domenica 26 novembre 2017

Ma i gialli non finiscono mai - 26 novembre 2017

Dato che invece le storie di cucina sono finite (e non credo ricominceranno). I gialli invece prosperano, anche in questa infornata italica. Tutti di buon livello, sia uno dei primi Varesi con il commissario Soneri, sia uno degli ultimi Morchio con il suo Bacci Pagano. Meglio, è ovvio, il sempre ben voluto Carlotto con il suo Alligatore, nonché Vichi con l’intramontabile Bordelli. Ne avevo bisogno per ristabilire un po’ di letture di serenità mentale.
Valerio Varesi “Bersaglio, l’oblio” Diabasis euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 15/11/2016 – I: 02/06/2017 – T: 06/06/2017] - &&&--
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 138; anno 2000]
Dopo aver recuperato tre anni fa la prima inchiesta del commissario Soneri, con molta più fatica sono riuscito finalmente anche a trovare la seconda. Impresa non semplice, che la prima fu ripubblicata a suo tempo da Frassinelli, questa, invece, come dice giustamente il titolo, andava più verso l’oblio. Anche perché rimasto e non uscito dal catalogo della poco diffusa casa editrice Diabasis. Un editore di Parma (e questo ci sta con l’ambiente delle storie) che ha scarsa circolazione sui circuiti nazionali. Ma mi ero messo d’impegno ed alla fine ne ho trovata una copia nei fondi di magazzino di un negozio Mondadori. Ancora siamo alla costruzione del personaggio, come avevo accennato nel primo volume uscito. Soneri – Barbareschi si dà da fare con la cucina locale (che certo noi non scorderemo, dal culatello al buon vino) e con i suoi toscani. Ma ancora poco sul versante femminile, anche se il racconto lungo è stato preso come base per la sceneggiatura del terzo episodio della serie televisiva “Nebbie e delitti”, mettendo subito in mostra (forse poco rispettando il testo) la bella Natasha Stefanenko. Comunque qui abbiamo delitti e misteri, che prendono corpo nella città padana. Il gioco di Varesi è dare in pasto al commissario un morto che emerge dalle acque del fiume, senza segni di riconoscimento, facendo in modo che Soneri cerchi di trovare il bandolo della matassa. Dall’altra ci racconta la storia di un insospettabile, che ha fatto qualche errore (forse grave) e che ha cercato di fuggire da situazioni per lui molto pericolose. Cercando appunto di farsi dimenticare, cercando l’oblio. Ma lo sgarbo fatto è forse troppo forte per lasciarlo cadere, anche a distanza di anni. Ed ora la sua copertura è stata scoperta, e l’insospettato deve trovare il modo di tirarsene fuori. Riprende in mano tutto il suo armamentario nascosto in cantina, e fatto di diverse pistole, con le quali comincia ad uccidere una serie di personaggi, per fare in modo che il motore ultimo, il capo in testa di tutta la baracca, esca allo scoperto. Già abbiamo capito che questi sono piccoli salti all’indietro, e che l’insospettato non riuscirà nel suo intento. Da subito capiamo che quel morto senza traccia è probabilmente proprio lui. Certo rimane fino all’ultimo il sospetto di un colpo di coda dell’autore, che faccia sì che il morto sia invece il Grande Capo. Dalla parte di Soneri, invece, le indagini, sempre condite dall’indolenza padana, vanno a rilento. Ma il nostro commissario non demorde. Ricostruisce alcuni contorni, seguendo indizi labili, capisce che il morto deve aver frequentato uno strano campeggio di roulotte, che ora, nel pieno della non-stagione, è frequentato poco e male. C’è il custode, ci sono un padre ed un figlio che trasportano cose, c’è uno strano americano, unico abitante delle roulotte in dismissione. Tirando fili che noi a volte non vediamo, e è questo il limite ancora della prima fase della scrittura di Varesi, Soneri parla, congiunge indizi, si fa aiutare dal fido Juvara. E comincia a capire qualcosa. Che nel campo delle roulotte ci sono traffici strani, che ben presto si collegano a trasporti di cocaina ed altre amenità di droghe ed affini. Riesce a capire il legame con il luogo che fa stare in questa terra a lui non consona lo strano americano. Oltre al luogo anche al custode del campo, per un po’ di outing che non guasta. Ed il susseguirsi di morti ed altre pagine che scivolano via, porta al ricongiungimento del primo morto con un nome. Ed al ritrovamento delle pistole. Nonché, e finalmente anche da parte di Soneri, a collegare le pistole al poliziotto Baldan, cosa che noi sappiamo da pagine e pagine. Così alla fine tutto ha un suo senso, ed anche se Varesi non si prende la briga di una bella chiacchierata risolutiva alla Van Dine, noi abbiamo gli elementi per ricostruire le fila. Dei vivi e dei morti. Trovo che sia ancora un prodotto acerbo, che non tutti i personaggi abbiano un loro centro ben definito. Ma è comunque un racconto lungo che mostra le potenzialità di una scrittura che ben si svolgerà in successivi episodi. Come ho già tramato e ribadito. Certo, il commissario dovrà trovare la sua dimensione definitiva e più centrata nella storia (e nel personaggio). Tuttavia un libro gradevolmente da attesa in aeroporto.
Massimo Carlotto “La banda degli amanti” E/O euro 9,50 (in realtà, scontato a 8 euro)
[A: 10/05/2016 – I: 20/07/2017 – T: 20/07/2017] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 195; anno 2015]
Approfittando delle sette lunghe ore di volo di ritorno dalla breve vacanza omanita, breve anche se molto calda (ma ne parlerò altrove), ho letto d’un fiato il nuovo episodio delle scritture di Massimo Carlotto. Per i miei più attenti lettori, non è certo una sorpresa che di Massimo ho letto tutto, ho sempre parlato a lungo, sviscerando le sue vicende personali, e gli incontri (due) che ho fatto con lui in occasione di alcune serate nella bellissima libreria romana di via dei Banchi Vecchi (per chi non la conoscesse, Libreria Odradek, visitatela). Quindi non torno sull’autore, ma sul fatto che ho sottolineato sopra di passaggio: episodio delle scritture. Perché, se è vero che questo libro segna il ritorno in auge del personaggio da me più amato, e cioè Max Buratti dello l’Alligatore, è anche vero che è un libro duale, visto che è presente e lotta con e contro il nostro, quell’esemplare bello torbido, uscito sempre dalla penna di Carlotto, e personaggio centrale di “Arrivederci, amore ciao”: cioè Giorgio Pellegrini. Quindi, qui finalmente si scontrano le due anime cella malavita create da Carlotto: quella che vive ai margini, ma che ha un suo codice d’onore alle spalle (Rossini, Max la Memoria, nonché il nostro Alligatore) e quella che al contrario non ha nessuna regola (Pellegrini). L’occasione nasce dall’ingaggio del nostro Max, nelle sue vesti precipue di investigatore senza licenza, da parte della nobildonna svizzera Oriana Pozzi Vitali. Da diversi mesi è scomparso il suo amante, il professor Di Lello, e Oriana non si dà pace. Per essere coinvolto, Max le fa confessare tutto, e cioè che i due erano ricattati da qualcuno che, nonostante la loro segretezza, aveva scoperto la loro tresca. Saltando a piè pari tutta una serie di passaggi, che lascio a voi avidi lettori, si scoprirà ben presto che dietro a tutto ciò c’è la mente perversa di Giorgio Pellegrini. Che è rimasto uguale a sé stesso: perverso e truffaldino. Ha sì messo in piedi un nuovo ristorante, come paravento per tutta una serie di sue attività illegali. Ma ha sempre alle spalle la succube moglie Martina e l’altrettanto succube amante Gemma. Ha un contatto efficace con un poliziotto corrotto, che un po’ lo copre, un po’ lo aiuta, un po’ gli fa arrivare soffiate efficaci. Nell’orbita di Pellegrini, poi, ci sono i fratelli Centra, due trogloditi che servono per i lavori sporchi. Nel contraltare dei capitali che si susseguono, vediamo Max ed i suoi avvicinarsi alle possibili verità. Ma vediamo anche Pellegrini costruire con fredda determinazione un piano B, nel caso Max si avvicini troppo alla verità. La verità è che Oriana non aveva voluto cedere al ricatto, e chi ne aveva subito le estreme conseguenze è stato il povero Di Lello. Ma Max non ha prove, se non cercare di mettere alle corde Gemma, e scovare chi sia il poliziotto corrotto. Pellegrini ha allora un colpo da maestro: fa rapire una attempata signora, anche lei dedita ad amori clandestini, e la utilizza come arma di scambio con l’Alligatore ed i suoi. Dopo aver cercato, inutilmente, di farli fuori utilizzando i due fratelli scapestrati. La resa dei conti, nel locale di Pellegrini, avviene sulla base dello scontro tra i due codici d’onore. Pellegrini sa che deve mollare tutto per salvarsi. E molla il poliziotto, i fratelli e la rapita. Trovandosi al fine con Rossini che deve decidere se porre fine alla turpe carriera del cattivone o obbedire al suo pur distorto onore. Vi lascio la suspense delle ultime pagine, su cosa farà l’Alligatore, cosa farà Rossini, cosa farà Pellegrini. Un bel romanzo, costruito con un suo ritmo che, per l’appunto, mi ha tenuto incollato al libro per tutto il viaggio. Certo l’inizio del libro è un po’ lento, dovendo tributare l’onore di ristabilire i punti fermi della storia di ogni personaggio per chi non ha avuto modo di deliziarsi delle letture precedenti. Ma è corretto l’uso che ne fa Carlotto. Rispolvera i diversi modi di essere, ne ricostruisce momenti che erano sfuggiti, e passaggi che erano presenti magari tra un libro e l’altro. Il bello è tutto in quelle due anime che si scontrano, e che lottano fino a… Magari fino ad un prossimo libro, se Pellegrini si salva. O alla prossima inchiesta dell’Alligatore, come lasciano presagire le ultime parole del libro. Comunque, Carlotto merita sempre di essere letto.
Marco Vichi “Fantasmi del passato” TEA euro 10 (in realtà, scontato a 8 euro)
[A: 21/03/2016 – I: 24/07/2017 – T: 26/07/2017] - &&& e ¾ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 504; anno 2014]
Peccato! La scrittura di Vichi è gradevole, il commissario simpatico, gli interventi (nascosti ma visibili) di Gori ben amalgamati. E allora? Peccato sia inutilmente lungo. Peccato sia una rimembranza di avvenimenti e di momenti che, purtroppo, poco hanno a che fare con il solito giallo di cui ci aveva abituato il commissario Franco Bordelli. Certo, Vichi si inserisce nel filone delle serie a lunga gittata degli scrittori italiani di polizieschi ed affini. Come non accostarlo ad Andrea Camilleri (il commissario Montalbano), Carlo Lucarelli (l’ispettore Coliandro), Gianni Biondillo (l’ispettore Ferraro), Luigi Guicciardi (il commissario Cataldo), Marco Malvaldi (i vecchietti del BarLume) e gli ultimi epigoni come Andrea Manzini (con il suo Rocco Schiavone). Bordelli ha alcune qualità “diverse” che tuttavia lo rendono unico. Le sue gesta, se così si può dire, si svolgono nella Firenze della metà degli Anni Sessanta, tra il boom economico e l’alluvione. Un personaggio tormentato ogni oltre dire, che negli ultimi scritti, tuttavia, abbiamo visto andare incartandosi in momenti difficili e molto più grandi di una semplice inchiesta. Infatti, durante l’alluvione del 1966, Bordelli è alle prese con un caso che lo ha duramente provato per le implicazioni personali che ha portato con sé. La depravazione e la crudeltà si sono mescolate in modo inaudito e sono arrivate a colpirlo nei suoi affetti più cari, tanto da spingerlo a lasciare la polizia e trasferirsi all’Impruneta. Nel frattempo ha trovato il modo di farsi giustizia da solo, tentando di chiudere il conto con la malvagità, ma non con il dolore che lo ha colpito e che lo segnerà per tutta la vita. E tra la casa nel bosco e la città, è sempre circondato dalla solita allegra compagnia, che gli fa da pendant, ma che gli dà anche agio di infiorettare lo scritto di tante piccole micro-storie. Ci sono l’ex prostituta Rosa; lo scassinatore e mago dei fornelli detto il Botta; il dottor Diotivede; il bizzarro «Archimede pitagorico» Dante. Sempre vicino inoltre il suo più fido collaboratore, il giovanissimo poliziotto sardo, Piras, che Bordelli tratta come il figlio che non ha mai avuto, capace di osservazioni acute e silenziose congetture. Sarà lui il braccio destro del commissario in questa nuova indagine, anche se l’indagine, in sé, è solo un momento, breve e diluito nel tempo, del progredire della storia di vita di Bordelli. Che nelle more del romanzo incontra anche un suo vecchio sodale, incrociato in brevi momenti precedenti, e protagonista delle storie del grande amico di Vichi, Leonardo Gori. Ritroviamo infatti anche il colonnello dei carabinieri Bruno Arcieri, che in un incidente d'auto ha rischiato la vita. Incidente forse non fortuito, ma che lo aiuta nella vita, dato che in Ospedale incontra la sua vecchia fiamma Elena. Ed uno strano ragazzo che fugge da potenti nemici, che tuttavia lo raggiungono per ucciderlo. Per scoprire chi è questo assassino, Arcieri torna a Firenze nelle vesti di un barbone, per destare meno sospetti: in queste misere vesti viene riconosciuto da Bordelli che lo ospiterà a casa sua, sulle colline dell'Impruneta, portando avanti un duetto a due voci, sulla vita e sull’onestà. Perché Bordelli, ora, è alle prese con i suoi fantasmi: l’amore di una donna perso forse per sempre, ma che è continuamente nei suoi pensieri (si incontreranno di nuovo nelle ultime pagine, per poi… ma forse sarà un nuovo romanzo). Ma anche le sue vicende durante la guerra, i tedeschi che ha ucciso o ha visto morire. Non ultima la madre che ogni tanto gli appare in sogno. Il tutto mentre cerca di risolvere il giallo della morte di un noto imprenditore, vedovo di mezza età, Antonio Migliorini. Trovato morto nella sua bellissima villa sulle colline fiorentine, il corpo accasciato sulla sedia del suo studio, la cassaforte aperta, il ventre attraversato da un fioretto, staccato da una teca appesa al muro. Migliorini è un uomo tranquillo, ricco e generoso. I suoi figli sono alla guida delle due società che ha fondato, la sua casa è amministrata da servitori fedeli. Ma Bordelli non si tira indietro, e scava anche nel passato di Migliorini. La morte della prima moglie, le frequentazioni con una donna sposata, l’atteggiamento tra il coinvolto e lo sconvolto della cognata Clara. Ci sono tante donne anche in questa storia, e Bordelli non si tira certo indietro. Pur avendo sempre Eleonora in fondo ai pensieri, lo vediamo, stancamente, ma senza tema alcuna, girar di letto in letto. Con Justine, con Clara. Alla fine, complice un’osservazione di Piras sui motivi di lasciar aperta una finestra, il delitto Migliorini è risolto. Non senza qualche tormento che vi lascio leggere. Come vi lascio leggere tutte le storie di contorno al filone principale, le storie che Bordelli ed i suoi amici si narrano intorno al fuoco ed al buon cibo. Se dovessi solo pensare al giallo, non mi ha entusiasmato gran che. Ma è tutto il complesso mondo che ci ricostruisce Vichi che è piacevole da ripercorrere (come ritorno ai miei quindici anni, ovvio). Nonché, per finire, alcune belle righe poetiche sparse qua e là, dovute alla penna di Paola Cannas, poetessa e madre di Vichi. Belli e dolenti come in questo brano tratto da “Autunno in Toscana”: E lentamente il sole inonda la campagna / in questo autunno dolce come allora. / E i secoli son nulla. Aspettiamo il prossimo libro, Marco.
“Era già passato più di un anno da quella brutta notte. Non ricordava il giorno preciso, ma … si ricordava ogni particolare, ogni frase.” (52)
“Molte … donne lo avevano stregato, a tutte le età, anche adesso che era … in pensione.” (52)
“Aveva baciato Juliette, era sensibile al fascino di Clara, si incantava a guardare le donne per strada… Allora come mai non riusciva a dimenticare…?” (245)
“Fare i regali era come innamorarsi a prima vista, ci voleva un colpo di fulmine.” (254)
“Era un bellissimo ricordo, ma adesso la cosa più sana era voltare pagina… Non voleva più pensare a lei… Ci voleva … Una creatura affascinante, dolcissima, capace di farlo sentire addirittura bello.” (403)
Bruno Morchio “Un conto aperto con la morte” Garzanti euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,42 euro)
[A: 21/09/2016 – I: 19/09/2017 – T: 20/09/2017] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 201; anno 2014]
C’è voluto un anno e mezzo per risollevarsi dalla saturazione delle avventure genovese di Bacci Pagano, l’investigatore dei carruggi. Ma forse ne valeva la pena, che, prese un po’ le distanze, si torna con piacere su fatti e personaggi noti. In un libro che, tuttavia, non è propriamente un “giallo” classico, anche se Morchio ha sempre scritto gialli atipici. Ma da bravo inventore di storie, imbastisce una trama che ha un senso e delle trovate interessanti. Anche se non l’avevo detto, il capitolo precedente si era chiuso con Pagano colpito da un colpo di pistola, da cui non si sapeva se ne usciva vivo. Ricordando che tutte le sue storie, Bacci ce le narra in prima persona, l’autore si trova di fronte ad un dilemma. Se anche questo nuovo episodio è narrato da Bacci, il lettore capisce già molte cose. Ecco allora un colpo geniale: Bacci è ferito, ha una pallottola nel cranio e potrebbe morire da un momento all’altro. Il suo amico Cesare, quello che nel precedente episodio era stato eletto senatore, ed aveva mosso mari e monti per risolvere alcuni (grossi) sassolini del suo passato chiede ad uno scrittore di scrivere qualche storia di tutte quelle vissute da Bacci. Entra così in scena l’onesto scrittore di noir genovesi, alter ego di Morchio, dal nome evocativo di Gian Claudio Vasco. Perché i cultori capiscono subito il riferimento al narratore di Marsiglia (Jean-Claude Izzo) ed a quello di Barcellona (Manuel Vazquez Montalban). Vasco e Pagano si incontrano, trovano qualche terreno comune, ma non di una storia a caso si andrà a scrivere, ma della storia che si sta svolgendo, alla ricerca dei motivi e degli autori del quasi omicidio dello stesso Pagano. Tuttavia i due non si conoscono, e la capacità affabulatoria dell’uso discorsivo, permette a Morchio, nel tentativo di Bacci di far capire sé stesso e le sue motivazioni di vita, di descrivere tutta una serie di capitoli della vita di Bacci. Praticamente, una bella parte del libro è quasi una serie di piccoli mini-riassunti di tutti i libri precedenti. Che ci permettono di tornare all’amore tra Bacci e la moglie, all’infanzia della loro figlia Aglaja, alla rottura tra i due, agli amori “matti e disperatissimi” di Bacci. Soprattutto quello mal finito con l’africana Josephine e quello finito perché la fiamma si è spenta con la psicologa Mara, quello che lo aveva chiamato “analfabeta dei sentimenti”. Il rapporto sodale con l’ex-carceriere sardo, quello sempre vivo e forte con il poliziotto Petrusiello o con l’avvocato Gina Aliprandi. Ma tutto si coagula e collassa nella vicenda precedente e nei suoi strascichi attuali. Vicenda che vedeva coinvolti in prima persona Cesare, il paladino ambientalista, e Gianni, l’architetto trafficone. Vicenda che era finita con la confessione di Gianni di essere lui l’assassino di Amalia, l’allora fidanzata segreta di Cesare. Al momento attuale, quindi, abbiamo Cesare sposato con Katia, direi passabilmente, anche se Cesare ha come amante più o meno fissa Lou, la sorella di Amalia. Gianni in carcere in attesa di processo. Bacci costretto in casa e con poca mobilità, che la pallottola può muoversi all’improvviso e lui lasciarci le penne prima dell’intervento che lo aspetta in America. Ragionando e discutendo, Bacci e Vasco sono sempre più convinti che la storia di Amalia non sia tutta chiarita, e che non ci siano mafiosi o altri loschi figuri dietro le pistolettate a Pagano. Rivivranno, discutendone tra loro, parlando Vasco in carcere con Gianni, e poi in casa con Cesare, a lungo la famosa notte. Quella in cui Cesare, Gianni e Bacci si strafanno di alcool e canne per festeggiare l’uscita dal carcere di Bacci. Quella in cui arriva all’improvviso Amalia, che Cesare chiede a Gianni di riaccompagnare a casa. Quella in cui Gianni uccide Amalia. Dalle parole di Gianni poi si capisce del suo odio-amore verso Cesare, da cui si sente tradito. In una confessione dal tragico epilogo, Gianni dichiara a Bacci che è stato Cesare il mandante dell’omicidio di Amalia, e che c’è sempre Cesare dietro la sparatoria per la quale Bacci patisce. E che sì, è sempre stato lui, Gianni a sparargli. Poi, si uccide anche lui. Nella lunga carrellata finale, Bacci e Vasco ricostruiscono tutta la vicenda, di cui non vi svelo altro. Ma Bacci, verso metà libro, ci aveva già indirizzato alla soluzione, mettendosi a rileggere i fratelli Karamazov. Che se voi conoscete avete già capito tutto. Molta psicologia umana, e poco giallo, e quel poco, un po’ troppo scoperto. Ma rimangono le belle figure di contorno. Soprattutto Aglaja, da cui mi aspetto di più nel futuro. Ma anche Vasco ha un suo perché. Finendo il tutto con la partenza di Bacci per l’America. Tornerà sopra o sotto lo scudo? Spero che lo sapremo in futuro. Per ora, una lettura dignitosa, sufficiente come i miei librini mostrano. Io però sono sempre un po’ critico, e mi aspetto di più da Morchio.
“Quando ho cominciato a sentire che si allontanava, ho preso a tradirla con altre donne, tutte quelle verso cui provavo attrazione e che mi ricambiavano.” (61)
“Arriva, prima o poi, un’età della vita in cui si smette di essere bambini.” (83)
Visto che siamo in tema di ritorno alla normale routine di scrittura, non poteva certo mancare un potente aiuto alla felicità, con il primo di alcuni (anche se pochi) distillati di passione.
Non aggiungo altro, che sapete il difficile momento che sto attraversando, di cui non si vedono orizzonti d’approdo vicino. Continuate a sostenermi, che tutti se ne ha bisogno. 

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

NOVEMBRE 2017
Avevamo cominciato con le terapie d’amore per ristabilire il cuore, proseguiamo con i distillati di passione per infiammare l’animo.

DISTILLATI DI PASSIONE (I)

L’AMANTE DI LADY CHATTERLEY di DAVID H. LAWRENCE (1928)

Pillole di trama
Giovane rampolla di una famiglia progressista, dopo aver viaggio per l’Europa facendosi una notevole cultura, anche sessuale, Constance sposa Clifford Chatterley, proprietario terriero con velleità di scrittore (mancato). Dopo neanche un mese di matrimonio, Clifford viene chiamato sotto le armi e al ritorno dalla Grande Guerra è costretto su una sedia a rotelle. Il matrimonio rivela subito la sua inconsistenza: Lady Chatterley è uno spirito troppo indipendente e forte per accettare di rimanere paralizzata in un rapporto incapace di appagarla, sottomessa a un marito debole di carattere e impotente, in tutti i sensi, anche affettivamente. Dopo una prima e poco soddisfacente relazione con l’incostante Michaelis. Connie s’innamora del virile, orgoglioso e fascinoso guardacaccia Oliver Mellors. In questo rapporto trova un’insperata vitalità e rinasce a nuova vita, anzi concepisce una nuova vita: rimasta incinta, sfida coraggiosamente le convenzioni sociali lasciando marito e agi, pronta a tutto per vivere pienamente una relazione sincera basata su un’intesa di amorosi sensi, passione e tenerezza.
Supposta-saggezza
Scandaloso, oltraggioso, scabroso! Vietato, proibito, bandito messo all’indice! Siamo a Roma ai tempi dell’Inquisizione? No, siamo nella perbenista Inghilterra alla fine degli anni Venti. David H. Lawrence pubblicò “L’amante di Lady Chatterley” nel 1928, ma solo nel 1960 il suo autore venne scagionato dalle accuse di oscenità e il libro poté essere liberamente letto in patria come già accadeva nel resto del mondo (nella liberale America, però, solo dal ’59). Se cercate le motivazioni dello scandalo nelle minuziose descrizioni degli amplessi amorosi della spregiudicata Lady Chatterley e dei suoi amanti, non potrete che sorridere esterrefatti. Lawrence scende nei particolari, non c’è dubbio, ma siamo abituati a ben altro in tempi in cui è quasi più indecente parlare d’amore che di sesso. Senza contare che la sua prosa è talmente colta e raffinata da trasformare in grande letteratura anche la situazione più scabrosa. Ciò che all’epoca fece giudicare il romanzo pornografico e pericoloso per l’ordine costituito, fu proprio la stessa portata rivoluzionaria che ancora oggi ne decreta il successo e la modernità. Lawrence non solo ha descritto ciò che di solito era sottinteso, mostrato fuori dalla scena perché osceno, ma è sceso nei particolari indugiando sui dettagli più erotici proprio perché voleva rivendicare l’importanza dell’intesa sessuale in una relazione amorosa, un rapporto paritario concepito come fusione di carne e spirito. E, cosa ancora più oltraggiosa, rivendicando il diritto della donna di provare piacere fisico, la rendeva finalmente protagonista dell’atto sessuale e non più oggetto del divertimento maschile o mero strumento di procreazione. Come se non bastasse, non solo Connie rifiuta la secolare sottomissione sessuale femminile, ma si apre anche a una visione interclassista scegliendo come amante un uomo socialmente inferiore. Non ci sarebbe stato niente di strano se quella tra la Lady e il guardacaccia fosse stata una scappatella clandestina, ma Connie sceglie di rinunciare a tutti i privilegi del suo status sociale per ufficializzare questa relazione e viverla alla luce del sole (anche se nelle Midlands, nel cuore dell'Inghilterra industriale dove si svolge la storia, il sole non sanno neanche cosa sia, tra cieli piovosi e case annerite dal carbone). Scandalo!!! Rifiuta il ruolo di moglie tradizione; rivendica in pubblico il diritto di conoscere sessualità e affetto. Ma non è una Lady annoiata e insoddisfatta che cerca nell’adulterio un’evasione dalla routine matrimoniale (come Emma Bovary), non è l’equivalente odierno della casalinga disperata che si butta sul giardiniere, il corrispettivo moderno del guardacaccia. Non è neanche l’aristocratica in cerca di divertimenti piccanti e bramosa di relazioni pericolose. Connie è emancipata e insofferente più che annoiata. Inquieta ma determinata, il suo non è un capriccio ma un bisogno sentito come un diritto, quello di amare ed essere amata con passione e tenerezza, godendo appieno di un rapporto vero e carnale. Tutte cose che suo marito non può darle, non solo perché fisicamente impotente, ma in quanto assolutamente incapace di comprendere le sue pulsioni vitali. A Connie non basta l'affinità intellettuale perché un rapporto sia completo, ha bisogno anche di emozione ed empatia, di un amplesso di sentimenti che dalla testa arriva ai lombi, passando rigorosamente per il cuore. Ne è la riprova la rottura con il primo amante, Michaelis, che la soddisfa sessualmente ma non emotivamente. Ad appagarla in tutto e per tutto è l’insospettabile Oliver Mellors. Ha un carattere ruvido, orgoglioso e schietto, senza peli sulla lingua, usa un linguaggio poco forbito, ma è un uomo vero. E con questo non intendo un macho dominatore, ma un «uomo che ha il coraggio della propria tenerezza». E questa è una conquista epocale per il genere maschile così come il piacere sessuale lo è per quello femminile. Mellors è un dipendente, ma con un servo. Non è un intellettuale, ma un uomo libero di testa che si ribella alle convenzioni, l’arrampicamento sociale e il potere del dio denaro. Insomma, i requisiti ce li ha tutti: è affascinante, prestante, tenero, integro e convinto delle proprie idee. Non è ecco, come Christian Grey di “Cinquanta sfumature di grigio”, ma la perfezione non esiste nei romanzi veri.
Tacciato d’oltraggio al pudore per il suo contenuto erotico, forse a spaventare fu proprio la portata sociale del romanzo, il suo dar voce alla ribellione dei più deboli, le donne e i poveri (sullo sfondo rumoreggiano i primi tumulti delle lotte di classe). A quell’epoca la pensavano più o meno tutti come Clifford Chatterley, che avrebbe potuto chiudere un occhio se sua moglie lo avesse tradito con uomo di pari grado, ma con un dipendente proprio no. Anche l’Inghilterra avrebbe potuto chiudere un occhio, ma David H. Lawrence gli occhi voleva farli aprire.
Nel saggio “A proposito di L'amante di Lady Chatterley”, l’autore scrive che uomini e donne dovrebbero essere «in grado di pensare il sesso pienamente, completamente, onestamente e pulitamente». Ecco perché nel romanzo la passione si ammanta di tenerezza e non di oscenità, l’eros diventa amore e condivisione alla pari. Ciò che all’epoca destò scalpore è ciò che ancora oggi rende attuale il romanzo, soprattutto alla luce dei recenti casi erotico-editoriali come le “Cinquanta sfumature”: l’idea che uomo e donna siano uguali, nella vita e sotto le lenzuola. Non ci sono dominatori e sottomessi, ma solo amanti e parità sessuale, in tutte le sfumature del termine.
Posologia
“L’amante di Lady Chatterley” è un rimedio senza data di scadenza in casi di anemie erotiche e urgente necessità di compensare le suddette carenze con amplessi di passione letteraria. Allo stesso tempo svolge un’azione benefica contro i primi sintomi di tendenza patologica alla sottomissione, sia intellettuale che sessuale. È indicato anche per rafforzare le difese immunitarie e produrre gli anticorpi necessari per vivere una relazione al di là delle differenze e delle convenzioni sociali.
Nelle donne favorisce il ripristino della fiducia nell’esistenza di uomini che, come Oliver Mellors, abbiano il coraggio della propria tenerezza.
Fin dalle prime righe, il trattamento rivela il suo beneficio maggiore: «La nostra è un’epoca fondamentalmente tragica, anche se ci rifiutiamo di considerarla tale. Il cataclisma c’è stato, siamo tra le rovine, ma cominciamo a costruire nuovi piccoli habitat, a riavere nuove piccole speranze. È un compito non facile; la strada verso il futuro è piena di ostacoli che dobbiamo aggirare, scavalcare. Si deve continuare a vivere, anche se il cielo ci è caduto addosso. Queste erano, più o meno, le sensazioni di Constance Chatterley. La guerra le aveva fatto crollare il mondo in testa. E lei aveva compreso che imparando si sopravvive». Nessuno può negare che anche la nostra epoca sia tragica e che viviamo tutti con la perenne sensazione che il cielo ci piombi addosso, ma imparando si sopravvive. Anche imparando dai libri, piccoli habitat dove coltivare nuove speranze.
D’altra parte Lawrence diceva che «i libri sono la cura per ogni malessere, ci mostrano le nostre emozioni, una volta, e poi ancora una, finché non riusciamo a dominarle».
Effetti collaterali
In alcuni rari casi è emerso che, contagiate dall’intraprendenza di Connie, le lettrici potrebbero meditare una relazione con il giardiniere. Oppure, finalmente persuase del diritto di esprimere liberamente il proprio desiderio sessuale rivendicando il piacere che ne deriva, potrebbero passare dal ruolo di sottomessa, come Anastasia delle “Cinquanta sfumature”, a quello di libertina dominatrice della marchesa Merteuil di “Le relazioni pericolose”. In questo caso c’è il rischio di commettere l’errore del perfido personaggio del romanzo di Pierre Choderlos de Laclos che, per sentirsi libera e «vendicare il suo sesso», sceglie di imitare l’atteggiamento dominatore dell’uomo, arrivando così a distruggere volontariamente la vita degli altri ma anche la sua. Se si legge con attenzione “L’amante di Lady Chatterley”, questo effetto collaterale piuttosto nocivo non dovrebbe verificarsi perché, tra la sottomissione sessuale di Anastasia e il libertinaggio intellettuale della marchesa, la battaglia consapevole di Connie per il sesso e la tenerezza ha un maggiore potere di contagio.
Consigli
Se le vostre effettive esigenze individuali necessitano di ulteriori dettagli erotici e piccanti, continuate a stuzzicare la fantasia approfondendo le succulente storie riguardanti la genesi del romanzo. Lawrence concluse la prima stesura durante un soggiorno in Toscana, dove il libro fu pubblicato nel 1928. Secondo alcuni gossip, a ispirare le focose avventure di Lady Connie è stata l’esperienza personale dello scrittore quando, venuto in Italia per curare un brutto attacco di tisi che lo aveva reso impotente, spinse l’avvenente moglie Frieda tra le braccia dell’aitante tenente colonnello dei bersaglieri Angelo Ravagli. Secondo altre indiscrezioni, all’origine del più classico dei classici della letterata erotica, ci sarebbero altre focose situazioni. Curiosi? A voi il brivido della scoperta.
Proprio quando negli anni Sessanta “L’amante di Lady Chatterley” poté finalmente essere letto in Inghilterra, in Irlanda un altro libro veniva bruciato sui sagrati delle chiese perché giudicato oltraggioso. Anche in questo caso la tematica sessuale era la pietra dello scandalo e l’aggravante era il sesso dell’autore, una donna: Edna O’Brien. “Ragazze di campagna” destò scalpore perché parlava esplicitamente di sesso ma per come siamo abitati noi oggi non c’è niente di scabroso, lussurioso o indecente (a meno che non consideriate scandalosa la descrizione di una scena di sesso, i dettagli anatomici di un corpo maschile o una relazione tra una ragazza e un uomo maturo. Ma in questo caso avete sbagliato sezione). Le “Ragazze di campagna” sono Baba e Caithleen. Piene di sogni e desiderose di assaporare la vita, una volta cacciate dal collegio si trasferiscono a Dublino. Per le due amiche le esperienze non mancheranno e scopriranno il sapore, ma anche il prezzo, della libertà. Se ne consiglia la lettura non tanto per indurre brividi di passione erotica ma letteraria, riscoprendo una scrittrice dalla penna potentissima.

Commenti

Per anni avevo rimandato la lettura di Lawrence, un po’ per noia, e un po’ per distrazione. Ma leggendolo più di sei anni fa, ne colsi gli aspetti migliori, come vedrete nella lettura.
David Herbert Lawrence “L'amante di Lady Chatterley” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama pubblicata il 31 luglio 2011]
Un altro classicissimo finalmente letto tutto. Molto datato in alcuni punti. Ma alla fine si legge e dà alcuni spunti. Anzi, andrebbe comunque letto. Infatti, se da una parte è un libro polemico contro l’aristocrazia inglese ed il suo vuoto mondo di privilegi che stanno finendo (ma non risparmia nessuno, certo non i minatori e la classe lavoratrice in genere, ma su questo ci si ritorna), dall’altro alcune pagine “di sesso” sono poetiche e delicate. Ma come, direte, un libro che veniva censurato per la sua volgarità ed il suo esplicito parlare? Prima di tutto, sono passati novanta anni, e ben altro esplicito parlare abbiamo dovuto sorbire. Lawrence anzi è poetico con le sue infuocate scene di sesso, per poi scivolare nel climax delle chiacchiere intorno a John Thomas e Lady Jane (che non sono il nome dei due protagonisti, che si chiamano Oliver e Constance, ma …). Secondo poi, veniva censurato con la scusa del sesso, ma in realtà perché era un libro che metteva in crisi i rapporti tra le classi sociali. Come, una Lady che si innamora di un guardiacaccia, e per questo amore sfida il mondo immoto della caccia alla volpe e del tè delle cinque! Questo sì che non si doveva vedere. Anche perché le prime 100 pagine sono quelle che con più forza attaccano il mondo dei lord. Una per tutte, la scena degli aristocratici che parlano a ruota libera un dopo cena, anche di funzioni corporali, ma quando Connie interviene hanno un modo di fastidio, che mi ricorda tanto le scene nordafricane con il maschilista che rivolgendosi all’unica donna che sapeva parlare inglese (e che gli teneva testa) l’apostrofa con uno “Shut up, woman!”. Stessa sensibilità ad un secolo di distanza. Certo, Lawrence non è cattivo fino in fondo, che Oliver comunque ha fatto il soldato, sa parlare bene inglese, in un certo senso “conosce le buone maniere”. Non è soltanto un “buzzurro con il sesso caliente”. In questo contesto, un po’ cadenti tutte le lunghe pagine dedicate alle miniere, al carbone, allo sviluppo industriale, ed altro “politichese”, che, queste sì, hanno fatto il loro tempo e sono datate. Ma anche l’altro versante ha il suo interesse, i tormenti di Oliver verso l’altro sesso (e le sue pippe mentali, diciamocelo pure), la progressiva emancipazione di Constance (che intanto, benché Lady, aveva già avuto esperienze sessuali prima della Grande Guerra, ed anche questo faceva scandalo), ed i due contraltari: la finta liberale sorella Hilda, che non accetta il liberarsi della sorella, e la signora Bolton, che non vede l’ora che Constance se ne vada per trovare un suo spazio ancillo-infermiero-erotico presso il povero Clifford, paralizzato dalla vita in giù. E comunque ci vuole del coraggio a sostenere nel 1928 che anche la donna deve provare piacere nell’atto sessuale. E che quando si fa sesso, lo si fa in due ed entrambi devono partecipare, godere, comunicare. Un passo enorme all’epoca. Quindi un buon libro, con qualche punto in più per l’inquadratura storica (e quanto di auto-vissuto c’è in tutto ciò scritto dal figlio di un minatore che sposa una baronessa…), e qualche punto in meno che (e qui ritorna un altro mio pallino) Lawrence in ogni caso maschio è, e se partecipa e riesce a render vivi i problemi di Oliver verso l’altro sesso, meno mi convince quando cerca di spiegare il sentire di Constance (forse solo sulla dolcezza che in ogni caso deve esserci tra due amanti coglie un segno comune). E gli ultimi segni negativi, perché non dico dipinga un lieto fine, ma ha verso la fine un atteggiamento un po’ conciliatorio, lasciando molte cose in sospeso così che ognuno scriverà il seguito della storia, da dove lui ci lascia, secondo le proprie visioni pessimiste o ottimiste. Due annotazioni finali: l’ottimo editor, che ha giustamente messo le note con le poesie inglesi citate da Lawrence, perché ha lasciato non indicato a pag.204 l’esplicita citazione di Walt Whitman? E poi, la parte più sanguigna ma anche più tenera dell’amore tra Oliver e Connie è scritta in dialetto, e la sua traduzione in italiano risulta quanto mai “fuorviante”. Ma si sa, con Eco, tradurre è tradire… 
“Se la civiltà vuol farci del bene, deve aiutarci a dimenticare i nostri corpi, e allora il tempo scorrerà piacevolmente.” (84)
“-Non potresti vivere senza lavorare? –Io? Forse sì, se intendi vivere solo della mia pensione. Sì, forse sì. Ma io devo lavorare, se no muoio. Voglio dire, ho bisogno di avere qualcosa che mi tenga occupato. E non ho il carattere giusto per un’occupazione in proprio. Deve essere un lavoro che svolgo per qualcun altro, se no, in un momento di rabbia, poteri mandare tutto all’aria nel giro di un mese.” (186)
“Quello che non sopporto è l’impudenza idiota, autoritaria di coloro che governano il mondo. Io odio l’arroganza del denaro e quella di classe. Quindi, in questo tipo di mondo, che cos’ho da offrire a una donna?” (308)
“Una donna vuole che tu l’apprezzi e che tu le parli … e, allo stesso tempo, che tu la ami e che tu la desideri… mi sembra che le due cose si escludano a vicenda.” (63)
“La solitudine andava accettata. Bisognava conviverci …e i momenti in cui il vuoto si colmava erano da apprezzare. Ma non li si poteva forzare.” (161)

Finalino

Aderisco al messaggio della curatrice, chiedendovi anche di andare a leggere il saggio di Lawrence citato. Da meditare, in questi giorni in cui si parla tanto (e con ragione) di femminicidio e di riscatto delle donne.

domenica 19 novembre 2017

La cucina è finita - 19 novembre 2017

Nel senso che, con questa infornata (mi si scusi il termine), terminiamo l’analisi della collana del Corriere della Sera dedicata alle Storie di Cucina, inserendoci, tra l’altro, una storia che sarebbe stata bene insieme alle altre, ma che è invece un leggibile libro della sempre simpatica Giuseppina Torregrossa. Per il resto, abbiamo due “chef” che, direttamente o di traverso, parlano delle loro esperienze culinarie, ed una critica gastronomica che mi regala uno dei migliori libri della collana. Buona appetito, allora.
Rudolph Chelminski “Il perfezionista” Corriere della Sera Cucina 6 euro 7,90
[A: 06/03/2015– I: 23/04/2017 – T: 29/04/2017] - && +
[tit. or.: The Perfectionist; ling. or.: inglese; pagine: 455; anno 2005]
Poteva essere interessante, ma alla fine si perde in molti rivoli che l’autore non sembra saper gestire. Vuol dire troppe cose, e lo fa, a scapito della trama principale. E forse del messaggio che intendeva mandare. Certo, si celebrano i fasti, ascesa e caduta, di un grande cuoco, il francese Bernard Loiseau. Ma l’autore sembra anche voler fare in questo libro un’analisi del mondo della cucina francese, dominato dalla lunga mano manovrante delle “Guide Rosse Michelin (GRM)”, ed una critica alle manie gastronomiche imperanti (o che sono emerse negli ultimi trenta – quaranta anni). Questa parte però risulta talmente diluita nei discorsi, nelle riprese e negli accenni, che stenta a venir fuori. Mentre viene fuori il vezzo di citare (quasi) tutti i piatti in francese, come se non si fosse capace di tradurne la denominazione. Capisco che possa avere il suo fascino per il pubblico americano, ammaliato da questa patina di bellezza (e voluttà). Ma un traduttore in italiano avrebbe anche dovuto tener conto che di certo l’Italia non ha una cucina inferiore alla francese. Allora perché continuare a citare “la soupe d’escargots aux orties” invece di chiamarla subito “la zuppa di lumache all’ortica”. Da noi, il francese, non sempre fa “alta cucina”! Tra l’altro, il tema che l’ottantenne americano, che da quasi sempre però vive in Francia, decide di trattare è di principio stimolante. Tanto che il sottotitolo recita “Vita e morte di un grande chef”. Perché sicuramente Loiseau era un grande chef, nato agli inizi degli anni ’50. Che seguiamo, non tanto velocemente però, nella breve giovinezza (poco studioso, ma di capacità gustative fuori del comune) nei sobborghi natii vicino Clermont-Ferrand (dove nacquero, almeno una trentina di anni prima le GRM, il must gastronomico dei francesi e non solo). Vista la sua propensione per la cucina, il padre lo inserisce nella cucina dei fratelli Troisgros (una cucina a tre stelle ininterrottamente dal 1968 ad oggi!). Lì farà tutta la trafila, da spalatore di carbone per il fuoco ad aiutante. Ma il suo carattere indipendente, giocoso, e comunque dotato di personalità, non gli consente un apprezzamento dai “seriosi” maestri cuochi. Così che alla fine dell’apprendistato si ritroverà a Parigi, preso ed apprezzato da un altro maestro di cucina irregolare, Claude Verger, patron de “La Barriera di Clichy” nella zona sud di Parigi. Qui Bernard dà prova delle sue capacità ma soprattutto della sua pignoleria: tutto deve essere perfetto, perfetto per poter ambire a quel sogno che fin dall’infanzia lo seguiva e perseguitava: il raggiungimento delle tre stelle. Il passo forte, fu nel 1975, quando Verger decide di comperare “La Cote d’Or” un albergo – ristorante a Saulieu, che dal 1935 al 1964, sotto la guida di Alexandre Dumaine aveva mantenute le sue tre stelle. Bernard lavora sodo, si crea un gruppo che agisce all’unisono con lui, prima con il “maître d’hotel” Hubert, poi con lo Chef (si, con la C maiuscola) Patrick Bertron, infine con Dominque, la sua seconda moglie (della prima stendiamo un velo pietoso), che, oltre ad essere un valido aiuto nelle relazioni pubbliche, gli darà tre figli: Berngere, Bastien e Blanche (sempre per mantenere il logo BL). Dal 1981 comincia a crescere nelle liste dei ristoratori top, decidendo anche di rinverdire i fasti dell’albergo. Cominciando a fare debiti mostruosi. Ma nel 1991, finalmente, avendo una serie di piatti “essenziali”, che lasciano uscire direttamente il proprio sapore, senza mascheramenti, ed avendo raggiunto un livello di eccellenza anche con l’albergo, riceva a coronamento della sua vita le famigerate tre stelle. Ma come sappiamo da altre letterature, e da film vari (andatevi a vedere o rivedere “Amore, cucina e curry” o anche il bellissimo “Ratatouille”, dove la figura di Chef Gusteau è ricalcata proprio su Loiseau) non è tanto raggiungerle la fatica, ma mantenerle. Bernard si deve barcamenare allora tra i controlli di cucina, i prestiti sempre più onerosi, nonché la decisione, primo nel suo genere, di quotarsi in borsa per ottenere quel surplus monetario che gli consente di andare avanti. Inoltre, Bernard comincia ad apparire in TV, ad apparentarsi con altre cucine in giro per il mondo, a vendere prodotti con il suo nome. Tutto per aumentare lo stress, lui che, come ci ripete l’autore dalla prima pagina, è un perfezionista, che non lascia cadere una briciola, che cambia il grembiule più volte al giorno se si ombra. E che lo ripiega a sera maniacalmente in tre parti. Nel 2003, sempre più assillato da problemi economici, sempre più spinto su e giù dalle sue tendenze bipolari, senza riuscire ad adeguarsi ai trend della nuova cucina, ed anche non più trattato in palmo di mano dai critici, ha la tremenda, per lui, visione di perdere una stella. Non ce la fa, non ce la può fare. Ed a 52 anni si uccide. Ma questa pur intensa e complicata vita di un cuoco francese, è ingarbugliata dal tentativo, complicato e non ben riuscito, di riproporre il clima gastronomico di quegli anni. Allora, certo, parlare dei grandi, di Bocuse, Ducasse, Veyrat e tanti altri. Parlare degli odi, delle ripicche, dei piatti di cui ci si innamora, della cucina del territorio (grande must francese), ma anche di tutte le storture della “nouvelle cuisine”. Ci sarebbe voluto un altro libro, e forse un'altra penna, per rendere al meglio tutto ciò. Qui ci si perde, si lascia e si ritorna su temi e momenti. Ma come se si fosse seduti alla tavola di uno di questi grandi, pronti a spendere 200 o 300 euro per una cena. Cosa che ritengo al di fuori del senso comune. Ho le mie idee sulla cucina, e probabilmente divergono alquanto da quelle di Chelminski. Per finire, al solito, qualche considerazione più o meno a latere. In quasi 500 pagine non c’è una ricetta che è una. Ora, vero che si parla di “Storie di cucina”, ma se si parla di cuochi, di cotture, ed altro, qualcosa se ne poteva agilmente scrivere. Magari in una piccola appendice. Anche se mi rendo conto che si entra nel campo minato dei personalismi culinari. Mi correggo, anzi, si parla ad un certo punto di fondi di cottura, e se ne danno quantità e modi, ma sono dovuto andare a ripercorrere tutto il libro per trovarne traccia. A pagina 281 poi, l’autore, ripeto americano, fa un panegirico sugli impegni lavorativi dei francesi, infarcendo in 5 righe una sequela di banalità e luoghi comuni. Poteva esimersi. Infine, un dubbio di traduzione. A pagina 262 si deve usare il passato remoto del verbo evolvere, che è irregolare, si sa. Ma perché scegliere il quasi ignoto “evolvé” (usato secondo la Crusca solo nel 5% delle scritture in italiano) piuttosto che il noto e più usato “evolse” (usato il 65%)? Ai puristi l’ardua risposta.
Bee Wilson “In punta di forchetta” Corriere della Sera Cucina 12 euro 7,90
[A: 01/05/2015– I: 12/06/2017 – T: 20/06/2017] - &&& e ½
[tit. or.: Consider the Fork; ling. or.: inglese; pagine: 381; anno 2012]
Finalmente un libro di questa collana che soddisfa le mie esigenze. Anche se non c’è una ricetta che è una. Ma c’è una panoramica, esauriente, coinvolgente, stimolante, su tutti gli oggetti di cucina, nonché sulla cucina stessa. Facendoci capire come la cucina ed i suoi utensili si adeguano al mangiare e viceversa. E che l’evoluzione delle utensilerie (e con questo termine indico tutto, dalle pentole, alle posate, ai frigoriferi) è funzionale e determinante per l’evoluzione del gusto e del mangiare. Un matrimonio che, magari non sempre è coronato dall’amore, ma da elementi che si modificano a vicenda interagendo tra loro, creando alchimie sempre nuove. Intanto, si nota sin dalle prime pagine, che Bee Wilson è, anche, una giornalista. Che il suo scrivere è veloce ed efficace, come un articolo di giornale. Basta già l’attacco, con la lode al cucchiaio di legno ed al suo utilizzo in cucina sin dall’alba del cucinare stesso. Tanto che ve ne riporto il nucleo principale: “Questo utensile non sembra particolarmente sofisticato – in passato era il premio di consolazione dato agli ultimi classificati – ma ha la scienza dalla sua parte. Il legno non è abrasivo e dunque è delicato sui tegami: potete raschiare senza aver paura di rigare la superficie. Non è reattivo: non dovete temere che lasci un gusto metallico o che si corroda a contatto con gli agrumi e con i pomodori. È anche un cattivo conduttore di calore, il che spiega perché potete mescolare la zuppa bollente senza scottarvi le dita. Al di là della funzionalità, tuttavia, cuciniamo con i cucchiai di legno perché l’abbiamo sempre fatto”. Ma il cucchiaio è solo la punta dell’iceberg di cucina che la Wilson ci propone. Che ben presto si passa a parlare di pentole e padelle, di coltelli, del fuoco e del ghiaccio. Ma anche e soprattutto di elementi a volte presi sotto gamba ma fondamentali e fondanti di una cucina ben messa: le dosi da utilizzare e come calcolarle (ricordo sempre il mio sgomento davanti alle ricette che proponevano l’uso di ingredienti q.b. – quanto basta; ma quanto basta?), delle macine per sminuzzare, di come e cosa deve comporre una cucina funzionale e funzionante. L’utilizzo sapiente, e giornalistico, di memorie storiche per arrivare alla conclusione parlando degli oggetti ora quotidianamente utilizzati, permette anche all’autrice di farci capire che il nostro modo, attuale ed occidentale di cucinare, funziona perché gli ingredienti, così amalgamati, si adattano al nostro gusto (e viceversa). Cuocere il riso a basso calore e la pasta ad alto, serve a non destabilizzare le componenti alimentari. E pur tuttavia ci sono altri modi di cucinare le stesse cose, altre cose da cucinare allo stesso modo, altri strumenti che possono intervenire per aiutarci in cucina (e nel mangiare). Una critica ed una analisi che io, da buon viaggiatore nel mondo, non posso che condividere in pieno. Come dimenticare gli spaghetti fritti delle mie puntate giapponesi. Dove pensavo ai noodle ripassati nel wok, fino a che non ho visto prendere degli spaghetti De Cecco, buttarli nella friggitrice e servirli cosparsi di sale come snack – aperitivo. Nella sua prospettiva storica evoluzionistica, Bee Wilson ci accompagna anche nelle “rivoluzioni” tecnologiche che hanno accompagnato le cucine di tutti i tempi. Dalla fondamentale e realmente rivoluzionaria scoperta del fuoco per cucinare il cibo all’uso del ghiaccio per conservarlo; dall’invenzione della ciotola multiuso (per cucinare e da usare come piatto) alla famosa batteria da cucina descritta già nel libro tramato e dedicato alla grande Julia Child. Per terminare, dopo la partenza con il cucchiaio di legno, alla storia della forchetta ed a quella dei coltelli. Gustose e gustate da me anche le puntate dedicate alle piccole rivoluzioni della tavola e di come siano state scatenate da grandi rivoluzioni politiche o, viceversa, su come i mutamenti del modo di nutrirsi siano la causa di avanzamenti impensabili. Infine, non posso che essere contento e soddisfatto se l’ultimo capitolo è dedicato alla mia bevanda principe, il caffè. Ed a come Bee Wilson, facendo un lungo giro a tutto tondo, arrivi alla conclusione da me praticata da anni: il miglior caffè dipende da una buona miscela e da una corretta moka. Grazie, Bialetti! Per finire e rendere omaggio trasversale all’autrice di questo a me caro scritto, vorrei citarvi un aneddoto dedicato agli spaghetti: il 1º aprile 1957 la BBC mandò in onda un falso documentario in cui si raccontava la raccolta primaverile degli spaghetti in Svizzera. All'epoca la pasta era quasi sconosciuta nel Regno Unito, tanto che molti telespettatori inglesi, non rendendosi conto che fosse un pesce d'aprile, credettero davvero che gli spaghetti crescessero sugli alberi e telefonarono alla BBC per chiedere informazioni su come poter coltivare questo "albero esotico" nel proprio giardino di casa. Il documentario si intitolava “Spaghetti Harvest”!
Giuseppina Torregrossa “La miscela segreta di casa Olivares” Mondadori euro 10,50 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 12/05/2015 – I: 27/07/2017 – T: 29/08/2017] - &&& +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 332; anno 2014]
Non meravigliatevi di vedere questo romanzo inserito nelle trame di cucina, benché non faccia parte della collana del Corriere. In realtà, si parla più e meglio di storie di cucina in questo libro che in buona parte della collana. Inoltre, avevo bisogno di un titolo per completare il quartetto. D’altra parte per chi segue i miei voli librari, si sarà accorto che i romanzi e gli scritti di Giuseppina Torregrossa hanno una grossa componente legata alla cucina, fin da quel primo che lessi (“Il conto delle minne”) passando per un titolo certamente evocativo (“Panza e prisenza”). Qui poi, l’intimo ambiente domestico non solo assurge a centro della vita della famiglia Olivares, prima e dopo i disastri della guerra, ma è anche il centro della bevanda adombrata dal titolo. Il caffè. E se si parla di caffè, come posso io non solo tirarmi indietro, ma anche non partire già con spirito positivo verso la lettura (e l’assaggio). Certo, alcune parti e descrizioni non sono proprio “mie” al cento per cento: io non metto zucchero nella nera bevanda, io mi ritrovo nell’ultima parte, quando si passa dalla “napoletana” alla “moka”, io lascio i fondi per la caffeomanzia solo bevendo “caffè alla turca” (cosa che non succede spesso, però). Ma quando si entra nella bottega di Roberto Olivares, quando si comincia ad odorare il profumo del caffè appena tostato, ecco che il vostro super-bevitore di caffè non si tira indietro, e sorbettando il nero nettare si appresta ad ascoltare la storia della famiglia palermitana. Con i maschi tutti con la R: papà Roberto, il maggiore Ruggero (come il grande normanno), lo studioso, quello che vuole farsi prete, che perde (quasi) la ragione durante i bombardamenti del ’43, e la ritrova grazie alla Provvidenza, i due mezzani, Raimondo e Rolando, che ad un certo punto scompaiono senza che se ne senta la mancanza. E con le donne, quelle del ramo materno, che si rivolgono ai fiori: nonna Ortensia, che accudisce la famiglia e la casa, mamma Viola, che legge i fondi e dona speranza al quartiere dei Quattro Mandamenti, e le figlie Genziana, l’eroina della storia, e Mimosa, tanto fragile che non sopravvivrà alla guerra ed agli stenti. Inciso, ricordo per i non palermitani che il quartiere suddetto è quello con la Kalsa, con la Vucciria, con Ballarò, con la chiesa della Martorana. E qui mi fermo se no diventa una guida turistica. La famiglia Olivares da sempre si occupa di caffè, dalla torrefazione alla vendita, laddove Roberto, con il suo fine naso, riesce ad elaborare una miscela impareggiabile, mescolando arabica e robusta. Altro inciso: vogliamo parlare di miscele di caffè? Perché come pianta, di caffè ne esistono in realtà solo tre: arabica (70%), robusta (28%) e liberica (2%). Quello che varia è la località di produzione e raccolta. Quindi andiamo dal Blue Mountain giamaicano (produzione in alta montagna) al Kopi Luwak indonesiano (raccolta con lo zibetto delle palme). Per i cultori segnalo che da tre anni il Kopi (venduto a 15$ la tazza) è stato soppiantato dal Black Ivory thailandese (venduto a 40$ la tazza, ma non vi dico perché). Ma torniamo al libro ora. Vediamo la famiglia ad inizio guerra nel ’40, con i figli ancora piccoli, con la capacità di Viola di fare consolazione alla gente del quartiere leggendo i fondi, con l’olfatto di Roberto che crea miscele sopraffine. Con Genziana che cresce e matura, ma solo nel corpo, che per ora anela solo verso Medoro. Tuttavia la guerra è una grande falciatrice. Prima fa sparire il caffè, e la gente si accontenta di bere di tutto, anche la cicoria. Poi muore Mimosa. Poi vanno chissà dove per il mondo gli altri due maschi. Ed alla fine, nell’ultimo giorno di guerra, le bombe distruggono gran parte del mondo Olivares. Roberto, Viola e Ortensia periscono nel crollo della chiesa. Ruggero perde la ragione. Rimane solo Genziana, diciasettenne senza guida. Che prende in casa l’orfana Provvidenza. Che tenta senza successo di seguire il filo lasciato da Viola. Che cerca di fermare Medoro, diventato comunista e che andrà a fare carriera a Roma. Sarà il caffè a salvarla, quando due avvenimenti si congiungeranno: la conoscenza e la frequentazione con l’energica Lalla, che viene da Parma, che non ha i legacci della gente di quartiere, e con la sua energia libera le prime potenzialità della nostra eroina. Il ritrovamento, in seguito, dei diari del padre, dove Genziana apprende i segreti delle miscele, dove finalmente torna alla bottega del caffè che farà rifiorire proprio con le sue invenzioni di mescole tra arabica e robusta. Ed alla fine, quando dalla napoletana si passa alla moka, in quel di Palermo ritorna anche Medoro. Ci sarà un lieto fine? A voi la lettura e le scoperte. Di un libro che tocca con lievità dieci anni di vita palermitana, dall’entrata in guerra allo scoppio della “buona economia” degli anni cinquanta, passando per il referendum del ’46 e le mani democristiane sull’isola. Non si parla (se non per toccata e fuga) di mafia. Non si parla (peccato) della strage di Portella della Ginestra. Rimangono gli uomini e soprattutto le donne del quotidiano al centro della vita di ogni giorno. Genziana, Provvidenza (adesso capite il maiuscolo del rapporto con Ruggero), Alivella, Lalla e tutte le lavoranti della “putia degli Olivares”. Una lettura veloce, con qualche bello spunto social-personale, anche se sempre con la leggerezza che contraddistingue gli scritti di Giuseppina.
“Non c’è caffè senza amore.” (109)
Anthony Bourdain “Kitchen confidential” Corriere della Sera Cucina 18 euro 7,90
[A: 12/06/2015– I: 30/09/2017 – T: 10/10/2017] - &&& 
[tit. or.: Kitchen confidential; ling. or.: inglese; pagine: 362; anno 2000]
Eccoci finalmente anche all’ultimo libro della serie dedicata alle storie di cucina. Devo dire che finiamo in salita rispetto alla media delle ultime letture culinarie. Non è un libro indimenticabile, non è un autore che si legge facilmente, tuttavia si vede che c’è del fuoco dentro (battuta pessima), c’è passione in quello che fa mister Bourdain, anche se non è tutto oro quello che brilla nella sua mano. Con una facile ed ultima battura direi che piuttosto che oro è Argento (ah, ah, ah, Asia). Se fossi un bravo tramatore, uno che incuriosisce i suoi lettori, approfitterei dei quest’ultimo libro per fare un excursus tra libri, cucina e film. Sarebbe facile parlare non so di “Mangiare, bere, uomo, donna” (con la cucina cinese a Taipei), o de “Il pranzo di Babette” (cucina francese in salsa danese), o, ma solo per i cinefili, “Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante”, dove il sempre complicato Greenaway ci mostra il criminale Albert Spica che va a cena, ogni sera, con la moglie Georgina e i suoi scagnozzi, nel ristorante londinese “Le Hollandais”, di cui è comproprietario insieme allo chef francese Richard… Per non parlare dei miei libri in genere giallo-noir, con Pepe Carvalho che brucia i libri mentre prepara manicaretti, con Fritz di Nero Wolfe che strabilia la cucina mentre il capo coltiva orchidea, per finire con le abbuffate di mare di Salvo Montalbano. Ma qui non abbiamo contaminazioni, non abbiamo intenti morali. Il pessimo individuo che diventa un ottimo cuoco, ci narra quello che succede nelle grandi cucine, con uno sguardo a volte brutale, ma decisamente sincero. Il libro è diviso in sei portate (antipasto, primo, secondo, contorno, dessert e caffè) e segue la biografia di Anthony stesso, dall’incanto della prima ostrica gustata a nove anni (che gli fa nascere l’amore prima per il cibo e poi per la cucina) fino all’affermarsi come cuoco, anzi come “chef” di locali prestigiosi come la “Brasserie Les Halles” di Manhattan. Dopo che ci confessa la sua scarsa voglia di studiare libri in scuola più o meno serie, la sua frequentazione di ambienti emarginati, il ricorso a tutta una serie di droghe e di alcolici, vediamo il futuro cuoco evolversi da zero a cento. Negli anni Settanta fa il lavapiatti nel villaggio di Dreadnought, in un ristorante palafittato sulla spiaggia, con orde di turisti insaziabili e cuochi che sembrano uscire dalla penna di Stevenson: jeans, collane, spinelli, e sesso a tutto spiano. Prendendo mentalmente spunto da quel capolavoro di noir uscito dalla penna di James Ellroy, “L.A. confidential”, da dove esce fuori un ritratto impietoso della città californiana, Bourdain ci fornisce il “suo” ritratto impietoso del posto dove ha deciso di vivere. Una cucina dove vivono e si affrontano “una banda di degenerati, drogati, profughi, teppisti ubriachi, ladruncoli, sgualdrine e psicopatici”. La cucina diventa una prigione con la sua rigida disciplina, dove tutti devono danzare piuttosto che muoversi, girando al volo tra fornelli e piatti, dove la capacità di lavorare in squadra è veramente l’unica cosa che conte. Quando passa, grado dopo grado, da lavare a tagliare a cucinare a comandare, Bourdain ringrazia i mentori che lo hanno “ridotto” così (uso le virgolette perché sembra sempre che faccia le cose obtorto collo, quando invece è lui che scegli il suo mestiere) e capisce alcune regole fondamentali, che in maniera ferrea fare adottare e subire ai suoi sottoposti: affidabilità, puntualità, saper stare in gruppo, sono dei must. Ma mentre si lavoro tutto ciò è inderogabile, quando si stacca non ci sono più regole. Vediamo Bourdain stesso, ma anche i suoi amici, le persone che lo seguono ciecamente nelle sue imprese culinarie, una volta lontano dai fornelli fare tutto ciò che una persona normale farebbe per esser incarcerato ed avere la chiave buttata lontano (se uno spinello è lecito, strafarsi di eroina lo è meno, e così via quasi degenerando). Ovviamente Bourdain, che non è sicuramente e solamente uno “fuori di testa”, dissemina le sue pagine anche di piccoli consigli utili a noi non addetti ai fornelli: come non essere avvelenati nei ristoranti, come scegliere in un menù complesso, cosa fare dei coltelli da cucina, le pietanze da non ordinare, i piatti del girono da rifiutare, i trucchi dei cuochi per sbolognare gli avanzi. Forse non diventeremo dei cuochi, ma sapremo perché non bisogna ordinare pesce il lunedì. Ma noi, con Anthony, siamo fondamentalmente d’accordo che il nostro corpo merita tutti i divertimenti alimentari che ci si potrà concedere (ed io sono il primo a non disdegnare il ceviche a Lima, i granchi nel Maine e le bistecche di dromedario nel deserto libico). E chiudiamo questo libro, e queste avventure culinarie, mirando al prossimo pasto, anche poco igienico, cui andremo incontro. A presto, felafel israeliano!
Riprendiamo anche l’andamento regolare e, con una settimana di ritardo, ci dedichiamo alla cura di chi accumula troppo lavoro su di sé, e vedremo come.
Il resto è storia nota, con la mamma che, seppur con enorme lentezza, sembra a poco a poco migliorare, anche se il percorso è ancora lungo. Con i viaggi che si avvicinano all’orizzonte ed a cui dedichiamo sempre il consueto spazio fisico e mentale. Con tutte le persone che sostengo e mi sostengono. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

NOVEMBRE 2017
Mi sembra un libro consono al momento attuale, in cui le attività mammo-mediche mi assorbano ma non posso lasciare nulla indietro.

OCCUPATI, ESSERE TROPPO

John Buchan                  “I trentanove scalini”
Avete un’azienda da mandare avanti, una libreria da montare, una cena per venti da preparare e il vostro migliore amico è in ospedale. Quindi siete troppo occupati per leggere questa nostra ricetta - per non parlare del romanzo che vi stiamo prescrivendo. Entrate comunque, solo per un attimo, nella vita di Richard Hannay, e potreste trovare un antidoto.
Hannay, all’inizio del romanzo di Buchan, è in cattive acque. Appena tornato dalla guerra in Rhodesia, per fortuna intatto, ha deciso di concedere al suo vecchio paese un altro giorno per dimostrare che non è «scialbo come una bibita gassata rimasta sotto il sole». Altrimenti, tornerà nel Veld. Poi, con una gioia che non lo mette certo in buona luce, trova un cadavere nella propria stanza. Non è morto, o almeno non nel senso convenzionale del termine; l’uomo racconta ad Hannay una storia molto avvincente, dicendogli che in realtà lui non si trova lì, ma in un altro appartamento dello stesso edificio, sdraiato sul letto, in pigiama, con la mascella fatta saltare da un colpo di pistola.
Da quel momento, e per i successivi nove, brevi e scattanti capitoli di questo romanzo dal ritmo fenomenale, Hannay diventa un fuggitivo. Capiterà anche a voi – fuggirete dall’infinito elenco delle cose che dovete fare. La sua fuga dall’uomo sinistro con gli occhi socchiusi sarà così avvincente che dovrete trovare il modo per eludere le commissioni e trovare un momento per sedervi e leggere. Probabilmente siete bravissimi nel multitasking, e in questo caso leggetelo mentre correte da una riunione all’altra. Anche Hannay ci riesce. Decodifica un messaggio di importanza vitale sul treno per la Scozia, e tutto mentre finge di essere un contadino che parla con un accento pesantissimo. Partecipa a una riunione segreta del governo britannico e scopre, tra i presenti, qual è la spia tedesca. Infine, grazie all’intuito, riesce a debellare l’infame «Pietra nera», una cricca di spie. Dopo avere trascorso ventuno giorni di fila a sfuggire ai migliori sicari internazionali, Hannay salva la giornata – e il mondo.
È improbabile, comunque, che il vostro mondo finisca se non sbrigate tutte le commissioni. Questo romanzo vi spingerà, anzi, a domandarvi se avete davvero preso troppi impegni. Sicuramente potevate inserire un po’ di crittografia, o l’imitazione di un contadino. Proprio non ce la fate a salvare anche il mondo? Finché non vi sarete imbattuti in Hannay, non avrete la più vaga idea di cos’è una vita frenetica.

Bugiardino

Anche se in originale, il libro l’ho letto (ed ho visto il magnifico film di Hitchcock, “Il club dei 39”). Ne lessi ormai quasi due anni or sono, e come vedete, il giudizio di allora è in completo allineamento con l’analisi delle libropeute cui sono ormai affezionato.
John Buchan “The thirty-nine steps” Oxford s.p.
[trama pubblicata il 7 febbraio 2016]
Avevo messo questo libro tra i ricercabili, per gli accenni libropeutici e per un vago ricordo del film di Hitchcock. Vago, che pensavo fosse un film giallo, ed invece era d’azione. E quanta. Trovo poi il libro non in una biblioteca, ma bensì negli scatoloni del trasloco della mia ampia e pur tuttavia sparsa collezione di libri duranti i grandi lavori estivi di quest’anno che stanno portando a traslochi e ricollocamenti di nipoti in quel di Prati. Fatta questa premessa, il libro era presente in originale, e, girando per le strade americane, mi è sembrato un giusto omaggio all’inglese (o all’americano). Stranezza poi scoprire che John Buchan, I° barone di Tweedsmuir è in realtà scozzese. Che, come dice il titolo appena riportato, è stato un Lord inglese. Non solo, ma questo traspare sicuramente dal testo, ha avuto una attiva vita politica, tanto da essere nominato nel 1935 Governatore Generale del Canada (cioè il facente funzione del re inglese quando questo non è presente nel territorio canadese, cioè per il 90% del tempo). E che in Canada muore accidentalmente, nel febbraio del 1940, cadendo dalle scale a seguito di un piccolo ictus. All’ictus sarebbe sopravvissuto, ma nella caduta batte ripetutamente la testa, e dopo 5 giorni muore. Coincidenza strana, dal settembre precedente, cioè dall’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe naziste, Buchan stava lavorando febbrilmente per un tentativo di soluzione della crisi, essendo un convinto pacifista, dopo aver visto cosa successe durante la Prima Guerra Mondiale. Il romanzo è di una complicazione incredibile, e sembra un prototipo di quelli che saranno le avventure di James Bond, solo con meno tecnologia. E con un protagonista capitato per caso negli avvenimenti, ma che vi si getta a capofitto come se fossimo nel film “Tutto in una notte”. Siamo nel mese di maggio del 1914; la guerra è alle porte in Europa, Richard Hannay il protagonista e narratore, scozzese, torna nella sua nuova casa, un appartamento a Londra, dopo una lunga permanenza in Rhodesia. Una notte, uno suo vicino di casa, l'americano Frank Scudder, lo ferma mentre sta tornando a casa e lo convince a farsi invitare in casa. Una volta entrato gli racconta una strana storia su un complotto ai danni del primo ministro greco, Karolidis che secondo Scudder, verrà ucciso di lì a tre settimane, il 15 giugno, durante una riunione che si terrà a Londra. Scudder gli racconta anche che, per poter sfuggire ai suoi nemici, ha portato nel suo appartamento un cadavere che ha sfigurato per fare in modo che possa esser scambiato per lui. Hannay nasconde Scudder nel proprio appartamento, ma quattro giorni dopo Hannay torna a casa e trova Scudder (quello vero) morto con un coltello nel cuore. Hannay teme che gli assassini verranno a cercarlo, ma non può chiedere aiuto alla polizia perché è lui il più sospettabile dei due omicidi. Inoltre, si sente in dovere di proseguire l’opera di Scudder e salvare Karolidis. La mattina successiva Richard trova, per puro caso, il taccuino di Scudder, e si prepara a sparire dalla circolazione: per cercare di farlo senza lasciare tracce, convince il lattaio con una scusa a prestargli la sua divisa da lavoro (e spesso si travestirà o convincerà qualcuno a nasconderlo). Nonostante lo stratagemma si sente osservato, ma riesce ad arrivare in Scozia, dove la mattina seguente legge sul giornale che la polizia lo sta cercando. Fugge di nuovo, ma è individuato e pur tuttavia riesce a fuggire riparandosi in una locanda per la notte. Inventa una storia per il locandiere che si convince ad aiutarlo. Durante la permanenza presso la locanda, Hannay decritta il cifrario utilizzato nell’agenda dell’americano. Il giorno dopo, due uomini arrivano alla locanda alla sua ricerca, ma l'oste riesce ad ingannarli, consentendo ad Hannay di rubare la loro auto e scappare. Sulla sua strada, Hannay riflette su ciò che ha appreso dagli appunti di Scudder. Il vero mandante dell'omicidio è la Germania: gli uomini che hanno ucciso Scudder, infatti, appartengono a un'organizzazione chiamata "Pietra Nera", un gruppo di spie tedesche infiltrate in Inghilterra con il preciso scopo di raccogliere segreti militari e di far scoppiare la guerra. Pur avendo mezzi (automobili ed anche un aereo) e uomini in abbondanza, sono un po’ ingenui e, benché varie volte lo scoprano, Richard, con moltissima fortuna e un pizzico di astuzia, riesce sempre a fuggire. Nell’ultimo inseguimento però, onde evitare una macchina va a sbattere contro un albero. Ma l'altro guidatore gli offre un passaggio: è Sir Harry, un onesto politico locale, che, scoperte le esperienze di Hannay in Sud Africa, ne diventa amico e scrive una lettera di presentazione per mettere in contatto Hannay con una persona fidata al Ministero degli Esteri. Poco dopo, inseguito ancora dalla polizia, finisce per rifugiarsi nel posto peggiore: un casolare occupato da un uomo anziano. Purtroppo, l'uomo si rivela essere uno dei nemici, e con i suoi complici si blocca Hannay nella cantina. Per sua fortuna, la stanza in cui Hannay è rinchiuso è piena di materiali per fabbricare bombe, che egli usa per uscire dalla casa, pur tuttavia ferendosi. Dopo alcuni giorni per rimettersi dalle ferite, Hannay riesce a tornare a Londra, dove finalmente incontra Sir Walter, il conoscente di Sir Henry. Mentre discutono gli appunti di Scudder, Sir Walter riceve una telefonata che lo avverte dell’assassinio di Karolidis. Sir Walter svela ad Hannay alcuni segreti militari prima di lasciarlo tornare a casa. Ma Hannay non sa tirarsene fuori, e, preso da una improvvisa idea, torna di nuovo a casa di Sir Walter, dove è in corso una riunione ad alto livello. Quando un Ammiraglio della Marina lascia la riunione, Hannay lo riconosce come uno dei suoi ex inseguitori in Scozia. Hannay avverte Sir Walter e gli altri funzionari che l'uomo è un impostore e rivela il motivo del suo ritorno: la frase "i trentanove scalini" potrebbe riferirsi al punto di sbarco in Inghilterra, da cui la spia è in procinto di salpare. Per tutta la notte, Hannay e capi militari inglesi cercano di capire il significato della frase misteriosa, ipotizzando al fine che sia una città costiera nel Kent. Dove trovano in effetti una scogliera che con trentanove scalini scende in mare. Ed in mare aperto vedono uno yacht. Fingendosi pescatori, alcuni poliziotti visitano lo yacht e scoprono che almeno uno dei membri dell'equipaggio sembra essere tedesco. Le altre persone ospiti della barca sono a terra impegnate in una partita di tennis, e sembrano invece essere inglesi. Tuttavia corrispondono alla descrizione fattagli da Scudder (un uomo senza una falange ad un dito). Hannay, da solo, li affronta e dopo una lotta, due degli uomini vengono catturati mentre il terzo cerca di fuggire verso lo yacht ma viene anche lui arrestato dalla polizia. Il complotto è sventato. Il Regno Unito recupera le carte con i segreti militari. Poche settimane dopo, l'attentato di Sarajevo farà comunque scoppiare la prima guerra mondiale. Il tutto in meno di cento pagine. Tanto che alla fine della lettura viene voglia di stendersi in un prato e rifiatare. Come diceva un oscuro spettatore ad un film similare, caro Richard guadagnerai due soldi, ma fai una vita… Comunque è stata una lettura divertente, anche se non eccelsa. Come divertente fu il film del grande maestro, ancora nel suo periodo inglese, e poco dopo il successo della prima versione de “L’uomo che sapeva troppo”.

Conclusioni

Assolutamente, completamente, entusiasticamente d’accordo. Tanto che mi è venuta l’ansia al solo rileggerne la mia trama. Il libro di Buchan è un antidoto potente per chi pensa di poter aggiungere qualche attività alle migliaia che già compie quotidianamente. Rifiatate, gente. Stendevi su di un prato, davanti ad un camino, in un bel divano comodo, prendete un libro in mano, e dimenticatevi del resto.

domenica 12 novembre 2017

Per fortuna ci sono i classici - 12 novembre 2017

In una settimana in cui avrei voluto scrivere di più, i miei fedeli lettori avranno comprensione del momento di difficoltà familiare che si attraversa. Certo mamma migliora, ma la testa è occupata da tanti pensieri. E da queste letture che si collocano ai livelli più bassi degli ultimi anni. Un inutile Bisotti, uno scarso De Giovanni, un poco coinvolgente Glattauer. Per fortuna che Hemingway mi salva da una settimana in minore.
Maurizio De Giovanni “I guardiani” Rizzoli s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 07/05/2017 – I: 11/05/2017 – T: 13/05/2017] - &
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 362; anno 2017]
Non credo ci siano molte alternative: o Maurizio ha prestato il suo nome a qualche suo amico/amica del cuore che aveva scritto un libro impubblicabile o si è fatto una super canna senza riuscire a svegliarsi, così che ha deciso di buttare giù delle pagine, tanto per riempire il tempo. O forse c’è una spiegazione più sottile: avendo letto e compreso la lezione di Borges e della sua Biblioteca, ha deciso di prendervi in prestito dei volumi a caso, e di copiarne alcune pagine. Insomma, dire che non mi è piaciuto è fare un complimento all’editore. Ho trovato: la trama sconclusionata, i personaggi improbabili, i passaggi “esoterici” senza capo né coda, il finale non solo inutile, ma che lascia uno spiraglio ad una possibile seconda puntata. Terrificante prospettiva! Tuttavia, benché ci siano appunto personaggi improbabili, la parte “attuale” del libro di De Giovanni ha il solito tono accattivante dei suoi scritti migliori. C’è questo quarantenne o poco più professore di storia delle religioni, Marco Di Giacomo (scusate la parentesi immediata, avete certo di già notato che il protagonista ha per iniziali MDG…), che insegue una sua idea sui miti antichi e sul loro riproporsi e riprodursi nei miti e nelle religioni successive. C’è il suo fido aiutante Brazo. C’è la nipote di Marco, Lisi, nata quando la madre viveva in un ashram indiano, e dotata sicuramente di grandi capacità di collegamento, nonché della stessa passione dello zio. E c’è la giornalista tedesca Ingrid, che ha letto di Marco, che vuole andare più a fondo nelle scarse notizie delle ricerche del professore, e che sarà coinvolta sino al collo in tutta la storia (perché non è un caso che si affezioni a Lisi, ma che soprattutto vada presto a letto con Marco, anche se le parti erotico-sessuali in De Giovanni sono spesso accennate di passaggio, ed anche qui si capisce e non si capisce; ma noi che siamo maliziosi ne siamo sicuri). Questo manipolo di intrepidi ricercatori comincia a fare connessioni (cioè Lisi, ne fa, usando Internet, come lo zio non sa o non vuole fare), ma in particolare si focalizza su Napoli, sul suo sottosuolo e su tutti i misteri di questa “città nuova”, che sicuramente ha un grande passato, non solo dietro le spalle, ma anche sotto le strade. Ricordo a tutti coloro che non lo hanno ancora fatto, di farsi un giro nella “Napoli sotterranea”, dove vedrete cose mirabili in un labirinto inaspettato di cunicoli (come, analogamente, anche se più prosaicamente, fate un giro sotto Parigi, tra fogne, pulitissime, e catacombe militari). Per poi uscire all’aperto in Piazza San Domenico, dove si andrà a gustare una fetta di pastiera da Scaturchio, per poi risalire verso il palazzo del marchese Sansevero, onde andare ad ammirare il mirabile “Cristo velato” di Giuseppe Sanmartino. Ricerche che porteranno: all’innervosirsi di qualcuno che li guarda perché sa qualcosa (che noi non sappiamo, né sapremo mai, neanche alla fine del libro), nervosismo che porta alla scrittura e pubblicazione di un falso articolo su Marco ed al suo conseguente allontanamento dall’Università; articolo che, essendo falsamente firmato da Ingrid, porta ad una (presto ricucita) rottura tra i nostri due eroi; alla scomparsa verso il Nord di Lisi, sulle tracce di fantomatici amici del Web, che forse sono cattivi (o forse sono sciocchi, o entrambi). Ma non si capisce bene cosa cerchino Marco & C., se non il fatto che ci siano almeno 12 luoghi sacri in quel di Napoli, che devono essere preservati sacri, a costo di uccidere intrusi ed altri millantatori. Ma chi li deve preservare così? Chi sono questi “Guardiani”, del titolo e della storia, che ogni tanto compaiono sotto la guida di un roboante capo, quasi fosse un Dio? Chi sono i tecnologici forse svizzeri che forse rapiscono Lisi e che forse vogliono l’elisir di lunga vita dei Guardiani? Perché i Guardiani sostengono che in certe condizioni, un allineamento dei 12 luoghi provoca… Ma vallo a capire! Come ci proviamo a capire cosa c’entri una persona sulla sedia a rotelle che si aggira con una badante guardando il cielo ed il mare di Napoli. E perché dei monaci tibetani compaiono in Cile? Anzi, non solo perché, ma anche altre domande legate a questa. Solo che si parla dei monaci in un paio di righe e poi scompaiono per tutto il resto del libro. Mentre compaiono, ogni tanto, dei capitoli e delle frasi scritte in corsivo. Assolutamente decontestualizzate (almeno nella prima tre quarti del libro). E poi con accenni vaghi. Ma non si capisce chi sia il bel tomo che pontifica. Né, appunto, come detto e ripetuto, se i buoni siano i Guardiani, la paraplegica malinconica, gli svizzeri tecnologici. O forse sono tutti cattivi. Anche perché, alcuni Guardiani sembrano avere centinaia e centinaia di anni. Tuttavia se De Giovanni ci chiede la sospensione del giudizio di realtà, per ammannirci una storia, io mi aspetto, che, almeno nella logica dello scritto, una logica ci sia. Qui, decisamente, assolutamente, nulla. Finisco con una nota super-positiva: questo libro è un regalo di Ale, e la bruttezza del libro non intacca nulla il gradimento, massimo, che provo nel ricevere un libro in regalo. Un brutto libro, è comunque un libro, che io cerco, con le poche forze che ho, di leggere e di giudicare imparzialmente. Cioè basandomi solo sullo scritto, sulle sensazioni che mi dà l’autore e le sue parole. E sarò sempre grato a chi mi fa un omaggio del genere, che, almeno, mi consente ogni tanto di sfogare tutta la mia cattiveria.
Massimo Bisotti “Il quadro mai dipinto” Mondadori euro 13,50
[A: 02/05/2017 – I: 30/07/2017 – T: 02/08/2017] - & +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 219; anno 2014]
Come dissi qualche trama fa, oltre alle letture “storiche” che programmo per lunghi periodi, al fine di trovare un po’ di continuità sull’immediato, ho deciso di aprire una piccola sezione dedicata alle “attualità”. Per non perdersi nel mare magnum delle uscite, il primo criterio che ho adottato è rivolgermi a quei libri che, secondo un sito librario indipendente, mensilmente risultano i libri più venduti. Questo non per giustificare, ma per spiegare la lettura di questo devo dire assai inutile libro. Che risulta tra i tascabili più venduti in Italia nel mese di gennaio. Io mi domando perché! La scrittura è un concentrato di romanticismo lezioso e poco originale. Più che scene ed azioni (poche) ci sono dialoghi (troppi) e che spesso si slegano tra loro tanto da sembrare solipsismi para-filosofici. Alla fine sembra quasi di leggere un insieme di citazioni e aforismi (tipo i due che riporto e che, soli, mi hanno smosso mezzo neurone) che vanno bene in un libro di Montaigne ma che qui rendono soltanto pesante e noiosa la lettura. Tra l’altro i personaggi si muovono spesso in situazioni tra l’onirico ed il surreale, senza che questo straniamento faccia partecipe il lettore delle loro vicende. Ma come faremo ad entusiasmarci alla vicenda del pittore Patrick, che non termina nessun quadro perché pensa di dover dipingere sempre una scena successiva. Mi fermo un attimo: sarebbe una sindrome di una bellezza immensa, se suscitasse quanto a me sollecitano i migliori libri che ho letto. Quando chiudo pagine che mi restano nel cuore, per un po’ di tempo sto lì a pensare cosa faranno “dopo” i vari personaggi. E se questo è il bello di uno scrittore, sarebbe fantastica la capacità di un pittore di suscitare simili ansie a chi guarda i suoi quadri. Torniamo allo scritto. Patrick è solo colpito dall’ansia della perfettibilità. Cosa che non si riesce mai ad avere, in nessuno. Ed è un’ansia che porta il soggetto a non produrre nulla. Né sul piano artistico, né su quello personale. Per questo Patrick abbandona Roma, la scuola dove insegna, per andare in una città magica come Venezia. Prima di arrivarci, però, due avvenimenti ne segnano il cammino: vuole vedere il famoso quadro che ha lasciato non finito e trova che la donna che doveva essere sulla tela non c’è. Poi sull’aereo, causa turbolenze, sbatte la testa, arrivando a Venezia confuso. Sapendo solo di dover andare ad una certa pensione, la “Residenza Punto Feliz”. Dove trova una serie di personaggi talmente finti da sembrare proprio finti. Il padrone Miguel, suppostamente saggio e compenetrante la pensione di una splendida aurea new wave. Il figlio grande Vance, gondoliere reduce da una storia d’amore finita infelicemente. Il figlio piccolo Enrique, che spara sentenze come fosse un laureato in quattro o cinque facoltà, che se incontro un bimbo così, per prima cosa sparo ai genitori. Ovviamente a Venezia ritrova, casualmente, Raquel, la donna del quadro. E scopre, tra il qui ed il lì (cioè tra una massima, un racconto, un qualcosa che scritto sulla pagina poco incastra con il prima ed il poi) che sono tutti legati, che lui li conosceva tutti, aveva solo perso un po’ di memoria. Ma anche riconquistandola non si capisce né perché se ne era allontanato, né perché continui a frequentarli. Ricomincia allora a corteggiare Raquel, come se fosse una nuova storia d’amore. Certo, prima o poi ci sarà qualche agnizione, ma non si capisce perché Raquel lo abbia lasciato, né perché Patrick, solo avendo dato una botta in testa, ragioni più lucidamente. Con alcuni intarsi di un ridicolo fulminante. Patrick e Raquel vanno in Spagna, credo Ibiza, per vedere la madre di lei. Sorpresi da feste e piogge, si perdono, lui la cerca, non la trova, e disperato torna a Venezia, per poi sapere da lei che lo stava aspettando al bar di fronte a dove si erano persi. Pagine veramente inutili. Salti di scena, salti temporali, domande inutili ed inutili risposte. Uno stile che non convince e che mi fa di nuovo chiedere: come mai un tale inutile libro abbia fatto tante vendite? Mi dicono che tra Instagram e hashtag, le frasi del libro, decontestualizzate, girano in rete con successo. Forse ha un senso, ma messe qui una dopo l’altra, ci si continua a chiedere: ma perché si sono lasciati? Ma perché dovrebbero rimettersi insieme? In fondo, per tutto il libro, tutti i personaggi, in un modo o nell’altro, non fanno che parlare d’amore e dell’amore. Tuttavia, ho letto libri, da cui non si cavava magari una citazione, ma da cui il senso dell’amore si respirava ad ogni riga. Meglio fermarsi prima di continuare il massacro. Io non l’ho capito, questo benedetto autore. Se qualcuno me lo spiega mostrerò imperitura gratitudine. Per ora, permettetemi di sconsigliarlo a tutti.
“Molti spengono ogni luce per paura che prima o poi possa fulminarsi.” (75)
“Dalla mia vita ho imparato … che sentirsi soli stando con qualcuno è la vera solitudine e che da solo non mi sento solo mai.” (116)
Daniel Glattauer “Le ho mai raccontato del vento del Nord” Feltrinelli s.p. (regalo, forse, di Alessandra)
[A: 15/08/2017 – I: 15/08/2017 – T: 16/08/2017] - &&--
[tit. or.: Gut Gegen Nordwind; ling. or.: tedesco; pagine: 192; anno 2006]
Permettetemi di tornare su quel forse di poco sopra. cioè questo è un libro che qualcuno ha regalato ad Ale, che sostiene forse sia stato io. Cosa che nego nel modo più assoluto. E per convincermi e convincerla, le ho chiesto di prestarmelo/regalarmelo, così da leggerlo e capirne qualcosa. Perché ne avevo letto qua e là, tra librerie e lanci pubblicitari, come di un bel libro d’amore ai tempi della rete. Riprende cioè il tema classico di grandi romanzi (dalle amate “Lettere di Jacopo Ortis” alle poco sopportabili romanticherie di “Pamela”), quello dell’epistolario, risciacquandolo con Internet. Vediamo così svolgersi per quasi 200 pagine uno scambio, fitto ed a tratti ben costruito, di e-mail. Mi fermo un attimo, perché proprio sulle lettere avevo ipotizzato da adolescente di scrivere il “mio” romanzo. Di cui avevo già il titolo enigmatico “Amanti tra il mare e i monti, perplessi”, e di cui avevo pensato l’andamento: una serie di lettere unidirezionali, che tratteggiavano una storia, possibilmente d’amore (avevo 16 anni), e che facevano risaltare in controluce le altre lettere, le risposte, senza che queste fossero presenti. Ovviamente, dopo 50 anni, il progetto è ancora là, intoccato. Ma torniamo al nostro austriaco campione d’incassi. Il cui punto migliore, quello che poi mi ha avviato a leggerne, anche se poi prosegue con una discreta fatica e con qualche inutile ridondanza, è l’inizio. Emma Rothner, detta Emmi, trentaquatrenne con marito e figli (di lui), vuole disdire l’abbonamento alla rivista “Like”. Invia però le mail all’indirizzo “Leike” (c’è appunto una ‘e’ di troppo), che fa capo a Leonard Leike, detto Leo, trentasettenne tormentato affettivamente, alle prese con una relazione amorosa piuttosto complicata. La comicità dei primi scambi di mail è impagabile. Tra una battuta ed una lettera seria, Emma e Leo decidono di continuare a scriversi. E la capacità di Glattauer è di trovare nuovi elementi, nuovi modi per far sì che i due continuino a scriversi per circa un anno. Leo è un linguista, e dalle parole di Emmi capisce anche più di quanto sia realmente detto. E con le sue capacità di usare le parole, stana la fragile amica, le tira fuori dubbi sulla sua vita, sulla sua esistenza. Leo riesce a rispondere alle domande che Emmi non riesce a fare. Emmi dal canto suo sgretola il castello della solitudine di Leo, dei suoi amori finiti, della sua non voglia di affrontare la vita. Si fanno domande, si scrivono lunghe liste di cose da dire, da fare, da chiedere, da osservare. Liste che lei scrive in numeri e lui in lettere. E come due persone che fanno conoscenza, ma che non si conoscono ancora, cominciano con il darsi del “lei”. Ed in una delle prime liste di cose da dire o fare (lettera e testamento) Emmi gli scrive la fatidica frase del testo. Che poco ha da scambiare con il contesto, ma che rimane come esempio di tutto un modo di approcciarsi tra i due. Che ovviamente si innamorano letterariamente. Che ad un certo punto sentono il bisogno di superare lo scritto, e di sentire la voce, di vedersi. Assisteremo a giochi, sforzi, idee, immagini alla Bertolucci di incontri al buio. Vedendo anche come il di fuori di loro due, il resto del mondo oltre Leo ed Emmi, esiste, è presente, incide. La vita familiare di Emmi, ad esempio. La vita professionale di Leo, ad esempio. Non vi dirò se finisce con un happy end, né se riusciranno a vedersi, né se riusciranno a parlarsi. In fondo è una delle poche cose belle del libro. Ma è un libro che alla fine lascia insoddisfatti. Troppe possibilità che rimangono possibili. Troppe azioni inattive. Ben impostato, tanto che a volte si attende con impazienza le risposte di Emmi a alle domande di Leo e viceversa, rammaricandoci perché spesso queste risposte sono diverse da quelle che vorremmo. L’idea iniziale è buona. Il risultato finale non mi ha convinto. Come forse non ha convinto l’autore, che due anni dopo ne ha scritto il seguito, dal titolo “La settima onda”, che tuttavia non credo che leggerò. Anche perché, pur usando le mail, pur esistendo in rete, non è uno strumento che mi possa soggettivamente sostituire lo sguardo di chi ho di fronte e con cui vorrei parlare.
Ernest Hemingway “Addio alle armi” Mondadori euro 10,50 (in realtà, scontato a 8,90 euro)
[A: 04/05/2016 – I: 30/08/2017 – T: 03/09/2017] - &&&& --
[tit. or.: A Farewell to Arms; ling. or.: inglese; pagine: 320; anno 1929]
Eccoci ora ad un altro libro imperdibile, che tuttavia fino ad ora non avevo letto. Più che altro per una sorta di amore – odio che ho sempre provato per Hemingway. Ho amato le sue scritture fino a “Per chi suona la campana”, anche se non avevo letto questo. Ho faticato a ritrovarmi nei suoi libri tardi, e non sono mai entrato in sintonia con “Il vecchio e il mare” (di cui mi ritorna in mente solo il film con Spencer Tracy). Mi erano congeniali le sue prese di posizione contro la guerra, contro i totalitarismi. Non ho mai capito il suo machismo, il suo rapporto con le donne, il suo amore per le corride, per le armi. Devo dire che un grande passo verso di lui l’ho fatto lo scorso anno, quando, a Cuba, ho visitato la sua villa, ho visto il suo bagno pieno di libri, la vista da lontano sulla capitale e sul mare, la piscina, le tombe dei suoi cani. Poi, sotto la spinta delle terapie amorevoli per la felicità, si prende in mano questo libro. Che pur in una mia ambivalenza che cercherò di spiegare, mi ha fatto bene. Un bel libro, una bella scrittura, una storia interessante, magari per me più intensa e partecipata nella prima parte che nell’ultima. Ma soprattutto due grandi inni: uno contro la guerra ed uno per l’amore. Volendo essere estremi, poi, forse è un solo grande inno, unificato dalla passione. La storia, che anche chi non ha letto il libro ricorderà nel bel film di King Vidor con Rock Hudson, Jennifer Jones e Vittorio De Sica, è abbastanza semplice. L’americano Frederick Henry si arruola nell’esercito e con il grado di tenente viene a guidare ed organizzare i trasporti con le ambulanze sul fronte italo-austriaco. Lo vediamo in difficoltà con i pari grado militaristi, a parte lo scanzonato e disilluso tenente medico Rinaldi. Lo vediamo frequentare le infermiere che sono al fronte. Lo vediamo gravemente ferito trasportato in ospedale a Milano, dove ritrova l’infermiera Catherine. Con la quale aveva cominciato a flirtare al fronte e che ora, nelle lunghe giornate di malattia prima e di convalescenza poi, stringe in amoroso assedio. Fino a far sbocciare una tenera storia d’amore in guerra. Lo vediamo, dimesso, rispedito al fronte pochi giorni prima della disfatta di Caporetto. Cui viene coinvolto, e dove si ritira dal fronte in una delle più belle pagine di descrizione degli orrori della guerra, e delle follie di insani militaristi che burocraticamente mandano soldati al macello, per poi punirli se per l’appunto non vengono macellati. Pagine che mi hanno rimandato a quelle immagini di “Sentieri di gloria” di Kubrick con lo splendido Kirk Douglas anche lì nella parte di un inane lottatore contro le follie umane. Il nostro tenentino, per non essere fucilato come disertore, anche se lui aveva soltanto abbandonato una autoambulanza inguidabile nel fango, ed era ripiegato verso una linea difendibile, fugge nella notte. Raggiunge con fatica Milano dove si trova ancora Catherine. Quindi con lei, che gli ha appena detto di essere incinta, ripara in Svizzera, dove spera che gli arrivino presto buone notizie: la fine della guerra, la nascita del figlio, il matrimonio con Catherine. Queste sono le pagine, pur dolci, pur scritte con la solita maestria, che mi hanno lasciato meno segni sul cuore. Non c’è più la rabbia della prima parte, gli orrori della guerra giungono attutiti. O non giungono per nulla. Ci sono belle pagine d’amore. Ma non ci sorprendiamo che, alla fine, nulla finisce in modo positivo. Il bimbo, nonostante il cesareo, nasce morto. Catherine stessa muore di setticemia. Rimane solo lui, con l’ultimo saluto all’amata. Con le ultime parole che in pochi tratti ci danno il senso del mondo, e che scritte nel ’29 hanno una forza immutata nel tempo: “Dopo un po’ me ne andai e uscii dall’ospedale e ritornai a piedi in albergo.” Punto. Hemingway ha detto, capitoli prima, addio alle armi. Ora mestamente dice addio alla speranza. Perché la vita in tutte le sue forme è precaria. Per colpa dell’ottusità degli uomini e dell’insondabilità del fato. Oltre al bel libro, ed all’ottima traduzione di Fernanda Pivano, la stessa scrittrice, in poche e scarne pagine finali, ci dà una descrizione dell’autore e dell’opera che sono magistrali e che ho apprezzato moltissimo. Come mi piacerebbe poterne scrivere di simili. Che da un lato, la grande americanista ci comunica il suo amore per la letteratura americana e per questo libro di “papà” Hemingway. Dall’altro, con poche frasi, ce ne svela motivi e genesi. Hemingway aveva partecipato alla Prima Guerra Mondiale, dove venne anche lui ferito. Tanto che alcuni ne leggono gran parte come un’autobiografia. È invece una storia che nasce dal personale, ma che si fa universale. È vero, Hemingway partecipò alla prima guerra mondiale, dove amò delle infermiere (non una sola, che questa risulta essere il compendio di più donne, e di una sua personale idea di donna). Inoltre, mentre scriveva l’ultima parte, anche sua moglie stava finendo il tempo del parto. Anzi Pauline partorisce con un cesareo, rischiando la vita sua e del figlio Patrick. E mentre Ernest rivede la stesura del libro, gli arriva anche la notizia del suicidio del padre in seguito ai disastri del famoso venerdì nero del 1929. Non ci meravigliamo quindi che ne esca fuori un accorato appello alla vita che percorriamo come acrobati sul filo, il più delle volte cadendo rovinosamente. Certo, e per fortuna, rimangono le bellissime pagine contro la guerra, contro tutte le guerre. Speriamo di riuscire a portare a termine le nostre vite senza altri disastri, se non quelli a noi direttamente imputabili.
“Sai bene che non amo che te. Non dovrebbe importarti se qualcuno mi ha amata.” (112)
Ora, sarebbe dovuto comparire un allegato, qualche frase di libroterapie ed altre amenità, che, se leggete l’introduzione, capite bene non abbia avuto né tempo né modo di elaborare. So che ne sarò perdonato, sperando, sapendo che presto si potrà tornare nel solco amato delle amate cose. Si viaggia a scartamento ridotto questi giorni.