domenica 29 marzo 2020

E la reclusione? - 29 marzo 2020


Gregory David Roberts “Shantaram” Abacus euro 8,75
[A: 24/02/2019 – I: 23/09/2019 – T: 13/10/2019] - && --
[tit. or.: Shantaram; ling. or.: inglese; pagine: 913; anno 2003]
Ne avevo sentito tanto parlare, magnificare, fare dotte discussioni, che prima o poi dovevo senz’altro leggerlo. Capita così che in febbraio (2019) mi reco nell’India del Sud per fare un giro guidato dalla solerte Patrizia. Capita inoltre che ci si fermi nel rilassante centro di Varkala, nel Kerala. Una mega spiaggia con faraglione prospicente dove si affacciano bungalow e ristoranti, nonché bancarelle ed altro. Due giorni di grande riposo e pace, dove, girando tra i banchi, ti vedo proprio questo “uomo della pace” (questo il significato di “Shantaram” in lingua Marathi, la lingua di Mumbai). Mi sembra un’ottima congiuntura. Ora, dopo sette mesi di attesa, ne leggo, con molta fatica. E sebbene si riesca (ma solo nella prima parte) a tornare con la mente e lo spirito alla mia amata India, alla fine, devo riconoscere che l’autore ed il libro sono largamente sopravvalutati. Certo, un discreto fascino è dato dal fatto che, seppur con trasfigurazioni varie, il libro è fortemente autobiografico. Perché in effetti, l’autore, australiano, ha realmente avuto una giovinezza anarcoide, per poi passare, dopo la fine del matrimonio, verso un atteggiamento pseudo-rivoluzionario alla “Cesare Battisti” (l’attuale non l’irredentista), dove, seppur senza spargimenti di sangue, si occupa di furti e droghe, finendo arrestato. Riesce a fuggire sia dalla prigione che dall’Australia, finendo nell’India che ci racconta. Dopo la fine del libro, Roberts intorno al ’90 (a quasi 40 anni) viene arrestato in Germania, decide di scontare la pena australiana, in carcere scrive questo romanzone, e nel 2003, libero da pene giudiziarie, lo pubblica con successo. Dicevo, la prima parte è coinvolgente. Ci porta a Mumbai, facendocene riscoprire le bellezze intime. Ma anche le degradazioni infime. Mi ero quasi emozionato all’inizio, ripensando al mio primo sbarco a Bombay, alla visione della Porta delle Indie e del Taj Mahal Hotel. Ma anche alle passeggiate nelle stradine tra Victoria Terminal ed il porto, i ristorantini con le loro spezie, ed il giorno di monsone che subii. Il nostro fuggiasco, un po’ per non mescolarsi troppo con gli occidentali, giustamente temendo possibili tradimenti, si accompagna con più trasporto con i locali. Sia gli indiani indù, con il simpaticissimo Prabaker (il Prabu che diventerà suo mentore ed amico) sia con i mussulmani, anche se all’inizio c’è del timore nell’approccio. Timore che viene fugato dalla visione della bellissima Karla, un’americana fuggita dagli States per qualche motivo oscuro (che scopriremo alla fine), che per Gregory, che si fa chiamare Linley, subito abbreviato in Lin, è la donna più bella che abbia visto, e di cui si innamora, e rimarrà innamorato nonostante tutto. Ed è altrettanto bello e coinvolgente il racconto della sua calata negli slum, nella parte povera della città, dove si vive di niente e per niente si muore. Dotato comunque di grande vivacità e capacità espressive, ha il dono di imparare presto i vari dialetti locali. Sia di hindi che di urdu ne mastica ben presto. Ma soprattutto, con Prabu impara il Marathi, la lingua di Mumbai. Lingua che gli aprirà molte porte chiuse ai forestieri. Lì nello slum, con quanto appreso in carcere, ed altre piccole nozioni, mette su una specie di dispensario per i poveri, che per due-tre anni cura vivendo con loro del poco che hanno. Poi cominciano le svolte. Il capo mafia locale, un profugo afghano di grande cultura ed esperienza, lo prende a ben volere, lo convince ad uscire dallo slum, lo riporta nel “gran mondo”. Qui comincia la seconda, lunga parte che realmente, alla fine, è stancante e poco coinvolgente. Assistiamo a tutte le vicissitudini del mondo fuori le regole indiano, ma non solo. Cambio nero, vendita di passaporti contraffatti ed altre azioni non proprio regolari. Il suo nuovo mentore Khader, però, non si mescola mai né con la prostituzione né con la droga. Roberts ricalca un po’ ricamando la rettitudine del suo passato banditesco. Era infatti noto in patria come il bandito gentiluomo, che salutava prima e dopo le rapine, che rubava ad istituti di credito che avevano grosse assicurazioni a copertura dei furti, ed altre galanterie. Tanto che si vanta di non aver mai ucciso nessuno. Qui, è tutto un fiorire di nuovi personaggi, europei e mussulmani, i primi che si riuniscono al Leopold’s bar, con intrecci di vita complicati e poco coinvolgenti. Mi rimane in mente solo il simpatico Didier, un gay francese che vivacchia facendo da intermediario: non si sporca le mani, ma sa a chi chiedere, e ci fa il suo margine. Ci sono belle donne (Ulla, Lisa ed altre). Poi c’è la mafia di Khader, dove il nostro Lin riesce ad arrivare in posizioni preminenti, soprattutto nelle forniture di passaporti falsi. Tanto che il capo mafia decide di portarlo con sé nella terza parte del libro. Dedicata alla missione di Khader in Afghanistan a supporto dei mujaheddin contro gli invasori sovietici. Una parte di una pallosità stratosferica. Dove ci sono tradimenti a tutto spiano, voltafaccia, persone che appaiono e scompaiono. Poi, nel ritorno a casa, Khader muore, e nell’ultima parte vediamo le lotte tra le varie fazioni. Ma anche tutte le agnizioni di Lin sui vari personaggi incontrati lungo le 900 pagine. Capiamo finalmente chi ha fatto cosa, e perché. E capiamo perché, alla fine, Lin (al contrario di Gregory) decida di tornare dai suoi amici indù e nello slum che aveva visto tutta la sua parte di serenità all’inizio di questa avventura. Ripeto, sarà la faticosità dell’inglese, ma la prima parte (l’arrivo, la conoscenza di Mumbai ed il dispensario nello slum) è bella ed avrebbe meritato un bel voto. Finendo lì ci sarebbe stato, anche se non integralmente, un ripasso della “Città della gioia”, con una bella storia dietro. Tutte le altre 650 pagine si trascinano stancamente. E sebbene si sia curiosi di capire perché e se Lin e Karla finiscano o non finiscano insieme, questa curiosità non giustifica tutta la lettura. A me rimane il senso dell’India, delle mie passeggiate, solo o con Alessandra, tra il Taj Mahal e le piccole taverne. Aspettando di tornare ancora laggiù.
“In matters of food I am French, in matters of love I am Italian, and in matters of business I am Swiss.” [Per il cibo sono francese, per l’amore sono italiano e per gli affari sono svizzero] (49)
“A friend is anyone you don’t despise.” [Un amico è chiunque tu non disprezzi] (58)
“One of the reasons why we crave love, and seek it so desperately, is that love is the only cure for loneliness, and shame, and sorrow.” [Uno dei motivi per cui bramiamo l'amore, e lo cerchiamo così disperatamente, è che l'amore è l'unica cura per la solitudine, la vergogna e il dolore] (124)
“I sometimes think that the size of our happiness is inversely proportional to the size of our house.” [A volte penso che la dimensione della nostra felicità sia inversamente proporzionale alla dimensione della nostra casa] (244)
Jean Renoir “Renoir, mio padre” Corriere della Sera Arte 29 euro 7,90
[A: 21/02/2017 – I: 01/11/2019 – T: 13/11/2019] - &&&-    
[tit. or.: Pierre-Auguste Renoir, mon père; ling. or.: francese; pagine: 376; anno 1962]
Si sente che è un libro di quasi sessant’anni, abbastanza lento nella descrizione molto personale della vita di Renoir fatta dal figlio. Il grande regista francese, sulla soglia dei suoi settanta anni, cerca il filo della memoria che lo ha legato al grande padre, il pittore impressionista Pierre-Auguste Renoir. Si nota, e non a caso, la vita da regista che Jean ha trascorso. Riesce sempre a farti entrare nelle descrizioni di un paesaggio, di un caffè, di una casa in campagna come se fosse lì con la cinepresa, e ci potesse mostrare tutto dietro l’obiettivo. Però questo è anche il limite dello scritto, che spesso rimane lì nel descrittivo, e non scende con il cuore, con la pancia, in una vita che, questo è certo, è stata interessante ed intensa. Certo, lo scritto serve anche a Renoir figlio per fare in un certo senso i suoi conti con il padre ingombrante. Come dovremmo fare tutti, anche se i nostri genitori sono meno ingombranti. E la pace ce la comunica, con l’affetto che in molte pagine esce fuori, anche senza volerlo. Quando vediamo il vecchio Renoir sulla carrozzella, a colazione che sbocconcella un pezzo di pane, quando si stende nelle ultime ore sul letto della sua dipartita, è con commozione che seguiamo le frasi del libro. In altre invece si legge ma non prende. Vediamo i vari personaggi della vita parigina prima e di campagna poi, entrare, agire, uscire, ma, pur con tutti i loro nomi, non riescono a coinvolgerci. Vediamo i personaggi, vediamo come in quadro la Parigi lontana, sia da Jean che da Giovanni, i balli sul Lungo Senna, la vita minuta degli abitanti della storia (anche se hanno fatto la Storia). L’occasione per far incontrare padre e figlio, è una ferita del figlio che lo fa tornare a casa dal fronte e camminare con le stampelle, così come il padre che invece per un’artrite deformante da anni sta su di una sedia a rotelle. Incontro fortunato e fecondo, che nel comune male Pierre-Auguste racconta e Jean immagazzina. Anche perché il padre si sposò tardi e Jean nacque che il padre aveva già 54 anni. Renoir sr. è infatti nato a Limoges nel 1841, sesto figlio di un sarto e di un’operaia. Per sfruttare le possibilità della capitale la famiglia si trasferisce nel ’45 a Parigi e lì vive da sempre il pittore. Che aveva anche una bella voce (fu allievo del coro di Gounod), ma il padre, vedendolo usare i gessetti da sarto, lo indirizza verso la lucrosa carriera di dipintore di porcellana, come si usava nella natia Limoges. Ma sui vent’anni, di fronte alle difficoltà del mercato, Renoir decide di votarsi alla pittura, ed entra nell’atelier dell’Ecole des Beaux-Arts. Lì conosce quelli che diventeranno suoi amici e sodali nell’avventura impressionistica (sulla quale entro poco che già tanto e meglio se ne parlò). Ecco Sisley, Bazille, Claude Monet, con i quali inizia a dipingere “en plein air”. Gli inizi per Renoir furono duri, ma, contando su qualche accumulo dei tempi della “porcellana”, ed accontentandosi di poco, tra il ’74 ed il ’77, dipinge i suoi capolavori come il “Bal au Moulin de la Galette”. Incontra anche Aline Charigot che diventerà modella poi amante ma che sposerà solo a cinquant’anni, che Aline non voleva bloccare l’estro artistico del suo grande amore. Che conosce in questo crocevia di belle persone, quello che diventerà uno dei suoi più grandi amici, Cézanne. Tanto che Jean crescerà molto in solidarietà con i figli del grande provenzale. Nella grazia delle parole di Jean, riusciamo a sederci a tavola in campagna per mangiare i grandi pranzi preparati da Aline nella natia Essoyes. Vediamo iniziare la malattia di Renoir, il trasferimento in clima più miti a Cragnes-sur-Mer, dove muore il 3 dicembre 1919. Il regista, con le capacità del suo tocco da film, ci presenta anche dei piccoli siparietti illuminanti dell’epoca e dei personaggi. Ne ricordo alcuni. Il signor Choquet, un tempo funzionario delle dogane poi mecenate dell’arte che si rifiuta di incontrare Dumas figlio che aveva rinunciato all’eredità paterna per non pagarne i debiti. L’elegante Claude Monet, che andava sempre in giro con camice di pizzo, liquidando le donne che lo assediavano (era anche un bell’uomo) dicendo che andava a letto solo con le duchesse. La magnifica scena del camerino di un’attrice dove troviamo Renoir con l’amico Zola, quest’ultimo intento a sfoggiare il suo sapere. Renoir si scoccia, e chiede alla donna: «Parliamo di cose serie. Il petto vi regge bene?». La diva apre la camicetta e mostra lo stato dell’arte delle tette, con la conseguenza che Zola arrossisce e scappa. Per tutto il libro poi il figlio cerca di illustrare la filosofia di vita del padre: il turacciolo, che segue la corrente senza affondare. Perché quelli che vogliono risalirla sono “sono pazzi od orgogliosi o, peggio ancora, distruttori”. Ci si aggiusta, ma sempre nel senso della corrente, perché i grandi uomini sono semplicemente coloro che sanno guardare e capire. A me è risultato un po’ lento, pur nella voglia di ripercorrere luoghi e momenti sempre a me cari. Ma soprattutto, mi ha dato il senso di una frase che ora nella maturità sento ogni tanto rimbalzarmi in testa (“Arriva un momento in cui un figlio si scopre identico al padre”). Ecco, questo più di ogni altro mi ha attirato: il rapporto padre-figlio, la voglia di entrarci e di starci bene. E non è mai facile.
“Basta una freddura a distruggere un’amicizia … le parole sono troppo pericolose.” (66)
“Per tutta la vita non ho fatto altro che commettere errori grossolani. Il vantaggio d’invecchiare consiste nell’accorgersi dei propri sbagli un po’ più in fretta.” (174)
Pietro De Santis “Grazie, professore” Prospettiva s.p. (regalo dell’autore)           
[A: 10/09/2019 – I: 26/12/2019 – T: 28/12/2019] - &&&  +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 140; anno 2019]
Non è mai facile parlare di un libro conoscendone l’autore, anche in contesti diversi dalla scrittura stessa. Fu difficile per il genero di Pietro ed i suoi libri “noir”. Non è semplice per questo, un libro quasi da flusso di memoria, con salti interni ed esterni alla scrittura ed alla storia. Ho avuto anche la “sfortuna” di sentirne parlare prima di leggerlo, quasi avessi letto una quarta di copertina senza aver ancora toccato il testo. E voi sapete che non è una cosa che né mi piace né mi riesce facile poi dedicarmi alla lettura senza condizionamenti. Ma tutto ciò porta soltanto ad “excutatio non petita” e quindi, come direbbe il mio vecchio professor Morganti, “accusatio manifesta”. Cioè, se non hai da giustificarti, non scusarti. Ed in realtà, più che scuse, queste vorrebbero essere premesse. Per introdurre il testo di Pietro, valente fisico, ma ancor più valente psicologo, nonché (e lo si capirebbe anche non conoscendolo) profondo conoscitore ed estimatore di un piccolo grande autore di nicchia. Quell’Antonio Pizzuto, autore per me legato ad uno dei miei primi e vecchi Einaudi, “La signorina Rosina”. Con una tecnica che ne rimanda l’idea, se non il modo, anche qui le parole fluiscono, vanno a descrivere azioni e modi, per rimandarci alla fine un quadro di un momento storico (e personale) dell’autore e del protagonista. Non avendo interesse a scandagliare quanto di Pietro ci si nel professore del testo, e quanto di rimandi e di scritture traversali, io mi rimetto alla linearità del testo. Sottolineando, comunque, che la “storia” è uno dei due elementi, quello forse più semplice da esporre. Il modo in cui invece Pietro la espone è tutt’altro e servirebbe qualcuno più aduso di me alla critica per cavarne fuori non dico la bellezza, ma quanto meno l’interesse descrittorio. Dicevo, la storia è semplice, eppur intrigante, almeno per me che ho vissuto esperienze analoghe. Un professore di liceo accetta, obtorto collo, di far parte di una commissione d’esame che include tre privatisti detenuti in carcere. Vediamo i tormenti delle decisioni, le piccole manie quotidiane del professore, che uomo come tanti di noi è, il suo approccio con i colleghi. Anzi, con le colleghe che tutte professoresse sono. E quando ci sono uomini e donne, c’è sempre un che di sensuale, se non di sessuale, che aleggia nell’aria. Ma in particolare, ed è qui che il mio personale si è sentito coinvolto, il professore narra i suoi sentimenti nell’entrare in carcere. I problemi protocollari, le limitate libertà di manovra all’interno di strutture penitenziarie, poi l’incontro con i detenuti. Con la loro vita, sia con quella all’interno del carcere, sia con la precedente che li ha portati a crimini vari. L’umanità del professore si istanzia anche nelle domande, implicite ed esplicite, che si pone. Perché quei detenuti hanno deciso di studiare, di prendere un pezzo di carta che sicuramente in carcere non serve, e che fuori chissà quando potrà essere utilizzato? Rispetto al mio rimaner fermo a considerare quella platea una platea, il professore si pone domande, cerca di capire, in qualche modo, chi siano quei tre. Ma cerca anche di capire chi siano i professori che con lui costituiscono gli esaminatori dei detenuti. Affiora, come dice lo stesso Pietro, e come si capisce dalla sua storia, il tributo ad un rapporto di causa – effetto del sociale sul mentale che anche qui persone con più nozioni delle mie sarebbero in grado di analizzare e portare alla gradita attenzione dei lettori. Io ritorno a quanto detto sopra, alle mie orticellari esperienze carcerarie, ed al ritrovamento, nello scritto di Pietro, di quelle sensazioni allora affioranti, e poi ben radicate, anche in altro. Non è stata una lettura semplice, che a volte passaggi letterari e modi di scrittura mi hanno tenuto a rileggere pagine che sembravano sfuggire dalla immediata comprensione. Ma una lettura che ho gradito, ed ho ritenuto (cioè tenuto con me) perché mi ha riportato indietro di quasi venti anni, perché mi ha fatto (ri-)vedere che alcune esperienze comunque sono universali e comunicabili. Mi ha fatto anche pensare che potevo chiederne parere alla mia amica Luciana. Per ora, dico a Pietro di insistere nella scrittura, che non è una cosa semplice, come tutti sappiamo (tant’è che non credo la userò mai), che io aspetto di leggere ancora, di lui, di Fako e di tutti i miei amici che hanno il coraggio di prendere in mano una penna.
Giuseppe Munforte “Il fruscio dell’erba selvaggia” Neri Pozza s.p. (Natale degli Ossicini)           
[A: 25/12/2019 – I: 04/01/2020 – T: 08/01/2020] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 143; anno 2018]
Per questo, e per altri libri analoghi, devo ringraziare la mia grande famiglia, ed in particolare mia cugina Annalisa, che, reduci dal premio Roma, per Natale hanno portato a cugini e parenti una massa di libri, che io ho fagocitato (almeno per quelli che erano novità e/o con interessanti sembianze). Capita così nella fucina di lettura questo libro, scritto nel ventennale della sua prima uscita, opera complessa, anche se non sempre riuscita, di Giuseppe Munforte, Autore milanese, or quasi sessantino, con alcuni (seconde i critici) interessanti libri alle spalle (tra l’altro finalista allo Strega del 2014). Io mi presento vergine di notizie alla lettura, e ad un libro in cui ho trovato spunti interessanti, ma anche momenti di difficile ed involuta lettura. Intanto un piccolo lungo inciso sul titolo. Che viene da un verso del poeta russo Yevgeny Yevtushenko, tratto dalla poesia “Babij Jar”, dedicata dal poeta al massacro avvenuto in quella località, dove nazisti e collaborazionisti ucraini uccidono 33.771 ebrei. Il poeta denuncia in questo poema del 1961 l’antisemitismo russo. Denuncia rafforzata l’anno seguente dall’inserimento della poesia nella Sinfonia n.13 del compositore sovietico Dmitrij Šostakovič. Quale sia il nesso tra ebrei e questo testo, o tra un massacro ed il testo, o tra la rimozione dello stesso e questo romanzo a me sfugge. Quindi ne salto la domanda, e vado al testo, che segue tre diverse linee narrative, sfalsate per soggettiva dei protagonisti e per andamenti temporali. Quasi fossero tre racconti lunghi, che alla fine si ricompongono in un quadro unitario. In “Nero uno” uno zio bislacco si suicida, ed il nipote seminarista viene incaricato dalla zia, che il tipo aveva abbandonato senza motivo anni prima, di mettere a posto le ultime cose del morto. Il nipote così fa un viaggio nella memoria, dello zio giocatore e forse rapinatore e forse altro, ma trova anche una misteriosa busta con dieci milioni di lire (siamo qui nel 1991) indirizzata da una donna sconosciuta. Coincidenze strane, unite ad altre che si scopriranno solo nel concitato finale che unisce i puntini come fossero un rompicapo della Settimana Enigmistica. In “Nero due” vediamo il trentenne Abele, che in ospedale negli anni Novanta incontra Massimo, uomo estroverso e casinista, che gli racconta la sua vita: orfano cresciuto dai frati, sbandato, poi criminale e rapinatore, infine, camionista dopo l’incontro con la bella Eleonora. Amicizia ospedaliera, puntellata dai racconti strani di Massimo, dal rapporto con il frate della giovinezza, a quello con il boss in carcere (uno dei punti migliori). Storia finita con le dimissioni dall’ospedale, che si riapre con la comparsa di Eleonora a casa di Abele, e con l’agnizione del pericolo che sta correndo Massimo. In “Nero tre” veniamo riportati al tempo della gioventù di Massimo, quando stava dai frati, quando scelse la sua cattiva strada, quando ignorò l’aiuto del frate che speravo di toglierlo dalla strada. Alla fine, in quel finale che non mi convince più di tanto, i tre racconti lunghi collassano cercando di far intrecciare tutti i possibili forse della narrazione. Si riuscirà a cavarne un disegno unitario? Un senso logico? Una qualche possibilità di comprensione? Personalmente non l’ho trovata. Motivo per cui, seppur la scrittura e la struttura di ogni fase mi abbia interessato, ed in alcune parti coinvolto, alla fine, il testo complessivo non raggiunge quello stomaco di piacere o quel cuore di passione che a me devono dare, anche in piccola parte, gli scritti che tengo a conservare tra i “miei”. L’altro punto che mi rimane è un rimando di memoria, che tocca solo in margine il libro, ma che mi tornava in mente in alcuni punti. La storia di mio prozio Giovanni (cioè lo zio Giovanni di mio padre). Personaggio strano, di cui non si ha storia certa nella famiglia. Autonomo e solitario, ogni tanto, nel dopoguerra, ricoverato al “Fatebenefratelli” all’Isola Tiberina, dove mio padre, unico nipote, andava a trovarlo e confortarlo. Non si sa che mestiere facesse, né se avesse famiglie alle spalle. Se ne sa la solitaria esistenza (quasi come un personaggio di Munforte), e la volontà estrema di “non dar fastidio”. Tanto che, dopo un’ultima crisi, zio Giovanni esce dall’ospedale, e sparisce. Non se ne saprà più nulla. Forse morto, forse emigrato, di sicuro allontanatosi volontariamente da tutti, per vivere la sua fine solo e senza altri fardelli. Ma questa è la mia storia, non quella del libro, che lascio a chi voglia intraprendere la non facile lettura.
Questo mese ha cinque domeniche, sicché ne approfitto per recuperare cure passate dove i libri citati erano stati letti dopo la pubblicazione dell’allegato relativo.
Ebbene sì, siamo alla seconda settimana di reclusione, o meglio di “restiamo tutti a casa”. Lo faccio, come tutti. Ne soffro, come tanti. Mi adatto. Leggo, aiuto quel che posso. Vivo anche una dimensione familiare non usuale ma per nulla dispiacevole. Di certo, le limitazioni alla libertà sono tante, e non facili. Di certo, gradirei dei gradi di libertà, seppur minimi. Ma facciamoci forza, e stiamo tutti uniti, che, come dicevano i cileni quaranta anni fa, “unido jamas sera vencido”.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

Quasi PASQUA 2020
Quando c’è una domenica in più, come in questo marzo anomalo, cerco di recuperare trame e malanni passati. Eccone tre.

Cent’anni, avere più di

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER CHI HA PIÙ DI CENT’ANNI
1.       Thomas Bernhard                        Estinzione
2.       Andrew Sean Greer                     Le confessioni di Max Tivoli
3.       Jonas Jonasson                           Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve
4.       Yasunari Kawabata                      La casa delle belle addormentate
5.       Milan Kundera                            L’immortalità
6.        Cormac McCarthy                           Oltre il confine
7.       A. A. Milner                                Winnie the Pooh
8.       Georges Perec                            La scomparsa
9.       Osvaldo Soriano                          Un’ombra ben presto sarai
10.     Giuseppe Tomasi di Lampedusa     Il gattopardo

MATERNITÀ

Barbara Comyns          “I miei anni a rincorrere il vento”
Allison Pearson           “Ma come fa a far tutto?”
«‘‘Non sopporto l’idea di fare il papà e spingere il passeggino!” disse George. Allora risposi: “Nemmeno io voglio fare la mamma, accidenti; me ne vado”. Poi però mi ricordai che se me ne andavo il bambino sarebbe venuto con me ovunque. Mi sentii soffocare e scoppiai a piangere».
Questo brano tratto da “I miei anni a rincorrere il vento”, romanzo ambientato negli anni Trenta, lo potrebbero stampare sulle confezioni di pillole anticoncezionali come promemoria di cosa significhi davvero avere un bambino. Quando c’è, c’è sempre, e voi ne siete responsabili, che vi piaccia o no. (A meno che, ovviamente, non siate la protagonista di “Inseguendo l'amore” di Nancy Mitford, che abbandona la figlia perché sia allevata dalla sorella Emily. Anche questo è un modo per affrontare la maternità: far lavorare gli altri al posto vostro).
La maternità non può essere guarita, ma esistono dei trattamenti da somministrare, e il romanzo autoironico e in gran parte autobiografico di Barbara Comyns è un ottimo punto di partenza. Sophia è una ragazza inesorabilmente ottimista, che si sposa troppo giovane, gira con in tasca un tritone che si chiama Great Warty e non è assolutamente pronta a diventare madre. Lei e il marito sono due convinti bohémien ripudiati dalle famiglie che vivono grazie ad alcuni assegni trovati in un cassetto e guadagnano qualche soldo facendo da modelli per alcuni artisti mentre Charles dipinge i propri quadri. Sophia non ha un bambino, ma addirittura due, e la scarsa volontà di Charles a fare concessioni alla paternità non fa ben sperare per la loro. Le terribili esperienze vissute da Sophia in ospedale sono già sufficienti a scoraggiare molte future madri, ma la sua capacità di riprendersi dopo le peggiori disavventure - come quando la suocera prima giura di non andare al matrimonio, e poi arriva con sciami di parenti e si aspetta di essere ospitata nello squallido appartamento della nuova coppia - fa di lei una compagnia vivace e positiva. Passa da un lavoretto all’altro, e spesso mantiene la famiglia da sola, mentre Charles continua a credere di avere un grande talento e che la paternità non può mettergli i bastoni fra le ruote.
Tutto questo, alla fine, rappresenta una versione estrema di quella che è l’esperienza di molte nuove madri, ma l’umorismo anticonformista e tonificante, insieme alla voce ammaliante di Sophia, farà sì che molte donne ridano con lei mentre fa del suo meglio per giocare alla famigliola felice senza alcun aiuto da parte del marito. Se ne avete appena avuto uno, eviterete di sbattere la testa contro un muro per diversi anni, facendo vostro il suo spirito di sopravvivenza.
Per una visione più moderna della maternità, “Ma come fa a far tutto?” di Allison Pearson è una divertente analisi delle abilità da giocoliere necessarie a mantenere un ottimo lavoro, un amante, l’apparenza di un matrimonio e al contempo fare la mamma. Il libro inizia con Kate Reddy, trentacinque anni, sveglia alle 1.37 del mattino del tredici dicembre, che «maltratta» tortine di frutta secca comprate da Marks & Spencer per farle sembrare fatte in casa. È decisa almeno a sembrare una «buona madre», una donna «pronta a sacrificare tutto per cucinare una buona torta di mele, un’indefessa sorvegliante della vasca da bagno» oltre che una madre «dell’altro tipo», quello che tutti criticavano negli anni Settanta della sua infanzia.
Di giorno Kate gestisce fondi per una società della City, dove il suo capo le guarda il seno «come se fosse in offerta speciale»; lavora fino a tardi, il suo unico svago è una storia d’amore via e-mail con Jack Abelhammer, un uomo troppo bello per essere vero. Si preoccupa continuamente di perdere i momenti importanti nella vita dei figli («Oggi è il primo compleanno di mio figlio e io sono seduta in cielo proprio sopra Heathrow») e si infuria contro il mondo misogino che l’ha messa in quella situazione. Il suo matrimonio sembra un’eredità del secolo scorso, perché è lei che si fa carico di tutto quello che riguarda i figli, delle faccende domestiche e di andare avanti e indietro con la scuola, da sola o con il telecomando.
Pearson scrive con tanto umorismo che leggere questo romanzo sarà una vera sfida per i muscoli del vostro pavimento pelvico, messi già a dura prova dal parto. Se non siete ancora entrate nel paese della maternità, ma siete curiose di sapere cosa succede al di là del confine, questo romanzo servirà a mettervi in guardia contro la pretesa di «avere tutto». Chi vive già certe situazioni, invece, si divertirà moltissimo a guardare Kate Reddy che si prepara per la sua prossima mossa - e continua a destreggiarsi tra il matrimonio, la carriera e i figli. Leggete questo romanzo, e fatevi coraggio. Si può avere tutto, basta ricordarsi di tenere a portata di mano un matterello per dare qualche colpo alle torte comprate in pasticceria.

OSPEDALE, ESSERE RICOVERATI IN

Quando siamo in ospedale vorremmo un angelo custode che si occupasse di noi, con dolcezza – ma anche poter fuggire in un luogo selvaggio e avventuroso. Per questo vi proponiamo due serie di libri: “angeli” e “avventure”.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE IN OSPEDALE
Don DeLillo                    “Underworld”
Cecil Scott Forester        “La regina d’Africa”
David Grossman             “Che tu sia per me il coltello”
Jack Kerouac                 “I sotterranei”
Barbara Kingsolver          “L’albero dei fagioli”
Jack London                   “Il richiamo della foresta”
Daniel Pennac                “Il paradiso degli orchi”
Jo Soares                      “L’uomo che uccise Getulio Vargas”
Osvaldo Soriano             “Futbol – Pensare con i piedi”
Bruno Traven                 “Il tesoro della Sierra Madre”

Bugiardino

Allora, eccoci ancora alle prese con i centenari, che in questi tempi “coronati” (ma non regali)  sembra più un successo che una malattia. Sempre in temi di attualità, c’è la maternità (che di certo avrà qualche impennata). Per poi finire con i ricoveri ospedalieri, di cui possiamo parlare a lungo.
Cormac McCarthy “Oltre il confine” Einaudi euro 12,50 (in realtà, scontato a 9,35 euro)
[tramato il 21 luglio 2019]
Non è che manchino i libri di McCarthy nella mia libreria, li ho letti quasi tutti, ne ho gustato il dolore della scrittura, la sapienza della parola scritta, l’asciuttezza flaubertiana con cui l’autore ci porta per mano lungo le pagine delle sue storie. Perché tutto il mondo è una storia, e tutte le storie che si raccontano fanno parte di un’unica storia. Quella storia che è il mondo. Ma la ragione in più della lettura è il solito consiglio delle cure librarie, dove si consiglia che sia un libro da leggere ai nostri centenari (ed auguri a chi ci arriva). Venendo per prima cosa al testo, è un vero libro da “far west”, nel puro stile Cormac. Paesaggi, persone, morti inutili. Come se si fosse ancora nell’Ottocento. Invece siamo al tempo della Seconda Guerra Mondiale. Un libro che tiene fede al suo titolo originale, quel confine che bisogna attraversare per crescere, per diventare adulti. Quel confine che il protagonista principale del libro, ed i coprotagonisti, attraversano tre volte. Billy, alla fine di tutti questi sconfinamenti, diventerà adulto? Crescerà? Sarà consapevole? A Cormac non interessa dircelo, e forse non è importante. Vediamo allora questo confine, che in realtà è anche fisico. Il confine tra Stati Uniti e Messico, iniziando in un tempo che si colloca negli anni Trenta. La famiglia Parham si è da poco trasferita nel New Messico, vive di caccia e di agricoltura, come ancora si faceva in quegli anni laggiù lontano dalle grandi città. Al centro della storia c’è il sedicenne Bill, ed in secondo piano suo fratello quattordicenne Boyd. Le mandrie dei Parham sono minacciate da una lupa che, sconfinata dal Messico, è venuta lì fuggendo cacciatori e per partorire. I Parham le danno la caccia, e sarà Bill a trovarla. Dovrebbe ucciderla, ma lì c’è lo scatto interno, il moto che fa di Billy “un diverso”. Vedendo l’ingiustizia di una possibile esecuzione dell’animale, Bill decide di riportare la lupa nelle terre natie. Intraprende così, senza dirlo a nessuno, un lungo viaggio, pieno di peripezie, pieno di incontri. Un viaggio che contiene le più belle pagine del rapporto tra uomo e animale, e tra uomo e natura. In Messico, Bill viene sopraffatto dai cattivi che prendono la lupa per utilizzarla in combattimenti animali. Bill non potrà che assistervi, e quando la lupa sarà stremata, decide lui di por fine alle sofferenze ed ucciderla. Torna a casa, dover scopre che la sua famiglia è stata massacrata e tutti i loro animali rubati. Si è salvato, a stento, il solo Boyd. I due allora decidono di attraversare di nuovo il confine, alla ricerca dei ladri e dei cavalli. Che troveranno entrambi, che in parte riprenderanno, che saranno coinvolti in sparatorie dove, ancora una volta, Boyd rischia di morire. Sarà salvato dalle cure di una bella indigena. Ma il rapporto a tre non è, non può essere equilibrato. Così che Bill ritorna a casa, mentre Boyd e la bella rimangono ramenghi tra le colline messicane. Passa il tempo, passa la guerra, ed alla fine Bill intraprende l’ultimo viaggio. Per ritrovare le ossa del fratello, morto in una qualche sparatoria, e sepolto chissà dove. Dopo aver trovato la tomba di Boyd, Bill cade in un’imboscata tesa da uomini che dissacrano i resti di Boyd e pugnalano il cavallo di Billy, Billy, con l'aiuto di una zingara, riesce a far guarire il cavallo e con lui ritorna verso casa. riporta il cavallo alla condizione di poter cavalcare. L'ultima scena mostra Billy solo e desolato, che incontra un cane terribilmente maltrattato che gli si avvicina per chiedere aiuto (quasi un contraltare dell’inizio). Ma qui, in contrasto con il suo legame giovanile con il lupo, spara al cane con rabbia. Poi se ne pente, torna a cercare il cane, che però è sparito. Bill si ferma e comincia a piangere. Questa è la storia, cui mancano i tanti incontri di Bill lungo le sue peregrinazioni. Predicatori, attori, messicani cattivi, messicani buoni. E tanto altro. Che il senso di Cormac è tutto qui, forse. Facciamo tante cose, incontriamo tanta gente, ognuna che ci dona un pezzo della sua umanità, per far sì che noi possiamo costruire la nostra, di storia, di umanità. Che non dovremmo mai tradire, una volta raggiunta. E quando ci accorgiamo di aver fatto un errore, non possiamo che cercare di rimediare. Di tornare indietro. E comunque, di piangere. Un pianto liberatorio, che solo può svelare, senza tante parole, chi siamo diventati. McCarthy ha questo suo stile che a volte mi irrita. Ma alla fine non posso non dire che il libro è interessante, blandamente conradiano, profondamente ben scritto.
 “Le cose separate dalle loro storie non hanno senso … Quando ne abbiamo perso il significato, non hanno più neppure un nome. La storia, d’altro canto, non può mai venir separata dal luogo al quale appartiene, perché essa è quel luogo.” (122)
Allison Pearson “Ma come fa a far tutto?” Mondadori euro 6,90 (in realtà, scontato a 5,20 euro)
[tramato il 23 dicembre 2018]
Tipico esempio di letteratura nata all’epoca dei “Baby Boomers” americani. Tipico esempio di scrittura anglosassone. Certo, non ha proprio solo elementi negativi, visto che, ogni tanto, mi ha fatto anche sorridere, anche se poco. Nella grande ondata delle idee alla Bridget Jones, all’inizio del nuovo secolo, molta letteratura di lingua anglosassone si interrogava sul rapporto tra vita privata e vita pubblica (detto così sembra quasi un argomento importante). E su queste tematiche escono film e libri che ne parlano. Con un piglio, come in questo caso, fintamente femminista, ma ancora pieno (anche se forse non colmo) di modi ed espressività più maschili che femminili. Si nota, dallo scrivere, la provenienza giornalistica dell’autrice. Che sicuramente dà un tono spigliato alla scrittura, ma che a me, a volte, lascia un tantino freddo. Il libro è una sorta di diario della protagonista, Kate Reedy, e delle sue vicissitudini familiari e lavorative. Ha un posto di responsabilità in una grande azienda di gestione fondi (mestiere tipicamente anglosassone anch’esso), con un alto grado di conoscenza del mercato, e con una grande abilità organizzativa e previsionale (non disgiunta da un po’ di fortuna che non guasta mai) che le consente di arrivare a posti di responsabilità aziendale. Fornendo molto materiale di invidia ai colleghi maschi. Con, inoltre, la necessità di frequenti spostamenti in giro per il mondo, al fine di seguire i suoi clienti. Una situazione che ho ben presente (anche se con molte responsabilità in meno) avendone avuto assaggi nella mia vita precedente. Ed avendo visto come, in situazioni analoghe, le donne abbiano (ed hanno) da superare enormi difficoltà: di credibilità, di disponibilità, ed altro. Insomma, tutto il bagaglio che è ben noto in ambienti di lungo corso maschile, dove le donne venivano (vengono) viste al massimo come segretaria di rara efficienza, non come colleghe a volte (spesso) più brave e capaci dei colleghi maschi. La nostra Kate è contornata da un marito architetto, che quindi avrebbe più facilità a disporre del proprio tempo. Ma che, come tutti gli ometti analoghi, si aspetta di essere servito e riverito. Non solo, ma non è in grado, non conosce, nessuno dei meccanismi di funzionamento di una casa moderna. Non sa fare lavatrici, non sa cambiare lampadine, non conosce i posti degli alimenti o dei vestiti. Per rendere il tutto più completo e complicato, alla famiglia si aggiungono due bambini: Ellen di cinque-sei anni e Ben di uno-due. Ovviamente, la gestione dei figli ricada tutta su Kate. E per fortuna che a sostegno dei fanciulli c’è la tata Paula. Certo anche lei con i suoi problemi, ma almeno presente (discretamente) quando serve. Al contorno familiare si unisce il contorno sociale di Kate. La collega Cole, single e sodale, che a metà libro rimane incinta. La neoassunta Maomao, di origini asiatiche e colma di illusioni lavorative. Seguiamo allora l’andamento di questo grande carrozzone, con tutte le crisi che possono capitare. Colleghi pseudo-pornografi con le loro battute insopportabili. Bambini da prendere a scuola, portare a feste. Bambini che si ammalano a Londra, sempre quando Kate magari è per lavoro a New York. Tutto quello che possiamo immaginare come difficoltà della vita di Kate si presenta, compresa la crisi coniugale con il marito Richard e l’innamoramento virtuale con l’americano Jack. Kate, da super-mamma e super-donna, affronta tutto l’affrontabile, riuscendo, con un filo di sorriso sulle labbra, a sconfiggere nemici e mulini a vento. Ma tutto ha un prezzo, e dopo un paio d’anni di questa vita, Kate getta la spugna sul lavoro. Tuttavia, dopo un po’ di casalinghitudine, eccola di nuovo sulla breccia, con nuove idee imprenditoriali, con nuove sfide. La morale, un po’ maschile (forse?), è che se Kate fosse un uomo avrebbe vinto sul fronte del lavoro, e si sarebbe trovato una donna per gestire la casa. Non ritengo che sia una morale vincente, come non la ritengo la morale opposta, che una donna per fare carriera e far valere le sue capacità debba negare il suo essere donna. Non conosco soluzioni, solo tentativi in cui una coppia cerca di gestire la propria vita paritariamente. Ci vuole coraggio e capacità da entrambe le parti, e qualche passo avanti si può fare. Ho tralasciato tutti gli episodi a margine della storia, il capo, le amiche, i colleghi. Ognuno con qualche elemento di riflessione. Ma mi premeva sottolineare il filone principale della storia. Ed il mio non concordare con le decisioni che prende Allison, la scrittrice, per descrivere e decifrare (anche) il suo mondo. Sono curioso, infine, di conoscere i motivi che ne consigliano la lettura, e per quale malattia.
David Grossman “Che tu sia per me il coltello” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[tramato il 14 ottobre 2018]
Ho sempre una grossa difficoltà con Grossman, quasi un rapporto di amore e odio. Perché sono in sintonia con le sue prese politiche pubbliche (e mangiammo a Gerusalemme nel locale preferito da lui e Amos Oz, il Tmol Shilshom, dietro Ben Yehuda), ritengo che sappia di certo maneggiare la scrittura, ordendo trame complicate nella stesura e nella realizzazione, eppur tuttavia le sue opere non mi coinvolgono quasi mai (forse ad eccezione di “Qualcuno con cui correre”), anzi le trovo sempre di difficile lettura. Come questa, eccezionalmente lenta nel dipanarsi temporale, cosa per me inusuale. e con molte difficoltà ad andare avanti, a raggiungere la fine, ed a sentirmi in sintonia. Per cui il mio voto composito prende un libro per la scrittura, un libro per motivi altri di cui andrò narrando, ed un doppio meno per il piacere del testo e del suo sviluppo. Come sa chi di Grossman ha letto, già il titolo è un omaggio letterario ed un riferimento. Preso da una frase delle lettere che si scambiarono a suo tempo Kafka e Milena (sulla cui storia un giorno ci sarebbe da tornare). Dove il grande praghese chiede che l’amore di Milena sia il coltello con cui aprire e scarnificare tutte le complicanze del proprio animo. Partendo da qui, David costruisce il “suo” romanzo epistolare, tra Yair e Myriam. O forse tra Myriam e Myriam stessa, anche se tutta la prima parte è costruita sulle lettere di Yair. Che un giorno vede Myriam in una qualche manifestazione pubblica (credo di studenti e professori) e rimane incantato da un gesto della donna. Un gesto che nota lui solo, e che da quello parte per coinvolgere la donna in un rapporto epistolare “alla lontana”, dove ognuno ha il diritto-dovere di aprirsi, di confessare all’altro le sue più segrete cose. Leggendo le parole di Yair, queste illuminano la complessità del personaggio maschile (scusate il piccolo nascosto gioco di parole, dato che proprio Yair significa “luce, illuminazione”). Inciso: mi viene anche in mente ora che Yair era il nome di battaglia di un sionista che combatté negli anni Trenta nell’Irgun, per poi staccarsi e fondare una sua “banda”, cadendo a 35 anni sotto i colpi della polizia britannica. Un personaggio maschile, si diceva, che cerca di affascinare con le sue trame, con le sue pillole di vita l’altro polo del romanzo. Yair è un condensato di tutto quanto possa essere “maschile” nell’immaginario comune (introverso da giovane, solipsista, autoproclamatosi brutto e poco affascinante, sempre pronto a fare il cascamorto con le donne, senza spesso molto successo, sposato, padre non sempre felice, fedifrago, e fondamentalmente, molto pieno di sé). Leggiamo le sue confessioni, i modi con cui cerca di scardinare l’universo “Myriam”, e lo si fa con molta fatica, senza coinvolgimento. Io, anche, con un po’ di fastidio. Solo quando Myriam viene lei in prima persona, quando vediamo le sue lettere, capiamo il suo mondo, da come traspariva in controluce dalle parole di Yair, che il libro fa uno scatto in avanti. È Myriam invero il motore principe delle idee, mi verrebbe da dire positive, ma forse solo costruttive. Capiamo i suoi drammi di donna, le sue amicizie, i suoi amori, il dolore del figlio autistico. Capiamo come dentro abbia tanto di più di quanto possa avere Yair, e che, forse, Yair è servito solo a darle un grimaldello per scardinare un mondo troppo chiuso, troppo compresso. Sebbene ognuno con la propria vita sociale distinta, non potrà non essere che alla fine, per complesse casualità, i due si incontrano, si scontrano, e, fortunatamente, Grossman non ci dice come proseguirà nel futuro. In fondo poco ci importa. Si capisce che, se Yair si lasciasse trascinare da Myriam, potrebbe scaturire altro, ma non credo possa succedere. Io, tifo per Myriam, sin dalle prime righe. Questo è quanto per giustificare il libro dedicato alla scrittura (Grossman riesce, senza mai entrare direttamente nella descrizione, ma per cenni e rimandi, a farci vedere ed immaginare chi siano Yair e Myriam) ed il doppio meno dedicato alla trama. Rimane il mio rimando personale, che mi è balzato prepotentemente agli occhi dopo le prime lettere di Yair. Che ripensavo al me stesso quindicenne, al suo lungo (nella memoria, ma in fondo durò solo otto mesi) amore epistolare con la bella friulana di un incontro estivo-tortoretano. Già allora velleità scrittrici mi balzavano alla penna. Ricordo che avrei voluto prendere le lettere di … beh chiamiamola Tiziana (nome di fantasia) e riunirle in un romanzo ad una via. Sì, per fare in modo che, leggendone da una parte sola, si potesse vedere, immaginare, il mondo del rapporto a due. Avevo anche un titolo al libro, che avrei chiamato “Amanti sotto il cielo, perplessi” (in questo drogato da mio cugino Paolo il cinefilo e dal suo ardore verso il film che vinse il Leone d’Oro a Venezia nel ’68, “Artisti sotto la tenda del circo, perplessi” di Alexander Kluge). Tuttavia, alla fine, proprio questi ricordi personali fan sì che Grossman rimanga ancora tra gli autori che non mi dispiace leggere.

Conclusioni

Difficile trarre conclusioni quando si parla di “malattie” disparate e che in fondo NON sono proprio delle malattie. Per questa volta mi accontento di riproporvele, augurando a tutti una buona lettura (e che si continui a leggere per lungo tempo).

domenica 22 marzo 2020

I saggi danno fiducia - 22 marzo 2020


Vidiadhar Surajprasad Naipaul “La máscara de África. Un viaje por las creencias africanas” Debolsillo s.p. (regalo di Ale)
[A: 01/11/2018 – I: 10/08/2019 – T: 22/08/2019] - &&&  
[tit. or.: The Masque of Africa. Glimpses of African Belief; ling. or.: inglese; pagine: 271; anno 2010]
Ovviamente, lo scrittore di Trinidad è più noto con le iniziali abbreviate (cioè V.S. Naipaul). A pochi mesi dalla sua morte, un estemporaneo viaggio alessandrino nelle premisis della sua amica Laura ha portato alla scoperta della bellissima libreria madrilena “Deviaje” (cioè, la “mia” libreria) ed al regalo di questo intenso e non facile libro sulle credenze africane, fatta dal premio Nobel naturalizzato inglese quando questi già si avviava verso gli ottanta anni. Confesso alcune cose: pur cercando, anche senza troppo successo, i libri di Naipaul, non ricordo di averne letti e tramati negli ultimi quindici anni, cosa che mi rende debitore verso lo scrittore. Seconda considerazione, non leggendo un libro in originale, se ne può leggere la traduzione in una delle lingue conosciute (da me) con lo stesso impatto: non è esatta in tutte le sfumature, ma è possibile leggerne. Terza ed ultima: in realtà, un saggio mi riesce meglio di leggerlo in italiano, qualunque sia la lingua originale; che invece un romanzo è più agevole, laddove le sfumature e le circonvoluzioni linguistiche si seguono nel corso della trama, mentre in un saggio, in un certo senso, bisogna stare più concentrati. Non è un caso, quindi, che abbia impiegato due settimane a leggere di questo libro. La bellezza, iniziale e che mi ha rapito, è la considerazione che fa l’anziano scrittore ed il suo scorrere del tempo. Ormai poco incline, se mai lo è stato, a mettersi ad un tavolo e scrivere, preferiva dividere il suo tempo in due: sei mesi di viaggi e sei mesi di riflessioni sui viaggi fatti, magari scrivendone, rivoltandoli nella mente e nella carta. Così fa anche in questo, dove decide di trascorrere questo tempo altro, lontano dalla sua casa inglese, nel percorrere alcune strade africane. In parte per fare a ritroso un viaggio contrapposto a quello fatto più di quaranta anni prima, trovando le mutevolezze delle cose viste. In parte, e congiuntamente, per percorrere, come dice il titolo, le strade, gli scorci delle credenze africane. Senza pensare di fare un saggio religioso, ma abbozzando schizzi di sensazioni, e magari andando alla ricerca di alcuni nodi delle credenze stesse. In questo viaggio dal centro al sud dell’Africa, Naipaul visita (e ci parla di) Uganda, Nigeria, Ghana, Costa d’Avorio, Gabon e Sudafrica. Per me, restano impressa la prima e l’ultima. La prima per la rivisitazione dei luoghi dove era stato da studente, con lo scoprire i cambiamenti che sono arrivati via via, ma anche per le storie dei re ugandesi e dei lori miti. Per la distinzione fra le varie zone, e la mia scoperta che esiste (esisteva) un Buganda. Per il viaggio di Stanley per quelle terre, le storie di Sunna e degli altri potenti del 1800. La seconda perché, come confessa lui stesso, è costretto a parlare di politica, anche non volendo. Che il Sudafrica, comunque, è apartheid, è Mandela, è Soweto, sono i ghetti neri di Johannesburg di un tempo ed i ghetti bianchi sempre di Johannesburg di ora (e ben li ho visti anche nelle mie visite al paese). I vari pezzi poi sono sempre pieni di piccoli spunti, di approfondimenti. Mi hanno riportato in Mali, anche se non ne ha parlato, quando cita Amadu Hampaté Ba rispetto alla sua morte e sepoltura in Costa d’Avorio. Ancor di più se si parla di Gabon e della vita colà trascorsa da Albert Schweitzer. Che io credevo fosse di tutt’altra parte, ma poi ho scoperto (grazie wiki) che stava in Africa Equatoriale Francese. O la storia di Mary Kingsley, che, dopo una vita trascorsa nelle parti equatoriali, con degni scritti di viaggi, muore a 38 anni, di febbre tifoide in Sudafrica. Per finire, quando si parla di Sudafrica, con la storia del mio coetaneo Rian Malan, la sua vita in una famiglia pro-apartheid, e la sua crescita verso i lavori interrazziali. Una parte politica interessante, anche se l’intervista tra Naipaul e Winnie Mandela mi ha convinto poco. Mentre il punto migliore e che mi ha tenuto più a lungo in riflessione riguarda il Nigeria e le guerre di un tempo, vecchie e/o molto antiche. In particolare, visto che si parla di scene sulle credenze africane, l’autore riporta una storia antica. La guerra tra due fazioni che non riuscivano a sconfiggersi, una delle due guidata da una eroina yoruba. La quale per vincere va da un oracolo per chiedere aiuto, e questi gli dice che gli dirà come vincere se lei sacrificherà la cosa a cui più tiene. Quindi l’eroina uccide suo figlio, l’oracolo gli rivela i segreti per vincere e gli yoruba trionfano. Una storia che Naipaul rapporta a Maria e suo figlio Gesù. Ma che a me ricorda anche altro, Abramo e Isacco, Agamennone e Ifigenia. Insomma, il sacrificio del Figlio per il bene di tutti. E qui mi fermo. Ricordo solo Telmo Pievani e le sue storie di migrazioni. Se siamo tutti africani, anche le nostre storie lo sono. Comunque, una bella lettura, difficile, ma intrigante nella sua costruzione. Con quella punta di riflessione sul girare per il mondo e poi rifletterci su. Lo faremo.
“Se puede sobrevivir a todo menos a la muerte (Wilde).” (249) [Puoi sopravvivere a tutto tranne che alla morte.]
“Un libro es un libro; tienes sus necesidades narrativas ... el lector tiene que despedirse con una sensación de haber llegado a una meta.” (267) [Un libro è un libro; ha i suoi bisogni narrativi ... il lettore deve finirlo con la sensazione di aver raggiunto un obiettivo.]
Albert Camus “Il mito di Sisifo” Bompiani s.p. (Regalo di Bene&Fra)
[A: 07/05/2019 – I: 14/11/2019 – T: 21/11/2019] - &+    
[tit. or.: Le mythe de Sisyphe; ling. or.: francese; pagine: 137; anno 1942]
Avendo tra i miei tanti difetti (come dice la canzone “…i tuoi difetti son talmente tanti che nemmeno tu li sai…”) quello di essere un inguaribile francofilo, sono veramente dispiaciuto di dover dare un giudizio soggettivamente negativo a questo bello scritto dello scrittore franco-algerino (terrei a sottolineare che il Premio Nobel del 1957 era nato vicino ad Algeri). Per un motivo forse troppo personale, dato che, filosoficamente parlando, sono abbastanza digiuno dal pensiero esistenzialista, mentre questo libro è totalmente imbevuto di esistenzialismo e della critica allo stesso. Ma questo sarebbe forse solo un peccato veniale, se Camus, nella foga dei suoi non ancora trent’anni, non presupponesse che tutti sappiano di cosa stia parlando. In tal modo, lavora per ellissi ed iperboli, lasciando a me, povero fruitore a cotanta distanza solo piccoli elementi di gioia e molti di angoscia. Come il fatto che per le prima cinquanta pagine (quasi metà libro) non sia proprio riuscito a capire cosa stesse dicendo. Cioè leggevo le frasi e non si connettevano l’una all’altra. Solo alla fine, dopo un passaggio su altri testi, e su elementi sparsi colti su rete, e dopo essere ritornato al testo, penso di averne intuito qualcosa. Peccato anche che Camus è invece un autore che da sempre mi è stato caro, tanto che alla maturità, avendo per materie italiano e francese (oltre a matematica che per me era un ovvio default), portai una tesina su Gramsci ed una su “Lo straniero” di Camus (ovvio che lo avevo letto in lingua ed in lingua ne parlai con la commissione). Libro che l’autore aveva pubblicato solo pochi mesi prima. Ma il testo letterario, pur se sottende tesi proprie di Camus, riesce, nel contesto romanzesco, a farsi comprendere. Certo meglio di questo pamphlet. Cercando di riprendere, tra un testo e l’altro, il senso del testo, Camus cerca una riflessione sul senso della vita. Poiché, secondo l’esistenzialismo e Camus, se la vita è assurda, perché non suicidarsi? Dopo tutto un percorso, su cui si ritorna, si arriva alla negazione della scappatoia personale, ed alla coscienza che la vita è come il mito di Sisifo, condannato a spingere il messo lungo una china, da qui nasce l’idea dell’autore, nasce la fiamma di una nuova vita. La morte è ineliminabile e i valori proposti non danno giustificazione alcuna alla vita, allora (come Meursault) dedichiamoci alla vita piena. Dobbiamo vivere come morituri, consci che il nostro destino avrà una fine, fare della propria vita un capolavoro. Vivere con ciò che si sa, adattarsi a ciò che si è. Se non esistono valori, bisogna cercare di avere una vita lunga. Siamo dunque arrivati al mito di Sisifo. Che personalmente non conoscevo ed allora sono andato a cercarne in giro. Ora pare che Sisifo fosse una persona molta astuta, tanto che in alcune leggende lo si considera il vero padre di Ulisse, con conseguente cornificazione di Laerte. Il mito dice che Zeus, per una delle sue solite fughe d’amore, rapisce una donzella. Ma Sisifo lo vede, ed in cambio di un acquedotto per la sua Corinto, fa l’infame con il dio. Che ovviamente si altera, e lo spedisce dal dio della morte per toglierselo di torno. Ma Sisifo fa ubriacare Tanato, lo incatena, e torna tra gli uomini, cosicché, per un po’, la morte scompare dalla terra. Chi sfida gli dèi, però, deve essere punito. Zeus, con l’aiuto di Ares e degli altri dei, vince il povero uomo Sisifo, e lo condanna ad una ripetitiva azione: trasportare un grande masso fino alla cima di una montagna per poi vederlo rotolare subito dopo fino alle pendici. Camus, narrandocene, ribalta l’ottica. Non vede l’angoscia di salire il monte, ma il momento di riflessione di Sisifo quando, senza il masso, scende la montagna per andare di nuovo incontro al proprio destino. Momenti in cui Sisifo riflette sul suo gesto, ne ricava l’estrema consapevolezza, ed in questo breve momento di vita, prima di riprendere l’assurdità della vita, “bisogna immaginarsi Sisifo felice” (parola di Camus). Nel mezzo del percorso per passare dal nichilismo iniziale a questa specie di inno alla vita, nel libro si citano filosofi (Šestov, Jaspers, Heidegger e Kierkegaard, tanto per ricordarne a mente alcuni), ma anche letterati, nella mirabile analisi del comportamento di Aleksej Nilič Kirillov un personaggio del romanzo “I demoni” di Dostoevskij, o nel percorrere l’opera di Kafka, saltabeccando tra “Il Castello” ed “Il Processo”. Ma anche verso archetipi, come il conquistatore, il Don Giovanni, ma soprattutto, per la mia sensibilità, l’attore. Quello che in tre ore diventa un altro, ce ne fa vivere i tormenti, l’angoscia, le vittorie e la sconfitta. Per poi tornare ad essere altro. Una persona piena non di una vita ma di tante. Forse è questo il punto su cui sarei rimasto a lungo, magari parlandone di più e meglio, che non solo ne capisco il senso, ma ne vedo, in alcuni modi, ad esempio nella mia amica Rosa, una personificazione magistrale. Per chiudere ricordo solo l’epigrafe posta da Camus al testo. La frase di Pindaro: "O anima mia, non aspirare alla vita immortale, ma esaurisci il campo del possibile" (Pitiche III).
“Una volta offerto lo spettacolo [l’attore] … non è più nulla, e lo si vede, due ore dopo, desinare fuori casa.” (74)
“Un uomo è tale più per le cose che tace che per quelle che dice.” (80)
“Se il mondo fosse chiaramente comprensibile, l’arte non esisterebbe.” (96)
“Il numero dei romanzi cattivi non deve far dimenticare la grandezza dei migliori.” (97)
Zygmunt Bauman “Vite di scarto” Laterza euro 9 (in realtà, scontato a 6,75 euro)
[A: 24/09/2018 – I: 13/01/2020 – T: 16/01/2020] - &&& e ¾   
[tit. or.: Wasted lives. Modernity and its Outcasts; ling. or.: inglese; pagine: 166; anno 2004]
In occasione di una vendita in sconto dei libri di Laterza, ritorno su uno dei pensatori da me più seguiti negli ultimi anni. Certo, dispiace che come molti ci abbia ormai lasciato, ma i suoi scritti meritano comunque un’attenta lettura. Pur nella difficoltà della materia, e pur nel limite che, qui come altrove, avevo rilevato. Una grande capacità di lettura del mondo che ci circonda, unita ad una scarsa incisività nel proporre non dico soluzioni, ma vie di percorrenza. Qui, ad esempio, il nodo centrale di queste vite sprecate (questo forse il senso migliore del “wasted” del titolo) mi è sembrato enuclearsi nelle prime pagine del saggio, quando Bauman analizza il passaggio fondamentale del mondo del lavoro negli ultimi anni (anche se lo scritto è del 2004). Un tempo la dicotomia sul lavoro era il binomio occupazione/disoccupazione. Se sei disoccupato puoi ragionevolmente pensare di riciclarti o ricostruirti una carriera nel suo opposto, il mondo del lavoro attivo, l’occupazione. Ora, invece, si passa al concetto di “esubero”. E quando sei in esubero significa che per te non c’è posto altrove. Non c’è un concetto opposto di esubero. Un concetto che ripete spesso in tutto il libro, ripetendo verso la fine che “La modernità … è una civiltà dell’eccesso, dell’esubero, dello scarto e dello smaltimento dei rifiuti”. Essere moderni significa muoversi, significa scegliere, e quindi, scartare i progetti che promettono di non andare a buon fine, i progetti falliti. Scordandoci che a volte, nel lungo periodo, un progetto ora senza sbocco, potrebbe portare a soluzioni inaspettate. Ma la velocità non ci consente di attendere, e quindi tagliamo e siamo tagliati. Siamo dominati dalla paura della solitudine e dalla rottamazione che potrebbero darci amici e partners. Così si spiegano i meccanismi che portano alla felicità del tutto e subito, alle lotterie, alle vincite, anche sentimentali, immediate. Non sembrano più esistere progettualità di lungo orizzonte. Quella che Bauman ci offre è l’interpretazione di un contesto attuale della globalizzazione, dove dobbiamo anche costantemente aggiornare le nostre definizioni, i nostri paradigmi sociali. Rimanendo sul concetto di progetto e fallimento, il progresso, la progettualità del mondo moderno, porta con sé, come contraltare sempre presente, l’idea del suo fallimento. Una possibilità prevista sin dall’inizio del progetto. Una possibilità esclusa dei progetti che si facevano prima della modernità. Quindi è ovvio che si producano materiali di scarto, materiali da smaltire. E quando il progetto è l’uomo, la sua comunità, io materiale di scarto diventa l’insieme dei “rifiuti umani”, l’insieme degli individui "che non si adattano alla forma progettata né possono esservi adattati". Ed allora gli esuberi non sono solo le persone fuori linea nei ricchi paesi occidentali, ma tutti quelli che vi arrivano da altrove, gli immigrati, i richiedenti asilo e i rifugiati provenienti dalle regioni del Sud del mondo. Uno dei discorsi più attuali nonostante i quindici anni del testo, è proprio la centralità che viene data alle migrazioni internazionali, che ha intaccato, modificato, perverso lo Stato Sociale a cui eravamo abituati. Passando (come ci insegnano i Trump o i Salvini attuali) ad un ritorno all’attenzione alla priorità della tutela dell'incolumità fisica dei propri cittadini. Si passa quindi da uno Stato sociale quanto meno ad uno Stato guardiano, se non ad uno Stato penale. Anche se spesso, e sono anch’io in accordo con Bauman, gli attacchi dall’esterno sono più immaginati che veri. Si pensi a tutto il processo degli Stati Uniti dopo l’11/9 che lo ha portato non ad una riflessione sulle ragioni di quell’attacco, ma ad un diffondere la paura contro le aggressioni che potrebbero venire da altrove. Non sappiamo dove scaricare questi rifiuti, queste vite scartate, contemplando molto spesso e con vivace immaginifica prospezione, che noi stessi possiamo diventare un rifiuto. Come sappiamo dalle analisi di Bauman, e da altri suoi titoli, diventa sempre più urgente, ma anche sempre più difficile trovare una via d’uscita. Bauman non la offre. Ci sarà qualcuno che prende il suo bastone da staffetta e lo porterà al traguardo. Intanto, Come conclude Bauman, ci muoviamo tra Huxley ed Orwell, e poiché conosciamo le due grandi opere della letteratura. Ci muoviamo con cautela, perché le abbiamo lette tutti e tutti sappiamo la fine che hanno fatto i protagonisti.
“Sapere significa scegliere.” (24)
“Eliminare … non è un movimento negativo, ma uno sforzo positivo di organizzare l’ambiente.” (25)
 “Sulle terre dei ricchi incombe quest’altro volto poco attraente della guerra contro la ‘sovrappopolazione’: la fosca prospettiva della necessità di importare un numero maggiore, e non già minore, di ‘loro’ solo per tenere in piedi il ‘nostro stile di vita’.” (59)
“Per dirla con Robert Louis Stevenson, viaggiare animati dalla speranza è meglio che arrivare.” (123)
Tiziano Terzani “Buonanotte, signor Lenin” TEA euro 10           
[A: 04/12/2017 – I: 02/01/2020 – T: 23/01/2020] - &&&& + 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 413; anno 1992]
A prescindere da tutte le riflessioni che questo libro mi ha (re-)suscitato, basta quella frase che riporto come prima, e che Terzani mette a poche righe dall’inizio di questo saggio, per dare un senso alla mia lettura, ed a gran parte delle cose che ho fatto e che sto facendo. Ma dato atto a Terzani di ciò (ed anche a quella frase che mi riporta in Ladakh), bisogna entrare nello scritto, più che nel viaggio. Ed entrambi sono affascinanti e coinvolgenti. Terzani si imbarca, nell’agosto del 1991, in una spedizione congiunta tra URSS e Cina per risalire il fiume Amur, nella zona siberiana di confine tra le due repubbliche. Mentre cerca di capire le differenze tra le due rive del fiume, giunge una notizia inaspettata: un golpe contro Gorbaciov. Terzani pensa di recarsi subito a Mosca, per vedere gli eventi drammatici con i propri occhi. Poi invece fa una scelta che si rivela geniale: attraversare la Siberia, l’Asia Centrale, il Caucaso, prima di arrivare a Mosca. Vedendo da vicino cosa sta succedendo nei meandri dell’ormai ex-impero sovietico. Il viaggio alla fine dure 3 mesi, dall’agosto all’ottobre del ’91. Un viaggio che tocca (a che nomi magici), la Siberia (e già ripenso alle lettere di mio padre da Ulan Bator), il Kazakistan, l’Uzbekistan (ahi Samarcanda e Tamerlano!), la Kirghisa, il Tajikistan, il Turkmenistan, l’Azerbaigian, la Georgia e l’Armenia, per concludersi sulla Piazza Rossa a Mosca, nel mausoleo di Lenin (dove io stesso andai due anni dopo, dopo il golpe di Eltsin del ’93). Terzani si muove come riesce e come può: la nave “Propagandist” sino a Komsomol, traballanti aerei della Aeroflot, financo taxi di fortuna, amici compiacenti, autisti improvvisati attratti della magia dei suoi dollari, ed un ultimo aereo da Erevan a Mosca. Vedendo da vicino cosa sta succedendo nelle piccole realtà marginali, parlando con tutti (potenti e dissidenti, artisti e commercianti, preti e imam) ci ricostruisce le modalità di una caduta e la visione di una prospettiva che ancora oggi, dopo trenta anni, è lontano dall’essere tranquilla o foriera di sempre buoni futuri. Tanti sono i motivi, le motivazioni, le domande che emergono dallo scritto e dagli incontri di Terzani. Andando in giro per i posti meno frequentati, più reconditi, ma anche più “veri”, vediamo tutti i passi che si sono avvicendati nel territorio. Prima, e quasi ovunque, la russificazione del territorio, tesa a cancellare le storie del territorio e spinta dalle migrazioni forzate verso le periferie. Poi c’è la crisi di identità dei popoli che si trovano “liberati” dagli organi di controllo del comunismo: il risorgere del nazionalismo, la ricomparsa del fondamentalismo islamico per ridare l’identità del territorio, gli attriti che risorgono, così come da lì a poco nell’ex-Jugoslavia. Tagiki contro uzbeki o armeni contro azeri. Emerge forte il disastro ecologico delle repubbliche dove le risorse ambientali vengono sfruttate senza alcuna tutela. Esemplare la descrizione delle fabbriche chimiche che appestano la città azera di Sumgait. Terzani ci fa vedere, anche se con i suoi occhi che sono però molto simili ai miei, la bruttezza degli edifici, il degrado, le code per ogni più piccola azione, e fianco l’ipocrisia del potere che abbatte indiscriminatamente le statue di Lenin, fino a poco prima osannate, cambia i nomi ai partiti, ma poi lascia i vertici al loro posto le stesse persone di prima. Viene sottolineata la dipendenza tra le varie repubbliche, che ora faticano ad ottenere le materie prime. Una citazione su tutte: «L’Azerbaigian, per esempio, può farsi le sue sigarette, ma non quelle col filtro. I filtri venivano tutti dall’Armenia. Gli armeni dal canto loro non hanno più verdura perché gran parte dei loro contadini erano azerbaigiani e, ora che quelli sono partiti, nessun armeno vuole andare a coltivare i loro campi». Ed infine le mafie che sfruttano il disordine istituzionale alimentando fortemente il mercato nero. E ben sappiamo come le mafie russe abbiano avuto buon gioco in quegli anni. Nonostante riesca poi a spostarsi tra le varie repubbliche, in ogni momento vediamo le difficoltà di spostarsi, le richieste di visti impossibili, le difficoltà di comunicare e l’impossibilità di telefonare. Però, alla fine, si arriva a Mosca, con la scena finale del saluto alla mummia di Lenin, come ho riportato sopra. Terzani mi affascina sempre nei suoi scritti, e non mi lascia mai deluso. Le sue frasi le faccio spesso mie, e mi rammarico, sempre e comunque, che ci abbia già lasciato. Ma rimando, oltre che a questo, a quell’ultimo giro di giostra che rimane uno dei più bei libri da me letti negli ultimi anni.
“La spedizione mi dava una buona ragione per rimettermi in viaggio, per riprovare quella gioia unica che solo i drogati di partenze capiscono, quel senso di libertà che prende nell’arrivare in posti dove non si conosce nessuno, di cui si è solo letto nei libri altrui, quell’impareggiabile piacere nel cercare di conoscere in prima persona e di capire.” (10)
“Politica è ormai una parola che sta a indicare qualcosa di negativo, di sporco, di antiquato, mentre tutto ciò che non è politica è buono, giusto, moderno, nuovo, desiderabile.” (134)
“Non sono religioso, ma le montagne mi sono sempre parse la cosa più vicina al divino. Queste dell’Asia più di altre: purissime, apparentemente senza fine, al di là del bene e del male, al di sopra di ogni gioia o dolore.” (244)
“Quanti misfatti sono stati commessi in nome di un popolo cui di solito non è mai stato chiesto nulla!” (267)
“Il totalitarismo di certe repubbliche come l’Uzbekistan non è dovuto soltanto al comunismo ma alla vecchia struttura feudale che precedette il comunismo e che il comunismo non ha mutato.” (318)
Essendo alla quarta trama del mese, concedo il giusto riposo di altre citazioni ai miei lettori, tornando solo sulla prima fase di Terzani sopra riportata. Quella che sottolinea ed incornicia il senso di una vita, quello che definisce cosa sono stato sino ad ora (“drogato di partenze”). Stringiamoci tutti insieme affinché si possa tornare ad essere quello che siamo, con la consapevolezza che, tuttavia, dovrà essere uno stesso modo però diverso.