domenica 27 novembre 2022

Islanda, mon amour - 27 novembre 2022

Anche se avrei dovuto intitolare la trama: “Tutto Ragnar, libro per libro”. Perché abbiamo cinque libri dello scrittore islandese, tutti partecipi di quella che nel mondo è indicata come la saga della “Dark Iceland”, e solo da noi invece si induce il lettore ai pensieri polizieschi, chiamandola “I misteri d’Islanda”. Ragnar non ci parla di misteri, ma di solide trame locali, infarcite da elementi gialli più o meno a tinte fosche. Cinque libri che cominciano con un discreto interesse, per poi calare nella parte centrale, ma risalire nelle ultime uscite.

Pare che, ad ora, Ragnar non abbia più continuato la serie, ma si sa che non è facile avere in Italia notizie di letterature così settoriali.

Ragnar Jónasson “I giorni del vulcano” Feltrinelli euro 9 (in realtà, scontato a 7,60 euro)

[A: 28/10/2019 – I: 16/05/2022 – T: 17/05/2022] &&&  

[tit. or.: Myrknætti; ling. or.: islandese; pagine: 265; anno 2011]

Anche se mancano più di due mesi alla partenza per l’Islanda, mi sembra opportuno rimettere mano agli autori locali presenti nella mia libreria. Prima di tornare a quelli che più conosco (Arnaldur Indriðason per i gialli, e Auður Ava Ólafsdóttir, per i romanzi) riprendo quello che da meno tempo frequento, anche se, nelle critiche letterarie, è considerato la punta di diamante del nero d’ambientazione locale.

Perché Ragnar, nella sua serie poliziesca maggiore, ritrae il quotidiano dell’Islanda attuale, da un’ottica molto “di settore”, che tuttavia, già in questo secondo romanzo, allarga il proprio respiro. La sua scrittura seriale comincia con un romanzo (“Fölsk nóta” disponibile solo in islandese), dove conosciamo il giovane poliziotto Ari Þór, a lavoro nella capitale. Solo nel secondo libro, che poi verrà indicato come il primo “vero”, Ari Þór si sposta nel Nord, dando vita a quello che in patria è conosciuta come la serie di “Siglufjörður”, dal nome della cittadina dove il poliziotto lavora. Una serie che in giro per il mondo è conosciuta con varie declinazioni della titolazione inglese “Dark Iceland”, mentre da noi, volendo aggiungere suspense, è stata ribattezzata “I misteri d’Islanda”.

Come qualcuno ricorderà ne ho letto il primo episodio (e ne ho parlato lo scorso settembre) disquisendo, al solito, per la traduzione del titolo. Così, comincio dal titolo anche qui. Che l’originale porta “Myrknætti” che significa “Buio”. La comparsa del vulcano è un omaggio non richiesto alla grande eruzione del vulcano Eyjafjöll, avvenuta nell’aprile del 2010, che paralizzò per settimane il traffico aereo europeo (ed io fui costretto a rimanere alcuni giorni in più a Granada…). Certo, la caduta della cenere vulcanica ristette nell’aria per mesi, e visto che l’azione del romanzo si svolge nell’estate di quell’anno, di sicuro ci fu più buio del solito, nella mai troppo solatia isola. Però… perché martoriare i titoli? Anche perché, il resto è ben tradotto dalla grande conoscitrice della lettura locale Silvia Cosimini.

Ricordo che il personaggio principale è Ari Þór, un giovane poliziotto che per una serie di motivi ha abbandonato molte cose: gli studi di teologia, la sua fidanzata Kristin e la capitale, per dedicarsi alle indagini di polizia, sotto la guida del commissario locale, Tómas. I motivi delle sue scelte le ho descritte nel primo libro, e qui entrano poco nella trama, se non per la parte con Kristin. Il loro rapporto è irrisolto, anche perché la signorina, lavorando in ospedale, si è fatta spostare al nord, ad Akureyri, vicino al centro delle azioni, la cittadina di Siglufjörður.

Un nuovo personaggio irrompe sulla scena, è la giornalista televisiva Ísrún, che muove dalla capitale quando ha notizia di un brutale omicidio. Inciso, Ísrún non è un nome “tipico” islandese (qui si potrebbe aprire una parentesi ma ve la risparmio), è solo l’omaggio alle sue due nonne, quella paterna Ísbjörg e quella materna Heiðrun.

Tutto parte dalla scoperta della morte di Elyas, un carpentiere locale che a tutti sembra, e sottolineo sembra, una brava persona. Ma saranno le ricerche incrociate di Ísrún e di Ari Þór a portare alla luce le ombre di Elyas. Vittima di abusi in infanzia, violento verso le donne, forse qualche traffico per droga, ultimamente invischiato nell’importare in Islanda signorine provenienti dall’altro capo del mondo.

Varie vicende si intrecciano, piene di nomi che spesso si confondono (per pagine ho mischiato una Katrin con una Kristin). Poi le cose si sgarbugliano, per cui veniamo a sapere perché Ísrún è così coinvolta, perché Ari Þór pensa di capire l’infanzia di Elyas, perché ci sono andati di mezzo i cugini di Tómas, perché Kristin è bloccata nei rapporti con gli altri, ed infine chi e come ha ucciso Elyas. Certo, rimangono punti oscuri (uno su tutti: chi ha coinvolto Elyas nel business delle signorine allegre?), ma il testo, alla fine, scorre.

Certo, a volte è lento, ma di sicuro è molto islandese. Leggendolo si capiscono meglio alcune cose: i rapporti interpersonali, la finta apertura sociale che nasconde una reale reticenza, il rapporto dei locali con la natura. Elemento che alla fine prevale su molto altro, chiedendoci di tornare ancora a visitare questa bellissima isola. Inoltre, mentre il primo era tutto in Siglufjörður, qui ci si muove tra i fiordi, Akureyri, Reykjavík ed altro. E non a caso, che siamo in estate, quando tutte le strade sono aperte, e non c’è la neve che blocca tutto. Certo, c’è il buio della cenere vulcanica, che però passerà.

Sono ora curioso di capire cosa ci riserva il terzo libro della serie.

Ragnar Jónasson “Fuori dal mondo” Feltrinelli euro 9,50

[A: 25/03/2021 – I: 31/05/2022 – T: 01/06/2022] &&&  

[tit. or.: Rof; ling. or.: islandese; pagine: 255; anno 2012]

Visto che ci siamo, continuiamo ad approfondire la cultura islandese attraverso gli scritti di Ragnar e le avventure di Ari Þór e di Ísrún.

La scrittura si mantiene a buoni livelli, ma soprattutto ci si immerge nel modo di vivere islandese, che forse è uno dei punti di forza del racconto. Atteggiamenti interpersonali molto amichevoli, approcci verso l’altro con rispetto, ma anche con facilità e disinvoltura. Si capisce come, in un’isola così piccola, ci possa essere spazio per famiglie multiple, per donne single, ed altre combinazioni. Il tutto sempre con rilassatezza.

Il primo, intrigante problema, viene dal titolo. Che dopo una ricerca non facile in rete (non sono certo un esperto di islandese) sembra potersi riferire a qualcosa tipo “scioglimento” inteso come “risoluzione” di qualche cosa, mistero o altro che sia. Non era certo facile renderlo in italiano, così penso che l’editore abbia scelto un titolo che ci porti alla scelta dei quattro protagonisti non di primo piano di andare a vivere in un posto non facile da frequentare, il Héðinsfjörður, separato da una cresta montuosa dal luogo principale dell’azione, il Siglufjörður che abbiamo imparato a conoscere dai precedenti scritti.

Come detto, e come si immaginava dalla lettura del precedente libro, abbiamo un dualismo di interpreti principali, che si riflette anche in una doppia inchiesta. Tenendo conto che siamo nel 2010, ci sorprende, a posteriori, che a Siglufjörður ci sia una pandemia da “influenza suina”, che porta all’isolamento della città. Certo, letto con gli occhi di chi ha sopportato due anni di coronavirus, sembra sentir parlare i vecchi dottori di famiglia che andavano di casa in casa.

A Siglufjörður c’è una pandemia, e Ari Þór ha poco da fare, così che si lascia convincere da un insegnante del loco a cercare di capire cosa sia avvenuto nel 1956 nel casolare familiare di Héðinsfjörður, dove nasce lui, l’insegnante, e dove vivono i suoi genitori ed i suoi zii. Il tutto parte da una foto che ritrae la famiglia, nonché un ragazzo di 15 anni non noto a nessuno. E dal fatto che poco dopo la foto, Jorunna, la zia, muore dopo aver ingerito veleno per topi.

Ari Þór indaga, cerca, collega, trova indizi, coinvolge la giornalista Ísrún, visto che lui non può uscire dall’isolamento, a fare altre ricerche nella capitale. Trova un altro zio dell’insegnante, nonché una persona che conosceva il ragazzino, purtroppo ormai morto anche lui. Ari Þór riesce anche a riallacciare i suoi rapporti con Kristin, forse con qualche sviluppo futuro. E durante una gita ad Héðinsfjörður gli viene in mente l’unico possibile modo di svolgimento dei fatti. Non ci sono prove, ma è ragionevole.

In parallelo, si muove la vita e le indagini di Ísrún, che sta facendo una buona carriera in televisione (grazie anche allo scoop del precedente romanzo), anche se deve guardarsi da due nemici: il caporedattore ed un cancro che non si sa se sia stato debellato.

Le indagini seguono la morte di Snorri, un giovane, figlio di un ex-politico ritiratosi due anni prima dalla vita pubblica, per possibili coinvolgimenti del figlio in storie di droga. E seguono la vita di Robert, un ex-drogato che sta mettendo su famiglia con una ragazza in via di divorzio ed il figlio piccolo di un anno e mezzo. Il tutto collegato o collegabile con la morte, dopo due anni di coma, di una ragazza presa a bastonate con un bastone da baseball. Sicuramente da un drogato, sicuramente per errore (sbaglio casa e persona), sicuramente causando un dolore non risolvibile ad Emil, l’uomo della morta che, dopo due anni di dolore appresso al letto della ragazza in coma, alla di lei morte decide di vendicarsi.

Ísrún segue il filo delle indagini, ed anche lei ha un guizzo di intelligenza investigativa. Mentre Emil, dopo aver ucciso Snorri, rapisce il figlio della donna di Robert. Intanto che aiuta Ari Þór con indagini, visite in case di cura, e reportage televisivi, si rende conto della possibile vicinanza delle storie di Snorri e Robert. Anche perché, l’uscita di scena del padre di Snorri ha favorito l’ascesa di un politico che stava insieme ad una ex-compagna di classe di Ísrún.

Equivoci e responsabilità dirette ed indirette portano Ísrún a risolvere brillantemente il caso, così che i nostri due “eroi” portano valore alle loro storie di vita.

Mi ripeto, una buona immagine del mondo islandese, anche dovuta alla discreta penna di Ragnar Jónasson, educata dal compito di essere stato per anni il traduttore ufficiale in islandese dei gialli di Agatha Christie. Tant’è che spesso si dice che saper scrivere aiuta e lo stile leggero, i dialoghi e lo sfondo islandese sono un sicuro puntello delle capacità di Ragnar (anch’io comincio a parlare con gli isolani chiamandoli per nome).

Ragnar Jónasson “La donna del faro” Repubblica Anima Noir 43 euro 8,90

[A: 26/04/2022 – I: 21/06/2022 – T: 22/06/2022] &&  

[tit. or.: Andköf; ling. or.: islandese; pagine: 204; anno 2013]

Con questo quarto libro della serie pensata dal giallista islandese, abbiamo alcune piccole svolte ed altre piccole (o grandi?) conferme. Sulle seconde mi soffermo subito. La prima è la difficoltà, per gli editor italiani, di tradurre titoli difficili. Questo, secondo le più accreditate traduzioni, si riferisce ad un moto del respiro, ad una specie di fiato corto, forse “sussulto”. Poiché poco avrebbe attirato, ecco che si piazza nel titolo una delle protagoniste del romanzo, una donna (come vedremo che sarà Ásta) ed il suo ritorno al paese natio ed al suo faro.

Il secondo elemento sono ancora i protagonisti, con al centro Ari Þór cui abbiamo imparato a voler bene, pur non comprendendo a volte la sua mancanza di iniziativa. Sembra sempre farsi trascinare dagli eventi. In secondo piano c’è sempre il suo ex-capo, che anche qui viene a condurre, o comunque a spronarlo, nelle indagini. E c’è la sua amata Katrin, con cui è di nuovo insieme, e che ora è anche incinta.

Le due piccole svolte sono segnate dal muoversi la trama su di un unico binario, mentre nelle precedenti c’erano sempre due indagini in parallelo. Inoltre, e non sappiamo se solo qui o per sempre, esce di scena Ísrún, che invece era un personaggio simpatico nelle sue contraddizioni.

Intanto, visto che amo questi posti, veniamo all’ambiente in cui si svolge il dramma. Siamo ben lontani dalla caotica capitale. Ari Þór, come abbiamo imparato dai precedenti romanzi, vive nel Siglufjörður, quello che in fondo vede la seconda cittadina islandese, Akureyri. Di fronte c’è la penisola di Skagi, dove, nella parte rivolta ai Fiordi Occidentali, c’è Kálfshamarsnes, dove, nelle prossimità del faro e delle case intorno, si consuma il dramma di questo romanzo.

Nelle premesse, anche se poi se ne capisce meglio durante il racconto, lì al faro, una ventina o più di anni prima si è consumata una tragedia. Dall’alta scogliera si butta una madre. Un mese dopo, dalla casa del faro, si butta (o cade o viene spinta) la piccola Tinna. Due morti che segnano il luogo. Due morti che segnano Ásta, la sorella di Tinna, che ora lì torna, nelle vicinanze del Natale, perché, forse, ha qualcosa di nuovo da dire o da fare per quelle morti.

Peccato che tre giorni prima del Natale, anche Ásta muore cadendo da quelle altezze. Da qui, si dipana un giallo quasi a porte chiuse (se non fosse un controsenso parlare di porte in Islanda). Viene Tómas, inviato dalla capitale per risolvere il caso (e forse per spronare il suo ex-aiutante a fare carriera). Ari si trova così di fronte ad uno scenario con pochi attori: a parte le tre donne morte, ci sono sulla scena Oskar e Þora, gli anziani fratello e sorella che fanno lui da guardiano e lei da governante del faro e dei suoi annessi, c’è Reynir, coetaneo di Ásta, ricco proprietario della villa, e Arnòr, un vicino di casa, amico d’infanzia della famiglia.

Nonostante la compagna di Ari, Kristin, sia incinta e lui voglia tornare a casa, nonostante anche Tómas voglia tornare nella capitale dalla famiglia, non si possono affrettare le indagini. Che procedono con interrogatori fatti di poche parole, insinuazioni degli attori del dramma, tutti diversi, tutti con qualcosa da nascondere. Vivono insieme, ma non sono sodali. Quando anche Þora muore, ed i protagonisti sono ristretti all’osso, saranno solo le intuizioni di Ari che metteranno a nudo i pochi rimasti, e farà luce non solo sul presente, ma anche sul passato. Dove l’unica cosa che posso rivelare è che Tinna non si è uccisa (difficile pensare al suicidio a sette anni). Insomma, un giallo tipicamente nordico, con dei colpi di scena che avvengono con tanta lentezza che quasi sembrano inavvertibili. Infine, e purtroppo, anche se è il quarto caso che risolve, Ari non ha le spinte politiche giuste per diventare ispettore. Ma se ne riparlerà.

Quello che rimane, oltre alle persone, è la natura, dura e maestosa dell’Islanda. Un paese che sapete tutti amo tantissimo, cui ritorno appena possibile. Un paese che qui, come in altre letture lassù nel Nord ambientate non è solo lo sfondo delle azioni, ma una parte integrata di quanto succede. Dove il ghiaccio, il fuoco, la luce e le tenebre sono un sottofondo imprescindibile dall’azione che vi si svolge. Non si comprendono molte delle azioni svolte se non si segue con attenzione il legame che unisce gli abitanti non solo alla natura, ma anche alle tradizioni, parte non banale del mondo islandese.

Non a caso, una delle più belle, ed a me vicine, tradizioni natalizie è regalare libri per Natale. Non solo, ma si può e si deve passare la vigilia leggendo tutto quello che si vuole. Un segno di civiltà assoluta. Che un libro è sempre un compagno, anche di viaggio come in questo caso che ci ha portato di nuovo verso l’incantevole isola.

Ragnar Jónasson “Notturno islandese” Feltrinelli s.p. (Regalo di Feltrinelli Platino per il mio compleanno)

[A: 07/05/2022 – I: 02/07/2022 – T: 04/07/2022] && e ½    

[tit. or.: Náttblinda; ling. or.: islandese; pagine: 230; anno 2015]

Siamo così arrivati al quinto episodio della saga di Siglufjörður. Come al solito, cominciamo con una discussione sul titolo, composto da “Nátt” nel significato di notte e “blinda” come qualcosa legato al non vedere. Del tipo “cecità notturna” o, con un piccolo passaggio “notte buia”. Aggiungere l’aggettivo islandese mi è sembrato una piccola forzatura non richiesta.

Con un piccolo ritorno all’antico e con l’evoluzione dei personaggi, soprattutto del principale interprete, Ari Þór. Che rimane sempre un po’ né carne né pesce (prima o poi qualche accenno di caparbietà anche nella vita privata oltre che in quella lavorativa non sarebbe male). Tanto che la sua vita privata sta andando a rotoli. Non si trova più in sintonia con Kristin, anche se curano insieme il piccolo Stefnir (che ora ha dieci mesi). Ma Kristin vuole altro da un compagno che sta raramente a casa, oltre l’accudire il loro figliolo. Non ci sorprende che alla fine, si lasceranno. Che Ari è sempre più legato a questa cittadina del Nord dell’isola più a Nord di tutta Europa, e Kristin è sempre più attratta da Akureyri (una metropoli) e forse dal lavoro più remunerativo in Norvegia.

Intanto, il giallo comincia con il ferimento (che poi lo condurrà a morte) di Herjólfur, il nuovo capo di Ari, che ha sostituito Tómas in base ad oscure alchimie decise nella capitale. Che Herjólfur è un poliziotto di vecchio stampo, figlio di uno dei poliziotti più amati nella poco belligerante isola. Come inoltre suggerisce il titolo, stiamo andando verso i periodi più bui della vita islandese, essendo gennaio ed avviandoci ad un paio di mesi (almeno) senza sole.

Oltre i problemi dei (pochi) personaggi del racconto, Ragnar ci introduce in uno spaccato dei problemi economici e sociali dell’Islanda. Il libro è del 2014, ma l’isola, e Siglufjörður, risentono ancora della crisi del 2008, che ha portato il paese alla bancarotta, ed all’eruzione del 2010, che ha anche bloccato il turismo, una delle entrate principali dell’isola. Ma è soprattutto il default, che bloccò anche tutti i finanziamenti verso le diverse attività. Siglufjörður era uno dei porti principali della pesca dell’aringa, ma nel secolo scorso i banchi scomparvero, la città sopravvisse con finanziamenti che, cessati negli anni ’10, la riducono ora ad una cittadina di circa duemila abitanti, piena dei relativi problemi sociali (corruzione, droga, violenze pubbliche e private). Un plauso a Ragnar per non farcelo dimenticare.

Torniamo ora al testo.

Cime detto c’è un piccolo ritorno all’antico, che di nuovo sembrano intrecciarsi più indagini. Mentre si procede con Ari e Tómas sule tracce del fucile che ha colpito l’ispettore, seguiamo le vicende di Elín, vicesindaco della cittadina, con un rapporto complicato con il sindaco, ma soprattutto, scopriremo, sotto mentite spoglie, che cerca di sfuggire a Valberg, uno stalker violento che la perseguitava quando era nella capitale. Il tutto viene anche frammezzato da brani di un diario di una persona ricoverata in un ospedale psichiatrico, diario che, quando ne sapremo di più, non cambia il corso della storia, ma fa leggere in modo diverso alcune vicende.

La pubblicità della morte del poliziotto, fa venire in luce Elín, che viene ritrovata da Valberg, la cui morte dà una prospettiva di vicinanza dei due casi. Quello che sarà vicino, in ogni caso, è la violenza domestica sottesa, in tutte le vicende, come scopriamo anche dalle parole del figlio omonimo di Herjólfur.

Mentre si infittisce il buio, Ari riesce a mettere ordine in tutte le vicende, anche se non in quelle sue private. Uscendo con quella frase un po’ cupa ma veritiera, che la violenza si trova ovunque.

Ragnar ci dà un nuovo buon capitolo del popolo islandese, bene al solito nelle descrizioni dei luoghi e della natura, bene, in modo nuovo, nell’entrare nel tessuto sociale della vita locale, mene bene, forse un po’ poco incisivo nelle vicende gialle. La trama è volutamente ingarbugliata, ma non così resistente come nelle prime prove dello scrittore.

A proposito di “sociale” un elemento interessante è la costruzione di tunnel tra i monti. Sono scorciatoie che consentono di avvicinare le piccole città, ma che portano anche altro. Turismo, spesso, ma anche criminalità. Con il tunnel anche Siglufjörður perde la sua innocenza e viene sempre più investita da quanto Akureyri ma soprattutto Reykjavík portano di poco buono.

Aspettiamo ora il sesto episodio, per capire come si evolve, soprattutto, la vicenda personale del tuttavia simpatico Ari Þór.

Ragnar Jónasson “La ragazza nella tormenta” Feltrinelli euro 10 (in realtà, scontato a 9,50 euro)

[A: 07/05/2022 – I: 19/07/2022 – T: 20/07/2022] &&&     

[tit. or.: Vetrarmein; ling. or.: islandese; pagine: 235; anno 2016]

Pare, secondo le più accreditate voci, che questo sia l’ultimo titolo della saga di Ari Þór e di Siglufjörður. In effetti, molti punti sembrano procedere verso una stabilità, almeno apparente, e non ci meraviglieremmo se, appunto, il buon Ragnar si dedicasse ad altre scritture.

Cominciamo allora a prendere contatto con questa vicenda “pasquale”, per il periodo in cui si svolge, e con il Mistero, non della serie, ma del titolo. Il titolo islandese, infatti, fa riferimento all’inverno e forse, ma non sono certo io con il basic icelandic a poterlo dirimere, ad una “malattia invernale”, intesa come elemento cupo dell’esistenza. Tanto che, nelle traduzioni in altre lingue, si fa riferimento all’inverno che uccide. In Italia, si punta subito a suscitare interesse “giallo”: si introduce nel titolo una ragazza (che di certo è il primo morto che si incontra), ed una tormenta. Nel doppio significato, di una ragazza con dei problemi, e di un brutto tempo che avanza. Anche se la tormenta atmosferica ci sarà, ma solo nelle ultime dieci pagine. I soliti problemi che rimarranno sospesi.

Pur essendo quindi l’ultimo capitolo, troviamo un po’ della verve dei precedenti, anche perché Ragnar reintroduce indagini multiple nella trama principale. Intanto, comunque, i personaggi evolvono. Come ci si aspettava dalla fine del precedente, Ari è diventato finalmente il responsabile della polizia di Siglufjörður. Ma è anche stato lasciato da Kristin, che si è trasferita in Svezia con il loro figlio Stefnir. Ari attende il loro ritorno per Pasqua, indeciso se cercare un recupero, o dedicarsi solo al figlio. Due elementi, però, vengono a turbare il nostro: la ricomparsa di una sua vecchia fiamma, Ugla, con la quale il rapporto sembra progredire meglio che con Kristin, e la morte di una ragazza, Unnur, precipitata o lanciatasi da un balcone.

L’indagine parte quindi per analizzare il possibile suicidio di Unnur, che il palazzo usato è vuoto, essendo il suo affittuario, Bjarki, in trasferta nella capitale alla ricerca di fonti per un suo libro sulla storia del fiordo. E l’indagine, come al solito quando c’ a capo Ari, non procede per colpi ad effetto, ma per piccoli accumuli di notizie che Ari raccoglie andando a parlare con la gente del fiordo.

Viene così a conoscenza della presenza, in una struttura per anziani, di un vecchio che ha scritto “L’hanno uccisa” su tutti i muri della sua stanza. Instillato il dubbio, Ari cerca di fare i collegamenti più strampalati, provando, durante lunghe chiacchierate con la madre di Unnur, ad entrare nella psicologia di questa ragazza, intelligente, brava negli studi, un po’ solitaria.

Al solito ci sono le piccole coincidenze che scoperchiano le pentole. Trova in un diario di Unnur, nel tempo che Bjarki, che si scopre essere stato il suo insegnante, la menzione alla cittadina di Siglunes. Cittadina vicina, dove lui va a trovare il reverendo, che non gli parla di Unnur, ma dei medici responsabili della RSA. Mentre di Unnur parla una sua compagna di classe. Che si scopre essere stata sedotta da Bjarki, così come è stata sedotta Unnur.

Ma Bjarki non era in loco. E Siglunes, cui tanto anelava Unnur, è anche una cittadina canadese nel Manitoba, con forti insediamenti islandesi (qui c’è anche l’eco di uno scritto coevo di Arnaldur di cui ho parlato recentemente). E sul cellulare di Bjarki i nostri poliziotti trovano foto compromettenti. Ed i medici della RSA, in via di bancarotta, avevano trovato sollievo economico alla morte della ricca madre di lei, anch’essa ricoverata nella struttura, ed amica del vecchio demente.

Quello che acclariamo, al fine, sono che, contrariamente a “la donna del faro”, dove un suicidio non lo era in realtà, qui il suicidio è suicidio. Ma la morte di Unnur e la morte della vecchia sono forse state indotte. I responsabili, quindi, pagheranno le loro colpe? Lo scopriremo solo leggendo, direbbe un colto Battisti.

Noi ci limitiamo a fare il tifo per il nostro Ari. Che Kristin non ci sembra adatta a lui. Che forse Ugla gli è più vicina in spirito (e sicuramente in corpo). Che di sicuro può e deve instaurare un rapporto diverso con il figlio Stefnir. Che deve decidere, alfine, se rimanere, come gli auguriamo, nel fiordo, o tornare alle origini nella capitale.

Ci aspettiamo infine che, prima o poi, le leggi editoriali spingano i nostri benamati editori a proporci il primo episodio della saga, quello che mette le basi al personaggio “Ari”. Anche se per ora sappiamo che è stato tradotto un nuovo libro di Ragnar, ma forse di altro contenuto.

Comunque, basta solo la descrizione della tormenta che fa rintanare i locali nelle loro abitazioni a riportarci con la testa ed il corpo verso questa terra selvaggia che non smetto di amare.

E visto che l’Islanda mi porta ai viaggi, mi sovviene questa settimana un viaggio che stavo per fare e poi, per una serie di motivi, saltò. Dovevo andare in Armenia (ed ancora non sono riuscito a riorganizzarlo), ed una mia amica mi regalò un bellissimo libro “Viaggio in Armenia” di Osip Mandel’stam. Su cui torneremo, ma da cui non posso mancare di ricordare questa lunga citazione sul modo di entrare in contatto con i quadri: “A tutti … consiglierei il seguente modo di guardare i quadri: non entrare mai, assolutamente, come in una cappella. Non andare in visibilio, non restare di stucco, impalati, non incollarsi alle tele... Diritti, con andatura da passeggio, come per un viale! Fendete le grandi ondate termiche dello spazio della pittura a olio. Tranquillamente, senza infervorarvi … immergete l'occhio nell'ambiente materiale per lui nuovo, e ricordate che l'occhio è un animale nobile ma testardo. Stare davanti a un quadro a cui la vostra temperatura corporea non si è ancora acclimatata, per cui il vostro cristallino non ha ancora trovato l'unica degna forma di adeguamento, è lo stesso che starsene per strada, coperti da una pelliccia, e cantare serenate sotto finestre dai doppi vetri. Quando questo equilibrio sarà stato raggiunto - ma solo allora - date inizio alla seconda fase del restauro del quadro, al suo lavaggio, alla rimozione della sua crosta decrepita, del barbaro strato esterno e recente che unisce il quadro, come ogni altro oggetto, alla solare e condensata realtà. Con le sue finissime reazioni acide, l'occhio - organo munito di una sua acustica, organo che accresce il valore dell'immagine e aumenta le proprie conquiste moltiplicandole per le offese sensoriali, cui da sempre un'importanza esagerata - solleva il quadro fino al proprio livello, giacché la pittura è un fatto di secrezione interiore molto più che di appercezione, e cioè di percezione esterna. Il materiale della pittura è organizzato come una lotteria dal premio assicurato, e in questo è la sua differenza rispetto alla natura. Ma le probabilità del premio sono inversamente proporzionali alla sua realizzabilità. E solo adesso comincia la terza e ultima fase di penetrazione del quadro - il confronto oculare con il suo progetto. E l'occhio-viaggiatore presenta le sue credenziali all'ambasciata della coscienza. Allora tra spettatore e quadro si stabilisce un gelido patto, qualcosa come un segreto diplomatico.” (50-51)

Intanto possiamo solo dire che si avvicina un altro Natale, il primo, forse, con un po’ di respiro che ci dona la pandemia infinita. Si spera in qualche incontro di speranza, su cui non voglio soffermarmi, ma solo pensare positivo. Per cui mi fermo e vi abbraccio.

domenica 20 novembre 2022

Letteratura non anglosassone - 20 novembre 2022

Dopo una puntata giapponese, eccoci ad una nuova trama non inglese. Abbiamo un tedesco (da dimenticare), un argentino che scrive in spagnolo (dove dimentichiamo gli sbagli editoriali non il bel libro), un portoghese da leggere e rileggere, ed un israeliano (con due libri), anche se questa volta Oz (mi spiace non ci sia più) mi ha convinto meno delle trame narrative della sua maturità. Comunque, alla fine, Saramago su tutti.

Nicolas Barreau “Il tempo delle ciliegie” Feltrinelli s.p. (regalo di Alessandra)

[A: 25/12/2021 – I: 22/02/2022 – T: 24/02/2022] - & +

[tit. or.: Die Zeit der Kirschen; ling. or.: tedesco; pagine: 286; anno 2021]

Non meravigliatevi del nome francese di un autore che scrive in tedesco. Perché Nicolas Barreau non esiste. O meglio, è un’invenzione dell’editoria tedesca che negli ultimi anni ha scoperto il fascino della Francia (o degli scrittori francesi). Così come nel “noir”, dove impazza Jean-Luc Bennelac che è lo pseudonimo di Jörg Bong, Barreau dovrebbe (poi vi spiego il condizionale) essere lo pseudonimo di Daniela Thiele, editor tedesca della “Thiele Verlag”.

L’idea nasce agli inizi del secolo, e dopo qualche anno di gestazione, per la casa editrice Thiele, esce un libro a firma “Nicolas Barreau” su di una storia d’amore “molto parigina”, da me tramato una decina di anni fa. Tra l’altro, in quel libro, e qui continua ancora, c’era un editor francese che, per aver successo, scrive un libro firmandolo con un nome inglese. Da alcune indiscrezioni della stampa tedesca, analogo sarebbe il percorso di “Barreau”, se, come si mormora, è un editor che scrive per la propria casa editrice. Altre voci vorrebbero che fosse qualche “ghostwriter” che a turno si industria nello scrivere.

Comunque, in conclusione, non è di sicuro francese l’autore, e la storia è una tipica storia montata ad arte per coniugare un po’ di “Parigi”, un po’ di “cuisine”, un po’ di libri, e un po’ di romanticismo. Si sente che è costruita, si sente la voglia di costruire una storia, complicarla, per poi risolverla con un “happy end” che lascia tutti felici e contenti.

Anche l’altalena dei capitoli, altra cifra del finto scrittore, che era già presente in quel primo libro letto (che in italiano era stata titolata “Gli ingredienti segreti dell’amore”, ben diverso dal titolo originale che invece riportava “I sorrisi delle donne”). I dispari al maschile, con André in soggettive, i pari al femminile, dal punto di vista di Aurélie. Tra l’altro, con la solita scarsa fantasia sui nomi, tutti (almeno i principali) sulle prime lettere dell’alfabeto: André Chabanis, lo scrittore, Aurélie Bredin, la cuoca, Artemisie Belfond, la libraia. Solo lo chef antagonista si stacca rispondendo al nome di Jean-Marie Marronnier (che poi sarebbe “Castagna”).

Secondo, e non banale problema, se non si è letto il primo libro si perde un po’ della trama. Là, infatti, c’era la storia pregressa: un editor per far risalire le vendite della sua casa editrice, scrive un libro sotto pseudonimo, prendendo spunto dal sorriso di una cuoca in un ristorante parigino (sul sito torneremo poi). Dopo vicissitudini varie, i due si innamorano ed instaurano una specie di convivenza, mantenendo tuttavia ognuna la propria casa.

Qui, si cerca un passo avanti. André vuole chiedere la mano di Aurélie. Compra un anello e cerca in mille modi di trovare coraggio e spunto per dichiararsi. Ovvio che non ci riesca mai. O almeno, non ci riesca per molto tempo (circa 284 pagine). A parte intoppi pregressi (gita poco felice, pranzo con suocera, ed altro), il primo ostacolo avviene dopo una serata di presentazione del libro di André in una casa editrice (dove la nuova presenza, Artemisie, gli fa un corte spudorata, e questo per tutto il libro). Presentazione di successo, appuntamento al locale di Aurélie, dove però viene annunciato che il locale ha preso una stella Michelin. Ed allora tutto passa in secondo piano.

Poi si scopre che la stella era frutto di una omonimia con il locale dello chef Marronnier. Bella presenza, e belle parole, Marronnier incanta Aurélie, e André diventa geloso oltre misura. Da lì, tutta una serie di inutili capitoli, dove i due litigano, fanno la pace, litigano ancora, ed arrivano al punto di rottura. Ma il colpo di coda, che noi si aspettava da pagina tre, arriva alfine.

Festeggiando la falsa stella, André macchia la giacca di vino, la toglie e viene dimenticata, con ovviamente l’anello in tasca, in un armadio. Quando Aurélie vuole ridare tutto indietro al torsolo, scopre facilmente l’anello, ha una crisi di coscienza su come avesse interpretato male tutto quanto avvenuto per 280 pagine e va alla ricerca del torsolo. Il quale, come ovvio, fa anche lui la sua brava giravolta, pentendosi di tutto il pentibile. Tarallucci e vino. Tedeschi contenti, noi un po’ meno. I francesi per nulla, tanto che “Barreau” non è mai uscito in Francia.

Finiamo tornando sulle location. Molto si aggira intorno a Place Furstemberg (una delle più deliziose e riservate in centro, vicino a Saint Germaine. Peccato che la strada dove dovrebbe trovarsi la casa di Aurélie (rue de l’Ancienne Comédie) è vicina ma non sfocia nella piazza. Peccato che il locale di Aurélie usa il nome di un vero locale “molto parigino”, “Le temps des cerises”, che si trova in zona Place d’Italie, ma a quasi 5 chilometri dalla piazzetta. Inoltre, essendo questo il nome del ristorante, perché nel titolo tradurlo, come se si trattasse di un tempo atmosferico e non di una indicazione di luogo? Unico punto logisticamente rilevante, il locale di Marronnier, si trova a pochi chilometri da Giverny, cosa che dà modo a “Barreau” di fare un po’ di guida turistica su Monet.

Insomma, divertente da scorrere per capirne i meccanismi, poco da leggere, e antipatia, usuale, per gli editor malandrini.

“Quando è triste … non legge un libro ma pianta fiori.” (18)

“Il suo sorriso malandrino quando sollevava il coperchio della pentola per vedere cosa avevo cucinato di buono e ne rubava una cucchiaiata, il fruscio del suo giornale, i suoi libri che avevano invaso il mio appartamento.” (110)

“La prima volta che ero stata a casa sua ero rimasta basita dalla quantità di libri che aveva. Avrebbe potuto aprire una libreria.” (123)

Ricardo Piglia “Solo per Ida Brown” Repubblica Noir 14 euro 9,90

[A: 10/10/2018 – I: 15/06/2022 – T: 17/06/2022] - &&&   

[tit. or.: El camino de Ida; ling. or.: spagnolo; pagine: 252; anno 2013]

Un’altra toppa clamorosa dei curatori delle edizioni GEDI di Repubblica. Certo in questo libro c’è un morto (anzi una morta), ma è tutto fuorché un noir. Si parla certo di attentati, ma soprattutto si parla del mondo com’è, com’era, come diventa giorno dopo giorno, si parla di letteratura, si parla delle differenze tra le Americhe, quella al nord e quella al sud.

Certo l’autore, argentino poco prolifico, ha sempre scritto di letteratura, ed ha anche diretto una collana di libri “noir” in Argentina. Nei suoi cinque romanzi, certo c’è l’elemento poliziesco, in alcuni più che in altri. Questo, per me, ed è il motivo che ne ho cambiato la collocazione, è un libro che parla di letteratura, ed anche, molto, diaristico.

Riccardo Piglia (da pronunciare immancabilmente senza l’unione di G ed L) come tutti gli originari del mondo ispanico, ha un nome più articolato. Infatti, si chiama Ricardo Emilio Piglia Renzi. Ora come possiamo non pensare a qualche passaggio autobiografico in questo libro, scritto in prima persona da un professore argentino di letteratura che si chiama Emilio Renzi?

Ed in effetti, il protagonista si muove per gran parte del tempo in un campus americano, tipo Princeton, dove Ricardo ha insegnato a lungo. Ma il professore argentino ha una storia alle spalle: sperato dalla sua seconda moglie, lavora svogliatamente ad un saggio su di un autore inglese dell’Ottocento, William Henry Hudson, che ha scritto in maniera egregia libri sulla pampa argentina. Per sfuggire alla routine, accetta di passare in America un semestre, invitato dalla professoressa Ida Brown, avvenente, colta, dominatrice. Ma anche esclusiva, ed elusiva, nonché una dei maggiori esperti di Dickens e Conrad.

Non è esaltante la vita di Renzi in America: lavora con dei dottorandi, fa lunghe passeggiate sulle rive del fiume, ha modo di entrare in contatto con uno strano vagabondo di nome Orione, legge e rilegge Hudson, e soprattutto ha lunghe conversazioni con la sua vicina, l’anziana e molto preparata (ed anche ironica) Nina Andropova, una esimia biografa di Tolstoj. Questa routine è rotta dal progressivo avvicinamento di Emilio a Ida, di cui diviene l’amante.

Ma subito dopo è rotta dalla morte di Ida per lo scoppio di una bomba. Incidente? Accidente? Attentato? Qui sembra innestarsi il giallo, che giallo non sarà mai, che non interessa a Piglia fare il detective, lui, o farlo fare a noi lettori. Certo, ingaggio un investigatore che vorrebbe capire di più. Scopre che ci sono state altre morti. Tutta la seconda parte ricalcando, parafrasando le vicende del famoso Unabomber americano.

Non è la scoperta di chi sia l’attentatore, scoperta che avverrà tramite il fratello di lui che riconosce in un volantino rivendicativo le frasi appunto del fratello, l’ex-grande matematico Thomas Munk, che interessa a Piglia. Munk, dopo una brillante carriera, si ritira dal mondo e comincia il suo delirio contro la corruzione, il degrado, quasi un eco-terrorista. Sembra creare una rete di intellettuali anarcoidi, sembra tante cose, sembra anche che Ida possa essere entrata nella sua rete. Sensazione che viene a Renzi leggendo le sottolineature del libro “L’agente segreto” di Conrad, che Ida portava sempre con sé.

Quello che mette Piglia nel testo è molto altro, altro che viene dai vari momenti di discussione tra tutti i personaggi. Le differenze e le similitudini tra Usa e Argentina, i ricordi privati di Emilio e quelli pubblici, spesso legati ai tempi della dittatura, i deliri di Munk per una società precapitalistica. Con tutti i contorni dell’utopia, cui si legano le parole di Nina, quando sentenzia che mentre nel passato l’eroe dei romanzi (e della vita?) era stato l’Avventuriero, poi il Dandy, ora, nel XXI secolo sarà il Terrorista, colui che “non uccide per interesse personale né per vendetta, [ma] per un’idea, come un filosofo platonico”.

Si capisce quindi anche l’intento metaforico della scrittura dell’autore. La diversa prospettiva di un lettore che legge. Ralf, l’investigatore, legge in Internet per arrivare ad una soluzione (anche se non alla soluzione). Emilio da una sua lettura di una lettura di Ida di un libro di Conrad le ipotesi su cosa possa essere successo. Tutto, quindi si infarcisce di citazioni, vero o inventate, di rimandi, di un gioco di specchi, che nella sua deformità, riflette la deformazione della vita.

Tuttavia, non solo di letteratura si parla. Che analizzando Munk, Piglia ci fa riflettere come uno psicopatico che è isolato e solitario non è che un caso clinico; mentre se diventa un gruppo, si rivela un problema sociale. O meglio ancora, quando in una discussione viene fuori questa frase: “Il male è questo: non farsi carico delle conseguenze dei propri atti”. Potremmo aggiunger tutto quello che fa di questo libro un romanzo senza altre connotazioni: inserti meta-critici su scrittori, in particolare Hudson e Conrad, pagine sul lirismo della lingua russa, riflessioni sulle attuali derive della società, non solo americana, come la cultura del controllo, il puritanesimo esasperato, la deriva totalitaria.

Non è un giallo, quindi, forse non è classificabile tout-court. Di certo, nella mente di Piglia prende l’andamento di un’analisi non banale sulle classi dominanti, sul potere intellettuale, fino al connubio mortale tra potere accademico e centri di produzione.

Un’ultima riflessione sul titolo italiano, che è assolutamente inutile (perché “Solo per Ida Brown”? cosa intendono gli editori con quel “solo”?). Certo, il titolo originale non portava verso il giallo (e perché avrebbe dovuto?), visto che riportava “Il sentiero di Ida” (inteso come percorso fisico e mentale della protagonista). E che poteva anche essere letto ala spagnolo come “il modo di andare”, cioè una foto dell’oggi e del suo divenire.

“Aveva quasi ottant’anni, era vicina alla morte più di quanto potessi immaginare, e viveva con entusiasmo, senza perdere la passione.” (88)

José Saramago “Le intermittenze della morte” Feltrinelli euro 9,50 (in realtà, scontato a 6,20 euro)

[A: 19/06/2020 – I: 18/06/2022 – T: 19/06/2022] - &&& e ½ 

[tit. or.: As intermitencias da morte; ling. or.: portoghese; pagine: 215; anno 2005]

Ottavo libro che leggo del Nobel portoghese, che ormai son dodici anni che ci ha lasciato. Devo anche dire che molti dei libri che ne ho letto, sono avvenuti dopo quel fatale 2010. Tutti libri con un alto tasso di bellezza e di gradimento, anche “Caino” mi è sembrato il meglio adatto alle mie corde di lettura. Che, nei confronti di Saramago sono sempre in fibrillazione. Ho una difficoltà endemica ad entrare nella sua scrittura, piena di lunghe frasi senza punteggiatura. Piena di dialoghi di cui dobbiamo interpretare le persone coinvolte. Spesso, e qui, ad esempio, in massima parte, senza personaggi chiaramente individuati, con dei nomi, con delle referenze.

In realtà in questo viaggio nel non senso, cui dobbiamo abbandonarci per capirne tutti i risvolti, sono solo due le persone che alla fine isoliamo dalla massa: il violoncellista e la morte.

Già, la morte, che è il lungo filo conduttore di tutta la vicenda. Abbandoniamo la realtà e caliamoci nel testo. Il 31 dicembre, in un ignoto paese di cui sappiamo solo che regna una monarchia, accade il “fatto”: non si muore più. Sembra un sogno, la realizzazione di tutte le promesse e le speranze, la discesa sulla terra del Regno dei Cieli. Invece no. perché non è che si guarisce, non è che non si invecchi. Semplicemente, non si muore più.

Dopo la prima euforia, il panico. Si invecchia, si continua a soffrire, ma non si muore. Tre l’altro, l’economia del paese va a rotoli. Gli ospedali scoppiano, la gente va in pensione e continua a percepirla oltre il legittimo auspicio delle finanze statali. Le assicurazioni e le compagnie di pompe funebri sono sull’orlo del collasso. Con la cattiveria che gli è propria, Saramago immette anche la Chiesa in questo tormento: senza la morte che ne sarà della Resurrezione?

Qui, l’autore mette il primo salto risolutivo. Nel paese vicino si muore ancora, ed ecco allora che agenti truffaldini, una mafia vera e propria, promette di portare gli anziani di là del confine, dove possono morire in pace. Tutto sembra adattarsi al nuovo equilibrio, ma dopo sette mesi ecco la seconda zeppa dell’autore: la morte di palesa dicendo che era stato un errore, che vuole rimediare. Si ricomincerà a morire, ma…

Ecco l’altra invenzione che ci porta in un successivo baratro logico: per farsi perdonare la morte dice di non voler più che si affronti la dipartita a caso. Quindi spedirà una lettera in una busta viola, avvertendo il destinatario che morirà sette giorni dopo. Spavento, incredulità, soprattutto per chi, ricevendo la lettera, sa di essere in buone condizioni fisiche. Ma è tutto fintamente vero. E la popolazione cade in un nuovo tipo di angoscia. Tutti sappiamo che si dovrà morire, ma sapere che il termine è noto non crea sollievo, ma angosce superiori.

La favola del nostro portoghese si inceppa quando la lettera è ricevuta da un violoncellista cinquantenne (il nostro secondo personaggio), ma viene rispedita al mittente. Varie volte, senza che la morte ne capisca il motivo. Per cui dovrà incarnarsi in una persona umana, ed indagare sul posto. Ovvio che sarà un corpo di donna che verrà utilizzato. E che porterà, noi, il violoncellista, la donna e la morte stessa verso una nuova dimensione, ed una conclusione forse sperata, ma di certo inattesa.

L’abilità di Saramago, pur nella pesantezza (mia) della lettura di una scrittura difficile, è di farci scommettere con lui sulla sospensione della realtà. Cominciando dal nostro rapporto verso due parametri vitali fondamentali: l’invecchiamento e la morte. C’è la descrizione mirabilmente sottesa di tutta la fragilità umana nei confronti della vita. Se nella prima parte, sono soprattutto gli anziani ad esserne colpiti, quando rimangono nel limbo del “né vivi, né morti”, nella seconda assistiamo al cresce dello sgomento anche nei giovani, nelle persone di tutte le età, che, in salute e ben presenti, vengono a conoscenza della data della loro morte.

Per la morte, che è immortale ed “altra”, sembra un aiuto all’umanità consentire un lasso di tempo per mettere ordine alle proprie cose prima di dipartire. Non per noi, che, anche se qualcuno forse con più serenità, sempre pensierosi siamo nell’avvicinarsi dell’abbandono.

Tuttavia, al fine, anche nel disperato Saramago c’è un gesto umano. C’è il riconoscimento che qualcosa può esistere, con o senza la morte. L’amore, che forse non sarà il dantesco che muove il cielo e le altre stelle, ma c’è. E chi lo prova, chi lo sente intensamente, sa, al di là di ogni elemento credibile, che l’amore è l’incredibile motore di tutto. Della vita, della morte, della nostra esistenza, qui e altrove.

Amos Oz “Finché morte non sopraggiunga” Corriere Storie 20 euro 8,90

[A: 07/07/2020 – I: 03/08/2022 – T: 04/08/2022] - && e ½

[titolo: עד מוות Alt: Unto Death: Crusade and Late Love; lingua: ebraico; pagine: 142; anno: 1971]

Torno, a quasi quattro anni dalla morte, su uno degli ultimi scritti di Oz entrati nella mia biblioteca. Indicando, tra l’altro, sia il titolo originale, in ebraico, sia quello inglese, con cui il più sovente, gli scritti di Oz vengono ricordati. Anche perché, la prima parte del titolo inglese è anche più vicina all’originale, che, in ebraico, significa proprio “Fino alla morte”. È una raccolta di due novelle, o meglio due racconti lunghi, che hanno certo similarità che portano al titolo, ma sono anche di diversa fattura e resa.

Inoltre, mentre il primo riprende i titoli noti nelle diverse traduzioni, cioè “Amore tardivo”, il secondo, in italiano viene riproposto con quel sopraggiungere della morte, laddove, originariamente, riportava invece “Crociata”. E di certo i titoli inglesi avevano questo di avvicinamento all’autore: la morte era nel cappello unificante, mentre ognuno dei racconti aveva la sua autonomia nel titolo, e quindi anche nell’approccio alla lettura.

I due testi, in realtà, sono molto diversi nella forma e nella resa. Personalmente ho gradito il primo, pur immerso nel profluvio di parole che il protagonista riversa sulla pagina per noi lettori. Mentre il secondo l’ho trovato troppo cerebrale. Di certo, si sente che il ventitreenne Amos vive ancora nel kibbutz dove si trasferisce a 15 anni e dove vivrà fin quasi ai quaranta. E da dove ha bisogno di esprimere, di mandare messaggi.

Messaggi forti nel primo, “Amore tardivo”, che si svolge alla fine degli anni ’60, una sorta di lunga lettera, di cui, all’inizio, non si sa il destinatario. L’autore si chiama Unger, ebreo russo immigrato prima della guerra in Israele. Prima, in Unione Sovietica, negli anni ’20 era un commissario politico. Ora, si sposta di kibbutz in kibbutz, tenendo conferenze per denunciare l’antisemitismo russo. È un solitario, paranoico, pauroso fino al midollo. Teme sempre che i russi vogliano invadere Israele sbarcando dal mare. 

Ma tutto il carico esteriore serve ad Amos per mettere alla berlina i timori guerrafondai del periodo. Non che Israele, ed Oz con lui, non si sentisse accerchiato. Ma i nemici esterni, gli antisemiti, non sono i bolscevichi da barzelletta. Né tanto meno un Unger qualunque potrà mai arrivare, se non nella testa, a scambiare due chiacchere sulla guerra con Moshé Dayan.

L’altro lato di questo amore giunto ormai troppo tardi, è lo scambio finale di parole e gesti mancanti con Ljuba, la sua partner in tanti giri oratori. Anche qui, c’è il senso della mancanza. Mancanza dei nemici, mancanza del coraggio. Unger non dirà tutto quello che pensa a quella che avrebbe potuto essere la sua fiamma, ma… (qualcosa dovrete pure leggere, no?).

Il secondo, invece, “Finché morte non sopraggiunga”, è ambientato nel 1095, quando, dopo la morte della seconda moglie Guglielmo di Touron decide di partire per una crociata tesa alla liberazione di Gerusalemme, che non raggiungeranno mai. Infatti, vengono bloccati in un convento abbandonato per la peste, durante un inverno particolarmente duro. Lì, già provati dalle fatiche del viaggio, gli aspiranti crociati muoiono di fame, di freddo, si perdono nella neve, ardono di desideri insoddisfatti, che anche le donne son fuggite.

Tuttavia, nel mentre, riescono, i Franchi malvagi, a far piazza pulita di tutti gli ebrei che incontrano: mercanti sorpresi lungo la strada, abitanti di villaggi che vengono torturati, e poi messi al rogo, magari insieme ai libri sacri, in un susseguirsi di piccoli e grandi pogrom.

Proprio nella loro diversità, comunque, i due scritti si rimbalzano la palla di tante similitudini: la morte, l’odio, il razzismo, la paura dell’altro, il fanatismo, la solitudine. Non ancora venticinquenne, Amos aveva già delle belle idee in testa. Ancora doveva passare per alcune forche caudine (soprattutto, rispetto al suicidio della madre), ma nella rivolta verso gli stereotipi familiari (i parenti erano tutti molto schierati nella destra israeliana) trovava già una sua misura. Forse non equilibrata, ma per me, che gli ho sempre voluto bene, e che lo cercai nel suo ristorante preferito di Gerusalemme, una lettura che non delude mai.

“Non è possibile che tu sia nato e che tu muoia senza aver vissuto … niente di speciale, non è possibile che tu abbia trascorso tutti i giorni della tua vita sempre soltanto con un vago sogni dentro di te, ci sarà pure qualcosa …” (16)

“Sono una persona che ascolta e legge molto, che ha tanti diversi e strani pensieri.” (30)

Amos Oz “Tocca l’acqua, tocca il vento” Corriere Storie 4 euro 8,90

[A: 22/01/2020 – I: 13/08/2022 – T: 15/08/2022] - && 

[titolo: אנשים אחרים Alt: Touch the Water, Touch the Wind; lingua: ebraico; pagine: 197; anno: 1973]

Con questo siamo arrivati alla fine di tutti e venti i libri di Amos Oz presenti nella mia libreria. Dispiace solo che si sia finiti in calando, con un libro, pur interessante in alcuni aspetti, ma concepito e realizzato in un modo che non è nelle mie corde di lettore. Comunque, per dovere di esattezza bibliografica, anche qui indico sia il titolo originale ebraico (che mi si dice stia a significare “le altre persone”) sia quello della traduzione inglese, da cui poi vengono i titoli di tutte le altre traduzioni.

Tra l’altro, pur scritto nel ’73 (a valle della tragedia di Monaco del ’72 e della guerra dello Yom Kippur), esce in Italia solo nel 2017. Ed in questo caso gli anni si sentono. Non solo e non tanto per le tematiche toccate (che alcune corde sono immortali), ma soprattutto per la scrittura e per quel tocco di “realismo magico” che ne rende ostica la lettura. Tanti sono i rimandi oscuri, i voli pindarici, le citazioni nascoste e le verità ingarbugliate da parole e (forse) menzogne, che non è facile districarsi ed andare al nocciolo del libro.

In realtà, se spogliamo il testo di tutte le sovrastrutture, il racconto ci presenta una situazione interessante, e devo dire, usuale nelle tematiche degli scrittori ebraici. Si comincia allo scoppio della Guerra Mondiale, in Polonia, dove vive una coppia, Stefa ed Elisha Pomeratz. Ebrei. Elisha, figlio di orologiai, ha una mente ordinata e dedita alla matematica ed ai grandi sistemi. Stefa ne accompagna il pensiero, in particolare quando si accendono dispute filosofiche nel loro mondo sull’essere, su Nietzsche, sulla musica, sul significato dell’esistenza, su Goethe.

Elisha fugge nei boschi, vaga per l’Europa orientale, si rifugia per un po’ in Grecia, per poi riuscire ad arrivare in Israele. Dopo una breve parentesi cittadina, si rintana in un kibbutz (e qui Amos trasla molta della sua esperienza personale, visto che alla scrittura del testo, lui è un quasi trentacinquenne che vive e collabora alla vita del kibbutz di Hulda, dove visse per più di trent’anni), aiutando il suo mondo tra orologi e pecore, tra passeggiate e ripetizioni matematica, trovando il tempo di riflettere sulla matematica e sulla musica (un tema a me assai caro), sino ad arrivare ad una scoperta relativa all’infinito matematico (su cui fortunatamente Amos opportunamente non si dilunga).

Stefa invece rimane in Polonia, passa (quasi) indenne la Guerra, accudendo un vecchio filosofo. Ma verrà poi inglobata nel mondo russo conquistatore. Per sopravvivere, probabilmente, dovrà far merce del suo corpo, sposarsi nuovamente, ma riesce a sfruttare le sue caratteristiche di pura intelligenza, dando la scalata alle strutture spionistiche sovietiche. Riesce anche ad incontrare Stalin. Non smette mai di pensare al suo perduto Elisha. Sfruttando la sua posizione, quando la scoperta di Elisha rende nota la sua presenza in Israele, Stefa “si vende” ai servizi segreti israeliani, riesce a farsi portare nella Terra Promessa, ed in un tutto sommato commovente finale, i due sempre innamorati, riescono a ricongiungersi.

Ma se questo può essere il filo narrativo sotteso, Oz immerge tutto in una scrittura da realismo magico, abbandonando il realismo delle sue prime opere. Così che viene da pensare che non sempre i primi scritti diano il meglio di sé. Infatti, ci vorranno altri trent’anni anni perché scriva quello che è considerato il suo capolavoro (“Una storia di amore e di tenebra”), e solo meno di dieci anni fa un libro che per me lo faceva degno degli onori del Nobel (mi riferisco al bellissimo “Giuda”).

Quell’intreccio narrativo lineare si perde nelle pagine nascosto tra storie parallele, a volte poco comprensibili, a lunghe descrizioni, a sparate filosofiche. Qualcuno, più ferrato di me nell’esegesi letteraria, parla di una volontà di scrittura che ripercorrendo l’odio tedesco (da cui nacque “anche” lo stato d’Israele) Oz voglia esorcizzare l’odio arabo – israeliano, in un anno topico come fu il ’72 della scrittura del libro. Laddove, riprendendo il titolo, l’acqua, il fuoco, il vento sono elementi che si possono toccare, mentre Elisha guarda il suo kibbutz e si domanda “Ma è davvero possibile questo posto?”.

Quello che mi ha lasciato, come si intuiva dall’accenno posto alle ricerche di Elisha, è la ricerca di una chiave che riporti l’armonia nell’universo. Una chiave che lui trova nell’unione tra la musica e la matematica, due elementi che furono sì cari alla mia giovinezza, ed a cui, ora, ritorno spesso, pur con pensieri assai diversi.

Devo infine confessare che (e si è capito) non amo questa scrittura (che mi ricorda il mio mai troppo sopportato Amado), ma non riesco ad allontanarmi dall’uomo che scrive queste pagine. Un toro forte che, come molti altri, ci ha lasciato, e se ne sente la mancanza.

“Di fronte al male bisogna alzarsi e dire: male.” (31)

Tornati da un bel viaggio scozzese, mi pare consono citare alcune sentenze di un libro scritto da un grande viaggiatore. Penso a Robert Byron ed alla sua “La via per l’Oxiana”. Tre frasi mi hanno colpito. La prima riguarda la mia giovinezza, quando mi staccavo mai da Venezia: “[sono al Lido di Venezia:] in una giornata di calma, deve essere la peggiore località balneare d’Europa” (25). La seconda riguarda pensieri della mia età matura: “il viaggiatore di un tempo era la persona che andava in cerca della conoscenza, e a cui gli indigeni erano fieri di mostrare e raccontare le cose interessanti del posto. In Europa [il turista] ... fa parte del paesaggio e nove volte su dieci ha pochi denari da spendere … Da queste parti, il turista è ancora un’anomalia. Se uno viene in Siria da Londra per affari, deve essere ricco. Se uno poi ci viene senza motivi d’affari, deve essere ricchissimo. Nessuno si cura se la località vi piace, o se non la potete soffrire e perché. Siete semplicemente un turista, … una variante parassitica della specie umana, che esiste per essere munta, come una mucca da latte o un albero della gomma” (56). L’ultima è un omaggio postumo a mamma Agnese: “[mia madre] a cui consegno questo diario, ora che è finito; quello che ho visto, è lei che mi ha insegnato a vederlo, e mi dirà se sono stato all’altezza” (389). Peccato che non potrà più dirmelo.

Del resto, taccio, stretto nella morsa del gelo, del raffreddore, della tosse, tanto per citare le cose più visibili. Quindi, mi rimetto ai miei amici sia per le segnalazioni, dove mi viene indicato da non perdere “L'arte di respirare” di James Nestor, sia per gli immancabili abbracci finali.