va letto perché è orrendamente sublime, dove non posso non fare un plauso alla splendida traduzione di Maurizia Balmelli che riesce a rendere una splendida frase di Cormac “because this is what people do when they’re waiting for the end of something” con “perché questo è quello che la gente fa quando aspetta la fine di qualcosa”.

Un romanzo che ci riporta al quesito filosofico fondamentale dove non sono importanti le risposte ma le domande che ci poniamo. Penso quindi che il mio commento finale non possa che essere una frase del Dottor Cohen: “non credo di aver capito”.

“Non penso che di norma i bambini prendano seriamente in considerazione il fatto che un giorno saranno degli adulti.” (106)

Poiché siamo in una settimana Einaudi, mi è obbligato di trarre citazioni da un altro bel libro di questa casa editrice, scritto da una persona veramente interessante e degna di essere conosciuta e letta. Parlo di Goliarda Sapienza e del suo “L’arte della gioia”, da dove ho tratto le seguenti frasi.

“Zio Jacopo diceva che il lutto è una barbarie … che se si è veramente addolorati lo si porta nel cuore senza bisogno di inutili esibizionismi.” (64)

“Perché non cerchi di pensare anche ai lati positivi di quello che accade? Niente è completamente negativo nella vita.” (98)

“Sono … i vantaggi del viaggiare. Bisogna periodicamente allontanarsi da qualsiasi luogo dove la consuetudine ha ucciso l’obiettività.” (160)

“L’amore si fa in due… Io ti amo … ti amo e ti stimo. Solo che non ci siamo incontrati carnalmente. O forse avevo scambiato il fascino che tu avevi e hai ancora quando parliamo, per amore.” (167)

“Ma non è amore il sesso? L’amore il sesso sono figli l’uno dell’altro. L’amore senza sesso che cosa è? Una venerazione di statue, di madonne. Il sesso senza l’amore che cos’è? Una battaglia di organi genitali e basta.” (168)

“Tante cose si possono insegnare: andare a cavallo, fare all’amore, ma la propria esperienza a nessuno si può dare. Ognuno la propria, con gli anni, si deve fare, sbagliando e fermandosi, tornando indietro e ricominciando il cammino.” (210)

“Se ci impediscono la libertà di morire, la costrizione di vivere diviene una prigione atroce.” (305)

“Perché non si può essere felici sempre?” (345)

“C’è un limite preciso nell’aiutare gli altri. Oltre quel limite, a molti invisibile, non c’è che volontà di imporre il proprio modo d’essere.” (389)

“Il matrimonio… è un contratto assurdo che umilia l’uomo e la donna insieme. Per me se si incontra un uomo che ci piace lo si ama fino a quando, beh finché dura… E poi ci si lascia, se possibile, da buoni amici.” (399)

“- La giovinezza e la vecchiaia non sono che un’ipotesi. – E che vuol dire? – Vuol dire che anche l’età è quella che ti scegli, che ti convinci di avere.” (435)

“Il giovane serve, produce, sgrava i figli… Ma a quarant’anni, a cinquanta, l’essere umano diventa pericoloso, si pone dubbi, richiede libertà, riposo, gioia.” (481)

Anche se i bagliori di guerra non sono né assopiti né, purtroppo, allontanati, questa settimana spero vi abbia portato su riflessioni altre e più intime. Per me è stato così, e nell’avvicinarsi di un mese che si preannuncia pieno, vediamo di ricordarci che siamo e chi abbiamo intorno, uniti tutti nel nostro solito, immancabile abbraccio settimanale.