domenica 20 ottobre 2013

Serial detectives - 20 ottobre 2013

Ebbene sì, eccoci di nuovo qui alle prese con alcuni protagonisti “di lungo corso”, che da anni seguiamo nelle loro alterne vicende. La Grecia del commissario Charitos, l’Inghilterra dell’ispettore Lynley, l’America dell’anatomo-patologa Kay Scarpetta e la Spagna dell’ispettrice Petra Delicado. Purtroppo, sebbene le loro vicende mi appassionino e come un “serial addicted” non mi faccio mancare nuove puntate, queste, devo riconoscere si collocano generalmente nella parte bassa della scrittura e del mio gradimento.
Petros Markaris “Prestiti scaduti” Bompiani euro 10,90 (in realtà, scontato 8,18 euro)
[A: 15/07/2012– I: 26/05/2013 – T: 29/05/2013]
[tit. or.: greco; ling. or.: Ληξιπρόθεσμα Δάνεια; pagine: 383; anno 2011]
Tornano sulla scena, dopo un po’ che lo avevo lasciato in disparate, il commissario Charitos e le vicende greche. Markaris è sempre stato attento all’attualità (non a caso è stato a lungo sceneggiatore di Angelopoulos) e l’impronta dei suoi “libri d’attualità” è stata sempre quella di tener presente l’ambiente in cui si muovevano i suoi personaggi. Il suo è un tentativo insomma di coniugare una critica sociale mutuata dagli antesignani svedesi (in prima fila con la coppia Sjöwall & Wahlöö) ed un’ambientazione mediterranea (sul filo del primo Camilleri). In questo romanzo (il penultimo della serie ad ora uscito) si cala sempre più nella realtà greca. Ed allora come non permeare tutto il romanzo dello scontento, del malessere che vive la società greca. In questo c’è purtroppo un grande scollamento tra i due registri del libro: perché se la critica sociale, l’analisi economica basata sul quotidiano dà spunti di riflessione, la trama poliziesca che dovrebbe tenere su il resto, fungere da collante alla storia, è un po’ strampalata. Cioè, più che strampalata, quasi estremizzata a tal punto da non suscitare neanche quel minimo di empatia da renderla accettabile. Infatti, il filo conduttore è l’uccisione di una serie di personaggi legati al mondo delle banche (un banchiere in pensione, un gestore di fondi a rischi, un analista, un gestore di recupero crediti), tutti passati a fil di spada. Metodo a dir poco inusuale, che ci vuole abilità ed anche spazio di manovra per decapitare qualcuno nettamente e con un solo colpo di spada. Il nostro commissario è ben spiazzato, anche perché si trova a combattere una fronda interna che vorrebbe le morti commissionate da qualche “terrorista”. Ma più che terrorista, sembra un Robin Hood cattivo, che quasi voglia farsi catturare per gridare la sua verità. Che comincia a mandare proclami, volantini, messaggi mediatici. Ed è seguendo questo capo della matassa, che, filo dopo filo, Charitos riesce a risalire al capo iniziale, a chi, come, quando e perché ha deciso questa campagna verso “gli affamatori del popolo greco”. Devo dire che le motivazioni che adduce il Robin Hood del Pireo non mi convincono moltissimo. Non per la situazione precipua greca, che quella è ben dipinta e con vivezza. Ma per la sequenzialità dalle motivazioni iniziali fino alle azioni ultime. Ma non è questo il punto forte del romanzo. Se ci fosse solo la trama poliziesca, come dicevo prima, il giudizio sarebbe sceso ai minimi storici per Markaris. Nel romanzo, più che altro, viene fuori un quadro della Grecia degli ultimi anni. Del suo declino, delle scelte sbagliate fatte dai diversi governi, dal rapporto con l’Unione Europea (mentre noi ce la prendiamo genericamente con la Germania, loro attaccano direttamente i commissari, indicando i cattivi con il nome collettivo di troika). Vediamo (o meglio leggiamo ed intuiamo) la difficoltà di sbarcare il lunario, la mancanza di posto fisso (così come sta subendo Caterina la figlia di Kostas), i tentativi della moglie Adriana di arrangiarsi (ascolta la radio prima di fare la spesa, e va nei supermercati che annunciano sconti). E la rabbia, che il commissario ogni volta che si aggira per la città è bloccato da una qualche manifestazione. Poi viene anche la rassegnazione, come a seguito degli annunci sull’allungamento dell’età lavorativa (che mi ricorda anche qualcosa di nostrano). Nonché tutti i “topos” caratteristici del mondo greco. In primo luogo il traffico (anche senza cortei), che pure qui, praticamente ogni capitolo inizia con qualche descrizione di percorsi da fare per evitare imbottigliamenti. E poi i ventisette diversi modi di prendere il caffè. Buono, anche se a volte pedante, l’inserimento di discussioni sulla situazione economica che servono da un lato a far procedere l’indagine, dall’altro (ma meglio e con più efficacia) a tentare una spiegazione all’andamento della crisi, come concomitanza di fattori endogeni. Che alle ruberie tipiche di regimi “faciloni” (che fa rima con …), si mescolano lo strapotere e la voglia di monetizzazione degli eserciti finanziari. Ne viene di certo fuori un quadro poco allegro, che Markaris chiude senza nessun compiacimento e senza nessun ottimismo. Andrebbe meglio bilanciare le due anime del racconto, cosa che qui non succede. Lasciamo il dubitativo, e lanciamo un bel salvagente al popolo greco, affinché non affondi. Una sola domanda al pur ottimo Andrea De Gregorio, ed a tutti quelli che sanno di greco. Si cita ad un certo punto (pag. 204) una voce di dizionario dove vengono equiparati il termine requisire e trattenere, senza però spiegarne se etimologicamente (in greco) hanno affinità. Mi lascia, infatti, perplesso che come frase per spiegare il termine requisire (in termini di denaro) si faccia riferimento ad una frase di Ippocrate che parla di “trattenere il respiro”. Boh!
Elizabeth George “Questo corpo mortale” TEA euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 15/07/2012– I: 05/06/2013 – T: 09/06/2013]
[tit. or.: This Body of Death; ling. or.: inglese; pagine: 654; anno 2012]
Speravo qualcosa di più dall’interminabile libro di miss George, che è sempre una patita di libri super lunghi, con storie che si accavallano su storie, anche se con l’intento di trovare un filone che (prima o poi) le unifichi in un corpus unico. Tra l’altro, dopo la sbandata di tre o quattro romanzi fa dove, a causa della tragica morte dell’amata moglie, sembrava la serie destinata alla chiusura, con un po’ di fatica e di mestiere, la George sta cercando (riuscendoci) di rimettere il tutto nei binari “normali”. Ed anche qui, sir Thomas Lynley fa un ulteriore (quasi definitivo) passo per tornare nelle forze di Scotland Yard. Purtroppo la storia è viziata da una strutturazione alla Stephen King, non tanto per il versante horror, quanto per quel modo di scrivere e rimandare tipo “Il corpo”, quel racconto da cui fu tratto il film “Stand by me”, per cui si inserisce una storia antica, spezzettata in tanti capitoli distanziati tra loro, per dare senso e respiro alla storia che stiamo seguendo. Per darne spiegazioni, a volte marginali, a volte sostanziali. anche se qui si capisce dalla seconda pagina questa trama secondaria. Ci sono dei ragazzi undicenni, sbandati, che commettono un efferato crimine verso un bimbo. Saranno presi e condannati, ma si capisce che uno di loro è il Gordon che fa da perno alla vicenda. Chi dei tre sia, lo scopriremo alla fine (un punto per la George), tuttavia è ben chiaro che Gordon vive lì nell’Hampshire sotto copertura, anche se ormai sono passati almeno venti anni dai fatti antichi. Sul versante moderno, si scopre che la convivente di Gordon viene trovata uccisa in un cimitero di Londra. Jamima che se ne era andata improvvisamente (forse ha saputo del passato di Gordon?), anche avendo scoperto un tesoro di monete antiche nella villa in cui loro vivono. La situazione quindi si spezza in due, da un lato il narrato nell’Hampshire, dove compare una bella signorina che fa la corte a Gordon, suscitando perplessità sia in Merry (l’amica del cuore di Jamima che non si da pace della morte) sia in Rob (il fratello di Jamima). Dall’altro le indagini che partono a Londra, coordinate dalla squadra di Lynley, affidata però ad un nuovo comandante, il sovraintendente Isabella Archer. Qui si apre una parentesi, perché ci immergiamo nei problemi della quasi quarantenne ispettrice, brava ma un po’ “arrivista”, ma soprattutto dedita a tenersi su con un numero infinito di bottigliette di vodka. Non siamo dalle parti delle cupe sbornie di Rebus (che la George cita en passant), ma solo nel mostrare debolezze del personaggio. Che tuttavia chiede a Lynley di tornare in squadra. Creando non pochi problemi ai sergenti vari, non ultima la nostra Barbara, sempre malvestita ma sempre pronta ad intuizioni folgoranti. E la squadra di Londra indaga sulla vita londinese di Jamima, e sui suoi amori, l’italiano Paolo e il dongiovanni Frazer. Compare anche uno strano tipo di schizofrenico paranoide, che sembra poter incarnare il capro espiatorio tipo. La George qui mescola molto le carte, cercando di indirizzarci verso questo o quello, ma senza riuscirci, che capiamo bene chi possa esserci dietro tutte queste manovre. Ed è ovviamente Lynley che avrà l’intuizione giusta, anche se penerà non poco a trovare il modo di far uscire fuori prove certe dei fatti. Tutto ovviamente condito dalle decisioni sballate della Archer che sembrano mandare nel pallone le indagini. Ritroviamo anche di sfuggita i coniugi St. James anche se in una parte minore, ma che riescono a fornire le prime prove al nostro. Ed entriamo anche nelle problematiche personale della Archer, che il marito ha allontanato da casa e dai figli proprio per il suo alcoolismo. Dispiace, personalmente, che si intraveda una possibile storia tra Isabella e Thomas. Ma forse è solo sesso. Quando tutto sembra perduto, Barbara a New Forest nell’Hampshire (sembra un posto interessante, da vedere se esiste) riesce a sventare una possibile tragica fine della storia. E Lynley, sfruttando il fatto che non erano stati avvertiti dalle autorità sulla natura del “caso Gordon”, riesce a salvare il posto alla neo-sovrintendente. Vedremo in futuro come si evolveranno le storie, anche se (in uno dei tanti rivoli) capiamo che Barbara (che aveva un penchant verso un immigrato) non andrà molto avanti su quel lato. Ma la squadra si ricostruisce, anche se Lynley ne sarà solo il vice. Comunque, troppe pagine e troppa carne al fuoco. Qualche taglio ne avrebbe migliorato la fruibilità. Nel gioco dei contrari (visto che sto abbondando di particelle avversative) sono comunque discretamente soddisfatto della lettura. Chissà se un giorno riuscirò a compilare una storia degli ispettori e dei commissari di polizia della letteratura poliziesca.
Patricia Cornwell “Autopsia virtuale” Mondadori euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[A: 01/09/2012– I: 13/06/2013 – T: 16/06/2013]
[tit. or.: Port Mortuary; ling. or.: inglese; pagine: 369; anno 2010]
Siamo tornati ai livelli più bassi dello scrivere della nostra pur sempre ben volute Patricia. Come scrissi commentando una sua prova di due – tre romanzi fa, ogni tanto sembra che si voglia di forza far uscire qualcosa, anche se sono poche e confuse le idee. Tanto per far rimanere vigili gli estimatori della dottoressa Scarpetta e delle sue avventure. Ci troviamo così tra le mani un romanzo che, a ben guardare, sembra non avere né capo né coda. Intanto (e siamo alle solite) il titolo italiano è lontano anni luce dalla storia in sé. Infatti, se è pur vero che in qualche laboratorio (soprattutto per le forze armate) stiano sperimentando apparati per effettuare autopsie senza “invadere” il corpo (con uso di tomografie, risonanze ed altre strumentazioni computerizzate all’avanguardia) e che se ne accenna nelle prime pagine del libro, il resto del romanzo è più incentrato sul “Porto Obitorio”, cioè sul luogo (o i luoghi) di raccolta dei cadaveri. Sia nella prima parte, dove viene fatto un accenno alle autopsie fatte sui cadaveri reduci dalle zone di guerra, e sia nel resto del romanzo, che si sposta sul Centro messo in piedi da Kay in quel di Boston, sempre con l’aiuto di militari, FBI e sponsor vari. Tra l’altro, le quasi quattrocento pagine si svolgono in circa 48 ore (senza che i protagonisti vadano mai a dormire). La Scarpetta sono sei mesi che lavora a Dover per l’Esercito, analizzando i cadaveri di guerra. Ed il suo centro, nelle mani del suo vice Jack, sembra vada a rotoli. Tanto che la nipote Lucy ed il buon Marino la prelevano da Dover, la riportano a casa, dove si trova ad affrontare alcune morti sospette nonché la scomparsa del suo vice. Siamo a febbraio, e ci sono stati: un atleta massacrato a novembre e ritrovato nelle acque del fiume, un bambino ucciso con una sparachiodi ed un morto per ora ignoto che muore in un parco, e che comincia a sanguinare 12 ore dopo nella cella frigorifera del Centro. Kay viene chiamata per cercare di capire dove mettere le mani, ma si scontra con milioni di reticenze. Lucy non vuole far sapere a Marino di alcuni aggeggi robotizzati che circondano l’ultimo morto. Marino coinvolge l’Esercito senza avvertire Kay. Infine Benton, il marito tanto amato, la tallona, le sta vicino ma sembra sapere molto più di quello che dice e fa molto più di quello che sappiamo. Intanto, io da lettore esterno, avevo supposto fin dalle prime battute che fosse intervenuto nella morte dell’ignoto qualche fattore criogenico che avesse congelato qualcosa che poi, sciogliendosi, ha dato luogo al sanguinamento post-mortem. Non vi dico come, ma è proprio così (e la Cornwell ce lo dice 200 pagine dopo che l’avevamo capito). Inoltre la dottoressa Scarpetta non fa che lamentarsi per tutto il romanzo: il suo vice l’ha tradita, e lei si lamenta, Lucy sparisce, e lei si lamenta, Marino si comporta male (come al solito, direi) e lei si lamenta, il marito è reticente, e lei si lamenta. E tutto questo lamentarsi è di una pallosità ingombrante. Tante che fa perdere il filo del ragionamento. Perché cercando di seguire gli avvenimenti in presa diretta, si saltano passaggi logici, ci si trova di fronte a soluzioni semplici ma non spiegate e senza capire come si è arrivati sin lì. Non c’è neanche un momento catartico, dove l’autore onnisciente si ferma, prende per mano il lettore e gli spiega il casino che ha messo in piedi. Perché la Cornwell cerca di chiudere nodi e fili vari aperti magari una decina di libri prima, le morti in Sudafrica che Scarpetta ha dovuto “subire” ed a cui non si è mai rassegnata. Il vice Jack che ha voluto al suo fianco ma non si capisce perché, dato che è uno psicopatico della bell’acqua. Intanto, Lucy, dopo alcune battute, si eclissa inaspettatamente e non ne vediamo più traccia. Benton porta Kay a casa di Jack dove quest’ultimo giace morto, e la nostra vi trova l’FBI coordinato, guarda un po’, da Marino (ma non era inaffidabile?). Un guazzabuglio. Poi si viene a scoprire che Jack da giovane è stato “violentato” da una donna trentenne, ora rinchiusa in un carcere criminale. Che insieme hanno fatto una figlia che pare anch’essa un po’ labile. Il morto poi tutti (meno Kay) sapevano essere il figliastro di un premio Nobel contrario alla politica belligerante americana. E che lavorava in un laboratorio segreto dove stavano studiando e costruendo mini-droni per guerre future. Una confusione che metà basta. Ma se alla fine scopriamo chi ha ucciso le tre persone di cui sopra, non si capisce perché costruirci sopra un romanzo, se non per tentare di chiudere appunto elementi vari lasciati appesi. E lasciarci l’amaro in bocca, che tra Kay e Benton le cose sono di nuovo sul nero spinto (ma che l’hai fatto tornare a fare, cara Cornwell, se poi ci lasci in questa totale confusione?). E, ultimo e ripeto, la scrittura è affannosa, illogica e completamente avulsa dall’idea che qualcuno stia leggendo queste pagine per trovarci un senso. Mi sembra un libro inutile. Ed ho il sospetto che anche il prossimo, se ci rifacciamo al passato dove ci vogliono almeno due romanzi per tornare a galla, sarà da criticare. Magari ancora più aspramente. D’altra parte, ultimamente ero stato troppo buono, ed avevo sempre cercato di trovare elementi positivi. Qui no. Non leggetelo. Ah, un’ultima chicca dell’edizione Mondadori: a pagina 43 si cita Annie Lennox e la sua bellissima canzone “No more I-love-you’s”, peccato salti l’apostrofo facendo diventare i “Non ci sono più i ti amo” un banale e dialettale “Non ve amo più”. (!!)
“Non potrei biasimarlo se gli pesassero le rinunce che ha fatto e le complicazioni che gli causo io.” (182)
Alicia Gimenez-Bartlett “Gli onori di casa” Sellerio s.p. (regalo della mamma)
[A: 10/02/2013– I: 19/06/2013 – T: 21/06/2013]
[tit. or.: Nadie quiere saber; ling. or.: spagnolo; pagine: 511; anno 2013]
Eccoci infine all’ultima prova uscita della nostra cara scrittrice spagnola ed imperniata sul personaggio di Petra Delicado. Questo perché altro è di lei uscito (saggi e/o recuperi di vecchi libri pre-Petra), che per ora non sono entrati nella mia libreria. Presentimento di appesantimento della scrittura dopo i cinquanta (sessanta?), non so. Fatto sta che anche questo, pur essendo gradito e tutto sommato scorrevole nonostante le 500 pagine, non è che sia tornato ai vertici delle migliori imprese della coppia investigativa spagnola. Comunque, visto che siamo in vena di critica, cominciamo anche a chiederci perché “nessuno vuole saperlo” diventa in italiano “gli onori di casa”. Il primo ha una forte attinenza con lo svolgimento della vicenda, che (alla stregua dei miglior serial di Fox Crime) prende in mano un vecchio caso, chiuso ma non completamente risolto. Il secondo rimane un mistero. Gli onori di casa li fa l’ospite che riceve qualcuno. E non è certo il morto che li fa, essendo morto da cinque anni. Né li fa Marcos, l’attuale marito di Petra, che nella prima parte si comporta come un rimbambito, per poi rinsavirsi e fare le coccole nella seconda parte (senza spiegare né l’uno né l’altro comportamento). Non li fa Petra quando riceve i figli di Marcos (e diventa sempre più interessante il rapporto con la piccola Marina). Non li fa Julieta, la prostituta che si accompagnava con il morto, che aveva tentato di drogarlo per permettere al suo complice di entrare e rapinare; ma poi ci scappa il morto, Julieta si fa tre anni per favoreggiamento, e quando esce viene ritrovata da Petra, ma subito dopo uccisa. Non li fa Franco Catania il presunto (o reale) killer del vecchio, poi dell’amante di Julieta ucciso a Marbella mentre lei era in carcere, poi di Julieta, e poi tenta anche con Petra. Non li fa la camorra, che dopo un lungo percorso coordinato tra la polizia italiana e quella spagnola, si capisce e si dimostra essere alla base dei loschi traffici del morto, quando con la sua azienda tessile in declino, cerca di risalire la china riciclando denaro; ma se c’era dietro la camorra, perché avrebbe dovuto uccidere la gallina dalle uova d’oro? Né li fa la polizia italiana, ed in particolare il commissario Maurizio Abate il coordinatore della parte di vicenda che si svolge a Roma (e su cui torneremo), anche se (dopo l’ovvia iniziale scaramuccia con quell’essere delicato del nostro ispettore Petra) il loro lavoro congiunto porta alla scoperta del covo di Catania, all’uccisione di questi da parte della camorra, alla scoperta del magazzino di riciclaggio al Pigneto, ed all’arresto della banda italiana e dell’ex-amministratore del morto in Spagna. Non li fa la seconda moglie del morto, che è solo quella che chiede di riaprire il caso, perché vuole andarsene da Barcellona avendo fatto di tutto per capire (e che alla fine si ritirerà in Galizia, con l’anziano giudice dell’indagine che va in pensione e la segue). Né infine lo fanno le tre figlie del morto: Nuria, comandante in capo, dura dentro, ma con delle fragilità improvvise, Elisa, la seconda fuggita in America a fare la psicologa, e Rosario, la piccola, completamente in balia dei sentimenti, che scoppia in lacrime al volar di una mosca. La vicenda, purtroppo, è di una limpidezza quasi banale, e si può prevedere sin dall’inizio che l’intreccio che sembra inestricabile, dipende dal fatto appunto che è un intreccio. Basta isolare le singole vicende per trovare la soluzione, cui (mi dispiace dirlo ancora una volta) si può arrivare già verso pagine 300, a valle di uno dei tanti interrogatori, dopo il quale Petra si pone delle domande. Anche noi lettori, che però, al contrario di lei, diamo anche una risposta ed una soluzione. Perché Petra è anche impegnata a capire sia i suoi rapporti con Marcos, sia la sua attrazione (non fatale, per fortuna) con Maurizio. Da questo lato andrà tutto bene, facendo sesso dove serve e amore dove ce n’è bisogno. Rimane ancora quell’unico neo della Roma di cartolina, che forse è la migliore se vista con gli occhi dello stupito vice-commissario Garzon, e quando si parla di centro storico, di Colosseo, e di ricche mangiate di amatriciana (ma non si può, senza cadere nel ridicolo, domandarsi seriamente la differenza tra questa e gli spaghetti al ragù!!). Diventa un mondo probabilmente non visto, se si passa alle vicende che si svolgono al Pigneto o a Centocelle. Che sono irreali e sembrano solo nomi su di una mappa di Google. Quindi, per concludere, un prodotto debole, che acquista simpatia per l’amore verso i personaggi, e per quei piccoli spunti che Alicia, sempre mi da e per i quali sentitamente ringrazio.
“La sua intelligenza cerca un senso … ma il più delle volte la vita non ce l’ha.” (119) [qui si imita Vasco Rossi!]
“Tutti noi facciamo qualcosa per compensare psichicamente le sofferenze che abbiamo patito in passato, così come cerchiamo di cancellare gli errori che abbiamo commesso.” (129)
“Per questo mi sono sposato, per voler bene e farmi voler bene.” (145)
“La vita è così, ti sorprende ad ogni passo. E quando ormai credi di conoscerne i segreti, puoi rischiare di perderti nel suo labirinto.” (193)
“O l’amore o la libertà, le due cose insieme non si possono avere.” (347) [sicuro?]
“L’essere umano è fatto così… d’inverno rimpiango il caldo dell’estate e in estate mi piacerebbe avere freddo. In città sogno il verde della campagna e appena mi trovo in mezzo ai fiori voglio andare al cinema … come se non volessi saperne di essere completamente felice.” (489)
Si sta chiudendo anche questo mese di ottobre (si è vero che mancano dieci giorni, ma poco spazio avrò di tramare molto) pieno di compleanni e feste. E mentre ci immergiamo già nei pensieri della possibile grande festa per mia madre nel prossimo anno, teniamo testa agli ultimi strascichi di quella citata nell’ultima trama. Volutamente confuso come i libri tramati

domenica 13 ottobre 2013

Ameliade - 13 ottobre 2013

Non nel senso dell’ottima eroina della Tautou, ma della ormai ben nota archeologa Amelia Peabody-Emerson, uscita dalla fertile penna di Elizabeth Peters. Comincia intanto con una nota di rimpianto, che ho scoperto ora, facendo alcune ricerche bibliografiche, che durante il viaggio marocchino, la più che novantenne inglese ci ha lasciato. Non avremo più altre indagini sparse tra tombe e piramidi, purtroppo. Ed allora godiamoci questi ulteriori episodi della saga, anche se non tutti alla stessa altezza.
Elizabeth Peters “Il segreto della tomba d’oro” TEA euro 8,60 (in realtà, scontato 7,31 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 05/03/2013 – T: 09/03/2013]
[tit. or.: The Hippopotamus Pool; ling. or.: inglese; pagine: 461; anno 1996]
Ancora una volta cominciamo con il grido di dolore dei traduttori di titoli: dall’originale piscina degli ippopotami al segreto della tomba d’oro! E con poca lungimiranza, che la piscina ha un senso legato ad una storia trasversale a tutto il romanzo. Mentre la tomba d’oro serve solo ad attirare i “lettori da stazione ferroviaria”. Comunque, e per fortuna, siamo tornati sul versante alto della scrittura della Peters. Tornano tutti i personaggi centrali della famiglia Peabody-Emerson. Non solo la nostra simpatica Amelia, io narrante e motore delle vicende, insieme al marito Radcliffe (che però tutti chiamano Emerson o Padre delle Imprecazioni, per il suo colorito modo di esprimersi). Ma anche il figlio Ramses, che sta crescendo e presto (credo) incapperà nei dolci problemi dell’infanzia maschile, e la pupilla Nefret, invece già sbocciata e per questo attirante i primi “mosconi” maschili. E verranno in Egitto anche lo zio Walter e la zia Evelyn, in crisi di rapporto, ma che nel lavoro archeologico e nell’affrontare i pericoli, ritroveranno il feeling perduto. Come nelle ultime storie, il filo conduttore è dato da una storia che Amelia traduce dalla scrittura geroglifica, storia che riguarda liberazione da nemici, nonché amore, nonché una piscina di ippopotami (come da titolo), con questo animale devoto alla protezione dei nascituri. E la storia ci conduce anche alla lotta che ben presto vediamo scaturire tra due fazioni “nemiche”: l’una da ricondurre all’avventuriero italiano Riccetti e l’altra a qualcuno che trama nell’ombra. Fazioni che si stanno contendendo l’eredità del (ormai, forse, ma non è sicuro) morto Sethos, la famosa Mente Criminale dei primi romanzi della saga. Fazioni che si contendono anche la benevolenza del baldo Emerson. Il quale, in base a sue conoscenze a noi non note, sembra aver trovato le tracce di una tomba non ancora violata. Il tutto complicato al solito dagli imprevisti che introduce la nostra sapiente scrittrice: la morte improvvisa, per avvelenamento, di uno strano personaggio che aveva avvicinato Amelia a Luxor, sostenendo di conoscere il luogo esatto del sepolcro della regina, e poi caldo infernale, pipistrelli inquietanti, ladri e manigoldi assortiti, turisti rompiscatole, giornalisti ficcanaso... Certo il tutto era nato anche per festeggiare l’inizio del nuovo secolo, con una sontuosa festa all’Hotel Shepheard. Ma ben presto il turbinare degli eventi, porta i nostri a Tebe, sulle orme della tomba della regina Tetisheri. Ci sarà anche una governante che sembra con la testa tra le nuvole, ma che è segretamente innamorata dei misteri dell’antico Egitto. Il cattivo ippopotamo italiano avrà la sua punizione, anche perché, meschino, decide di rapire il giovane Ramses. E questo Emerson certo non glielo perdonerà. L’altra fazione si butta invece su Nefret, ma anche qui avrà corta vita, anche se la nostra Wonder-Amelia alla fine troverà il modo di non punire (troppo) la quasi cattiva Bertha. Che poi ci rimanda alla favola dell’inizio, visto che ha un bel pancione. Alla fine, tutto si aggiusta ed i nostri archeologici fanno anche un gran spolvero delle nuove scoperte, che ben presto verranno mostrate al museo del Cairo (a quanti bei ricordi legati alle passeggiate in piazza Tahir…). Insomma un bel condimento per questo ottavo titolo della serie, dove la Peters sapientemente mescola esotismo (storico e geografico), un po’ di giallo, e tanta ironia, soprattutto nei siparietti (a volte un po’ insistiti) tra la femminista Amelia ed il burbero Radcliffe. Un romanzetto lieve, ma sui toni delle prime uscite, con qualche speranza che si continui verso il meglio.
Elizabeth Peters “Pericolo nella Valle dei Re” TEA euro 8,60 (in realtà, scontato 7,31 euro)
[A: 28/04/2012 – I: 03/04/2013 – T: 07/04/2013]
[tit. or.: Seeing the large cat; ling. or.: inglese; pagine: 447; anno 1997]
E verso il meglio si è continuato ad andare. Arrivata alla nona storia, la nostra autrice decide di rinnovare un po’ la scrittura, anche se non cambia le caratteristiche tipiche della serie. Certo, da un lato l’eroina Amelia si avvia verso i cinquanta, e non ha (non può avere) gli stessi slanci e le stesse capacità “palestrate” dei primi anni. Inoltre i figli crescono. Sia Ramses, che ormai si avvia ai sedici anni, sia l’adottata Nefret (forse uno in più?). Il primo perde un po’ l’aria saccente del bambino colto ma rompino, per acquistare in profondità, anche se tace più del dovuto (e non credo sia aliena l’idea che stia sbocciando qualcosa verso la bella). Nefret aggiunge un tocco di femminile gioventù, scevra da condizionamenti anglosassoni, che ricorda la giovane Amelia. Certo, si introduce anche un elemento di possibile disturbo, con l’altrettanto giovane David, arabo, anch’esso quasi-adottato. I tre fanno un bel trio, ma ci sarà da vederne delle belle nelle successive storie. Intanto, per bilanciare l’onnipresente Amelia, la scrittrice introduce in queste che dovrebbero essere le memorie dell’archeologa, la presenza di un manoscritto apocrifo, chiamato “Manoscritto H”, che serve a spiegare passi di storia dove, non essendo presente Amelia, vengono a mancare elementi di narrazione. Con questo nuovo impianto (rinnovare per non perire) la storia lievita un po’, assurgendo un andamento più piacevole delle ultime prove e risultando gradevole, anche se non ai livelli delle prime due prove. La nostra famiglia allargata si trova così ad affrontare una situazione non complessa, ma ben articolata. Si va a scavare nelle tombe della Valle dei Re, per consolidare ritrovamenti precedenti. E ci si imbatte in un nuovo mistero. In una tomba non segnalata viene ritrovato il corpo di una signora inglese scomparsa alcuni anni prima, fuggita con l’amante e lasciando il marito americano con tanto di palmo di naso. Marito che ritroviamo anch’esso in Egitto, con figlia diciottenne a carico. La morta risulta essere stata uccisa con un’arma da taglio, e, da indizi vari, capiamo che l’amante è ancora in circolazione. Ha attirato il maturo americano in Egitto. Per vendicarsi? Per fare stragi varie? C’è forse anche il ritorno dello scomparso Sethos? Il tutto si complica dalla presenza di una comparsa di qualche libro precedente (ricordate la bella Enid?), con marito fuori di testa e signora inglese che sfrutta la situazione per suoi tornaconti personali. Amelia ed i tre giovani riescono ad arginare questa storia collaterale (ma la signorina inglese forse tornerà nel futuro). Facendo molta confusione, ma permettendo alla storia di svilupparsi e di arrivare alla conclusione dell’altra. Dove scopriamo, sempre a valle di pericoli che corre la nostra Amelia, i motivi della scomparsa della morta, della comparsa dell’amante. E di come sia andata la vicenda. Questa è la parte forse più debole del romanzo, ma il risultato finale è comunque di gradevole lettura. Anche perché foriero di possibili anticipazioni verso storie future. O almeno foriero nella mia immaginazione, che penso all’intreccio dei tre giovani ed a come verrà risolto. Manca soltanto il ritorno di quelle parti leggere che vedevano Amelia scagliarsi contro i malcostumi della patria natia. Speriamo tornino. E speriamo che, prima o poi, i titolatori della serie riescano a riprodurre anche i titoli stessi, senza alterarne commercialmente il senso. Vero è che nel romanzo i nostri affrontano pericoli nella Valle dei Re, ma se il titolo originale era “Vedendo il grande gatto” forse c’era un motivo. Di cui non parlo, lasciando le storie dei gatti di famiglia (Anubi, Bashtet e Sekhmet) all’agile lettura del libro.
“Aveva l’allegra abitudine maschile di lasciare tutto dove lo lasciava cadere… indumenti, libri, giornali.” (241)
Elizabeth Peters “Il papiro insanguinato” TEA euro 9
[A: 15/04/2012 – I: 22/06/2013 – T: 24/06/2013]
[tit. or.: The Ape Who Guards The Balance; ling. or.: inglese; pagine: 463; anno 1998]
Non capisco l’ostinata pervicacia dei curatori dell’altrimenti ottime collane della TEA nel proporre, come lanci dei libri di Elizabeth Peters, sempre e comunque dei titoli che fanno riferimento a misteri, gialli, ed altre invenzioni ad effetto. Ormai, chi decide di continuare a comperare i libri dell’archeologa inglese sa bene che si parla di Egitto, e, seppur ci sono elementi riconducibili a situazioni “di pericolo”, non è quello il reale motore delle storie. E non è un caso che in tutti gli ultimi libri che ne ho letto, nel titolo originale si faccia riferimento ad animali. C’erano coccodrilli, cammelli, ippopotami, gatti, o, come in questo, scimmie. Anzi, visto che si fa sempre riferimento a geroglifici, ed a loro significati (spesso riconducibili a quello che viene chiamato “Libro dei morti” e che andrebbe analizzato meglio in altra sede), qui si tratta di babbuini posti a controllo della bilancia. I babbuini sono sempre animali sacri, reincarnazioni o guardiani del complesso pantheon egizio, e sono posti a guardia della bilancia, su cui viene posto sopra un piatto il cuore del morto e sull’altro una piuma. Se il morto è leggero, avrà pace nella vita al di là, altrimenti verrà dato in pasto ai divoratori di morti. Ecco tutto questo si perde con l’insulso titolo del papiro insanguinato, anche se un papiro è al centro della vicenda (come elemento scatenante), collegato (e poi si scoprirà come) al vecchio furfante gentiluomo Sethos ed alla sua banda. Sethos è sempre quella mente criminale, innamorato di Amelia dall’inizio, che traffica in reperti rubati, anche se ha giurato di non recar danno a nessun componente della banda Peabody – Emerson. Peccato che il suo luogotenente, la famigerata Bertha, rosa dalla gelosia verso Amelia, rubi papiro ed altro a Sethos e poi fugga in Egitto. Dove, pur se in ritardo con le loro scadenza, si reca la banda dei nostri beniamini, quelli per cui continuo a leggere queste storie. Amelia e Radcliffe, ironici ed innamorati, il figlio Ramses, cresciuto e come sospettavo innamorato, la figlia “quasi adottiva” Nefret, il giovane David, egiziano copto abilissimo nelle riproduzioni delle pitture antiche (e dei manufatti). Avevo il sospetto che il triangolo dei tre giovani necessitasse di un’uscita per non deflagrare, e la nostra scrittrice l’ha ben presto trovata, introducendo la giovane Lia (diminutivo di Amelia, e nipote della nostra Sitt Hakim), che ho subito (e con ragione) pensato avesse un debole per David. Intanto i nostri si riportano a Luxor, e scavano in quel miracolo di bellezza che è la Valle dei Re e delle Regine, piena all’inverosimile di tombe illustri (da Ramses II ad Hatshepsut, ed altre che ancora non sono state scoperte, viste che siamo nel 1907) o meno (architetti, spose neglette, e simili). Qui la Peters ha buon gioco nel mandare i suoi strali contro gli scempi che archeologi d’accatto hanno perpetrato per anni in Egitto e nel Medio Oriente. Tombe violate, reperti trafugati, ma anche incuria nel preservare dipinti murali. Il più delle volte con la complicità anche dei curatori dei musei egizi, come il famigerato francese Maspero. Intanto si dipana la storia. Bertha (camuffata) cerca di prendere in trappola Amelia e Sethos (anche lui sotto mentite spoglie) cerca di pararne i danni e di recuperare i reperti che Bertha gli ha rubato. Non entro nello specifico delle vicende, che sono forse la parte più debole della storia, data la loro prevedibilità. Si capiscono ben presto quali siano i travestimenti usati. E, attraverso pericoli, fughe, rapimenti e salvataggi, si arriverà alla giusta conclusione (almeno di questa storia): Bertha paga il fio, Sethos recupera quello che può, ed i nostri ne escono sani e salvi. Quello che più prende (anche a livello di ironia che qui è più marcata di altre volte) è l’ambiente e lo scontro ambientale: Amelia che vuole incatenarsi a Downing Street per essere solidale alla causa delle suffragette, le donne egiziane che cercano di studiare per aver più posto al sole, Nefret che si scontra con gli ottusi ambienti maschili (lei che tutto sommato è già una valente archeologa e si appresta a diventare anche un buon medico), Ramses che vediamo di pagina in pagina sempre più innamorato di Nefret. C’è tempo anche per sollevare una bella contraddizione in seno alla tribù: quando si scopre l’amore tra David e Lia, la nostra Amelia sembra schierarsi con i più retrogradi perché David è egiziano e figlio di genitori poco raccomandabili (benché morti). Qui si prefigura un bello scontro quando la banda tornerà in Inghilterra, con Emerson e Nefret schierati con i giovani mentre Amelia e Ramses problematici verso l’interrazzialità (ma penso che la scrittrice troverà modo di aggiustare il tutto). E tutto sommato continua a mostrarsi valida l’idea dell’autrice di intercalare la scrittura in prima persona di Amelia, con controcanti vuoi di Ramses vuoi di Nefret. Insomma, e per finire, non un romanzo di mistero, ma delle pennellate per chi ama la scrittura piana, e soprattutto non vede l’ora di tornare al Cairo, a Luxor, alle sabbie sahariane, ai felafel ed alla shesha. In fondo, è sempre una questione di amore quello che ci muove.
“Il segreto della felicità sta nel godere del momento, senza permettere a ricordi dolorosi o alla paura del futuro di oscurare il radioso presente.” (310)
Elizabeth Peters “Il flagello di Horus” TEA euro 8,90
[A: 15/04/2012 – I: 30/08/2013 – T: 31/08/2013]
[tit. or.: The Falcon at the Portal; ling. or.: inglese; pagine: 465; anno 1999]
Forse sto diventando noioso e ripetitivo, ma non posso che cominciare anche qui con il solito grido di dolore. Va bene citare Horus nel titolo (Egitto à attira), ma il falco che si libera attraverso il portale della notte per portarci ad una nuova alba (questo il senso del titolo inglese, ovviamente legato ala cosmogonia egizia) dava un senso, una finalizzazione a tutto il romanzo che, in quanto a misteri ed intrecci, risulta invece un po’ debolino. Non che non siano presenti, ma stanno diventando un po’ di routine, e facilmente deducibili dal contesto del racconto. Racconto invece che sembra ormai vertere su tre piani intersecantesi ma ben delineati. L’intreccio misterioso, l’intreccio amoroso e l’intreccio sociale. Ben delineati anche perché la nostra beneamata scrittrice ha deciso da qualche libro a questa parte di alternare al soggettivo dell’eroina Amelia, un soggettivo in minore della bella Nefret ed un oggettivo sempre più lungo che fa capo a Ramses. Prima di entrare nello specifico bisogna evidenziare che sono passati 4 anni dal precedente libro, che si svolgeva nella stagione 1906-07. Quelli richiesti a Lia e David per maturare la loro decisione. Ovvio che i due non demordono e si sposano. Siamo quindi nella stagione 1911-1912. Tra l’altro, facendo i calcoli con i primi libri, Amelia dovrebbe avviarsi alla sessantina (risulterebbe nata nel 1852). Ma immutato rimane il suo amore e l’ardore verso l’aitante Radcliffe. E non mancano alcuni intermezzi “amorosi” tra i due (bello e potente l’amore sui 60, vero?). Il sociale, quindi, prende le mosse proprio dal matrimonio tra l’egiziano David e Lia, la nipote di Amelia. A questo si uniscono le pennellate sul dominio inglese nella regione e sugli afflati di libertà che serpeggiano tra i locali. E l’arrivo di lord Kirchner (l’eroe di Khartoum) come comandante in capo. Si possono rintracciare i primi semi che porteranno una ventina d’anni dopo alla nascita dei Fratelli Mussulmani, ma questa è una storia diversa (anche se altamente interessante). Qui se ne riparla che, al seguito delle truppe, arriva in Egitto anche il perfido Percy, nipote della parte Peabody della storia. Percy che avevamo trovato ragazzo e perfido nel quinto episodio. E che qui troviamo adulto ed ugualmente perfido. Autore di un libercolo pieno di idiozie sulla superiorità occidentale verso gli orientali (ma che ben riflette molti sentimenti dell’epoca). Percy che anche qui si comporta in modo subdolo per cercare di mettere in cattiva luce il cugino Ramses. Ben riuscendoci, facendo in modo di far credere che l’onesto figlio della nostra coppia regina abbia messo in cinta una prostituta egiziana. Colpa che invece ricade su di lui, interamente. Ma questo qui pro quo riesce a sconquassare il menage che, libro dopo libro, stava conducendoci verso la possibile storia d’amore tra Ramses e Nefret. Infatti, mentre mi aspettavo che finalmente volgesse al bello, le perfide armi di Percy fanno si che Nefret fugga dall’ala protettiva degli Emerson, e non trovi di meglio che sposarsi l’adorante Geoffrey. Adorante ma già dall’inizio un pochino subdolo. Entriamo così nel bel mezzo della prima parte dell’intreccio. Vengono smerciati a mercanti poco onesti tutta una serie di manufatti, in parte veri ed in parte falsificati. E vengono fatti circolare come se ne fosse autore David (che sappiamo avere un passato, ormai rinnegato, di falsario). Questo stratagemma serve al cattivo di turno per: mettere in cattiva luce la combriccola degli Emerson e dare una patina di legittimità alla parte “vera” del bottino. Parte vera che facilmente si intuisce venga dagli scavi di un sito poco distante da Giza, dove l’anno precedente avevano lavorato Geoffrey e l’americano Jack. Accompagnati dalla fatua sorella di questi, la bella Maude, che come tutte le donne occidentali in Egitto nel periodo, almeno sapeva dipingere e scolpire. Ma che soprattutto si innamora di Ramses e gli fa una corte spietata, suscitando la sotterranea gelosia di Nefret. Amelia svolge indagini su tutti i possibili implicati nella vicenda (dove ogni tanto ritroviamo il buon Howard Carter, da cui mi aspetto qualcosa nel futuro). Ma è ovviamente Ramses che riesce, con le sue arti di travestimento, ad eliminare tutte le false possibilità. Arriveremo così alla resa dei conti: con Percy, con Geoffrey, con Jack, con Nefret. Anche se i cattivi pagheranno il fio delle loro colpe, alla fine non tutti i conti vengono saldati. Mi aspetto di meglio alla prossima puntata, anche se questa, rispetto ad altre, riporta in alto il livello della scrittura e della tensione interna al racconto.
Per ora altre avventure tacciono (beh, dopo tre intensi mesi sarebbe ora), anche se le pentole bollono sempre. E mentre ci si avvia a mettere un po’ d’ordine, non possiamo non rivolgere un pensiero allo scrittore e matematico francese Raymond Queneau, che, se vivo, compirebbe 110 anni. Forse non c’entra Queneau ma forse c’entrano gli anni.

domenica 6 ottobre 2013

Oslo e dintorni - 06 ottobre 2013

Diamo un caloroso benvenuto ai nuovi adepti delle mie ricorrenti trame, sperando che anche voi diventiate assidui lettori dei miei scritti. Visto il numero considerevole di nuove mail, ricordo che potete visitare la mia biblioteca su http://www.anobii.com/gio53/books e ritrovare tutte le trame passate su http://giogio53.blogspot.it/. Intanto, come da titolo, questa è una settimana dove si torna in Norvegia, con due dei migliori esponenti del filone giallo – sociale: Anne Holt e Jo Nesbø. Due libri a testa, uno buono ed uno meno per ciascuno, per “par condicio” come si direbbe ora.
Anne Holt “La dea cieca” Einaudi euro 13 (in realtà, scontato 9,75 euro)
[A: 01/09/2012– I: 12/04/2013 – T: 13/04/2013]
[tit. or.: Blind Gudinne; ling. or.: norvegese; pagine: 379; anno 1993]
Perché gli estensori delle note di quarta non leggono quello che scrivono? O se lo leggono, lo capiscono? Perché questo è, in realtà, il primo romanzo scritto dalla Holt. Ed ha veramente vinto il premio come miglio romanzo norvegese dell’anno. Ma nel 1993, cioè venti anni fa. E l’ispettrice Hanne Wilhelmsen è una specie di io trasposto dell’autrice, che collaborò con la Polizia, e, come Hanne, vive ad Oslo con la sua compagna. Detto quindi che il romanzo ha appunto venti anni sulle spalle (e qua e là affiorano elementi del tempo), rimane intatta la sua scrittura ed il piacere di leggerlo. E dalla lettura non sorprende che abbia vinto un premio, né che la Holt, iniziata la sua carriera di scrittrice, abbia fatto anche molti mestieri, compresi due anni come Ministro della Giustizia (1996-97). Qui intanto cominciamo a vedere la nascita del suo personaggio base, Hanne Wilhelmsen. Poliziotta, con una netta separazione tra vita pubblica e privata (nessuno oltre noi sa che vive con la dottoressa Cecilie). E con una propensione ad osservare molto, ragionare alquanto, agire spesso (ma non senza criterio). La trama, anche un po’ complicata, dà comunque modo all’autrice di gettare sguardi sul mondo della giustizia norvegese (e non sorprende dato quello che ho detto prima), ma anche a trame oscure che attraversano il paese. Un paese che qui da lontano è sempre sembrato un’oasi di noia (scusate l’ossimoro). Se poi andiamo a leggere degli scrittori norvegesi (la Holt ma poi anche Nesbø) non ci sorprende quello che è accaduto pochi anni fa. Il punto di avvio è la morte di uno spacciatore per mano di un reo confesso ragazzo olandese. E la parallela morte di un avvocato equivoco, anche se mai indagato realmente. Le due morti convergono sul tavolo di Hanne, e su quello di Håkon, una specie di avvocato ministeriale. Viene coinvolta anche un secondo avvocato, Karen, amica d’infanzia di Håkon. I tre scavano, anche se non sempre di concerto, tra le varie vicende. E sembra che nascano fili che unificano almeno i sospetti. Ma appena sembra che ci siano nuovi elementi, altri ne spariscono. Il ragazzo olandese fa una confessione a Karen, e poi “si suicida”. Uno spacciatore sembra avere dei cifrari clandestini, ma muore subito dopo di overdose. La costante è la presenza, latente ma insistente, di avvocati. Che cercano prove, che ne inquinano, che si agitano nell’ombra. I sospetti di Hanne e Håkon si incentrano su un insospettabile avvocato che pare anch’esso aver contatti con le morti (impronte digitali a casa di un morto). Ed anche affari con la Thailandia. Vuoi vedere… La nostra poliziotta però viene anche aggredita in ufficio, riportando danni agli occhi (anche se sembrano riparabili). Ma vengono trafugate prove. In parallelo poi Håkon si innamora di Karen, benché questa sia sposata. E mentre i nostri cercano di incastrare gli avvocati usciti alla luce del sole, Karen si rifugia in un fiordo isolato (beh, questo fa tornare alla mente bei ricordi di viaggio, almeno). Ovviamente le prove spariscono prima di poter essere giudicate. Noi capiamo dall’esterno che c’è qualche cosa in più, che c’è qualche trama strana che coinvolge servizi segreti (altrimenti non si capiscono i bastoni tra le ruote). Pare che questi ricevano fondi neri finanziati dal traffico di stupefacenti. Ma va? Questa parte è un po’ debolina, ricalca stereotipi (anche se discretamente veri) dalla CIA ai servizi europei. Quando tutto sembra andare a carte quarantotto, gli avvocati cattivi (perché poi in questo si riduce il tutto, una lotta tra avvocati buoni ed avvocati cattivi) cercano di uccidere Karen. Che viene salvata dall’intervento congiunto degli avvocati buoni, di Hanne e di Håkon. La trama alla fine viene rivelata, e ve la lascio in sospeso. Come vi lascio in sospeso sulla risposta di Karen ad Håkon. Vi dico solo che la Holt continuerà a scrivere di Hanne, tanto che siamo credo ad otto o nove romanzi, farà nascere una coppia di investigatori che le darà fama fuori della Norvegia. Ed in uno degli ultimi romanzi ci sarà anche una convergenza tra Vik, Stubø ed Hanne. Buona lettura (e andateci in Norvegia, ne vale la pena).
Anne Holt “L’unico figlio” Repubblica – Noir euro 7,90
[A: 15/08/2012– I: 06/05/2013 – T: 07/05/2013]
[tit. or.: Demonens død; ling. or.: norvegese; pagine: 270; anno 1995]
Anche questa volta cominciamo con le solite domande ai traduttori: perché la morte dei demoni diventa l’unico figlio? Quali connessioni hanno visto le persone del marketing per modificare le indicazioni dell’autrice? Siamo al terzo episodio delle storie imperniate sulla figura dell’ispettrice Wilhelmsen, dopo il primo che ci ha aiutato a conoscerla ed il secondo (ma per me primo, letto più di dieci anni fa) dove si chiariscono alcuni caratteri dei personaggi, e compare Billy T., un poliziotto che in questo romanzo diventa l’alter ego della Wilhelmsen, ora diventata capo sezione. Ma Hanne non sa stare dietro la scrivania, e comincerà ad indagare, motivo che credo porterà futuri problemi. Intanto seguiamo questa storia, al solito su di un doppio binario. Da un lato seguiamo lo sviluppo del “giallo”, l’uccisione della responsabile di una casa famiglia, dove sono inseriti una decina di ragazzi “problematici”. Tra cui Olav, quello grasso ma grasso, e con evidenti problemi relazionali. Dall’altro seguiamo la soggettiva della madre di Olav, con i suoi problemi di gestione dell’iperattivo figlio e le sue sconfitte con l’alcool. La storia in sé se vogliamo è ancora più semplice e lineare delle precedenti. Agnes, la responsabile viene uccisa in una serata in cui nessuno sembrava transitare per la casa famiglia. Poi scopriamo che Agnes ha forse una storia con un tizio, che le ruba un libretto di assegni. Che ha problemi con il marito. Che ci sono guai nella casa famiglia perché Terje il tesoriere si è appropriato di alcune somme indebitamente e Maren la vice, pur brava psicologa, ha falsificato i documenti di studio e non risulta essere in possesso di alcun documento ufficiale. E poi c’è Olav il grasso che odia tutti, ma ha subito in simpatia Maren. Hanne, aiutata da Billy T. (l’unico poliziotto che conosce la sua vita privata di lesbica felicemente convivente con la bella Cecile), monta e smonta i pezzi del problema, elimina i sospettati che hanno alibi sostenibili. Riducendo i possibili colpevoli a tre: Terje, Maren e Olav. In drammatici momenti di finali e sottofinali, due dei tre moriranno, e chi rimane espierà le sue colpe. Ma questa debole trama, al solito, è un pretesto per la Holt, al fine di mettere in luce alcuni problemi della società norvegese. L’aveva fatto con il primo romanzo con i servizi segreti deviati. Aveva seguitato nel secondo con la violenza sulle donne. Ora se la prende con i servizi sociali ed i loro modi di affrontare ragazzi problematici. La casa famiglia ne è un campionario, con alcuni esempi tendenti al positivo, spesso aiutati dalla compassionevole Maren ed osteggiati dall’inflessibile Agnes. Ma è soprattutto su Olav che si appuntano gli interessi della scrittrice. La madre è una sbandata, che perde il marito durante la gravidanza. Sembra anche di intelligenza limitata. E certo non ha la capacità di gestire il brutto gigante Olav, che cresce a dismisura, che ha sempre fame, che non si sa rapportare agli altri. Perché i ragazzi sono cattivi è ovvio, ed infieriscono su chi si scosta dalla norma. E Olav, pur intelligente, non viene mai preso per il verso giusto. Perché lui si pone in contrapposizione con il mondo, odia chi gli impone di fare qualcosa, e deve sempre dire la sua, anche se ha solo dodici anni. Qui si innesta la critica verso i servizi sociali che, per stanchezza o per incapacità, non riescono a prendersi cura di lui. Tiranneggiando e colpevolizzando la madre, non capendo che le scarse capacità di quest’ultima non le permettono certo di essere un punto di riferimento per nessuno. Tutto questo esce fuori dalle soggettive del secondo piano del racconto, che, in fondo e pensandoci bene, sono la cosa che più mi rimane di un libro, interessante forse, ma di certo non riuscito. La Holt continua a porre problemi sul tavolo della discussione, criticando molto, ma senza ancora pensare a proporre soluzioni. Lo farà qualche anno dopo la scrittura di questi primi libri, durante i due anni da Ministro della Giustizia. E se ne vedranno le (positive) conseguenze nei libri successivi.
“Secondo lei non esisteva niente di più stupido che affermazioni tipo ‘adoro i bambini’. I bambini erano come gli adulti, alcuni incantevoli, altri affascinanti, altri ancora erano degli stronzi.” (31)
Jo Nesbø “La stella del diavolo” Piemme s.p. (regalo 2012 di Rosa&Emilio)
[A: 07/05/2012– I: 30/05/2013 – T: 02/06/2013]
[tit. or.: Marekors; ling. or.: norvegese; pagine: 471; anno 2003]
Devo assolutamente confessare subito che Nesbø mi piace. Ed ho trovato avvincente questa terza prova che ho letto delle imprese del commissario Harry Hole. Tanto che ho passato metà della notte per arrivare alla fine. Mi aspettavo che succedesse quello che poi avviene, ma come per quei serial televisivi ben fatti e ben congeniati, non sono riuscito a staccarmene prima di arrivare all’ultima pagina. E per una volta concordo con il commento di quarta, fatto dal maestro Connelly. Anche per me Hole è il mio nuovo eroe. Ho già espresso alcuni commenti sulla sopravalutazione che in genere si è fatta dei nuovi maestri nordici del giallo. Ma Nesbø si stacca dalla massa, e prende un suo posto ben evidente tra i primi della classe. Qui poi la maestria di Nesbø si estrinseca su molteplici piani: il contorno, i personaggi fissi, la trama. Dalla pagina veniamo presi e portati ad Oslo, e ce ne sentiamo immersi, in questo romanzo ambientato nella calda estate nordica. Certo ci domandiamo quanto possa essere calda, che ricordo bene il tempo trovato lì in estate, una primavera calorosa e niente di più. Ovvio che chi è abituato a meno 10 di inverno, quando il termometro sale sui 20° comincia a soffrire. Ed il contorno si avvale anche di piccole descrizioni, di piccole divagazioni (sull’architettura norvegese, sui quartieri, Grunerløkka in primis, sul traffico, sulle biciclette) che non stancano. Si approfondisce il carattere del nostro commissario, sia sul versante “dannato”, sulla sua propensione (a me di difficile comprensione) alla bottiglia. Ma anche alla spiegazione che comincia a trapelarne sul versante di traumi giovanili che prima o poi usciranno fuori. Sul suo rapporto con le donne in genere e con Rakel in particolare. E poco a poco, comincia a delinearsi anche Beate, diventata ormai il mago della scientifica, con il suo carattere metodico e la sua capacità di ricordare i volti. Ed ovviamente la trama. Cominciano a fioccare le morti. O le morte. Che una dopo l’altra, vediamo vengono uccise delle donne. Sembra con molto sangue freddo, un colpo di pistola e via. Ma con qualcosa che sembra indicare la via di un serial killer. Ad ognuna viene amputato un dito (indice, medio, anulare) e viene messo sul cadavere un diamante rosso a cinque punte. Diamante rosso che veniamo a sapere provenire da contrabbandi della Sierra Leone, per sovvenzionare la colà guerra civile. E le pistole sono tutte di fabbricazione cecoslovacca e senza identificativi. Tutta la storia poi, si innesta sulle macerie dei romanzi precedenti, dove Hole cercava (senza riuscirci) di trovare elementi di colpevolezza verso il suo alter-ego, il commissario Waaler, la stella nascente della polizia norvegese. Ma che sappiamo (o abbiamo tutti gli indizi per sospettare) essere più sul versante dei cattivi che su quello dei buoni. Forse solo perché vuole fare giustizia da se. Tuttavia vediamo che ci può essere altro. Ed Harry lo sospetta: di essere il mandante della morte della sua amica Eilen, di aver ucciso il probabile assassino Sten, di aver fatto sparire altre prove incriminanti. E tutto viene costruito con dovizia di particolari. La prima donna trovata uccisa, scoperta da una coppia molto male assortita, con lui che puzza un po’ (troppo manicheamente religioso). La seconda, moglie di un produttore teatrale, con Willy, il produttore, molto sopra le righe. Solo la terza sembra non avere spiegazioni plausibili. Ma Harry, tra una bottiglia e l’altra, con Rakel che lo manda a ramengo proprio per la sua inaffidabilità, comincia a costruire un possibile scenario, collegando i diamanti ai pentagrammi che vengono trovati vicino alle morte. Ed utilizzando una piantina di Oslo e la sua intuizione, trova il come ed il quando. Il chi sembra convergere verso Sten, uno svedese emigrato a Praga, e coinvolto in qualche strano contrabbando. Ma quando Waaler tenta di uccidere Sten prima dell’arresto, Hole si fa un quadro completo e diverso della vicenda. Rischia di suo, mette in pericolo se stesso, Sten, il figlio di Rakel, ma trova il vero colpevole e delle più solide prove verso Waaler, anche con l’aiuto dell’unica persona che crede in lui, appunto Beate della scientifica. Servirà a risolvere il tutto? Tutto no, ma molto sì. Quello che non riuscirà a salvare (almeno credo) è il rapporto con Rakel, ormai troppo compromesso dalla deriva alcolica. Anche se per metà libro non tocca più neanche una birra. I colpi di scena dei finali e sottofinali sono degni delle migliori penne poliziesche. Per ora ti lasciamo, Harry, ed andiamo a dormire contenti di aver trovato un libro, ben scritto, ben congeniato, e ben tradotto da Giorgio Puleo.
Jo Nesbø “La ragazza senza volto” Piemme 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 29/06/2012– I: 03/06/2013 – T: 05/06/2013]
[tit. or.: Frelseren; ling. or.: norvegese; pagine: 524; anno 2005]
Come farsi smentire subito! Avevo finito la trama precedente ringraziando il traduttore Puleo, e qui cominciamo subito con il grosso inganno del titolo. Spero per le mie conoscenze editoriali, non sia colpa del povero traduttore che avrebbe volentieri lasciato che “frelseren” venisse indicato con “Il salvatore” e non con l’insulso “Ragazza senza volto”, un titolo buono solo come “attivatore” di ignari lettori. Inoltre c’è tutto un rimando interno alla costruzione della trama, dove il killer senza volto (questo sì, ma è un uomo!), proviene dalla guerra serbo – croata, dove si era guadagnato un nome come assaltatore di carri armati; ed essendo un ragazzo veniva chiamato “mali spasitelj”, cioè, in croato, “il piccolo salvatore”. E tutto un percorso che fa per le più di 500 pagine del libro il nostro commissario Hole è un percorso in bilico tra salvezza e dannazione, anche perché il nocciolo del romanzo è imperniato all’interno dell’Esercito della Salvezza (in norvegese, appunto, “frelsesarmeen”). Tralasciato questo grido di dolore, veniamo al romanzo, che comunque è un mezzo Nesbø: alcune parti eccelse, altre un po’ trascinate e sicuramente non ai livelli delle precedenti prove. Motivo per cui, lo classifico buono, ma non ottimo o imperdibile. Sicuramente riesce anche qui a maneggiare gli intrecci di trame e personaggi, con il solito tocco molto “giallo classico”, di farci credere di volta in volta che il cattivo sia questo o quello o l’altro ancora. E solo il finale vero riesce a mettere tutte le azioni nella loro giusta prospettiva. Altro punto dolente, prima di entrare nel vivo, è sempre l’alternarsi di Harry tra la bottiglia e le donne. Speravamo, nel finale precedente, che avesse messo il cuore in pace, nel rapporto con Rakel. Ma non è così. Giustamente, lei non ce la fa a reggere i suoi ciclotimici tempi di bevuta. E lui non può che allontanarsi. Certo, prova a staccarsi dall’alcool. Ma nel momento topico, quando a Zagabria si illumina della soluzione (lui, che noi aspetteremo altre cento pagine prima di arrivarci), si ributta nel bourbon a capo fitto. Tuttavia le storielle che percorrono il testo, le sue avventure vere o presunte, lasceranno un segno nel suo pensiero, e finirà a passare il Natale con Rakel e Oleg. Vedremo. Torniamo però a capofitto nella trama, che appunto si svolge nell’imminenza del Natale. E che vede al centro, come detto, l’Esercito della Salvezza, che pensavo fosse solo un movimento caritatevole, ma che scopro essere invero un vero e proprio ramo cristiano – metodista, dove invece di chierici e preti ci sono soldati e ufficiali. E dove ci sono, come in tute le chiese, religiose o laiche, tensioni sessuali, represse o esplicitate. C’è uno stupro iniziale (direi una dozzina di anni prima dello sviluppo del romanzo). Ci sono tre persone possibili indiziate dell’avvenimento. Il ricco Mads ed i fratelli Robert e Jon. Mads che è ricco e stupido, che sposa la determinata Reghnild, che si innamora poi di Jon, che però non ci fa sesso, in quanto ufficiale della Salvezza, e poi è preso da Thea, sopratutto perché questa è la figlia del direttore amministrativo, posto cui Jon ambisce, in competizione con Rikard, fratello della stuprata di cui sopra. Mentre Robert è lo scapestrato del gruppo, sempre un po’ fuori le righe, sempre troppo allegro, troppo esuberante. Ma lo sarà veramente? Tutto precipita quando il famoso killer croato uccide Robert e sparisce. Ma era Robert il vero bersaglio? O piuttosto Jon, che Robert aveva sostituito in quanto Jon decide di andare a cena con Thea. E chi è che violenta la piccola Sofia, profuga di Vukovar, come il killer croato? Hole cerca di proteggere Jon dal ritorno del killer che accortosi dell’errore cerca di rimediare. E lo fa con il suo aiutante Halvorsen, che si scopre avere una relazione con l’ottima “scopritrice di volti” Beate. Il finale (cioè le ultime 150 pagine invero) sono del puro Nesbø di livello. Il killer si aggira sperduto per una Oslo innevata, aiutato dalla stuprata che, scoperto il vero stupratore, aiuta il killer. Qualcuno uccide Halvorsen, Jon sparisce, Beate è incinta. Harry va a Zagabria, parla con la madre del “mali spasitelj”, e decide una sua salvezza, una sua redenzione personale per tutta la vicenda. Motivo che in un certo senso lo riavvicina idealmente alle prime mosse di quel Waaler alter-ego cattivo dei primi romanzi e ucciso nel precedente. Ed alla fine, in attesa di quel Natale di cui sopra, tutte le caselle vanno al loro posto: qualcuno sarà punito, qualcuno si punirà, qualcuno continuerà a vivere per espiare le sue colpe. Insomma, un buon finale, anche problematico, che riporta il romanzo ad un buon livello di giudizio. Lasciandomi ritornare con il pensiero ai tiepidi giorni norvegesi dello scorso anno. Ed alle renne che ancora mi aspettano a Capo Nord.
“Forse stava diventando adulto, forse si era stufato di essere l’idiota che abbassava le corna e attaccava appena qualcuno agitava un panno rosso.” (189)
Come i miei più assidui lettori sanno, la prima trama di un nuovo mese dedica un piccolo spazio ai (pochi) libri letti in luglio, laddove i viaggi hanno avuto una preponderanza ineguagliabile. Un mese di transizione, con un’ottima lettura islandese ed una conferma del simpatico scrittore svizzero. Da dimenticare il giallo italiano di Luceri.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Kathy Reichs
Skeleton
BUR
9,90
3
2
Manuel Vazquez Montalban
La bella di Buenos Aires
Feltrinelli
10
3
3
Andrea Vitali
Un amore di zitella
Garzanti
9,90
2
4
Paola Mastrocola
Più lontana della luna
Guanda
s.p.
3
5
Auður Ava Ólafsdóttir
Rosa candida
Einaudi
11,50
4
6
Vanni Santoni
Se fossi foco, arderei Firenze
Laterza
10
3
7
Andrea Fazioli
Come rapinare una banca svizzera
TEA
9
4
8
Enrico Luceri
Buio come una cantina chiusa
Mondadori
4,90
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Benché più faticoso di quanto pensassi (molti i chilometri e molti gli sterrati), il viaggio in Africa australe è stato gradevole e gradito (con un’eccellente compagnia per di più). Ora abbiamo davanti alcuni mesi per rimettere a posto le mole cose lasciate in sospeso.