domenica 21 gennaio 2018

Simonide - 21 gennaio 2018

Non nel senso del poeta lirico greco del 500 aC ma nel senso di una settimana tutta dedicata a Gianni Simoni, ex magistrato e autore di alcune saga seriali di bella resa. O si dovrebbe dire “Simoneide”? Tra l’altro, questa quartina contiene un tentativo di allargare le letture, dato che avevo scoperto, leggendo qua e là, che uno degli episodi della serie maggiore di Miceli, quella di Petri & Miceli, era uscito solo su e-book, ho provato a leggerlo. Cioè, l’ho letto. Sarà il formato, sarà il contenuto, l’ho trovato distante sia dagli standard dell’autore, sia da una lettura passabile.
Gianni Simoni “Pesca con la mosca” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 0,81 euro)
[A: 15/02/2016– I: 05/09/2017 – T: 07/09/2017] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 205; anno 2012]
Ho quasi l’impressione che le storie di Petri e Miceli si stiano gradualmente rarefacendo. Coinvolgendo spesso i contorni umani, cui per altro Simoni non è mai stato alieno. Tanto che si parte in sordina, con il buon Petri alle prese con la pesca alla trota di cui nel titolo, in quel di Tavernole. Anzi di Tavernole sul Mella, il fiume in cui si addentra Petri. E dove trova il cadavere di una giovane donna. Noi già sappiamo, da alcune pagine precedenti, che Caterina si è uccisa. Ma perché? Inciso: Caterina lascia una lettera alla padrona di casa, di cui non si saprà più nulla anche se poteva contenere qualche indizio. Caterina doveva sposarsi con Enrico. Caterina era molto religiosa e non voleva rapporti prima del matrimonio. Caterina risulta incinta. Facile il gioco di Petri nello scovare nel bel pretino trentenne della località l’autore del misfatto. Che però non è punibile, ma solo esecrabile. Fatto sta che don Carrino viene prontamente allontanato dal posto. Tra una frase e l’altra (dovute alle solite uscite maldestre del Procuratore Martinelli) la storia si viene a sapere, ed Enrico afferma subito propositi di vendetta. Intanto la nostra squadra, ed in particolare l’ispettore Grazia Bruni (giù di corda per un litigio che sembra insanabile con Maccari), cercano chi sia questa Caterina che sembra essere sola al mondo. Non è vero, ha una famiglia, e quando entra nel quadro noi capiamo subito due cose: il padre non ci convince ed il fratello Claudio ha tutta l’aria di volere anche lui una vendetta. Ma noi seguiamo al solito tutto dalle stanze della Questura, dove arriva la segnalazione di lettere minatoria ad un altro prete, don Camboni. Poiché don Carrino è scomparso, sotto insistenza del Vescovado, e così la perpetua di don Camboni. La squadra di Miceli al completo si pone in assetto di guerra: si cerca la perpetua, si cerca il prete, anche perché Enrico scompare con una pistola 45 in mano. Mentre due poliziotti rintracciano Carrino, qualcuno lo uccide con una 6,35. Ma non è Enrico che sta bellamente al bar, con un alibi di ferro. Da tutta una serie di indizi, che dovrebbero avere anche Petri e Miceli, io qui comincio a puntare il dito su Claudio. Intanto si trova anche la perpetua che aveva lasciato don Camboni avendone scoperto l’indole pedofila, corroborata da cassette molto spinte. Anche qui, la squadra di Miceli non fa in tempo ad arrestare il prete che questo viene fatto fuori sempre con una 6,35. Poco dopo anche un terzo prete, anche lui aduso ad adescar fanciulli, viene freddato con la stessa pistola. Si vede che Simoni sta cercando di imbrogliare le carte perché non sembra esserci un filo conduttore tre gli omicidi (due pedofili ed uno sciupafemmine) se non che sono tutti preti. Indagando comunque tra le frequentazioni di don Camboni, Grazia Bruni si imbatte in un medico dalla faccia losca e con un figlio probabilmente del giro del prete, anche se pentito. In tutto ciò Petri è defilato, ogni tanto compare butta giù qualche idea che Miceli riprende, elabora ed attua. Ma poco si cava, se non la scoperta che una pistola 6,35 è stata acquistata da una donna. Già penso chi sia, ma i nostri poliziotti brancolano nel buio. La svolta avviene quando viene ucciso anche il medico, ed il figlio ha un crollo nervoso. A questo punto Petri suggerisce gli opportuni collegamenti, tra pedofilia e facoltà di medicina, riuscendo, ovviamente tramite la squadra di Miceli, a sventare un ultimo assassinio ed a ricostruire le fila di tutta la trama. Con qualche piccola sorpresa, ma neanche tanto eclatante. Quello che al solito riesce meglio è il racconto corale della vicenda. Le manie e le idee illuminanti di Petri, nonché l’adoperarsi, positivamente, a ricucire lo strappo tra Bruni e Maccari. L’andamento un po’ defilato di Miceli, che viene a sapere dell’avvicinarsi, inesorabile, del suo collocamento a riposo. L’atteggiamento volitivo di Grazia Bruni, che sta irrobustendo la sua posizione in Questura. E l’ammorbidimento di Martinelli, un tempo aduso solo a prendere lucciole per lanterne e ad osteggiare le attività di Petri, ma che alla fine sembra pronto ad una svolta rappacificatrice. Simoni ha qualche strale di attualità sulle vicende dei preti pedofili, anche senza, giustamente, affondare più di tanto, che non è questa la sede di tali discussioni. Un bel colpo di rimandi incrociati, che non può che solleticare le mie intricate trame mentali, è la scoperta di Grazia Bruni che la vicenda ricalca quella descritta nel libro “L’assassino ha lasciato la firma”, il primo giallo scritto nel 1956 dal maestro del “police procedural” Ed McBain. Una serie che da questo primo libro si estenderà per altri 53 episodi, tutti sotto l’ombrello dell’87 Distretto di Polizia. Se non li conoscete, leggetene alcuni che sono dei caposaldi del genere.
Gianni Simoni “Il ferro da stiro” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 04/10/2016– I: 11/09/2017 – T: 13/09/2017] - &&& --
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 286; anno 2012]
Continuo a ritenere gradevole la scrittura di Simoni, pur con qualche punta di vaghezza qua e là. Tuttavia ritengo che questo libro avrebbe avuto un mio più alto e personale successo se da un lato fosse stato concepito in modo diverso, dall’altro venisse collocato in strutture non ghettizzanti come a volte possono essere gli stereotipi del giallo italiano. In realtà, pur contenendo elementi polizieschi non è un giallo. Non avremo mai gli elementi per arrivare alla soluzione di un impalpabile mistero, se non ce li fornisse l’autore (e questo da una ben particolare connotazione allo scritto). Inoltre, ritengo che sia deontologicamente controproducente divagare e gironzolare sui personaggi fino quasi a pagina 120 (su 286) senza che ci sia nemmeno l’ipotesi di un inizio di “giallo”. Vogliamo parlare di romanzo d’atmosfera? Vogliamo dire che i personaggi mi sono discretamente simpatici, a prescindere? Vogliamo dire che questo è praticamente un romanzo di transizione, perché prevede il passaggio in pensione, dopo che il giudice Petri lo è già da un po’, anche del commissario Miceli? Certo, diciamolo, ma una volta ricordato tutto ciò, la resa di tensione e di ricerca di soluzioni non è materia di queste pagine. È solo materia di atmosfere, e di Brescia. Questa sì, che come città diventa un po’ il sottofondo della storia, e forse quella che ne riesce meglio. Con i suoi luoghi, il Castello, la Basilica, le passeggiate, i bar del centro, e quella Piazza della Loggia dove Petri si intristisce ogni volta che ci passa, e che a me rimanda a tempi strani di lotte e di grandi prese di posizione. Tempi in cui forse ero più assertivo e meno meditativo di ora. Ma che di certo non fanno parte di queste righe. Che tornano alle vicende dei diversi nuclei narranti. Petri e la moglie Anna. Miceli e la moglie Lucia. L’ispettore Grazia Bruni, il suo ruolo all’interno della squadra ed il suo rapporto con Maccari, collega-amante. Grazia Bruni è un po’ l’elemento di disturbo per il suo civettare con Petri, di cui è sicuramente innamorata intellettualmente. Cosa che fa ingelosire Anna, ed irrigidisce il rapporto sereno ma sanamente conflittuale tra lei e Petri. Non solo, ma il pensionamento di Miceli da spazio alla nomina di un successore che per le capacità dovrebbe essere proprio la Bruni, altro zeppetto che non rasserena né l’atmosfera in Questura né quella in casa Miceli. Per tutta la prima parte assistiamo quindi a questo gioco delle parti, ognuno alle prese con il quotidiano e con problemi diversi da quelli del giallo che dovrebbe fare da cornice al romanzo. Petri fuma, cerca di smettere, legge “Repubblica”, a volte anche dei libri, e battibecca con Anna. Miceli ha problemi con la salute (forse una prostatite, ovvia data l’età), cerca di fare il salutista, ma continua, fino all’ultimo giorno, il suo lavoro, con indefesso rigore. Un uomo da “zero compromessi”, cosa che mi fa piacere leggere. Come mi piace sottolineare con l’autore i momenti “politici” tra Petri e Miceli, nel giudicare negativamente tutto il periodo governativo del Cavaliere. Ad un certo punto, tutto questo battibeccare, si focalizza sul ferro da stiro di casa Petri che non funziona più. Si prova a ripararlo, ma nel frattempo il ferramenta fornisce loro un ferro usato, che però funziona a meraviglia. Peccato che abbia delle strane incrostazioni rossastre. Ruggine? Ovviamente no, perché la scientifica scopre subito trattarsi di sangue. Petri e Miceli, nell’ultima settimana di lavoro di quest’ultimo, prendono la palla al balzo. Da dove viene? Che storia nasconde? Miceli impiega i suoi uomini migliori per cercare a ritroso la storia del ferro. Venendo a scoprire un paio di situazione che lasciano pensare. Il ferro potrebbe venire da casa Piccini, un anziano che muore improvvisamente, con un nipote vicentino di un odioso sopraffino. Dove il nipote, morto lo zio, si sbarazza di tutte le cianfrusaglie del vecchio, compreso un ferro da stiro. Oppure da casa Nuzzo, una coppia male assortita, che ha avuto un brutto incidente automobilistico, dove la signora Nuzzo muore ed il marito Clemente è ricoverato in prognosi riservata per fratture multiple. Dove la nipote, su ordine di Clemente, si sbarazza anche lei dei ricordi familiari, compreso il famoso ferro. Piccini era accudito da una badante, che scompare il giorno della morte del vecchio. Anzi, poco prima che morisse. I Nuzzo hanno un incidente pauroso, andando su strade strette a velocità elevata. Ma Clemente è un guidatore prudente, perché doveva correre? O forse alla guida era la spericolata ed antipatica moglie? Due casi paralleli (che si voglia fare il verso ai serial tipo CSI – New York?), che non si intrecciano mai, ma che sono, finalmente, l’elemento giallo del romanzo. Che Miceli e Petri dipanano, trovando materia giudiziale in entrambi. Ma di cui non dico oltre, per non levare il gusto di avere qualche sorpresa nei finali del libro (uno per ogni ferro da stiro). Di certo, continua l’andazzo abbastanza scoperto di Simoni che non fa molto per mascherare gli avvenimenti. Ha solo la capacità di seguire il lavoro di squadra della Questura di Brescia, e le illuminazioni che, di quando in quando, fanno indirizzare le indagini sui giusti binari. Illuminazioni di Petri, ovvio. E capacità organizzativa di Miceli. A libro finito sappiamo solo che Grazia Bruni sarà ufficialmente il nuovo capo. Vedremo come se la caverà lei, e come Simoni. Un libro di passaggio, passabile, che fa quasi venire la voglia di organizzare prima o poi una gita nella Leonessa d’Italia.
Gianni Simoni “Chiuso per lutto” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 04/10/2016– I: 13/09/2017 – T: 14/09/2017] - &&& ---
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 261; anno 2013]
Continuo a ripetere che Simoni non è uno scrittore impedibile, tuttavia, riesce, mediamente, ad imbastire delle storie leggibili. Non forse delle storie poliziesche, o di “polizia procedurale” come dovrebbe chiamarsi questo filone di romanzi. Continuo infatti a trovare poco giallo in questi gialli. Ma molta vita raccontata, con fili di ironia, con passaggi gradevoli, e con, almeno in questa infilata di tre romanzi usciti nell’arco di un anno e mezzo, una buona capacità di non perdere le fila. Che eravamo tutti preoccupati, nel finale dell’ultimo romanzo, con l’andata in pensione di Miceli. Allora qui, Simoni ha un colpo di genio: approfittando dei rivoli della legge Fornero (che ben consociamo, noi ex-esodati e molti di voi non ancora, purtroppo, pensionati) e dei ricalcoli che obbligava prima di lasciare andare ai giusti riposi gli anziani lavoratori. Così scopriamo subito che Miceli deve fare ancora un anno di lavoro prima del meritato riposo. In modo da consentire un miglior avvicendamento (almeno nella trama se non nella storia) tra lui e il nuovo capo in pectore, l’ispettore Grazia Bruni. E dal punto di vista della Squadra, tutta la sotto trama dedicata ai momenti ed ai sussulti in quel di polizia, è giocata sul ruolo del nuovo capo, sul risentimento di Miceli di avere un ruolo subordinato, sul mantenersi defilato di Maccari, da un lato amante ufficiale di Grazia, dall’altro suo sottoposto, sul rimanere sospesi nei loro ruoli storici degli altri poliziotti della squadra (Grasso, Tondelli, Esposito e via enumerando). Abbiamo così l’agio di seguire Petri e le sue vicende private che, tuttavia sfociano ben presto in vicende pubbliche e poliziesche. Con il solito doppio binario che ormai segue da un po’ l’autore (come ho rilevato in altre trame). Vediamo allora Petri che frequenta assiduamente una macelleria “d’autore”, non solo per l’ottima carne, ma anche per le procaci grazie della cassiera (nonché moglie del macellaio). In queste frequentazioni conosce anche l’ottantenne professor Franceschi, pensionato al limite della povertà. E di cui diventa ben presto sodale per vicinanza di idee e di modi di vita. Letture, caffè, ed altre piccole chicche quotidiane. È così spesso a casa del professore, ne conosce la storia di grandi rovine economiche, ne sa del nipote che ne aspetta la morte per ereditare la casa, e da lui frequenta l’islandese Yonasdottir, che per facilità viene chiamata Renate. Inopinatamente, la macellaia abborda il professore confidandogli le sue pene dovute al marito manesco. Pene che Franceschi confessa a Petri di aver ricevuto anche lui. Al ritorno da una gita musicale a Budapest (al solito, con il mio gradimento quando qualcuno va in giro per il mondo, anche in un posto carino anche se non stravolgente come la capitale magiara), Petri trova la macelleria chiusa per lutto (da cui il titolo). Pare che la cassiera, per difendersi dal marito violento, lo abbia ucciso. Omicidio o legittima difesa? Petri, con Miceli e la squadra, fa qualche indagine, qualche riflessione, interrogando anche il dottore della donna, per caso suo amico, il famoso (per chi come me segue questi scritti) dottor De Paoli. Sembra proprio un omicidio, ma non ci sono prove. Se non che Franceschi dice a Petri che lui una prova ce l’avrebbe. Ma prima di parlarne alla polizia vuole confrontarsi con la cassiera. Peccato che subito dopo viene ucciso con il cranio sfondato da un oggetto ferroso. Scattano le indagini anche qui. Sono collegati i fatti? Si trova ben presto l’assassino materiale, un malavitoso violento, detto il Duro. Che dice di essere stato istigato da una donna che (e non vi dico come lo scopre) ha un piccolo bozzo cutaneo su una natica. De Paoli, interrogato, ammette che la cassiera ne ha uno. E Petri, per vie che anche qui non sto a divulgare, scopre che anche Renate ha lo stesso “difetto”. Ma allora gli omicidi sono opera della stessa mente o solo casualmente paralleli? Abbiamo uno o due colpevoli? Simoni rispetta le regole di Van Dine, o trova il modo di trasgredirle? Questo di certo non ve lo dico, ma purtroppo devo dire che, in base a tutta una serie di avvenimenti che vi lascio scoprire, entrambi gli omicidi o presunti tali rimarranno impuniti. Sì, forse Petri sa la verità. O suppone di saperla. Ma qui interviene la visione amara della vita dell’ex-magistrato Simoni, che, probabilmente, tanti casi simili ha visto passare davanti al suo tavolo nella sua lunga carriera. Insomma, finisco e ribadisco. Simoni butta lì una storia di vita gradevole, una descrizione di Brescia e della sua vita quotidiana che fa piacere leggere. Qualche ironia (sugli sguardi vogliosi dei maschi del libro verso la vertiginosa scollatura del seno della cassiera) e qualche idea divertente. Ma alla fine rimane un prodotto leggero, da leggere per riposare la mente, non per far muovere i nostri stanchi neuroni.
Gianni Simoni “L’apparenza inganna, giudice Petri” TEA s.p. (e-book gratuito)
[A: 12/09/2016– I: 15/09/2017 – T: 15/09/2017] - & --
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 44; anno 2013]
Sapete che sono contrario all’uso degli e-book, dato che, per me, leggere significa anche toccare la carta, voltare le pagine, ed altre feticistiche attività, che non sono possibili con l’elettronica. Certo, riconosco che i libri digitali fanno risparmiare spazio notevole (motivo per cui mi sono convertito, almeno, alle guide digitali quando vado in giro per il mondo), ma per il resto, ove possibile, preferisco rimanere a defoliare l’Amazzonia. A meno che, come in questo caso, per avere tutte le possibili uscite degli scritti dell’ex-magistrato Gianni Simoni sulla improbabile coppia di investigatori, formata dall’ex-giudice Petri e dal commissario Miceli, non debba, costretto, utilizzare per l’appunto l’e-Book. In quanto questo racconto, anche se particolarmente inutile, è stato pubblicato solo in formato elettronico. Come veicolo, se fosse il caso, degli scritti di Simoni, che i suoi lettori avrebbero comperato anche senza questo (inutile) racconto. Detto quindi tutto il male del mezzo, cominciamo a dire male del racconto stesso. Innanzi tutto, credo che la dimensione racconto non sia congeniale né all’autore né ai personaggi. Simoni non riesce a sviluppare una trama sostenibile in così poche pagine, e Petri (o Miceli o gli altri attori delle altre trame) non sviluppa né manie particolari, né deduzioni illuminanti, né, in realtà, nulla di appetibile. Intanto, proprio perché le pagine sono poche, non compare nessuno dei comprimari che un po’ di sale danno agli scritti. Non c’è la squadra, non c’è Grazia Bruni, compare, ma solo di sfuggita, Miceli. E non è nemmeno consequenziale. Perché sappiamo che un romanzo seriale deve tener conto dell’evolversi dei personaggi. Di cui, ad esempio, sappiamo che Miceli è tornato sulla scena dopo la breve pausa pensionistica (vedi romanzo precedente) e si trova a combattere una personale battaglia con l’ispettore Bruni, che nel frattempo è diventato il capo della Sezione. Tutto ciò è ignorato dalle poche righe dello scritto, che sembrano rintanarsi in una dimensione privata. Petri ha un personale debole per Bassi, un suo vicino, che (e qui lo capisco perfettamente) lo sostituisce nelle riunioni di condominio. Un funzionario di banca mediamente affabile. Ma con una moglie megera insopportabile (mirabile la scena della cena fra le due famiglie). Bassi all’improvviso scompare, poco dopo che si è licenziata la loro cameriera. La moglie affranta, ma già ci domandiamo perché, chiede aiuto a Petri. Che indaga (un minimo), cerca di capire l’ambiente di Bassi, cerca di capire chi sia la Paolina che gli manda cartoline, cerca di capire perché Bassi ha ritirato poco prima di sparire un’ingente somma dal suo conto. La dimensione privata dell’indagine è sorretta da una piccola vacanza in costiera amalfitana di Petri e consorte, più che altro per andare a trovare la Paolina in quel di Sorrento. Trovata, affranta ed incinta, Petri ha poca fatica a fare due più due. Risolvendo il caso in poco più di un battito di ciglia ed un voltar di pagine (metaforico purtroppo). Una trama talmente banale, che già si poteva risolvere dopo una decina di pagine, come avevo pensato fin dall’inizio. Peccato che a volte i racconti riservano piacevoli sorprese, a me che non ne sono un fautore. Penso in alto alle pagine magistrali di Alice Munro. Penso in basso ad alcune righe del mio amico Roberto. Qui, ripeto, Simoni è inutile, il racconto pure, l’e-Book rimarrà, credo, isolato nella mia biblioteca elettronica, accanto a grandi classici introvabili di autori che non vengono purtroppo più pubblicati per il numero elevato di anni passato dai loro scritti. E che io conservo, a memoria, e nell’idea, a volte, di trovarne qualche spunto. Non certo, e mi capite perché, nel leggerli. Speriamo in meglio, caro Simoni.
Seppur contenti per l’imminente partenza, un po’ mi dispiace dovervi abbandonare per qualche settimana di trame. Ma guardiamo avanti, in positivo, ad un radioso febbraio.

domenica 14 gennaio 2018

Rimpianti, rimorsi - 14 gennaio 2018

Prendo a prestito una parte del titolo del miglior libro che vi presento questa settimana, con quella frase che riporto e che faccio mia. Una settimana per metà dedicata a Pino Cacucci, ed è una metà interessante, che consiglio di leggere, soprattutto la storia degli anarchici francesi di inizio Novecento. Il tutto è completato da un dignitoso Carofiglio, anche se lontano dai fasti delle storie dell’avvocato Guerrieri, ed un datato Maurensig, di cui, oltre la famosa variante scacchistica, ho letto ma senza che si torni a quel piacere di lettura.
Pino Cacucci “Puerto Escondido” Feltrinelli euro 10 (in realtà, scontato a 7,50 euro)
[A: 03/03/2015 – I: 03/04/2017 – T: 07/04/2017] - &&& e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 398; anno 1990]
Finalmente riesco a leggere il primo vero libro scritto dall’ottimo Cacucci (in realtà il secondo, essendo uscito poco tempo prima “Outland Rock”, che però non riesco a trovare). Libro pubblicato nel 1990 da “Interno Giallo”, quella breve parentesi editoriale di Marco Tropea e Laura Grimaldi che tanti bei libri ed autori lanciò nei 4 anni di vita. Un libro che era nel mio immaginario, pur non avendolo ancora letto, sia per la fama di libro-epopea di italiani sbandati verso il Messico, sia per il film (che purtroppo non ho visto) di Salvatores con Diego Abbatantuono. Certo colmare una tale lacuna a quasi trent’anni di distanza lascia qualche strascico di sentito, di già detto, di travisato. Tuttavia, pur con alcuni limiti, è un libro che si legge bene. Che, inoltre, come dice lo stesso Cacucci, riuscì allora, e riesce tuttora, ha dare un colore a queste strane faune che si aggirano per il (secondo, terzo, o forse altro) mondo. Preliminarmente mi scuso con l’autore che per tutta una prima parte, avendo letto che il protagonista lavora in un ippodromo ho dedotto che vivesse a Milano (unico luogo in cui pensavo esistesse). Devo dire che invece quando ho scoperto che si trattava dell’Arcoveggio di Bologna, mi sono stati tutti più simpatici. Fatta questa premessa, devo però anche dire che, nelle linee generali, c’è una certa ripetitività nelle macro-situazioni: confusione, pericolo, salvataggio e fuga. La prima avviene a Bologna, la seconda all’isola d’Elba, la terza a Barcellona, la quarta ed ultima in Messico. Tutto infatti comincia con il povero Mario che vuole rinnovare il passaporto scaduto (ma come si fa a far scadere il passaporto? Ne vogliamo parlare, ora che sono al numero 7, e tutti, meno il primo, rinnovati per esaurimento di pagine?), e nel commissariato assiste all’uccisione di un poliziotto da parte del corrotto commissario Everardo Schiassi. Fugge dall’Ufficio, ma Schiassi lo ritrova, e, pensando che lo possa denunciare, tenta di ucciderlo. Ma Mario si salva, e da questo punto inizia uno strano balletto tra i due. Con Mario che qui (e per quasi tutto il libro, cosa che un po’ innervosisce) si lascia trasportare dagli eventi, come una barca in balia delle onde. Schiassi gli offre dei soldi per tacere, e Mario pensa bene di andare all’Elba per non farsi trovare. Lì, mentre si riposa al sole, nota una barca con tre strani personaggi (una donna e due uomini) che si aggirano quasi vicino all’isola con fare losco. Incuriosito, ovviamente finisce a letto con Aivly, ma mentre sembra che tutto vada in un senso positivo, ecco che arriva il commissario. Mario nel frattempo ha rovinato i piani dei tre, ma Schiassi cerca sempre di fregarlo. Per fortuna che Aivly ed i suoi se ne accorgano, lo liberano dal commissario e gli danno un passaggio in barca sino a Barcellona. I tre se ne vanno, e Mario cerca di trovare un modo per sbarcare il lunario. Trova ospitalità da un amico che per il momento è via, ed ha lasciato la casa a Pill, una ragazza che vive facendo il lettering ai fumetti (e se non sapete cos’è problemi vostri, oppure chiedete a Luana). Anche a Barcellona, il nostro si aggira senza un vero perché, tra feste con tanta “maria”, alcool che gira a profusione, ed anche qualche giro nel letto di Pill. Se non ci fosse Schiassi ed i suoi interventi, sembrerebbe il racconto della vita di un post-settantasette, un po’ ai margini, con qualche coscienza sociale, e molta voglia di restare fuori dall’ordine costituito. Nonostante possa stare a Barcellona senza troppe preoccupazioni (avendo anche intrapreso un lavoretto di traduttore in italiano), pensa (ma è proprio pollo) di chiedere un documento all’ambasciata, visto che non ha passaporto, e la carta d’identità si è bagnata. Ovvio che, due giorni dopo, alla sua porta si presenta … Schiassi. Agnizione, colloqui, mezze parole. Schiassi è ben cotto in questa sua fissa (ma se lo lasciava stare…), porta altri soldi. Che Mario ruba e fugge in Messico. C’è tutta una parte sulla falsificazione di travel check che ho seguito molto blandamente. Alla fine Mario si ritroverebbe con un bel gruzzolo per vivere decentemente. Ovvio che, essendo l’imbranato che è, non pensa di “pararsi il culo”, e viene immediatamente derubato da un italiano guascone ed anche lui sul filo della legge, il buon Elio. Dopo varie vicissitudini Mario recupera i soldi e si instaura uno strano rapporto di amicizia con Elio. Finalmente i due si ritrovano a Puerto Escondido. Qui la parte più interessante, con la descrizione della locale fauna di emigrati italiani tutti ai limiti della legge, tra party di coca, piccoli furti, attriti (chiamiamoli così) con la locale polizia. È la parte migliore, quella che fa fare un piccolo scatto al libro, quella in cui, finalmente, Mario sembra anche uscire dal suo torpore. Riesce anche a ritrovare Aivly ed i suoi. Non solo, tra un’avventura e l’altra, si ritrova anche di nuovo a Città del Messico, in un ristorante italiano gestito da … Everardo. Questi ha ormai cambiato vita. La polizia italiana l’ha lasciata avendo ormai terra bruciata, e si è ritrovato anche lui in Messico, innamorato perso di una signorina locale simpatica, e coinvolto nella vita (felice?) di emigrato senza possibilità di ritorno. Dicevo che Mario sembra uscire dal torpore, prima coinvolto in una rapina finita male con Elio, poi in un assalto al carcere dove, con Aivly, libera Elio. Si organizza un ultimo colpo, per raggiungere un gruzzolo che consenta un futuro più tranquillo. Ma tutto precipita per dei tipi loschi che perseguitano Aivly. Sembra che tutto finisca male, se non intervenisse, questa volta nelle parti del buono, proprio il nostro Everardo. Schiassi libera tutti e torna alla sua pasta. Aivly ed i suoi amici scompaiono. Mario ed Elio tornano a Puerto per continuare la loro vita fatta di poca sostanza e di molto arrangiarsi. Nel complesso, mi è piaciuto leggerlo, anche se, come detto, qualche parte lunga e/o ripetitiva. Avendo letto altro, preferisco Cacucci quando racconta fatti o personaggi storici. Ne trovo maggiori coinvolgimenti e miglior empatia.  
“Al ritmo della salsa … che racconta di un tizio chiamato Pedro Navaja che si dedica ad assaltare gente col coltello, finché una prostituta non tira fuori la sua .38 e lo fa secco.” [un classico sudamericano “Pedro Navaja” di Ruben Blades, che mi riporta ai tempi di Rebibbia] (221)
Pino Cacucci “In ogni caso nessun rimorso” Feltrinelli euro 9,50
[A: 07/05/2015 – I: 08/08/2017 – T: 14/08/2017] - &&& e ¾  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 308; anno 1994]
Continua a piacermi ed a convincermi, Pino Cacucci quando prende un fatto, sia esso di sangue, di cultura o di altro, e ne costruisce e ricostruisce contorni veri o plausibili. Già lo dissi con “Oltretorrente”, e lo ribadisco qui dove mi ha permesso di scoprire fatti ed avvenimenti che si orecchiavano, ma cui non avevo mai dedicato il giusto approfondimento. Come appunto il caso della “famigerata banda Bonnot”, e dei suoi membri. Lascio appositamente le virgolette, perché quello che Cacucci ci narra fa apparire in una più giusta prospettiva, fatti di sangue che, in altro modo, apparivano esternamente appunto solo come fatti delittuosi. E dietro invece, c’era di più, molto di più. Ora non è che io voglia giustificare le malefatte compiute da Bonnot & soci, ci sono dei limiti di giustizia che, per me, sono sempre invalicabili. Ma inserendo gli avvenimenti nel loro contesto storico, inserendo i personaggi nel loro contesto sociale, ne viene fuori un quadro più comprensibile, anche se mai giustificabile. Cacucci, con le debite proporzioni ed i distinguo del caso, riporta Bonnot alla dimensione “compagni che sbagliano” degli anni ’70 del secolo scorso. Dove io avevo sempre messo l’accento più sul secondo termine del discorso. Ma questa vicenda, che si sviluppa a cavallo tra ‘800 e ‘900, con il suo culmine intorno agli anni ’10, e la sua fine tra il 28 aprile 1912 ed il 13 febbraio 1913, è di tutto altro stampo, ovviamente. Con la sua solita capacità affabulatrice, Cacucci ricostruisce da un lato la storia personale di Bonnot, dall’altra, anche se in tono minore, quella degli anarchici individualisti francesi di quegli anni. Dando anche conto del clima che si viveva in quegli anni. Sperequazioni sociali, lavoratori sottopagati e vessati. Niente di nuovo sotto il sole, direte voi. Ma aumentato da tutti quegli strumenti che al tempo mancavano: protezioni sociali, comunicazioni, ed altro ancora. Esemplare, appunto, è la storia di Jules Bonnot. Figlio di povera gente, lavora ad una fonderia, si spacca la schiena, ma come cerca di alzare la testa, magari per un sopruso del guardiano di turno, il minimo che gli succede è di essere licenziato. E di essere bollato come testa calda, in modo che neanche le altre industrie locali volevano assumerlo. Questa terra bruciata fa sì che un povero diavolo, senza nessuna colpa, si trovi indigente e senza mezzi di sostentamento. Bonnot passa tutta la trafila di queste presunte colpe, solo appunto per aver “alzato la testa”. Andrà ramingo di luogo in luogo, si sposta dalla Francia al Belgio, ritorna in Francia, prova con la Svizzera. In tutto questo, dotato di vivace intelligenza, comunque legge, e si appassiona a quegli scritti che gli fanno vedere possibili alternative. In particolare, i libretti anarchici. Ha un momento di pace solo facendo il militare, dove apprende a guidare automezzi di tutti i tipi, avendo una particolare sensibilità per la meccanica. Insegnamento che, nel bene e nel male, gli servirà nel suo breve futuro. Finito il militare, nel 1901 si sposa, sembra aver messo la testa a posto. Ma la morte della figlia lo ricaccia nella disperazione. Ricomincia a leggere e far propaganda per gli anarchici, viene cacciato dalla Svizzera dove si era rifugiato. Ma in Francia continua a non trovare lavoro, la moglie lo lascia, e per sopravvivere impara con successo a scassinare casseforti. Il bottino di queste rapine però viene in gran parte devoluto alla causa. Ha una pausa “di riflessione” nel 1910, quando, per sfuggire a qualche arresto, si rifugia a Londra. Lì per qualche tempo, da bravo autista, lavora al servizio si Arthur Conan Doyle, con cui parla dell’anarchico Marius Jacob, che secondo molti sarebbe l’ispiratore dell’Arsenio Lupin di Maurice Leblanc. Ma il richiamo della Francia è forte, e presto torna a Parigi, dove entra in contatto con il gruppo anarchico che si raccoglie attorno alla rivista “L’Anarchie”. Con i giovani anarchici individualisti, si dedica allora ad una serie di colpi spettacolari, utilizzando per primo l’automobile come mezzo fondamentale per le rapine. Per attaccare, per controllare, per fuggire. Ma la breve e folle stagione avrà ben presto la sua fine, e gli anarchici, isolati e senza sbocchi, vengono ben presto arrestati. Bonnot perisce in uno scontro a fuoco. Altri verranno impiccati il 13 febbraio 1913. Ma per Cacucci non è soltanto Bonnot cui rivolgere l’attenzione, ma il clima che produce Bonnot. Ed il mondo che vive. E le persone che gli sono attorno. Gli anarchici, come si diceva, giovani, ribelli senza domani. Il poliziotto Juin che per anni gli dà la caccia, capendo l’origine della ribellione, comprendendo i motivi, ma disapprovando il modo in cui Bonnot ed i suoi li traducono in pratica. Anche Juin non ha spazio in questo mondo, e finirà ucciso proprio da Bonnot. Fino ad una interessante figura che attraversa quegli anni: il belga di origine russa Victor Kibalcic. Anche lui emarginato, anche lui maturato nel clima anarchico, tanto da diventare punto di riferimento della rivista di cui sopra. Ma Victor ha una sua deontologia, che lo porta a rifuggire sia la ribellione individuale, sia l’uso scriteriato delle armi. Sarà uno dei pochi del gruppo parigino ad uscirne positivamente. Cambia il cognome in Serge, va in Russia poco dopo la rivoluzione, diventa un membro importante del Partito Comunista. Ma la sua natura, anche passando dall’anarchia al marxismo, rimane diritta ed incorruttibile. Benché faccia carriera, rimane ostile a Stalin, legandosi invece a Trotskij. Insieme al quale ripara in Messico, dove morirà, a soli 57 anni, d’infarto. Mi scusa della digressione su Victor Serge che fa parte solo marginalmente del libro di Cacucci, ma è invece presente nel mio giovanile pantheon letterario, da quando a 17 anni lessi il suo “Memorie di un rivoluzionario”. Per tornare al libro, invece, finisco con il dire che, pur con alcune involuzioni, ed elementi magari troppo romantici (come il rapporto amoroso tra Jules e Judith) è un libro che ci dà conto della “vita agra” di tutti i tempi, e da cui si esce discretamente arrabbiati, per le possibilità che ci possono essere, e che non vengono sfruttate. Comunque, ed ancora, una bella prova letteraria.
“Dovrei rimpiangere ciò che ho fatto? Forse. Ma non ho rimorsi. Rimpianti sì, ma in ogni caso nessun rimorso…” (300)
Gianrico Carofiglio “Il silenzio dell’onda” Rizzoli euro 15 (in realtà scontato a 7,50 euro con Vintage)
[A: 13/07/2015 – I: 27/11/2017 – T: 29/11/2017] - && e ¾  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 300; anno 2011]
Una discreta lettura, anche se non c’è l’avvocato Guerrieri, anche se non è un giallo, anche se, essendo un romanzo, non raggiunge l’intensità de “Il passato è una terra straniera”. Poteva anche ambire qualcosa in più se non si fosse lasciato irretire dall’effetto dell’onda. Aveva questa immagine del surfista sull’onda, che torna più volte e che chiude il romanzo, ma lo fa forse in modo un po’ affrettato, troncando situazioni che potevano avere sviluppi migliori. Tra l’altro sembra un romanzo dedicato ad essere facilmente trasportato in teatro, pochi personaggi, azioni facilmente raccontabili, molto dialogo, diretto o indiretto. Infatti è un romanzo che, strutturalmente, mi fa fare un salto di quasi venti anni all’indietro: infatti l’impianto generale è dedicato ad un rapporto tra due pazienti ed uno psicologo. C’è la paziente Emma, con dodicenne figlio Giacomo, che va in questa struttura d’aiuto non riuscendo a risolvere un dramma vissuto, di cui lei (ma non noi) si addossa la colpa. Il rapporto con il padre di Giacomo è in crisi per una serie varia e complessa di motivi, decidono di forzare la mano lasciandosi (più sulla sua spinta che su quella del marito). Pochi giorni dopo, il marito ha un incidente in moto e muore. Lasciando in Emma da un lato dubbi irrisolti, dall’altro la gestione di un figlio intelligente, ma che cresce senza padre (e sul rapporto padre-figlio torneremo più avanti). C’è il paziente Roberto, carabiniere, o ex, con già qualche montagna di problemi alle spalle prima di iniziare a lavorare. Figlio di un’italiana e di un americano, vive i primi 16 anni in California (da cui il surf, il titolo e la mia critica iniziale), con il padre poliziotto (o simile). Finché, il padre viene trovato con le mani nel sacco, ad appropriarsi di piccole somme, qua e là. Arrestato, si uccide in carcere per la vergogna. Roberto e madre tornano in Italia, e, dopo la maturità, non avendo tanta voglia di fare, Roberto entra nei carabinieri, quindi, dopo brevi accenni di cui Carofiglio ci fornisce a volte dettagli a volte qualcosa in più (ma da buon ex magistrato deve avere molte storie analoghe nel cassetto), entra nei reparti operativi. Fa cioè l’infiltrato. E lo fa bene e con successo. Non vi narro le varie vicende di cui è protagonista, ma ci interessa solo l’ultima (a cui è ovvio arriva che già un po’ stressato e fuori di testa è). Lotta contro un cartello della droga colombiano (lui come californiano di San Diego parla bene anche lo spagnolo), due anni di lavoro per infiltrarsi nell’organizzazione, parte finale a Bogotá, presso uno dei capi del clan (inciso, Carofiglio ci narra della capitale colombiana in termini che mi hanno già fatto venire voglia di andarla a vedere). Lì, ovvio, una parte del dramma precipita: il boss ha una figlia under 30, di cui Roberto si innamora (lui è di poco over 40). Storia che non potrà avere sbocchi, ma che Roberto porta avanti fino all’ultimo giorno, quando deve tornare in Italia, quando deve avviare gli arresti clamorosi che seguiranno, quando Estela gli dice di aspettare un figlio da lui. Mandare a monte l’operazione o la sua vita? Sceglie la seconda opzione, poi viene per poco fermato prima che possa ripetere il gesto paterno. Da cui, cura psicologica. Emma e Roberto, in modo casuale, e fortuito, si incontreranno, cominceranno a conoscersi, ma prima che possa nascere l’ipotesi di una storia, Roberto deve intervenire ad aiutare Giacomo, che in maniera molto poco reale (questa parte è un po’ in minore), scopre un giro porno erotico in cui è coinvolta (forse) una sua (forse) futura fiamma. Aiuto riuscito, Giacomo sollevato (anche perché sia Roberto che Emma trattano da adulti le sue confidenze oniriche), e tutto che si avvia verso la fine. In cui non sappiamo come evolverà il rapporto materno tra Emma e Giacomo, non sappiamo come evolverà il rapporto (amoroso?) tra Emma e Roberto, non sappiamo se Roberto tornerà a fare il carabiniere. Insomma nulla sappiamo, se non un piccolo sassolino che esce durante un colloquio extra seduta con lo psicologo: anche lui ha un figlio, trentenne, e non sa come rapportarsi. Ecco, mentre il libro solleva interessanti spunti sul rapporto tra il sé ed il lavoro, tra il sé ed il mondo, tra i due sé che non avrebbero dovuto frequentarsi (ricordiamo, noi pazzi, le parole della nostra mentore Luisa…), come sotto prodotto c’è questo assunto. Roberto non ha conosciuto il figlio (e forse non è neanche nato, e di certo non lo sappiamo), Emma ha un figlio dodicenne, lo psicologo un figlio trentenne. In ogni età, ci sono problemi tra genitori e figli (se mi consentite una battuta, figli piccoli, problemi piccoli, figli grandi, problemi grandi). Problemi che mi fanno riflettere, ora, in quanto figlio, ed in quanto pieno, strapieno di problemi verso mia madre. Comunque, un libro di buon tono, che poteva colpire più a fondo qua e là, e che spero qualcuno porti sulle scene.
Paolo Maurensig “L’ombra e la meridiana” Mondadori s.p. (Prestito di Fako)
[A: 22/05/2017 – I: 29/11/2017 – T: 30/11/2017] - && ---
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 109; anno 1998]
Stavo per scendere verso un misero librino che non si nega a nessuno, quando, finito il libro, mi sono accorto che in fondo qualche corda toccava. Certo non mi ha coinvolto, interessato, emozionato, ma se uno sa scrivere, allora scrive. E se uno quando scrive sa scrivere ed ha qualcosa da comunicare, un poco arriva. D’altro canto, ci si aspetta qualcosa di più intrigante dopo aver letto sia “La variante di Luneburg” che “Canone inverso”, ma è ovvio che uno scrittore normale possa avere alti e bassi nella sua produzione. Altrimenti sarebbero tutti in fila per Nobel e premi vari. O per essere immortalati in qualche elenco di autori imperdibili nel panorama mondiale. Maurensig è un onesto scrittore, goriziano, approdato anche in tarda età alla notorietà scrivente, avendo compiuto i cinquanta anni all’esordio. E questo è il suo terzo libro (ne ha pubblicati fin qui una quindicina dal 1993, anno del suo primo libro). Benché alla fine si ricostruisca tutto il percorso che fa l’io-narrante, che prendiamo in mezzo al guado, la storia ha, per me, un solo punto “avvincente”, e su cui tornerò più avanti. Per il resto scorre, ed io la guardo e sono perplesso. Perché scorre come acqua fredda in guado, ma di cui si cerca solo il punto di attraversarlo e lasciarselo alle spalle. Non mi avvinghia nessuna parte del corpo la storia di questo fotografo che incontriamo in una locanda sperduta, intento a fotografare ripetutamente ed ossessivamente un vecchio morente. Come detto alla fine, quasi un ricapitolare di brandelli che si spargono per il testo, capiamo meglio la storia dello scrivente. Perde ben presto il padre, ha una buona giovinezza con la madre, fino a che, nella loro vita si introduce questo strano personaggio, questo zio Eugenio. Che l’autore non capisce, non decifra, si accorge che viene spesso la domenica, si accorge che i parenti lo invitano a chiamarlo “zio” anche se zio non è. Noi, smaliziati ed anziani, ci siamo accorti presto che non è altro che la nuova, ultima fiamma della madre. Ma la storia si vive tutta in ambienti antichi, in campagne, in piccole città (“bastardo posto” come direbbe Guccini). Per cui la madre non si apre, lo “zio” attraverso muto ed incongruo alcuni tempi della giovinezza del nostro. Fino a quando, purtroppo, non ho capito bene neanche di cosa, la madre muore. Certo c’è dolore nel nostro narratore. Ma meno di quanto ce ne aspettassimo. Come se questo rapporto muto avesse incrinato la beltà del rapporto genitore – figlio. Figlio che continua (o inizia) la sua vita. Che fa l’unica cosa che abbia voluto fare fin da giovane: il fotografo. Ma quasi in modo inerziale, lo fa perché qualcosa si deve pur fare per vivere. Apre anche uno studio. Ad un certo punto, incontra anche una gentile signorina. Con la quale scivola, senza accorgersi, senza volerlo, in un rapporto che sfocia in un matrimonio. E via così, non vivendo nessuno la propria vita. Ma una vita non vissuta, visto che se ne scrive, dovrà avere un punto di svolta. Che il narratore raggiunge quando vede il famoso “zio” Eugenio, ridotto su di una sedia a rotelle, scivolare, ineluttabilmente, verso la morte. Non ho capito perché il narratore allora, comprendendo la sua vita come fallimentare, decide di troncare tutti i rami. Lascia la moglie (e né io né lei riusciamo a capire i reali motivi), lascia e vende lo studio. Si trasferisce nella locanda dove vegeta lo zio. Fotografando, caparbiamente, instancabilmente, senza nessun costrutto, tutti i gradi di approssimazione alla morte. Maurensig ce ne descrive la discesa verso l’abisso, senza risparmiarci le crude scene di distacco del sé verso una vita quasi completamente vegetale. Sino, ed è ovvio, alla morte di Eugenio. Al funerale. Dopo di che, il narratore brucia tutte le foto, passa alcuni giorni malato a letto, e poi… Vi aspettate forse qualcosa? No, poi il libro finisce. Senza darci idee, senza fornirci prospettive, senza che si possa partecipare a qualcosa. Non l’ho capito. Tuttavia, quei momenti mortiferi, sulla sedia a rotelle, sulla minestra che cola di lato dalla bocca di un malato avviato alla morte, uniti alle poche parole di incomprensione verso la madre, e verso la morte della madre, hanno avuto risonanza in alcuni miei campanelli interni. Forse, in altri tipi di scrittura mi avrebbero coinvolto di più. Maurensig qui non lo fa e non credo ne leggerò ancora.
Terza trama, ed allora eccovi anche un allegato, che dovrebbe essere di felicità, ma che recupera alcune passate letture per rimanere ancorati a terapie amorevoli, in particolare nei rapporti madre – figlia.
Il tempo del mate si avvicina, ed io ci sto lavorando alacremente, e vi farò sapere, e vi terrò aggiornati. Per ora, e per il resto, tutto sui binari delle cure (di mamma) e del riposo (mio), purtroppo sporcato dalle faccende casalinghe a causa della malattia di Elisabetta. Ci sono però anche letture interessanti, ma di cui vi parlerò più avanti.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

GENNAIO 2018
Ne avevo parlato ad ottobre del 2016, ma ora non posso che tornare sull'argomento dopo aver letto altri due libri di Elena Ferrante.

TERAPIE D’AMORE (III) ripresa
I GIORNI DELL'ABBANDONO di ELENA FERRANTE (2002)

Pillole di trama       
Olga è una donna appagata: è sposata, ha due figli, un lavoro e anche un cane. Ma quando suo marito, di punto in bianco e senza alcun preavviso, la lascia dopo averle confessato che sta vivendo un «improvviso vuoto di senso», il suo mondo va in frantumi. Lei stessa va in frantumi, anche perché scopre che il «vuoto» del marito è più pieno di quanto lui abbia confessato, dato che è stato già abbondantemente riempito da una ragazza. Per Olga inizia un doloroso percorso che dall’autodistruzione la porterà alla ricostruzione di un io più forte.
Supposta-saggezza
Gli uomini, soprattutto dopo una certa età, diventano imprevedibili e sorprendenti. Ma non nel senso che improvvisamente si presentano con mazzi di fiori, propongono weekend romantici o prendono spontaneamente l’iniziativa di lavare i piatti, almeno per una sera. Generalmente la sorpresa imprevedibile si rivela l’inaspettato annuncio di essere in crisi e di avere bisogno di una “pausa di riflessione”. Ora, quando si dice di aver bisogno di una pausa di riflessione, tutti, uomini e donne, in realtà hanno già riflettuto e preso una decisione. Solo che nel caso degli uomini, il novantanove per cento delle volte vuol dire che hanno un’amante con cui sono riusciti a colmare con piena soddisfazione «quell’improvviso vuoto di senso» proclamato dal marito di Olga. Il primo istinto sarebbe quello di rispondere che il vuoto ce lo hanno nel cervello e che la pausa di riflessione non gli servirebbe a niente perché non hanno l’equipaggiamento per riflettere. La lettura de “I giorni dell’abbandono” consente di seguire un percorso diverso, meno istintivo e più costruttivo. Si tratta di una sorta di discesa negli inferi della psiche della protagonista che, tra i fantasmi di un passato sepolto e i lampi di una quotidianità che sembra improvvisamente estranea, mette in moto un processo di autoconsapevolezza lento, doloroso ma indispensabile. Così, dopo una fase iniziale in cui si lascia andare all’autocommiserazione (comprensibile) della propria condizione, esacerbata e rancorosa verso il mondo intero, incurante di se stessa e intenzionata a sbattere in faccia a tutti il suo dolore per farsi compatire (come il ruolo della moglie abbandonata richiede), Olga comincia a srotolare quel gomitolo di rabbia che le si è annodato intorno al cuore e, ritrovando il bandolo della matassa, riesce a dare un nuovo e più compiuto significato alla sua vita, scoprendo che quella vissuta e considerata piena era solo “riempita” da una serenità di facciata che nascondeva silenziose voragini. Dopo ogni fine ci può essere sempre un nuovo inizio, dice la Ferrante, soprattutto se la fine è un abbandono che a rigor di logica, dovrebbe implicare un “ritrovarsi”. Basta provare a camminare con «il passo tranquillo di chi crede di sapere dove andare e perché».
Posologia
Particolarmente consigliato alle donne mature (ma in forma preventiva anche alle giovani lettrici), “I giorni dell’abbandono” è un integratore a base di collagene indicato per ricostruire i tessuti connettivi frantumati dalla fine di un matrimonio. Il collagene è la colla del corpo, ciò che ne tiene insieme i tessuti e che, contribuendo alla rigenerazione di cartilagini e legamenti, garantisce resistenza ed elasticità. Dal momento che la naturale produzione di questa proteina diminuisce con l’avanzare degli anni, eventi traumatici come una rottura sentimentale in età matura possono rendere necessaria un’integrazione per ricostruire tessuti e ridare vigore alle articolazioni (perché rialzarsi dopo una caduta o un crollo è faticoso sempre, ma superata una certa età notoriamente le ginocchia cominciano a scricchiolare). Il difficile cammino di Olga aiuta a rincollare con pazienza i pezzi di quel vaso rotto che è la propria vita, magari scoprendo che superati i giorni dell’abbandono, si è trasformata da un vasetto di Ikea carino, pratico ma uguale a milioni di altri, in un prezioso, unico e raffinato Gallé (tra i meriti del collagene c’è anche quello di ringiovanire la pelle ovvero nascondere le crepe del vaso e le rughe del viso).
“I giorni dell’abbandono” è anche un’ottima fonte di vitamina D, benefica per il cervello e il cuore ma fondamentale soprattutto per mantenere le ossa in salute. Rafforzando il principio attivo che, dopo un primo momento di lecito abbandono alla disperazione, bisogna superare frustrazione, delusione e rancore il romanzo provoca un irrobustimento delle ossa utile a sopportare meglio il peso della consapevolezza che liberarsi dal dolore è impossibile, perché continua a restare silenzioso in un angolo del nostro cuore in compagnia dell’amore perduto, perché la coppia è un miscuglio complicato e schiumoso e “sebbene la relazione si sfrangi e poi cessi, essa continua ad agire per vie segrete, non muore, non vuole morire».
La sincerità a tratti crudele, lo stile possente e la forza espressiva di Elena Ferrante possono rendere la cura piuttosto forte ed emotivamente intensa. Nella maggioranza dei casi, però, è stato riscontrato il recupero di un inaspettato vigore utile per affrontare la vita che è «un sussulto di gioia, una fitta di dolore, un piacere intenso, vene che pulsano sotto la pelle, non c’è nient’altro di vero da raccontare».
Effetti collaterali
Il lettore deve essere pronto a lasciarsi coinvolgere dalle inquietudini, dalle ansie e dalle paure di Olga, per elaborare tutto insieme a lei. Il processo può essere faticoso all’inizio ma una volta intrapreso sarà difficile interromperlo.
La presenza di lacrime e rabbia provocate dal tradimento e dall’abbandono potrebbe essere male assorbita dall’organismo. In questo caso si consiglia di rimediare con un trattamento più leggero: “Affari di cuore” di Nora Ephron. Se, come dice Tolstoj nel celebre incipit di Anna Karenina «Tutte le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo», è altrettanto vero che ogni scrittore racconta l’infelicità a modo suo. Elena Ferrante lo fa con toni drammatici e viscerali, Nora Ephron sceglie quelli comici e divertiti. Sta al lettore stabilire l’approccio terapeutico più consono al suo stato d’animo.
Consigli
Se la cura a base di Elena Ferrante si rivela efficace, suggerisco di continuare con gli altri due romanzi che compongono l’ideale trilogia Cronache del mal d’amore: “L'amore molesto” e “La figlia oscura”, particolarmente indicati nel trattamento dei rapporti complessi tra madri e figlie. Nella sezione dedicata alle cure intensive, trovate la corposa quadrilogia de “L’amica geniale”.
Terapia cinematografica sostitutiva
Non è facile portare sullo schermo la potenza verbale di Elena Ferrante e il groviglio di sentimenti che animano i personaggi dei suoi romanzi. Il film di Roberto Faenza è aiutato dall’interpretazione sofferta di Margherita Buy e dalla bravura Luca Zingaretti, che è riuscito a evitare la trappola del “marito cattivo” che avrebbe svilito la complessità del rapporto di coppia.

Commenti

Come detto, dopo l’abbandono, ecco che affronto i rapporti madre – figlia dell’amore molesto e della figlia oscura, aspettando prima o poi di finire l’amica geniale.
Elena Ferrante “L’amore molesto” E/O euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,42 euro)
[pubblicato il 10 dicembre 2017]
Mi piace discretamente Elena Ferrante, e, con calma e senza fretta, ne leggo e ne leggerò. Mi piace soprattutto perché possiamo dedicarci alla scrittura, ai contenuti, ai messaggi, senza nessun “sovra testo” ingombrante. Ufficialmente, nulla sappiamo di lei. Personalmente, vorrei continuare a non saperne nulla. Così posso parlarne bene o male a seconda delle emozioni che mi trasmettono le sue parole. Per esempio in questo suo primo testo, ci sono cose che mi hanno colpito, preso, ma ce ne sono anche altre che mi hanno respinto, in cui non sono riuscito ad entrare. Alla fine, seppur letto, non mi ha fatto fare quei balzi sulla sedia che tutti i commenti sono strasicuri che faccia. Così come sono strasicuri della bellezza del film che ne trasse Mario Martone. Non parlo del film, ma del libro sì. Un libro che, sicuramente, inizia in modo che sia difficile staccarsene prima di un po’. Ricordate le prime righe? “Mia madre annegò la notte del 23 maggio, giorno del mio compleanno, nel tratto di mare di fronte alla località che chiamano Spaccavento, a pochi chilometri da Minturno”. Da queste righe parte tutto il rovello e l’indagine di Delia sulla figura della madre. Una figura complessa, così come complessa è quella del padre. Entrambe talmente “forti” che Delia appena può e riesce, fugge da Napoli, dal suo contesto, andando a vivere sola, a Roma, con quel poco che guadagna del suo lavoro. Ricevendo saltuariamente, non sempre gradite, le visite della madre. Come questa, per il suo compleanno, che però non arriva, essendosi Amalia, fermata a metà strada. Dalia accumula indizi, collega ricordi, ci a entrare ed uscire dalla sua giovinezza, dalla strana vita familiare. Ma chi era stata Amalia? Una femme fatale o una persona succube? Dalia, tra reale ed irreale, ritrova le fila della sua memoria, ritrova un’Amalia per certi verti sconosciuta, oggetto dell’ossessione d’un marito violento e sospettoso, che le imponeva di chinarsi ai suoi ordini, di non ridere in presenza d’altri uomini, di non vestirsi con cura, di non truccarsi, di dimenticare d’essere una donna, una moglie, una madre. Una donna soffocata, che ha vissuto in punta di piedi col terrore di insospettire un marito opprimente e violento. Una donna che ad un certo punto, ma per vero o per scherzo non si sa, diventa l’oggetto di un amore molesto, delle attenzioni del signor Caserta, amico di famiglia distinto e carezzevole che continuerà a tallonarla negli anni fino alla vecchiaia, quando il capriccio si sarà trasformato in una insana mitomania, in ossessione. Dalia ricorda quando andava al cinema con la madre: ilare e scherzosa con tutti quando erano da sole, avvinghiata teneramente al marito-despota quando c’era. Quale delle due era Amelia? Forse, e lo scopriremo nella nostra testa solo ad un certo punto, era tutte e due. E lo era nelle immagini che Dalia proietta nella sua mente, proprio come in un film. Tanto che ci si domanda quanto Caserta abbia fatto a suo tempo la corte ad Amelia, e quanto ne sia venuto fuori per la gelosia innata che i bambini hanno verso i loro genitori. Terribili ed illuminanti alcuni passaggi: il funerale, con la perdita mestruale che sostituisce il pianto, il ritorno alla casa di Amelia. Dove vede i suoi vestiti: quelli vecchi, rammendati dalla Singer immancabile, e quelli nuovi, sexy (ma ricevuti da chi? Comperati o regalati? Indagine nell’indagine che porta Delia anche a sordidi incontri con il venditore di reggiseni). Si segue quasi un percorso di identificazione, come se Delia mettendosi il vestito di Amelia, si cali anche nel personaggio si Amelia. Pensi con la testa di Amelia, e con i suoi occhi percorre la sua città amata-odiata. Le tornano in mente le parole dell’infanzia. Le tornano negli occhi le cose viste dalla madre, con gli occhi della madre. Delia che voleva diventare diversa, che non voleva assomigliare a quella madre di cui aveva sempre avuto paura dell’abbandono, si troverà alla fine a guardare una foto della madre, scoprendo molte più uguaglianze che diversità. Ritengo, a questo punto, che dobbiate, anche se non siete d’accordo, leggere il libro. Io posso solo finire palesando le mie sempre presenti difficoltà quando il romanzo, i romanzi che leggo, veleggiano sul fare onirico, quando non si percepisce più il confine tra il vissuto ed il sognato. Come sono in difficoltà a riconoscere Napoli nei pochi tratti che ne dà la Ferrante. Una Napoli oscena ed urlata che, fortunatamente dico, non conosco. A questo aggiungiamo altri elementi poco convincenti (forse proprio perché siamo nella fase REM), del tipo la mancanza di una qualsivoglia indagine se Amalia si sia uccisa o sia stata uccisa, e sul perché e sul per come dei fatti. In ultimo, lo stesso personaggio di Delia non mi avvicina, non mi accoglie, lo trovo antipatico e sgraziato. Forse è voluto, ma come sapete io ragiono di pancia, oltre che di testa. E qui la pancia non mi porta oltre una quasi sufficienza libresca. Come sapete, e vedete più avanti, ho letto e lessi altro, ed il mio giudizio generale riprende quello delle prime righe: non mi entusiasma, ma ne leggo.
Elena Ferrante “La figlia oscura” E/O euro 9,50 (in realtà, scontato a 8,08 euro)
[pubblicato il 10 dicembre 2017]
Sicuramente meglio del precedente e tanto acclamato libro, non riesce tuttavia a convincermi fino in fondo. Non mi interessa anche qui, come ho già detto sopra e altrove, entrare nel dibattito su chi sia “Elena Ferrante”. È una persona che sa usare la penna e le parole, sa comunicare sensazioni, sa descrivere stati d’animo e moti del pensiero. E tanto basta per poterne leggere e parlare. Inoltre, rende per me molto bene momenti ed attitudini dell’universo femminile, che, a me uomo, ritornano e consentono di imbastire riflessioni. Questo intanto è il terzo libro edito, l’ultimo prima dell’inizio della grande saga de “L’amica geniale”. Un libro in cui si intravedono alcune tematiche che poi saranno presente nella grande saga napoletana. A partire dai nomi. La protagonista, l’io-narrante, si chiama Leda. La bimba, al centro della vicenda senza essere centrale, si chiama Elena detta Lenù. Già questo ci fa capire come poi l’amica sia un punto di collasso di diverse e sovrapposte tematiche di chi ha preso in mano la penna per scriverne. Come alcuni altri grandi temi che sottendono tutta la vicenda: il rapporto-conflitto tra una Napoli bassa, paesana, a volte pesante e volgare, e chi da questa Napoli tenta di tirarsene fuori, con onestà e caparbietà. Il rapporto tra donne, che fanno scelte diverse, che (forse) si confrontano (o forse no). La ricerca della propria via nel mondo. Il rapporto con i figli (ma soprattutto con le figlie). Un rapporto che a me, ora, sta a cuore, vivendo un difficile momento di confronto con la malattia di mia madre. Ma questo è tema di altri discorsi. Qui abbiamo Leda che in un profluvio di 150 pagine ci fa immergere nel suo mondo e nelle sue contraddizioni. Tra salti temporali (ma solo nel pensiero della narratrice, per fortuna) e momenti di comprensione (anche se a volte annegati in momenti di buio assoluto), vediamo Leda ed il suo rapporto con la madre. Non risolto, forse affrontato male. Una madre popolare, che usa tutti i ricatti del cuore per tenere al loro posto i figli. E soprattutto Leda. Che non ne accetta i ricatti, che va a studiare a Firenze, si laurea, si sposa. Presa dal vortice della vita, fa una prima figlia, voluta, coccolata nella pancia per nove mesi. Bianca. Poi, intellettualmente coinvolta dal marito nella vita quotidiana, nelle prospettive a breve, decide di farne una seconda. Non voluta, non amata (almeno da subito), che farà scoppiare tutte le contraddizioni che Bianca, sola, aveva nascosta. Ecco allora Marta. Ecco Leda che per seguire le figlie, e dar spazio alla carriera del marito, si nega il diritto di avere una propria via, si dilania nelle contraddizioni del quotidiano. Per cinque, lunghissimi, anni. Poi scoppia, trova qualcuno che crede nelle sue potenzialità, e fugge, lasciando Bianca, Marta e il marito Gianni. Va a lavorare in una prestigiosa università inglese, vive un’intensa storia d’amore, riesce ad occupare un suo ruolo nel mondo accademico. Ma dopo tre anni si accorge che comunque qualcosa manca. Manca il sorriso delle figlie sopra il tavolo, e tante piccole, quotidiane follie. Torna. Ma allora sarà il marito a partire, a trasferirsi per lavoro in Canada. Ora, a 48 anni, si ritrova ancora una volta sola, che Bianca e Marta decidono di proseguire i loro studi (scientifici come il padre e non letterari come Leda) in Canada. Tuttavia, pur se non risolto, il rapporto madre-figlie migliora. Ognuno ha un suo ruolo, e anche se Leda può soffrire di momenti d’ansia, accetta che ciascuno di loro abbia la propria strada. Certo si vogliono bene, si cercano, i legami (un tempo forse spezzati) sono fragilmente ricostruiti. E se Leda non telefona, sarà Marta a farlo. In tutto questo coacervo di sensazioni, che già hanno un lor peso per costruire la storia, si inzeppa la vicenda parallela dell’incontro al mare con la giovane Nina e la figlia di tre anni Lenù. Popolani, sanguigni (soprattutto il marito e la cognata), ma, in particolare Nina, con qualche sensazioni di star sprecando la propria vita. Ne esce un confronto a distanza, mai risolto direttamente, perché mai Leda riesce ad essere diretta. Non lo era con le figlie, difficile esserlo con estranei. Nina ammira l’indipendenza e la volontà di Leda (almeno da lontano). Ma è sommersa dal non saper gestire l’impossibile Lenù. E soprattutto la perdita della bambola della piccola. Che inavvertitamente proprio Leda le sottrae. Non riuscendo, per pagine e pagine, a trovare il modo di restituirla. O di sbarazzarsene. La bambola diventa quasi un simbolo, un totem che permette a Leda di ricostruire tutto quello che vi ho narrato in modo continuo e non con i salti del libro. Ma quando Nina chiede aiuto a Leda per sue faccende private (che vi leggerete perché non posso certo riscrivere il libro), Leda trova il modo peggiore per chiudere questo strano rapporto. E restituendo la bambola distrugge con un solo gesto tutti i castelli di Nina, tutte le sue speranze (mal risposte, ovvio, in una persona che, intelligente e bella, è tuttavia fragile ed irrisolta). Spaccato di vita, finisce come finiscono i racconti lunghi di Alice Munro. Senza una vera fine, lasciando l’agio di continuare le storie nella nostra testa. Ma lasciandoci anche la sensazione che chi scrive ha scritto tutto quello che sentiva di poter scrivere. E seppur riprendendo tutti i temi che ho sopra accennato, seppur facendo in modo che ci si possa ragionare sopra, non posso non sentire una mancanza. Una mancanza di forza, di ragionamento. Ovvio che tutti siamo imperfetti, e Leda non può sottrarsi alle sue imperfezioni. Ma io soffro quando vedo vie d’uscita positive che l’eroe del libro si rifiuta ostinatamente di percorrere. Mio limite certo, ma anche io, per quanto quasi, non sono veramente perfetto.
“Le cose più difficili da raccontare sono quelle che noi stessi non riusciamo a capire.” (8)

Finalino

Prima o poi torneremo su Elena Ferrante e sulla sua saga “geniale”. Qui ribadisco quanto altrove ho già detto: è congeniale a certi stati d’animo, li sa portare a compimento, ma non riesco a vederne costrutto in un momento terapeutico d’amore.

domenica 7 gennaio 2018

Giovane anno, giovane lettura - 07 gennaio 2018

Dopo tanto tempo e tante altre letture, ecco che anche questa esimia collana di Repubblica giunge al suo termine di lettura. Una cinquina che inizia in sordina, con un compito “scolastico” dell’altrimenti interessante Pasqualotto. Poi comincia a salire, non a caso con due autori di calibro come Grisham e Pullman. Poi, prima di finire con una chicca del giovane James Bond di Higson, raggiunge un livello veramente interessante con la scrittura di Sergio Rossi. Un inizio di anno (quindi giovane) dedicato a letture per giovani (ma sempre interessanti).
Mario Pasqualotto “L’estate delle falene” Repubblica Noir Junior 4 euro 6,90
[A: 01/09/2015 – I: 18/05/2016 – T: 20/05/2016] - && --
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 203; anno 2011]
Siamo subito tornati ad una scrittura poco avvincente, sia per adulti che per adolescenti. Sarà un vizio legato alla professione primaria dell’autore (che è psicolinguista) ma viene troppo suonata la corda del “romanzo a tesi”, per non risultare un po’ stonata (tanto per rimanere in metafora). Non è che la storia in sé non abbia dei passaggi interessanti, ma nel complesso risulta troppo scontata. Le tre tesi principali che Pasqualotto porta avanti sono: la crescita (in particolare la paura di crescere che può attanagliare gli adolescenti, dato che i protagonisti qui hanno sui 14 anni), il rapporto tra i sessi (ovviamente con le schermaglie dei primi amorini), il diverso (che si incentra sul cinesino Ken, e quindi sul rapporto immigrati – stanziali). Ma sono appunto tre tesi, cioè tre compiti scolastici che non si legano in maniera particolare con il tessuto della storia. Che si svolge in Umbria (in un dintorno boschivo di Gualdo Tadino), e ci riporta a passeggiate nei boschi (ma anche alle ischemie paterne). Dove abbiamo gli “eroi” del romanzo: Marco (il punto centrale), Giulia (l’amica di sempre, ma si sta crescendo) e Tommaso (il fratellino di Giulia). Cui si aggiungerà presto il cinesino Ken, immigrato disadattato che vorrebbe tornare in patria. L’attacco del romanzo, e le corde che suonano sin dall’inizio, sono “alla Stephen King”, falene che sbattono sui vetri, angosce notturne e simili ansiosità. I nostri tre amici van per campi, hanno una schermaglia con il diciottenne Toni, lui sì disadattato, che non trova di meglio che uccidere cinghiali anche fuori stagione. Nella sarabanda con i cinghiali i nostri hanno modo di conoscere e di integrare nel loro gruppo Ken, il cinese di poche parole. Qui, forse, gli unici spunti degni di nota, nello scontro, non violento ma fondante, tra le culture. Tra il realismo terreno dei ragazzi umbri ed il mondo di favole e magia di Ken. Mondo che ovviamente coinvolge subito il piccolo Tommaso, ancora reduce dalle favole giovanili. Si va avanti per lunghi tratti senza che da questa falsariga si sviluppi gran che. Una voglia di libertà nei boschi, la costruzione di una capanna, le lanterne colorate di Ken che servono ad inaugurare la capanna, ma anche a liberare il drago delle acque, per far venire la pioggia salutare. Ma d’altra parte quando si avvicina la fine dell’estate è facile scoppino i temporali, e questo passaggio di favola non prende tanto neanche lui. Di lato, abbiamo degli accenni a possibili vicende “gialle”, che una serie di furti si susseguono nelle ville isolate della zona, coinvolgendo il padre di Marco, in quanto guardia forestale. Ma è ovvio, da come si pone il testo, che prima o poi saranno i nostri a scontrarsi con i ladri. Di cui, ed era ovvio fin dalle prime battute, fa parte Toni, che tanto è sbandato. Ma sono anche furti “strani”, furti che depredano oltremodo le ville, anche con piccoli ed inutili vandalismi. Quando i nostri, seguendo tracce strane, arriveranno allo scontro con i cattivi, scopriremo anche il capo della banda, insospettabile ed insospettato. Tanto che neanche si capisce bene perché faccia il ladro. Come se i junior che leggono un romanzo non abbiano bisogno di troppe spiegazioni, basta saltare subito alle conclusioni. Che arrivano di volata, nella veloce, forse anche troppo, parte finale. La banda è smascherata e debellata, tanto serve un happy end in qualche modo. Marco e Giulia scoprono che, crescendo, c’è forse anche qualcosa di più tra di loro (ma va?). Tommaso debella la sua paura di crescere (che poi era anche di Marco e forse anche di Giulia). Ken emigra verso quel di Prato, dove più forte e coesa è la comunità cinese, lasciando il solito buon ricordo ai nostri, sotto forma di amuleti. Che contengono ideogrammi caratteriali, sui quali i giovani rifletteranno. Tuttavia, il linguaggio rimane ad un livello poco convincente, saltando a volte passaggi, tornando su quelle falene che avrebbero dovuto far paura, ma non si capisce per quale motivo. Non ha una grande coerenza alla fine, proprio perché devo dimostrare che crescere è bello, che gli sbandati saranno puniti, che l’altro si deve integrare con noi. Tutti buonisti, troppo buonisti. Rimandato a settembre.
John Grisham “La prima indagine di Theodore Boone” Repubblica Noir Junior 1 euro 6,90
[A: 20/07/2015– I: 23/06/2016 – T: 27/06/2016] - &&& ---
[tit. or.: Theodore Boone Kid Lawyer; ling. or.: inglese; pagine: 238; anno 2010]
Non è il primo libro di questa collana che leggo, e devo dire che, pur con alti e bassi, ne ho letti di migliori. Sia della collana che di Grisham. Certo, è stato fatto uscire come primo per attirare pubblico dalle consuete strategie di marketing. Pur essendo un libro discreto, non ha però le solite attrattive dei libri di Grisham. Un buon racconto, buoni spunti legali (che di certo non possono mancare in uno dei maestri del genere), ed anche un mix capace di attrare i ragazzi alla lettura. Tuttavia rimane irrisolto nel finale, che arriva sì ad uno scioglimento della trama, ma non alla sua completa conclusione. Come se ci si aspettasse subito dei seguiti. Cosa avvenuta puntualmente, tant’è che dal 2010 l’autore ha fatto uscire un libro all’anno dedicato alle peripezie di questo tredicenne in un certo qual modo figlio d’arte: padre avvocato immobiliarista e madre avvocato divorzista. C’è anche un battitore libero, zio Ike, avvocato radiato dall’albo per qualcosa che, ad ora, rimane un po’ avvolto nelle nebbie del mistero. Theo (cosi viene chiamato sempre il “giovane avvocato”) ha anche una grande amica, April, sicuramente innamorata di lui (con la passione dei tredicenni), ma che ovviamente Theo sembra ignorare attratto com’è da Hallie la ragazza più carina della scuola. Cui risolve un piccolo dilemma, e che gli fa subito gli occhi dolci. Perché. Imbevuto com’è delle dottrine familiari, Theo è già un piccolo avvocato, offrendosi come consulente legale sia per i compagni di scuola sia per la segretaria del preside. Riesce così a far evitare uno sfratto, suggerendo di dichiarare bancarotta (potenza delle legislazioni d’oltre oceano). Oppure a svolgere indagine e modalità di avvicinamento al tribunale degli Animali, in modo da recuperare un cane sorpreso senza guinzaglio e trattato da randagio (cosa che ovviamente non è, essendo solo sfuggito di mano). Nella solita routine regolata dalle tabelle di marcia della madre (il martedì si fa questo, il mercoledì tutti al ristorante cinese), Theo trova il modo anche di frequentare assiduamente il Palazzo di Giustizia della fittizia cittadina di Strattenburg, in particolare andando spesso a trovare il giudice Henry Gantry, figura di legislatore integerrimo che Theo prende ad esempio quando pensa di fare il giudice invece che l’avvocato (e non a caso ha un cane di nome “Giudice”). Qui, entriamo nel vivo della famosa prima indagine, come dice il titolo italiano (mentre in inglese si riporta solo il termine “ragazzo avvocato”). Perché Gantry presiede il processo intento ad un golfista, Peter Duffy, accusato dell’omicidio della moglie, morta per strangolamento in uno che sembra un tentativo di rapina andato a male (scompaiono infatti alcuni gioielli dalla villa lussuosa dove abitano i due immersa nel verde che contorna il magnifico campo da golf della cittadina). Non si riesce a trovare prove convincenti contro Duffy, che sembra avviato ad un’assoluzione per mancanza di prove. Ma Theo finisce ben dentro il processo, all’improvviso. Julio, un immigrato regolare che lui aiuta in algebra e che frequenta la sua stessa scuola, gli confessa che suo cugino ha visto tutto. Lavora in nero al campo da golf, ed ha visto chi ha ucciso la signora Duffy. C’è però un problema: Roberto è immigrato clandestinamente, quindi se si presenta alla polizia dovrebbe essere rispedito immediatamente a El Salvador. Qui la situazione si incarta un po’, e sarà il giudice Gantry a trovare una soluzione. Per poi lasciarci tutti un po’ sospesi. Non vi dico né come né perché, ma la fine è la parte che meno mi è piaciuta. Non è, e non poteva essere, il Grisham del “Rapporto Pelican” (che ricordo soprattutto per il film con Julia Roberts, ovvio), ma c’è il messaggio positivo che ci si aspetta di poter dare ai ragazzi: bisogna avere fiducia nella giustizia 8e non è poco, di questi tempi). Sono d’accordo anche con chi ha trovato degno di nota il rapporto di Theo con i suoi compagni di scuola, sempre di aiuto e mai di prevaricazione. Meno convincente è la vita familiare di questa famiglia che, se non fosse per Theo, sembrerebbe più una “Mulino Bianco” con Banderas. Alla fine, una prova dignitosa di un autore che sa usare molte frecce al suo arco polifonico.
“Aveva scelto … anni prima e restava fedele alla squadra con una testardaggine che veniva messe alla prova per tutto il campionato.” (38)
Philip Pullman “Il rubino di fumo” Repubblica Noir Junior 6 euro 6,90
[A: 01/09/2015 – I: 16/10/2016 – T: 17/10/2016] - &&& e ½
[tit. or.: The Ruby in the smoke; ling. or.: inglese; pagine: 267; anno 1985]
Non credo che leggerò mai (non mi interessa particolarmente) la più celebre saga di Philip Pullman (per chi non lo sapesse è “Quelle oscure materie”, una trilogia il cui titolo più celebrato è il primo uscito, “La bussola d’oro”), ma credo che cercherò il secondo libro della serie di Sally Lockhart, di cui ho letto questo Noir Junior, e che, in maniera bislacca, mi ha preso nella sua facile lettura. Facile perché rivolta ad un pubblico giovane, quindi di immediata lettura e semplice ricezione. Pur tuttavia priva di sbavature e, quando fa riferimento a fatti ed accadimenti, precisa e discretamente dettagliata. Tanto che, in un giovane, sarebbe (potrebbe essere) di stimolo per approfondimenti. Qui, ad esempio, volendo essere stimolati, e svolgendosi la vicenda nella Londra del 1872, si può approfondire lo sviluppo della fotografia dalle prime lastre di vetro ai dagherrotipi fino alla stereoscopia, le conseguenze delle guerre dell’oppio (la cui ultima fase avvenne a Canton nel 1860), gli sviluppi delle guerre indiane e delle lotte nei dintorni di Agra fino allo sviluppo della malavita nei dintorni dei dock londinesi. Detto questo contorno, la vicenda si incentra appunto su Veronica “Sally” Lockhart, appena rimasta orfana dopo la morte del padre nel naufragio della Louisiana, una nave commerciale dedita ai trasporti nei mar della Cina, e che Lockhart sr aveva deciso di visitare insospettito dai traffici della sua compagnia di spedizioni (e dai guadagni spropositati rispetto alle commesse). Sally, sedicenne ed autodidatta, avvertita da un misterioso biglietto sgrammatico, comincia a sospettare che ci sia qualcosa di losco. Lei non ha mai conosciuta la madre, è stata cresciuta dal padre, senza troppo riguardo per le scuole (certo non si addicono ad una donna), così che, nulla conosce di storia e filosofia, ma sa far bene di conto e sa sparare con la pistola e cavalcare cavalli. Indagando appunto a seguito del biglietto famoso, si delineano sul campo ben presto due fazioni rivali. I buoni, dalla parte di Sally, che arruolano prima di tutti Jim, il fattorino della ditta del padre, poi la famiglia Garland, composta da Frederick, il fotografo, e Rose, l’attrice, il tutto fare Tremarella (soprannome dovuto all’atteggiamento impaurito dell’ex-galeotto), i gemelli Bedwell, uno marinaio in India, l’altro parroco ad Oxford, nonché la piccola Adelaide. I cattivi, capeggiati dalla micidiale signora Holland, e sostenuti da Selby, il socio disonesto di Lockhart, Hopkins, il ladro di buon cuore, Berry, il gigante astemio. Poi ci sono dalla parte dei buoni, ma defilato, il maggiore Marchbanks. Dalla parte dei cattivi, altrettanto laterale, il capo della triade Ah Ling. Sally, saputa la morte del padre, chiede spiegazioni a Selby, ma viene allontanata. Riesce, con l’aiuto di Jim, a trovare il maggiore che le affida un diario prima di essere ucciso dalla signora Holland. Diario che a Sally ruberà Hopkins, ma che non farà in tempo a consegnare alla signora Holland, venendo a suo volta ucciso. Nel mentre si viene a sapere che il maggiore è in possesso del rubino del maharajah di Agrapur, che lo vuole donare a Sally, ma che non si sa dove sia. Il gemello indiano Bedwell torna per portare notizie della Louisiana, ma viene imprigionato dalla megera, e ridotta a schiavo dell’oppio. Nel frattempo Sally fugge di casa, trovando riparo presso i Garland, dove ha ben presto modo di mettere in luce il suo genio per gli affari e la contabilità, risollevando le sorti dello studio fotografico (e si intravede che comincia ad avere un debole per il bel Frederick). Tentando, insieme al gemello parroco, di salvare il marinaio, anche Sally ha modo di odorare l’oppio. Questo provocherà un insight micidiale, dove alla fine tutto finalmente ha un senso. Marchbanks e Lockhart sono militari in India, dove la Holland è una delle favorite del maharajah. Durante la rivolta di Lucknow, la Holland tradisce l’indiano, ma questi dona il rubino, prima di morire, a Lockhart. Il quale decide di scambiarlo con la figlia di Marchbanks, essendo anche questi uno schiavo dell’oppio. Per salvare i loschi traffici di Selby con le triadi, una volta in India, Ah Ling decide di uccidere Lockhart e di affondare la nave, da dove si salva il marinaio Bedwell, che, prima di morire a sua volta per mano di Ah Ling racconta tutto a Sally. Anche Selby muore, Jim recupera il rubino, e ci sarà una scena madre che coinvolge Sally, Frederick, Rose, la signora Holland e Berry. Alla fine i cattivi hanno la peggio, Sally ed i suoi amici cominceranno a gestire lo studio. Rimane solo il mistero della scomparsa di Adelaide, che probabilmente sarà oggetto della seconda puntata della serie. Che è molto datata invero, essendo stata scritta ben 30 anni fa. Ma la scrittura è ancora fresca, ed ha coinvolto in una lettura divoratrice anche un vecchio incallito come me. E ne leggerò ancora. Se Salgari mi entusiasmava nei mei dodici anni, perché non meravigliarsi ancora, ora che son “canuto e stanco”?
“Sai sempre quello che bisogna fare … Sei fantastica.” (131)
“Se sai fare bene una cosa, devi farla.” (132)
Sergio Rossi “Un lampo nell’ombra” Repubblica Noir Junior 7 euro 6,90
[A: 01/09/2015 – I: 14/01/2017 – T: 16/01/2017] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 316; anno 2013]
Penultima lettura della collana Junior, con un libro che per poco non prendeva un mezzo libro in più. Scritto con buona scelta di linguaggio, ha solo il difetto di affastellare troppi avvenimenti e situazioni, pur convergenti in un disegno unitario. Ma i rivoli si sperdono un po’ e le somme finali nell’ultimo capitolo sono troppo frettolose per tutto quello che si è svolto nelle prime trecento pagine. Un altro appunto ci sarebbe sulla classificazione di “Junior” visto che invece il libro uscì per Feltrinelli nella serie “Kids”, che si rivolge ad un pubblico leggermente più adolescente. Infatti, è una lettura per adolescenti, e, per particolari, descrizioni e situazioni descritte, può essere ben letta da adulti in cerca di un buon thriller storico, con qualche punta “cosy”. Intanto il buon Sergio Rossi (mi permetto di chiamarlo “buon” perché è un Rossi che non si è fatto appiccicare il nome di Mario, ed è un patito/esperto di fumetti come vedremo più avanti) ci immerge nella sua Bologna del 1909. Ed in effetti, tutta la vicenda si svolge tra l’inizio di settembre di quell’anno (ce lo dice lui) e la fine di ottobre (ve lo dico io). In quei primi giorni di settembre due fatti accadono: due persone vengono uccise da uno spietato sicario (un agente di polizia infiltrato ed un facchino di passaggio) ed Enea Rossetti prende servizio nella Regia Polizia Scientifica, guidata in quel di Bologna dal dott. Montanari. Enea, romano, è stato spinto in quel posto dalla mancanza di un padre, dalla voglia di allontanarsi dalla madre e dal datore di lavoro della madre stessa. Che risulta essere Salvatore Ottolenghi, personaggio storico reale, allievo di Lombroso e primo capo della RPS da poco fondata. Peccato che Enea sia più portato a disegnare, anche se questa “mania” può tornare utile ad una polizia che non avendo ancora l’uso di macchine fotografiche e simili aggeggi moderni, doveva fidarsi su ricordi, mentre Enea poteva, quanto meno, fare disegni attendibili. Enea viene subito coinvolto nella grande trama che si sta svolgendo in quei giorni a Bologna, e che noi ricostruiremo nel corso delle pagine dello scritto. Nel mese di ottobre è prevista la visita in Italia dello zar Nicola II (vero) che vuole stringere un patto con l’Italia per limitare l’influenza austriaca nei Balcani (vero). Gli austriaci, con a capo un certo Ostwald (finzione) cercano di organizzare un attentato allo zar facendone ricadere la colpa sugli anarchici (finzione, ma non lontana dal vero). Per questo Ostwald coinvolge Anna Maria Vittoria Caprara, donna altolocata, nella trama, in quanto questa ha un collegamento con gli anarchici locali, guidati, nell’ombra dal libraio Tassoni (finzione). I servizi segreti del Regno guidati da Riccardo Bentivoglio de Lorenzis (finzione) danno un colpo al cerchio ed uno alla botta, cercando di stanare gli anarchici ma di evitare l’attentato. Ostwald coinvolge anche un killer, imboscandolo nel “Collegio di Spagna”, istituzione creata nel 1300 per ospitare spagnoli che studiassero alle Università di Bologna (vero, tanto che nel 1570 ospitò anche un giovane Miguel de Cervantes), dove Montanari aveva inserito il suo uomo fatto poi fuori dal killer. Enea allora vene incaricato di infiltrarsi anche lui, ma, scarso nelle lingue, verrà istruito dalla figlia di de Lorenzis, Elena Grazia Maria Diletta detta Conchita. Conchita ha anche una eminente vocazione all’emancipazione, tanto da essere seguace di Marinetti che l’anno prima aveva redatto il famoso “Manifesto del futurismo”. Ovvio che Enea e Conchita avranno frequenti scontri, tra l’esuberanza della donna e la riflessiva bontà intrinseca di Enea. Ovvio che prima o poi avranno modo di confessarsi il loro amore e di baciarsi (ahi, ahi, non si fa …). Ovvio altresì che il di lei padre veda di cattivo occhio l’amore tra i due, per le differenti provenienze sociali. Ovvio che noi tifiamo per l’amore, anche quando Conchita andrà a studiare a Parigi, dove… Ma torniamo alla trama, tra un sussulto e l’altro, il momento cruciale dovrebbe scattare durante una rappresentazione teatrale futurista, con Conchita in scena, Enea dietro il palco a controllare gli eventi con gli altri poliziotti, ed anarchici e killer mescolati agli spettatori. Ci saranno tumulti, ma ci sarà anche l’agnizione di Enea su chi sia il killer, e prima che questi colpisca Conchita, lo uccide con seti colpi di pistola. La trama è sventata, i cattivi debellati o in fuga, Conchita a Parigi a studiare, ed Enea… Questo non ve lo dico, ma ritorno sull’elemento disegni di Enea, che per migliorare la sua qualità frequenta qualche istituto bolognese di Belle Arti, dove incontra tal Roberto Raviola, gran maestro dei disegni del tempo (personaggio fittizio, ma dove ritroviamo quell’amore per il fumetto di Rossi di cui si diceva, che Roberto Raviola è in realtà il vero nome di un futuro grande maestro del disegno italiano che si firmerà Magnus e darà la luce ad una delle più intriganti serie comiche degli anni Settanta: “Alan Ford ed il Gruppo T.N.T.”). Insomma, tutto bene, scorrevole nel procedere, anche se Rossi adotta un vezzo che a me non piace molto ed usato da molti scrittori moderni: quello di saltabeccare da un punto all’altro della trama, anche da un punto all’altro temporale, modalità che si vuole moderna ma che, se non ben maneggiata, ha il solo risultato di appesantire il modo di leggere e seguire gli avvenimenti. Un’ultima critica formale sulla parte storica. Nel finale de Lorenzis e Montanari disquisiscono sul fatto che il possibile attentato allo zar sia stato stornato anche perché il trattato italo-russo venne firmato a Roma. A quanto risulta dagli archivi e dai documenti storici da me consultati, invece, il trattato fu firmato dove era stato deciso di firmarlo, durante la visita in quel di Piemonte dello zar. Tanto che è passato alla storia come “Accordo di Racconigi” firmato nella residenza privata del re d’Italia il 24 ottobre 1909.
Charlie Higson “Spara o muori – Il giovane (James) Bond” Repubblica Noir Junior 10 euro 6,90
[A: 01/10/2015– I: 29/12/2017 – T: 31/12/2017] - &&&
[tit. or.: Double or die; ling. or.: inglese; pagine: 457; anno 2007]
Finalmente siamo all’ultimo libro di questa serie che, seppur non eccelsa, ha il merito di aver presentato alcuni titoli interessanti. Come Grisham, o il Blomkvist della Lindgren. Qui abbiamo il tentativo di cavalcare l’onda giovanilistica nata in Inghilterra a seguito di Harry Potter, mettendo in luce le avventure di James Bond, al tempo dei suoi studi post-liceali. La Ian Fleming Pubblications (detentrice dei diritti su Bond) decide intorno ad una quindicina di anni fa di affidare la scrittura di alcuni episodi a Charlie Higson, un medio scrittore britannico di juvenilia, più dedito all’orrore che al giallo in realtà. Higson scrive quindi cinque romanzi su Bond, di cui qui, purtroppo, abbiamo già il terzo. Non metto in dubbio che possa essere il migliore (certo non ho letto gli altri) ma trovo poco professionale immettere in una collana un titolo di metà serie, soprattutto senza spiegare che è una serie. In secondo luogo qualcuno dovrebbe spiegarmi l’uso in italiano di questo “Spara o muori” per tradurre un “Double or die” che rimanda ad un “raddoppia o muori” leggermente diverso. Ma soprattutto mi stavo domandando cosa possa entrarci con il contesto del libro dove poco si raddoppia, qualche volta si spara, e spesso qualcuno muore. Il tentativo di Higson, inoltre, è di fare una insalatona mista di alcuni dei maggiori “archetipi” bondiani: un po’ di mistero (vedremo meglio in seguito), qualche macchina (che prelude la Bentley Continental dei romanzi di Fleming), il gioco (qui la roulette), le donne (anche se, essendo giovani non si va al di là di un casto bacio verso la fine). Come detto è il terzo “Young” Bond, quindi sono già state fatte e dette altre cose che qui tralascio. Come detto in “Si vive solo due volte”, Bond è comunque all’inizio del suo secondo anno a Eton, ma qui sorge la prima domanda sulle date. Secondo Fleming Bond nasce nel 1924, ed è nel secondo anno a 17 anni nel 1941, ma qui, per alcune vicende narrate, si evince che non siamo ancora in guerra, cioè dovremmo essere nel 1939. Queste datazioni vanno però in conflitto con altre due indicazioni: alla fine del libro si parla di “dodici anni dopo, alla fine della Guerra”, così che le avventure si dovrebbero collocare intorno al 1934, in contrasto con quanto sopra. Nelle lotte nei cantieri navali si parla della costruzione della “Queen Mary”, nave varata appunto nel 1936. Inoltre Bond incontra varie volte Alan Turing, che avrebbe senso con la datazione ’34, anno della laurea di Turing, ma poco con la costruzione di macchine calcolatrici ante-litteram, visto che la prima finita fu quella denominata “Bomba” effettuata da crittografi polacchi nel 1938, datazione questa più in linea con la cronologia bondiana ufficiale. Ma a quell’epoca Turing era già un matematico di fama. Per tornare, da queste spulciature personali, al corpo del romanzo, proprio a macchine decrittatrici ed all’ambiente matematico ed enigmistico dell’epoca è dedicato il corpo del romanzo. Un professore di Eton, Alexis Fairburn, appassionato di cruciverba, sta per mettere a punto, insieme ad un collega di Cambridge, una macchina da calcolo. Un loro “falso” amico però la vuole vendere ai Sovietici (ad un certo punto compare anche una cattiva russa che ricorda molto quella di “007 Dalla Russia con amore”; inciso personale, il film tratto dal libro fu il primo film a cui mi portò mio padre e rimane tuttora uno dei miei più bei ricordi familiar-cinematografici). I due matematici si oppongono, ed il terzo rapisce Alexis. Il quale riesce però con uno stratagemma ad inviare una lettera cifrata ad un suo allievo indiano, amico di Bond. Sarà la ricerca della chiave degli enigmi della lettera che porterà, anche se in ben 400 pagine, Bond ed i suoi amici a ritrovare Fairburn e sventare il complotto. Il tutto appunto infarcito da inseguimenti, lotta con i due cattivi fratelli Smith, che faranno ovviamente una misera fine, morte del professore di Cambridge, varie fughe di Bond da situazioni pericolose, ed anche da un ospedale. Fino a ritrovare Bond aiutato dalle bande di ragazzini dell’East End londinese, dove ritrova il suo amico Red Kelly (presente in un precedente giovane Bond), nonché la di lui simpatica sorella Kelly (quella del bacio finale, ovvio), che lo aiuteranno nella sarabanda finale. Quella in cui Bond e Kelly salvano Fairburn, Red e Fairburn distruggono la macchina, Bond uccide i due fratelli Smith, ma alla fine lascia fuggire la spia sovietica. Non voglio addentrarmi nel vortice delle vicende rocambolesche che coinvolgono James in questa avventura (che alla fine durerà solo tre giorni), vorrei soltanto sottolineare alcune invenzioni enigmistiche della lettera e dei cruciverba connessi. Nella lettera sono compresi 7 enigmi, la soluzione dei quali porta Bond a ritrovare il professore. Mentre alcuni sono ben descritti, gli ultimi (quello di una poesia e di un falso accenno a Nerone e Cleopatra) vengono dati quasi di passaggio, come se l’autore si fosse un po’ stancato di spiegare tutto. Peccato, che se si parla di 7 problemi, ci devono essere sette soluzioni! La cosa più divertente è invece legata ad una definizione che si dice derivare dal cruciverba del Times. Divertente perché credo abbia coinvolto a lungo la mente del traduttore, dato che l’originale è ovviamente in inglese. L’ottima Raffaella Brignardello ci propone infatti la definizione “VOAU” soluzione con due parole. Ed essendo la definizione una mescola delle lettere che compongono la parola “uova”, la soluzione è “uova strapazzate”. Geniale. Ultimo accenno di non completa accuratezza, quando si parla delle repressioni in Russia. Siamo negli anni ’30 (inizio o fine che siano) ed allora bisogna parlare delle efferatezze della gestione Stalin, mentre il libro parla male solo delle attività di Lenin, all’epoca già abbondantemente morto e sepolto. Nel complesso, tuttavia, nonostante tutte le piccole imprecisioni, un libro piacevole, certamente di gradimento ai patiti bondiani, degna conclusione di una collana dalla riuscita mediamente buona.
Seconda trama del mese, ed allora una bella cura per i miei amici che hanno o avranno ottanta anni, dedicata a Ciccio per un verso (e lui sa perché) e per l’altro a Rosa (che lo capirà).
Sembra che quest’anno, pur così giovane, decolli presto, verso lidi che se non sono interessanti, lo saranno, che se non sono visitati, lo saranno, e che noi andremo a scoprire e scovare, ad uno ad uno. Con la curiosità che, nonostante non siamo ancora carichi d’anni e di sventura, costruisce lo scheletro della nostra ulissiaca vita.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

GENNAIO 2018
Un inizio augurale del nuovo anno dedicato cordialmente al mio amico Franco.

OTTANT’ANNI, AVERE

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER OTTANTENNI

Alejo Carpentier             “I passi perduti”
Joseph Conrad               “Lord Jim”
Eduardo Galeano            “Memoria del fuoco”
Ernest Hemingway          “Di là dal fiume e tra gli alberi”
Bohumil Hrabal               “Ho servito il re d'Inghilterra”
Yasunari Kawabata         “Il maestro di go”
Pablo Neruda                 “Confesso che ho vissuto”
Ippolito Nievo                “Le confessioni d'un italiano”
Luigi Pintor                    “Servabo”
Goliarda Sapienza           “L'arte della gioia”

Bugiardino

Per una strana coincidenza, a parte il ceco Hrabal che lessi veramente da giovanissimo (e che mi è stato graditamente riportato alla memoria dal mio amico nonché attore Jacob con il suo mirabile spettacolo), di questa serie di libri dedicati ai nostri fratelli maggiori, ho letto con attenzione solo i due italiani, che riporto e commento.
Goliarda Sapienza “L’arte della gioia” Einaudi euro 14,50
[tramata il 30 gennaio 2011]
Mi ha incantato, trascinato, travolto. Un libro come da anni non leggevo. Che è corso via, nonostante quelle 500 pagine che sembravano non finire mai, ma che alla fine ahi quanto poche sono. Ahi perché ci hai lasciato Modesta? Ed un libro che ad ogni momento non mi permetteva di essere indifferente. Ne avevo sentito parlare, ma non avevo voluto sentire. Rosa diceva che è bellissimo, ed io ho preso questo commento e l’ho messo in un cantuccio, che si sa tra attori ci si aiuta. O forse era anche stata sua allieva? Poi alla fine, ho preso in mano questo parallelepipedo di libro e mi son detto, beh mi accompagnerà per tutto il mese. Comincia così la mia lotta con Goliarda. Con quella prima parte, dura, piena di pugni nello stomaco. No, penso non sono convinto. Dov’è ‘sta gioia? Ma la sua scrittura avvince a poco a poco con i suoi fili d’oro. Che gioia, quei dialoghi, quella cascata argentina di parole, di rimandi. E qui si rompe la diga, capisco con lo stomaco che mi ero soffermato troppo. Ed allora, divoro, macino, non perdo una parola. Cerco la pagina seguente e assaporo, disteso e tormentato, le vicende di Mody per tutto il suo Novecento. E di Carmine, di Mattia, di Jacopo, di Bambù, di Joyce, di Nina, di Stella, di nonna Gaia, di, Carlo, di Pietro, e di… Di tutta questa folla che riempie le pagine, che ti entra nella pelle, che non vedevo l’ora di andare a letto, per coricarmici insieme e leggerne ancora. Ora l’ho finito, Modesta mi ha salutato con un ultimo sorriso, lasciandomi contento di averlo letto. E sentendoci tanti echi miei, diretti, personali. Perché parlandoci della storia dei Brandiforti, Goliarda parla a ciascuno che vuole intendere le sue parole, e che da quelle prende quello che vuole. Soprattutto la gioia, pura, argentina, trasparente come il mare della sua Sicilia. La gioia di costruire il proprio destino, di affrontare le vicende della vita per quello che sono, di cadere e poi di rialzarsi. Con la forza di potersi sempre guardare allo specchio senza provare vergogna. La forza di buttare via tutto per non diventarne schiavo, la forza di leggere, la forza di essere l’esempio (non di farlo, esserlo, così se qualcuno ne prenderà bontà lo farà suo). Non voglio entrare nella storia editoriale del libro, che ben è descritta nella prefazione e nella postfazione, se volete cercatela lì. Né voglio entrare nella storia di Goliarda. Quella è storia sua, ed in altri luoghi è scritta e commentata. Voglio tornare ancora al libro. Vorrei non staccarmene, almeno per un altro po’. Seguitare ancora a ripercorrere la lunga vita della Modesta anarchica, dall’impossibile infanzia, dalla presa di coscienza dell’adolescenza, dalla fortunata adozione di fatto, dalla maturità, dalle vicende degli amori, dei dolori, delle nascite, dall’attraversamento del fascismo, dalla lotta, dalla guerra, del dopo-guerra, dalla maturità e dalla re-invenzione della propria vita, dal rapporto con i figli, con i bambini, con gli adulti, con chi ci vuole imporre uno stile di vita. E con l’accettazione dell’altro. Ecco la grande gioia infinta. Non imporre, accettare, e chiedere di essere accettati. E se non succede? Andare avanti, col tono burbero di nonna Gaia, ma la fermezza di Carmine e la leggerezza di Beatrice e la dolcezza di Marco e … Quanti altri personaggi dovrei citare, quanti altri aggettivi dovrei usare. Quanto libro dovrei trascrivere per ricordare tutte queste sensazioni? Al solito, ricordo solo le frasi che galleggiano sul bordo della memoria. E vado a letto, nella stanza in alto al Carmelo, aprendo tutte le tende, che fuori c’è luce. E gioia!
“Zio Jacopo diceva che il lutto è una barbarie … che se si è veramente addolorati lo si porta nel cuore senza bisogno di inutili esibizionismi.” (64)
“Perché non cerchi di pensare anche ai lati positivi di quello che accade? Niente è completamente negativo nella vita.” (98)
“Sono … i vantaggi del viaggiare. Bisogna periodicamente allontanarsi da qualsiasi luogo dove la consuetudine ha ucciso l’obiettività.” (160)
“L’amore si fa in due… Io ti amo … ti amo e ti stimo. Solo che non ci siamo incontrati carnalmente. O forse avevo scambiato il fascino che tu avevi e hai ancora quando parliamo, per amore.” (167)
“Ma non è amore il sesso? L’amore il sesso sono figli l’uno dell’altro. L’amore senza sesso che cosa è? Una venerazione di statue, di madonne. Il sesso senza l’amore che cos’è? Una battaglia di organi genitali e basta.” (168)
“Tante cose si possono insegnare: andare a cavallo, fare all’amore, ma la propria esperienza a nessuno si può dare. Ognuno la propria, con gli anni, si deve fare, sbagliando e fermandosi, tornando indietro e ricominciando il cammino.” (210)
“Se ci impediscono la libertà di morire, la costrizione di vivere diviene una prigione atroce.” (305)
“Perché non si può essere felici sempre?” (345)
“C’è un limite preciso nell’aiutare gli altri. Oltre quel limite, a molti invisibile, non c’è che volontà di imporre il proprio modo d’essere.” (389)
“Il matrimonio… è un contratto assurdo che umilia l’uomo e la donna insieme. Per me se si incontra un uomo che ci piace lo si ama fino a quando, beh finché dura… E poi ci si lascia, se possibile, da buoni amici.” (399)
“- La giovinezza e la vecchiaia non sono che un’ipotesi. – E che vuol dire? – Vuol dire che anche l’età è quella che ti scegli, che ti convinci di avere.” (435)
“Il giovane serve, produce, sgrava i figli… Ma a quarant’anni, a cinquanta, l’essere umano diventa pericoloso, si pone dubbi, richiede libertà, riposo, gioia.” (481)
Luigi Pintor “Servabo” Bollati Boringhieri s.p. (regalo di Sara e Giampaolo)
[tramata il 29 marzo 2015]
Che bella lettura! Che lezione di civiltà, e ovviamente non mi aspettavo di meno, da una persona che ho comunque incrociato nella mia vita, e che mi è sempre sembrata adatta a sé stessa. Non so se le mie parole rendono quello che sentono verso la figura di Pintor, ma, talvolta, più che la parola stessa, è il senso che ne esce fuori, dal suono, dal modo di esistere lì, in quel momento. Come questo titolo, che ci spiega l’autore vuol dire, principalmente, conserverò. Ma vuole anche dire sarò utile. Utilizzando tutte le accezioni della parola “servo”. E Pintor ci conserva, rendendosi utile a noi, la sua vita in brevi pillole che ne percorrono i momenti che lui stesso ritiene per sé significativi. E lo fa con quel tono di spigliato giornalismo che me lo rese caro nelle letture dei primi anni del “Manifesto”. Come ripeteva, quello che devi dire, lo puoi dire in 40 righe. E se non lo fai capire in 40 righe, forse non è chiaro neanche a te che scrivi. Ed allora di poche righe in poche righe (raramente i capitoli superano le tre o quattro paginette del formato in sedicesimo dell’editore) in quei rapidi quattordici capitoli, scorrono le memorie di questo “servitore” e delle sue vicende di vita. Dalla giovinezza sarda all’adolescenza romana. Dalla lotta partigiana, intrapresa quasi come fosse un gioco, al mestiere di giornalista, quasi che ci si dedicasse per non saper fare altro. Attraversato dalla morte per lo scoppio di una mina del fratello Giaime. Dal matrimonio alla paternità. Dall’impegno sociale sempre presente alle turbe prima per i fatti d’Ungheria del ’56 poi per la primavera di Praga del ’68. La rottura con il Partito e la nascita del Manifesto. Ricominciare tutto di nuovo, diventando lui, che sempre si sente inadeguato, un punto di riferimento dei giovani. E la voglia, “carico d’anni” ma non di sventura, a voler baciare non la sua petrosa Itaca sì come Ulisse, ma questi episodi della propria vita, per tenerli lì accanto, ora che la fine si fa ogni giorno più vicina. Leggo e rileggo queste brevi righe. Ed ogni volta continua a stupirmi la lucidità con cui Pintor diceva tutto, il piacevole e lo spiacevole. Mi viene di ripercorrere quei momenti che per lui furono intensi, formanti, quelli della lotta partigiana, dell’incoscienza dei 18 anni, dove, pur incoscienti, si sente che si sta facendo qualcosa. Ed in quella Roma che lottava, clandestina seppur palese, con tutte quelle coincidenze di vita, di leggerezza, di follia, che ritornano nella mia memoria familiare, che ben si intreccia con i Pintor, i Rodano, i Tatò, e via discorrendo. Mia zia che pedala per il viterbese portando in canna di bicicletta partigiani alla macchia. Mio zio che esce fischiettando da Regina Coeli mentre lo stavano arrestando e lui fa finta di essere lì per caso. Mia madre cui casca la borsa con le armi mentre attraversa Ponte Sisto, ma i militi non se ne accorgono. Ecco che mi è presa la mania del narrare in poche righe, quasi a togliere un po’ di spazio all’autore, che altrimenti lodo troppo. Ma come non pensare a lungo all’ultima frase che riporto sotto. A questo fatto che i libri servano più a che li scrive che a chi li legge. Certo, servono molto allo scrivente che vi riversa le sue gioie e le sue paure. Pur tuttavia basta una persona che per qualche suo personale motivo trova un giovamento anch’esso personale nel leggere queste righe. Ebbene, anche se io autore non lo verrò mai a sapere, basta questo per giustificare la scrittura. Per ringraziare Luigi Pintor di questo piccolo gioiello di parole, che avevamo lasciato più in alto sulla soglia dei momenti duri, ma che termina, così come comincia, nel privato. Con il dolore, pudico eppure immenso, per la morte della moglie. Con il dolore, mai sopito, mai vinto, della morte del fratello Giaime, che pur tuttavia rimarrà stella del suo personale firmamento. Metro sul quale misurare le proprie azioni. Un testamento pesante, che, dal ’43 in poi, l’allora diciottenne Luigi porterà sempre con sé. Ed io ora dico, fortunatamente. Sono contento che sia esistito un “servitore” attento e discreto come Luigi. Una persona eccezionalmente normale, capace di tante cose che ammiro, ed anche di tanti errori. Perché umani siamo, non divini.
“Fu semplicemente una questione di circostanze, alla fine è sempre una questione di circostanze.” (32)
“Non cesserò di pensare che i mondi sono due ma imparerò che la linea divisoria non è segnata su nessun atlante e passa fin dentro il cuore dell’uomo. Stare da una parte diventerà più complicato, ma più necessario.” (66)
“Un libro serve a chi lo scrive, raramente a chi lo legge, perciò le biblioteche sono piene di libri inutili.” (89)

Conclusioni

Non so, non entro nell’analisi degli otto libri che non ho (ancora) letto. Questi due meritano tutto il nostro rispetto. Ma non solo per chi ha o avrà tra poco 80 anni. Ma per tutti noi che, come dice Goliarda, pensiamo che non tutto sia negativo nella vita.