domenica 29 novembre 2015

Amy vs Elena - 29 novembre 2015

Un confronto tra America e Italia, che si vince alla grande. Anche se, ribadisco, Elena Ferrante non sempre riesce a coinvolgermi. Certo il primo libro è molto “forte”, mentre il secondo, secondo anche come storie delle amiche napoletane, ha avuto, nel mio immaginario una impennata dovuta ad alcune corde che tocca sui discorsi adolescenziali – universitari. Amy Homes è senz’altro interessante, il primo libro forse non ti salva la vita ma aiuta. Il secondo (che poi è uscito per primo) sono racconti forse in minore, anche se hanno momenti alti ed avvincenti. Se si trova in italiano (penso di si) vale la pena di leggerne.
A. M. Homes “Questo libro ti salverà la vita” Feltrinelli euro 9 (in realtà, scontato a 6,75 euro)
[A: 01/02/2014– I: 12/03/2015 – T: 14/03/2015] - &&& e ¾  
[tit. or.: This Book Will Save Your Life; ling. or.: inglese; pagine: 310; anno 2006]
Non è che non sappia come si chiama (il suo nome completo è Amy Michael Homes), ma questo con i punti è il suo nome da scrittrice, quello con cui firma tutti i suoi lavori. Cinquantenne newyorchese, a me prima di questo libro ignota, pur nella non completa riuscita del libro, mi ha incuriosito, divertito, ed anche fatto riflettere qua e là. Le prime cinque pagine mi stavano frenando, come se non si riuscisse a decollare. Poi sono stato preso dalla vicenda di Richard, ma, soprattutto, dall’uso che fa la scrittrice di un racconto per fare critiche alla società americane ed alle sue degenerazioni palesi. Con l’abilità di farmi, in fondo, fare il tifo per lo sballottato Richard, anche se non è proprio l’esempio del paladino dalle mille virtù che ci si aspetta per farne il tifo. Richard ha un pacco di soldi, essendo un abilissimo online trader che vende e compra azioni come fossero noccioline, ed in questo che non sembra essere un gran lavoro, accumula dollari su dollari. Ad un certo punto si separa dalla moglie, molto più di lui work-aholic come si dice oggi in America, lasciandola a New York con il loro figlio Ben e trasferendosi a Los Angeles. Qui vive in una villa su una collina, si mette cuffie con musica la mattina, si allena sul suo tapis roulant mentre la sua tata accudisce la casa, mangia la sua colazione ed i suoi pranzi che gli prepara la sua nutrizionista, interrompe il collegamento con il PC per un po’ di ginnastica con la sua Personal Trainer, e poco altro. Guarda la collina del suo mondo, e sta lì, ibernato, tanto che la tata gli dice che sono 35 giorni che non parla con nessuno. Il punto di crisi, la “zeppa” che viene messa nell’ingranaggio è un dolore che sente al petto. Sto per morire? Un infarto? Dalla visita al pronto soccorso comincia un percorso suo per comprendersi, tanto che tutti cominciano a non “riconoscerlo” più. Si “interessa”! E gli capitano tante cose, cui, forse, prima neanche avrebbe scorto. Si crea una buca in giardino che sta per inghiottire il cavallo di una sua vicina, che lui e un vicino famoso che si scopre poi essere un grande divo del cinema, salvano con un elicottero. Vagando per il quartiere con la sua Mercedes in leasing incontra un immigrato indiano che fa delle ciambelle favolose, che entrano a poco a poco a sostituire i cereali che punteggiano la sua vita. In un super mercato incontra una donna che piange e … le parla. Un altro incontro che sarà di buon auspicio per il resto del libro. Diventano amici e lui la incoraggia a seguire una nuova vita, lontano da un marito violento e da figli che si accorgono di lei solo se non cucina o non lava i panni. Lo strano (per il mondo di L.A.) è che saranno solo amici. Per un terremoto la casa minaccia di crollare, e lui si trasferisce a Malibu. Dove incontra uno vicino stralunato, che si rivela essere uno scrittore di grido. Dove adotta un cane. Dove, dopo anni, fa di nuovo sesso (ma non con l’amica di cui sopra). Dove lo raggiunge il figlio Ben che ha deciso di fare il coast to coast con il cugino Barth. E lunghe saranno le difficoltà che Richard e Ben dovranno superare per avvicinarsi e comunicare realmente. E Richard capirà quello che aveva già capito ma non vissuto: la necessità di Ben della sua figura, anche distante, ma in modo da scambiarsi parole e sostenersi a vicenda nei momenti di crisi. Richard continua a fare il buon samaritano, salvando una signorina che stava per essere rapita da un bruto, facendo regali a tutti, senza volere niente in cambio (ricordate i discorsi sui doni che avevo fatto parlando di padre Bianchi?), pagando l’operazione all’anca alla sua tata. Ed avendo anche un riavvicinamento, almeno verbale, con l’ex-moglie. Fortunatamente Holmes non spinge tutto verso l’happy end, che sarebbe uno stucchevole strato di miele su di una storia che invece, anche se facciamo il tifo, è ben amara. E si ipotizza che, benché sperso su di una zattera davanti alla spiaggia di Malibu, Richard ci sarà, per gli altri, e soprattutto per Ben. Il piacevole della scrittura è che tutta questa scrittura, che potrebbe essere solo una specie di sceneggiatura per un mélo americano (alla Paul Mazursky) diventa una critica serrata della società americana: incomunicabilità, passione per il “cibo sano” ma solo se lo dice la nutrizionista, macchine in leasing, attori che fanno i simpatici, lo scrittore che scrive i suoi capolavori perché si isola, ginnastica che “deve” essere fatta (tapis roulant e piscina in casa), divorzi senza parole, famiglie che pensano la donna solo come serva, e tutte le peggiori insensatezze americane (fino al dottore che cura bene ma che si scopre non essere laureato). Certo, non un capolavoro né un libro immancabile, ma ho trovato la nostra scrittrice capace di gettare un bell’occhio sulla realtà americana attuale.
“[della mia infanzia] io non mi ricordo niente … e poi, tutto a un tratto, mi torna un pezzetto e penso: ma guarda, me n’ero completamente dimenticato.” (236)
“Non basta dire ‘mi dispiace’ come se significasse qualcosa.” (258)
Elena Ferrante “I giorni dell’abbandono” E/O euro 9,50
[A: 01/10/2014– I: 25/05/2015 – T: 28/05/2015] - &&&&-- 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 211; anno 2002]
È il secondo libro della misteriosa Ferrante che leggo, e devo dire che mi ha lasciato un misto di attrazione e di distacco. Indubbie l’abilità di scrivere, di presentare situazioni anche molto complicate. Tuttavia ogni tanto non riesco ad entrare nella sua scrittura “al femminile”, cosa che invece, generalmente, mi riesce con altre scrittrici. Ad esempio, mi viene in mente, su argomento analogo, il libro di Siri Hustvedt “L’estate senza uomini”. C’è invece qualcosa nella Ferrante che ad un certo punto mi blocca. Non che non si riesca a leggerne, ma che frena l’empatia che generalmente si scatena tra lettore e pagina scritta (non che ci si debba immedesimare per forza in qualche personaggio, ma leggendo nasce, quasi sempre, un moto di benevolenza per la pagina scritta). Ora qui, l’argomento è duro, e trattato con altrettanta durezza. Una coppia, sposata da, credo, 15 anni, con due bambini, Gianni di 8 anni e Ilaria di 5, si sfascia, per colpa di lui. Che, ad un certo punto, abbandona Olga e famiglia. Assistiamo allora per ¾ del libro alla discesa di Olga nelle peggiori paure e verso momenti che girano intorno a baratri da cui non ci si risolleva più. L’autrice riesce, con questa sua scrittura forte, a farci sentire il dolore e la pazzia che si vanno annidando nel corpo e nella mente di Olga. E ad ogni pagina c’è un passo in più verso l’inferno. Olga non capisce i motivi di Mario, non trova (o non è capace di trovare) alleati o sodali nella cerchia delle sue amicizie. È estate, e riesce sempre con più difficoltà a gestire i figli. E quasi per nulla a gestire il cane Otto, che era stato voluto da Mario, ma che ora rimane a lei. E fa azioni spaventosamente avventate. Urla, dice parole oscene. Scopre che Mario sta con una ragazzotta di una quindicina di anni più giovane (mentre loro erano coetanei, avviati verso la quarantina). Questa è la scoperta che rischia di farla andare fuori di testa. Pensa di potersi rivalere sul mite vicino di casa, il violoncellista Carrano. Fallendo anche lì, ma con concorso di colpa. Si scorda il mangiare sul fuoco. Si scorda di andare a prendere i figli. Cambia la serratura alla porta di casa, e spesso non si ricorda come si apra. Fino al momento culmine, del libro e della pazzia, laddove tutto può andare verso il tragico o risalire non dico alla normalità, ma quanto meno a livelli di accettabili compromessi. Ci sono formiche in casa, e Olga spruzza l’insetticida. Poi vaga in pensieri dedicati alla sua vita con Mario, senza concludere gran che. Contemporaneamente, Gianni ha un attacco di febbre e vomito, Ilaria lo “cura” con monete fresche sulla fronte (le solite idee pazze dei bimbi), Olga vorrebbe uscire ma la chiave si blocca e la porta non si apre. Panico! E poi Otto si sente anche lui male, anche lui vomita, e Olga trova l’insetticida mangiato dal povero cane. Ancora più panico, si urla dalle finestre, il telefono non funziona (il cellulare perché scaraventato giorni prima contro il muro, il fisso, non avendolo pagato, è stato sospeso). Come chiamare il veterinario? Come chiamare un medico? Come comperare la Tachipirina per il malato?. Come chiamare anche il povero Carrano, per essere aiutate? Parlo al femminile che le uniche persone ancora vigili sono proprio Olga ed Ilaria. Quando si arriva a questo punto, o ci si salva o si muore. Fortunatamente, ma un po’ casualmente nella scrittura, Olga si salva. Non si salva il povero Otto, che muore avvelenato dall’insetticida. Si salvano (almeno parzialmente) i figli: di sicuro dalla febbre, ed in parte dalle “pazzie” materne. Un po’ perché ricominciano le scuole, un po’ perché cominciano a frequentare il padre. Che all’inizio sembra contento, poi capisce che anche quello è un onere. E come tutte le persone che scelgono le vie più facili, anche se meno intelligenti, comincia a manifestare segni di indolenza. Olga, invece, alleggerita da questi pesi di cui si era autocaricata, ricomincia a vedere la luce. Accetta il suo ruolo di “abbandonata”, non pensa più al suicidio, e più distesa con i figli, si dispiace (ma in fondo è sollevata) della morte di Otto, e comincia a frequentare, con molta leggerezza il musicista del piano di sotto. Ripeto, la scrittura della Ferrante, in molti punti, quasi mi respinge, non riesco ad entrarci bene. Al solito, penso sia il problema di punti di vista maschili-femminili, dove non è facile scambiarsi la testa. Non capendo la fuga verso il fondo della pazzia, mi risulta altrettanto semplicistica la risalita verso la “normalità”. Comunque un forte libro sulla fine dell’amore tra due persone supposte mature. Dove, e non è un caso, chi fa la figura dell’imbecille è il maschio che si perde dietro a giovani gonnelle. E sono d’accordo con la scrittrice. Quindi, donne, leggetene e discutiamone.
“[Quanto della natura di Mario] covava nei bambini. Quanto di lui sarei stata costretta per sempre ad amare senza nemmeno rendermene conto, solo per via del fatto che amavo loro?” (184)
A. M. Homes “The Safety of the Objects” Perennial euro 13,50 (in realtà, scontato a 6,30 euro)
[A: 25/06/2015– I: 08/07/2015 – T: 11/07/2015] - && e ¾  
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 173; anno 1990]
Eccoci di nuovo ad un libro da viaggio. Stavo trascorrendo un piacevole pomeriggio a Jackson nel Wyoming, aspettando la fine del bel viaggio americano nei Parchi degli Stati del West, e, al solito, cercavo un libro che mi legasse un po’ ai giorni trascorsi. E nella non fornitissima ed anche unica libreria del posto, trovo questo primo libro di una scrittrice di cui da poco avevo letto altro, e con gradimento. Preso al volo e letto in un torrido luglio ripensando al fresco del Montana, l’ho trovato interessante, anche se non all’altezza del primo. Intanto sono racconti, e questo, come sapete, se non sono scritti magistralmente (leggi Alice Munro) mi lascia sempre un po’ storto. È inoltre, come detto, il primo libro della scrittrice, e ne risente in fluidità di scrittura. Anche in una certa sottolineatura di alcune situazioni, a volte decisamente forzate al seguire una sua linea descrittiva. In nuce, sono presenti altri suoi temi (critiche sempre e comunque all’inadeguatezza della vita americana). Rivolgendo una sguardo alle cose inanimate, che forse ci possono portare alla salvezza, al miglioramento, quando gli uomini, i pensanti non riescono a farlo. La scrittura della nostra autrice poi ben si intreccia, quasi che le tematiche, le tesi che vuole sottendere prescindano dai racconti stessi e possano essere incastrate in un unico grande romanzo. Tanto che dal libro ne è stato tratto un film, che fa proprio questa operazione, che cercherò di ripercorrere, tramando i nove racconti così come fossero una sola scrittura dedicata agli oggetti, perché sono gli oggetti, le cose inanimate che creano la spina dorsale della scrittura stessa. Ci si immagina quindi di essere in un quartiere di periferia, dove troviamo Paul nella sua camera da letto in coma. Ha avuto un traumatico incidente d'auto (“Esther in the Night”) ed è curato dalla madre, Esther che standogli vicino, si è isolata ed allontanata dal marito Howard e dalla figlia adolescente Julie. Cercando di suscitare l'attenzione di sua madre, Julie la iscrive ad un concorso della radio locale, nella speranza di vincere una macchina nuova (“The Bullet Catcher”). Nel frattempo, dopo anni che mette al primo posto della sua vita il suo lavoro, Jim sente che la sua famiglia, specialmente la sua efficiente moglie Susan, può fare a meno di lui (“Jim Train”). Egli tenta di interagire con il figlio Jake, sulle soglie della pubertà, ma il giovane si imbarca in romantiche fantasie che riversa sulla bambola di plastica di sua sorella minore (“A Real Doll”). Quando Jim viene scavalcato da un collega nella carriera, smette di andare a lavorare, sostenendo che una bomba è stata trovata nel suo ufficio. Sentendosi incompreso dalla sua famiglia, incontra Esther e Julie ed inizia ad aiutarle nel concorso. Intanto la sua compagnia di pendolarismo sul treno per New York, Helen, sente il passare del tempo e cerca qualcosa che la renda ancora e nuovamente desiderabile, come ad esempio una storia di sesso con uno sconosciuto (“Adults Alone”). Ma i suoi sforzi riescono solo ad allontanarle il marito, che invece la ama così com’è. Un’amica di Helen, Annette, durante un disastroso divorzio, si sforza di provvedere al mantenimento delle sue due figlie. Sam, la maggiore, è un maschiaccio, ed è disperata per dover andare ad un campo estivo (“Chunky in Heat” e “The I of It”). La sorella minore soffre di disabilità mentale e richiede una scolarizzazione speciale, che suo padre, l'ex marito di Annette, si rifiuta di pagare. Annette è anche in lutto per la perdita di Paul, con il quale aveva iniziato una relazione. Randy, il giardiniere del quartiere, sta vivendo (male) la morte del proprio fratello minore, morte avvenuta nello stesso incidente d'auto che ha ferito gravemente Paul. L’ex marito di Annette durante la periodica visita settimanale alle figlie dichiara di voler prendere Sam per le vacanze, ma Annette rifiuta sia perché Sam non vuole stare con il padre sia perché l’ex-marito non vuole prendersi cura della figlia minore (“Yours Truly”). Sam ascolta la loro lite e fugge quando il padre cerca di parlare con lei. Nella fuga incontra Randy, che sostiene essere stato mandato dalla madre a riprenderla (“Looking for Johnny”). Randy porta Sam in una sperduta capanna nel bosco e la tiene lì, non permettendole di chiamare casa. Inoltre la chiama 'Johnny', come il suo defunto fratello. Dopo circa tre giorni di isolamento, Randy prende la macchina e si aggira nottetempo per la cittadina, quasi a ricreare la notte in cui la vita dei personaggi si è incrociata. Quando chiede una birra a Sam, seduta sul sedile posteriore, e la birra non esplode quando la apre (vedi sotto il perché) realizza improvvisamente che Sam non è Johnny e la riporta, incolume, a casa. Esther finalmente arriva alla finale del concorso, quando rimangono solo in due. Ma non resiste alla tensione (i concorrenti devono toccare la macchina in palio e chi si stacca perde). Sono ormai tre giorni che sta così, in piedi, emotivamente provata. Sviene e viene eliminata. Julie si arrabbia e scappa via. Jim, arrabbiato anche lui perché pensa il secondo premio essere inadeguato, diventa violento ma viene cacciato da Bobby, il figlio di Helen, che lavora come guardia di sicurezza del centro commerciale. Esther, tornando a casa si rende conto di quanto lei abbia trascurato la figlia. Giunta al capezzale di Paul, tra le lacrime, soffoca il figlio in coma. Anche Jim torna a casa sua ed al suo lavoro. Helen, infine, quasi tradisce il marito, ma alla fine torna a casa senza aver compiuto questo passo (“Slumber Party”). Possiamo, seguendo il film, ipotizzare un finale flashback che spieghi i rapporti tra i vari personaggi ed il meccanismo dell’incidente d'auto: Randy, Paul, e Johnny stavano viaggiando in una macchina dopo un concerto della band di Paul. Johnny dà una birra a Randy e Paul, birra che per gioco aveva agitato. Randy la apre e la schiuma esplode sulla faccia di Paul che stava alla guida (così si spiega cosa faceva Randy con Sam). Un'altra macchina viene dalla direzione opposta, dove sono Julie e Bobby, che guida come un pazzo per portare la ragazza a casa prima dell’ora impostale dai severi genitori. I due piloti (per la birra e la fretta) si distraggono, sterzano improvvisamente e l’auto di Paul ha la peggio. Randy e Julie saranno per sempre rosi dai loro sensi di colpa. Alla fine comunque tutti i personaggi mostrano una migliore comprensione degli effetti che gli oggetti inanimati (birre, auto, bambole, trucchi, ed altri) hanno sulla loro vita. E forse, ne usciranno migliori. Così come speriamo migliori la scrittura della nostra brava newyorchese che aspetto ad altre e più consistenti prove.
Elena Ferrante “Storia del nuovo cognome” E/O s.p. (regalo di Rosa&Emilio)
[A: 07/05/2015– I: 26/07/2015 – T: 01/08/2015] - &&&&---
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 470; anno 2012]
E siamo al secondo volume della tetralogia di Elena Ferrante (su cui non ritorno) dedicato all’amicizia. Chi mi legge assiduamente sa che del primo volume (sempre regalo di Rosa & Emilio che spero ora mi regalino anche gli altri), letto lo scorso anno, ho apprezzato la scrittura, potente e fluida, ma il libro in sé non mi aveva convinto del tutto. Qui siamo senz’altro in ripresa. Sarà forse che le protagoniste crescono e le loro storie mi avvincono più delle vicende infantili (cioè dell’infanzia) narrate nel primo. Sarà che esce di più la personalità della scrittrice, dell’io narrante, questa Elena Greco che cerca, attraverso lo studio di uscir fuori dal mondo chiuso e gretto del rione di Napoli che ne ha visto i natali (uscire per poi apprezzare il buono che comunque quel mondo le ha dato). Sarà anche che Lila, l’amica geniale (che non mi sta per ora proprio simpatica) è a volte più sullo sfondo, anzi talvolta viene lasciata da parte per pagine e pagine. Pur se la sua presenza, ed il rapporto simbiotico palesemente nascosto tra Lila e Lenù è sempre vivo e sempre fa da filo rosso della storia. Se devo fare solo una prima critica personale, mi trovo in difficoltà con tutti i personaggi che girano introno alle pagine. Certo, alla fine delle quasi 550 di questo libro, molti hanno ormai una loro caratteristica, una loro presenza, anche se tuttora, dopo due libri, continuo a confondere Antonio ed Alfonso. Ed anche se c’è una specie di indice dei personaggi all’inizio del volume, riesco sempre a mescolare i parenti tra di loro. Anzi mi sfugge spesso chi è parente a chi. Comunque, si terminò il primo volume con il matrimonio di Lila che poco aveva convinto Lenù. In tutto questo secondo volume assistiamo alle due parabole di vita che coinvolgono le due amiche, tra discese ardite e le risalite (come diceva Lucio). Lenù come detto studia, anche se all’inizio con fatica. E ribadisco che vede lo studio solo come mezzo di uscita dalla vita che sta vivendo, anche se non focalizza uscita per dove e da dove. Si illude di voler bene ad Alfonso (o era Antonio?) ma è fumo. Per 2/3 invece parla del suo trasporto verso Nino, che nel primo l’aveva baciata. Che ora è universitario, che fa grandi discorsi politici (siamo comunque nei primi anni ’60). Nino che ritrova in vacanza ad Ischia, che lei cerca in tutti i modi di conquistare. Ma Nino non se la fila de pezza, perché invece è preso, e da sempre da Lila. Delusione tremenda, tanto che Lenù si concede addirittura al maturo padre di Nino per perdere la verginità. Poi però passa la maturità con buoni voti, tanto che partecipa al concorso e vince una borsa di studio per la Normale di Pisa. L’ultimo terzo del libro è quindi narrato un po’ su ricordi, e molto su quanto poi apprenderà al ritorno dalla città degli studi. A Pisa, fa vita libera, finalmente lontano dalla madre oppressiva. E soprattutto dalla presenza di Lila che ogni volta la tarpa. Così che riesce anche a scrivere un corto libro (137 pagine, dice)  trasponendo le vicende della sua pur breve vita. Ed il suo ultimo amore, tal Pietro di Genova, dai buoni natali e dai buoni contatti, riesce a farlo pubblicare. Dall’altra parte vediamo la parabola inversa di Lila, che si accorge ben presto di non amare Stefano, di aver pensato di sposarlo per raggiungere una agiatezza economica che le consenta di uscire dal suoi mondo chiuso e gretto (quello che Lenù vuole ottenere con lo studio). Ma non è la “sua” vita quella di bottegaia di salumeria, o anche di padrona di negozio di scarpe. E non riesce a far figli con Stefano. E sono proprio le vicende dei negozi che complicano tutto (ed i soldi a quello legati). Con il suo modo “strampalato” di vedere le cose, che solo Lenù riesce a decrittare, si inimica Pina, poi Carmen, litiga sempre di più con i Solara (i mafiosi del rione), e soprattutto si avvia verso la rottura con Ada. Come detto, ovvio, ha delle uscite geniali. Il primo modello di scarpe, l’arredo del negozio. Ma è un giullare, capace di singole imprese mirabili ma a cui manca la continuità. E quando ad Ischia ritrova Nino, un’altra persona capace di risvegliare il suo lato geniale, si dà fino in fondo all’amore proibito. Pur sapendo che Lenù è presa da Nino, lo vuole per sé, lo prende. E tornata a Napoli continua ad averlo come amante. Tanto che finalmente rimane in cinta. Ma quando decide di fuggire con Nino, la quotidiana convivenza sopravvivrà solo 23 giorni. Troppo forte il suo carattere. Per chiunque. Ed anche Nino si perde e fugge. Lila torna per un po’ con Stefano. Partorisce Rinuccio, il figlio di Nino. Cerca di sopravvivere. Ma intanto il marito si era già allontanato, instaurando una tresca stabile con Ada. Allora si, che Lila e Rinuccio fuggono, rifugiandosi dall’amico Enzo, in un rapporto di convivenza e di amicizia senza sesso. Anche se Enzo è da sempre innamorato di Lila. Il libro si chiude con un dibattito in una libreria di Milano per la presentazione del libro di Lenù. E sull’intervento, più o meno critico, che fa uno spettatore. Che guarda caso è proprio lo scomparso Nino. Mi accorgo, rileggendo, che ho narrato la storia a modo mio. Saltando molte parti. Ma questo è il mio modo di tramare. Non è detto che si debba fare un riassunto del libro. Io tiro fuori quelle bolle che le parole mi hanno fatto scaturire. Saltando, tralasciando, fissandomi magari su elementi marginali, che a me hanno comunicato qualcosa. Ed alla fine, sono comunque contento di aver avuto questo regalo che mi ha forzato a leggere questo secondo libro. E mi ha incuriosito di sapere cosa succede negli altri.
Essendo questo novembre trascorso molto altrove, solo in quest’ultima settimana vi posso deliziare con una nuova puntata delle cure libropeutiche, anche se l’argomento ed il commento non sono centrati come al solito.
Si affaccia quindi un operoso dicembre, forse anche affollato, crescendo bambini ed aumentando viaggi. Che l’anno nuovo si dovrebbe iniziare a Cuba, e questo vecchio finirlo un po’ come si era cominciato or saranno cinquantacinque anni fa. Io continuerò ad essere misterioso, come sono e fui.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

NOVEMBRE 2015
Per questo novembre passato nell’India mistica, le nostre ineffabili curatrici ci propongono opportunamente un discorso sulla fede. Anche se vista da diversi angoli, e se dobbiamo sempre chiederci cosa intendiamo con questo “nome”.

FEDE, PERDERE LA

Paul Torday “Pesca al salmone nello Yemen”
William Peter Blatty “L’esorcista”
Rachel Joyce “L’imprevedibile viaggio di Harold Fry”
Per alcune persone, avere fede significa credere in Dio, per altre significa credere che la vita abbia un senso e per altre ancora significa credere nella bontà del mondo. Qualunque cosa significhi per voi, perdere la fede può spegnere la luce nella vostra vita. In momenti del genere abbiamo bisogno di romanzi che ci restituiscano ai principi di cui abbiamo bisogno per trovare sostegno, se vogliamo andare avanti con gioia e con fiducia. La nostra cura prevede tre approcci diversi alla fede; scegliete quello che sembra più adatto a voi.
Se per voi la fede è il trionfo delle convinzioni personali sul dato scientifico, “Pesca al salmone nello Yemen” diventerà la vostra Bibbia. Quando Fred Jones, funzionario responsabile del Centro Nazionale per l’Eccellenza nel settore della pesca, riceve una lettera che chiede il suo aiuto per introdurre il salmone, e la pesca al salmone, nello Yemen, lui fa quello che farebbe ogni scienziato che si rispetti - rifiuta. È «senza senso» - «risibile» - sfidare le leggi della natura per il capriccio di uno sceicco con troppi soldi e privo di cultura. Questo, però, succede prima che Jones incontri lo sceicco Muhammad e scopra il potere di un uomo determinato. Lo sceicco Muhammad infatti è un visionario e, come il dottor Jones presto si renderà conto, non si tratta tanto di pesca quanto di fede. Questo rassicurante romanzo servirà a rinnovare la vostra convinzione che la fede, come si sa, può spostare le montagne.
Se è la vostra fede in Dio a essere messa in dubbio “L’esorcista” vi procurerà una scossa elettrica lungo la colonna vertebrale così forte che potrebbe anche bastare a farvi cambiare idea. In questo agghiacciante romanzo - forse il più terrificante che conosciamo - una madre si convince sempre di più che la figlia, Regan, sia posseduta e in preda alla disperazione fa venire a casa Padre Karras. Anche lui, in quel momento, sta mettendo in discussione la propria fede in Dio, ma l’orrore tangibile e infernale che vede agire nella povera Regan afferma con tale chiarezza la presenza del Diavolo che l’uomo ricomincia a credere all’esistenza del Bene e del Male. Il romanzo potrebbe farvi lo stesso effetto.
Se invece avete smarrito il senso di tutto - e pensate che non ha più importanza nemmeno essere buoni o cattivi - possiamo proporvi una cura più leggera. Harold Fry è un pensionato dai capelli grigi, scoraggiato, che a stento scambia convenevoli con la moglie e che ha perso i contatti con il figlio adulto. Quando riceve una lettera dalla sua vecchia amica Queenie e viene a sapere che sta morendo di cancro, le scrive una cartolina e va subito a imbucarla. Durante il tragitto gli rimane in testa una conversazione del tutto casuale con una benzinaia (la «ragazza del garage»), e quando arriva alla cassetta delle lettere invece di imbucare la cartolina continua a camminare – e fa tutta la strada da Devon a Berwick-on-Tweed, in effetti, dove vive Queenie, sempre più convinto che finché camperà per raggiungere l’amica lei resterà in vita.
Durante quel viaggio, la fede di Harold viene messa alla prova molte volte, ma lui crede nella Provvidenza, non prende mai più di quanto gli serva, dorme all’aria aperta piuttosto che nelle case della gente e diventa sempre più simile a un pellegrino di un’altra epoca. Alla fine i media si accorgono di lui e presto diventa famoso proprio come «il pellegrino»: tutti vogliono toccarlo ed essere toccati da lui. La fede, a quanto pare, è contagiosa. Sua moglie Maureen si innamora di nuovo di lui, a distanza, e Queenie... Beh, non vi resta che leggere e scoprirlo.
Nei momenti di maggiore desolazione, quando avrete perso la fede nella vita, in Dio, nell’amore, in qualcun altro o in voi stessi, rivolgetevi a questi romanzi per affermare di nuovo alcune verità fondamentali. Perché la ragazza del garage ha ragione: «Se hai fede, puoi fare qualunque cosa».

Bugiardino

Non ho letto, anche se ci farò un pensierino, il libro di Rachel Joyce. Ma soprattutto non ho né letto il libro né visto il film dell’indemoniata Regan. E ancora più fermamente non credo che lo farò in futuro. Per cui, mi rimane nel solco della fede di cui si parla sopra, lo strano libro di Paul Torday sul salmone e lo Yemen. Che ha un pregio diverso, per me, dove cerca di mettere in crisi tutto un modo di affrontare la politica estera da parte dei paesi occidentali. Certo c’è anche lo sceicco, e la sua fede nella sua idea. Ma vediamo meglio.
Paul Torday “Pesca al salmone nello Yemen” LIT euro 9,90
[pubblicato il 30 agosto 2015]
Anche questo è uno di quei libri che non sarebbero entrati nella mia copiosa biblioteca senza la spinta di opportuni e mirati suggerimenti. E bene ho fatto, che, anche se non è un libro stravolgente, mostra una indubbia capacità dell’autore di cogliere aspetti assurdi della vita, trattarli con efficacia e costruirvi intorno un libro rimarchevole. Peccato che poco dopo la pubblicazione di questa opera prima (scritta dall’autore già sessantenne) il nostro Torday muoia di un male incurabile. Anzi, è proprio questa malattia che lo aveva spinto, lui industriale di discreto successo nel campo petrolifero, a riprendere in mano la sua passione giovanile e dedicarsi alla scrittura. Ma non parliamo degli altri suoi lavori, rimaniamo a questo, ed alla sua natura eclettica ed umoristica. Che inizia già dal titolo che ci cattura: pesca al salmone nello Yemen? Infatti, se doveste immaginare di pescare salmoni – un pesce tipico di corsi d’acqua freddi e impetuosi, generalmente molto nordici – in un polveroso uadi tra gli infuocati canyon delle montagne dello Yemen penserete tutti ad un errore. Una cosa fuori da ogni logica, senza alcun senso, priva di qualsivoglia razionalità, scientifica, biologica. Un’assurdità, insomma. In effetti è la stessa opinione che matura il professor Fred Jones, idrobiologo dell’ENPI – l’ente per la tutela e lo sviluppo del patrimonio ittico nei fiumi. Lo pensa fin da subito, ne andrebbe peraltro del proprio onore scientifico imbarcarsi in una assurdità del genere e non lo ritiene proprio il caso, dato che pure la vita privata non gira certo nel migliore dei modi – Mary, la moglie, è una donna in carriera alla quale prospettano un prestigioso trasferimento all’estero che lei decide di accettare subito, palesando così la fragilità del rapporto matrimoniale con Fred, probabilmente fin dall’inizio mancante di autentico amore e semmai soprattutto conveniente e “funzionale” ad entrambi. Una crisi matrimoniale in piena regola, insomma, durante la quale il professor Jones, gioco forza costretto dai suoi capi a prendere in mano il folle progetto di introduzione del salmone nello Yemen, conosce il fautore di esso, lo sceicco Muhammad ibn Zaidi, ricchissimo yemenita con la passione per la cultura britannica e, ancor più, per la pesca sportiva nei fiumi di Sua Maestà: una persona affascinante, visionaria e spiritualmente assai profonda. Ma, soprattutto, Jones conosce la giovane e bella Harriet, dipendente della società incaricata dallo sceicco di realizzare materialmente il progetto, della quale, stante la sua situazione matrimoniale e nonostante lei sia già impegnata con Robert, un ufficiale dei Royal Marines di stanza in Iraq, ben presto si innamora. Noi seguiremo tutta l’intricata vicenda attraverso quello che è uno dei punti forza del romanzo: la sua particolare struttura narrativa. Il progetto che dà il nome al libro viene infatti raccontato al lettore prima attraverso le pagine del diario personale di Fred, poi dalle lettere di Harriet, poi dalle mail tra Fred e Mary, dallo scambio di mail tra l'ENPI e il Ministero dell'Ambiente e dell'Agricoltura, dalle note del Ministero degli Esteri, da stralci di giornale, dalle lettere secretate di Robert dall’Iraq, dai resoconti stenografici delle Commissioni Parlamentari. Seguiamo il progetto, passo dopo passo, dalla sua ideazione fino alla sua concreta, ma non priva di ostacoli, realizzazione. Un invito, in altre parole, a cercare di dare sempre il meglio di noi stessi, anche quando tutto sembra andare per il verso sbagliato. È comunque ed alla fine un tentativo non solo di dare un senso umoristico al tutto, ma anche di critica sociale (castiga ridendo mores, che, ricordo ai più smemorati, non è una tradizione del latino antico, ma una frase del latinista francese del XVII° secolo, Jean de Santeul). Dalle manie di successo della moglie Mary, agli strani comportamenti di fondamentalisti mediorientali, dalle follie della politica estera britannica ai comportamenti giornalieri di chi quella politica dovrebbe attuarla per il bene della patria. terminando, realisticamente, con una citazione di Tertulliano che riassume sia il senso del progetto “Salmone” sia quella della vita dei protagonisti: Certum est quia impossibile est (è certo perché è impossibile). Solo nel finale, il nostro Torday si incarta un po’, ma non ci saremmo mai aspettati un lieto fine da tutta la storia. E così sarà, anche se vi esorto a leggere il libro per scoprirne meglio tutte le sfumature. Vale la pena.

Conclusioni

Per quanto detto nell’introduzione al bugiardino, e per quanto mi consentono le mie capacità di cui so bene i limiti, non mi addentro in un discorso più dettagliato su cosa sia fede, su cosa rappresenti nella testa e nel cuore di ognuno di noi, e cosa possa voler dire la sua scomparsa dall’orizzonte dei nostri punti ideali. Mi limito a sottolineare quanto detto nella trama, dove il detto di Tertulliano penso sia riproponibile anche per gli altri libri citati e non letti. Soprattutto perché Tertulliano è un apologeta cristiano del II° secolo, nato e vissuto in Tunisia.

domenica 22 novembre 2015

Pallone a metà - 22 novembre 2015

Dopo tre settimane di lontananza ecco ritornano trame ed altro. Intanto un caloroso benvenuto a nuovi lettori e lettrici. E si riparte con una disamina di alcuni libri editi da Repubblica lo scorso anno per i Mondiali. A metà, che abbiamo due interessanti scritture, quella del serbo-svizzero Dimitrijević e quella dell’a me sempre caro Soriano. Due meno, la finta ironia di Marsullo ed un romanzo che parla spesso d’altro dell’inglese Cartwright. Credo poi che questa collana non sia delle più riuscite, ma vedremo poi nella seconda metà (del pallone).
Vladimir Dimitrijević “La vita è un pallone rotondo” Repubblica Pallone 8 euro 6,90
[A: 14/07/2014– I: 23/12/2014 – T: 26/12/2014] - &&& e ½  
[tit. or.: La vie est un ballon rond; ling. or.: francese; pagine: 166; anno 1998]
Vladimir Dimitrijević era jugoslavo. Un’affermazione dura e difficile per uno che nasce nel ’34 in una città ora capitale della Macedonia (Skopje) e che si professa serbo, almeno fino all’unificazione del mondo oltre Adriatico sotto Tito. Ma era jugoslavo, e da slavo, non accettando il regime, riuscì a rifugiarsi in Svizzera nel 1954, prima da clandestino, poi con i documenti in regola, facendosi ingaggiare da una squadra locale. E seppur il calcio sarà sempre la sua passione (prima in patria, poi da espatriato), quello che gli darà da vivere, e per cui ci diventa una persona cara, sarà la letteratura. Decide di aprire una casa editrice per far conoscere la letteratura dell’Est europeo, costruendo dal nulla “Âge d’Homme”, e su questa nuova avventura costruirà tutto il resto della sua nuova vita. Sino ad una morte assurda a 75 anni, per uno scontro frontale con un trattore del suo camioncino carico di libri con il quale stava andando da Losanna a Parigi. Non è superfluo questo excursus biografico, perché questo suo unico libro di memorie, legando insieme pallone e vita, ne ripercorre le tappe e con lui partiamo dai campi di calcio serbi sino alle grandi distese svizzere. Ma non è un libro di calcio, per Vladimir questo è un libro, e, data la sua vita, è, anche, la metafora della vita stessa. Certo, si parla di calcio, e molto, con tante micro-citazioni da giocatori noti, a meteore calcistiche internazionali, sino ad oscuri campioni locali, magari e giustamente noti in patria, ed ai loro tempi, ma che a pochi di noi dicono qualcosa. Vladimir infatti ci porta attraverso mille piccole storie di calcio dai campi senza erba di Belgrado fino ai mondiali (dal primo che seguì in diretta all’inizio del suo rifugio, i mondiali del ’54 in Svizzera sino a quelli del ’94 in USA, con la sconfitta dell’Italia ai rigori sul Brasile). Così, per cenni e per indizi, vediamo ogni tanto uscire dalle pagine Puskas, Di Stefano, Beckenbauer, Schillaci, Pablito Rossi, Crujff, Diego Maradona (che piace a tanti, ed anche al nostro, ma verso cui non ho mai avuto grande passione) e tanti altri, fino a José Leandro Andrade (la mezzala anima dell’Uruguay campione del mondo nel ’30, poi dimenticato e morto a 50 anni, solo, ubriaco e cieco), Zoltán Czibor (l’ala sinistra della Grande Ungheria, quella cui fu rubato il mondiale in Svizzera dai forsennati tedeschi), Ernst Ocwirk (attaccante austriaco, idolo della Sampdoria nel quarto posto del campionato 1961) e Ljuba Lovrić (il portiere mito della Jugoslavia della fine degli anni Trenta, eroe della vittoria contro l’Inghilterra nel 1939). E non vi cito tutti gli “ic” delle formazioni slave che menziona il nostro ogni tanto. Sono bei momenti, ma non è (solo) questo il libro. Il libro è metafora, come la letteratura, come la vita. Per Vladimir, appunto, l’uso della gamba al posto delle mani, comandate più dal cuore che dal cervello, è un modo di rappresentare la vita. Certo la vita di chi ha preso a calci un pallone, e da quel momento non ha mai dubitato che il cielo fosse un immenso campo di calcio blu con un pallone al centro. E sono questi i momenti migliori, quelle pagine di pensieri, di piccoli ritagli di vita quotidiana, e delle sue riflessioni sull’atteggiamento che una sana visione di gioco poteva indurre. Certo Vladimir sarebbe poco contento del calcio attuale, guidato solo dal dio denaro, con tanti troppo scandali ad inquinarne l’esistenza. Chiudo con un commento magistrale su questo libro che ho “rubato” dal blog “Lacrime di Borghetti”: “Un libro da leggere e rileggere per perdersi e poi capire ogni volta in che zona del campo e in quale minuto di quella partita chiamata esistenza ci troviamo”. Non sempre sono d’accordo, non è tutto luci, ci sono molti passaggi in minore. Ma è il primo libro di questa collana dedicata al pallone che leggo (anche se l’ultimo ad essere pubblicato). E non mi è affatto dispiaciuto immergermi con Vladimir nei campi d’erba e nella sua vita. Un solo appunto, Nel ’39, quando Lovrić parò di tutto contro l’Inghilterra, l’Uruguay aveva vinto solo un mondiale (il secondo lo vinse in quella partita storica del ’50 in Brasile, dove ancora i Brasiliani ne portano il lutto, tanto da non aver più utilizzato quella maglia in nessuna partita ufficiale).
“Nel calcio, ricerchiamo l’agilità e la perfezione in un arto che di solito rimane in fondo alla classe, nell’oscurità. Mi si potrà obiettare che il balletto e la danza si servono delle gambe proprio come il calcio. Vero, ma con la piccola differenza che la specializzazione totale si innesta immancabilmente sul canone estetico. Perfino la bruttezza ne risulta stilizzata. Garbato, terribilmente aristocratico, il balletto è l’emblema del buongusto. E il buongusto è la perfetta convenzione. Il calcio non è aristocrazia, è nobiltà. Vi è in esso un’uguaglianza che non esiterei a definire cristiana. Non esiste un modello di giocatore ideale. Tutti i calciatori eccezionali trasformano un palese difetto in una qualità sublime”. (56)
Marco Marsullo “Atletico Minaccia Football Club” Repubblica Pallone 3 euro 6,90
[A: 07/06/2014– I: 28/02/2015 – T: 02/03/2015] - && e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 223; anno 2012]
Seconda lettura dei libri usciti lo scorso anno in concomitanza con i mondiali di calcio in Brasile. Seppur l’autore scriva in modo scorrevole, ed il libro si legge con piacevole ironia, alla fine risulta un po’ piatto. Il plot, se si tolgono le topiche dedicate espressamente al mondo del calcio, sembra infatti ricalcare stereotipi dei classici avventuroso-comici. C’è il personaggio principale, sfortunato a cui va tutto mediamente storto, che viene incaricato di risolvere una questione che si presenta senza speranza. Per aiutarlo, viene circondato da altrettanti personaggi che non hanno né arte né parte, e che, ovviamente, sembra facciano di tutto per affossare definitivamente tutta la baracca. Il nostro cade sempre più in basso (tipo, viene abbandonato dagli amici, viene lasciato da moglie/fidanzata/compagna, viene cacciato di casa, e chi più ne ha più ne metta). Gli restano soltanto due cose in positivo, di cui lui non sembra conscio: un portafortuna ed i consigli di una persona a lui vicina (un amico, un/una figlio/a, una ragazza, e così elencando). Il nostro recepisce il messaggio e da quel punto in poi tutto sembra andare per il meglio. Ricostruisce l’affare che sta andando a male, recupera amici, probabilmente recupera anche la moglie/fidanzata/compagna. C’è solo da superare un ultimo ostacolo per l’apoteosi finale. Qui, ogni libro ed ogni autore decide a modo suo. I buonisti vanno verso l’happy end. I pessimisti vedranno cadere il castello sotto l’ultimo ostacolo e tutto tornare nella melma precedente. La terza via si orienta verso una via di mezzo, che avrà sempre due possibilità: superare gli ostacoli e risolvere i problemi, ma perdere amici e compagne, o cadere sull’ultimo ostacolo, avendo fatto di tutto, e quindi recuperando stima, amicizie e mogli/fidanzate. Marsullo, alla fine, opta per questa ultimissima soluzione, dopo averci infarcito un paio di centinaia di pagine con qualche stereotipo sia di calcio che di umanità varia. Si perché se leggete la trama mettendo al centro Vanni allenatore sfortunato, una squadra scalcinata (appunto l’Atletico Minaccia) e portate tutto nel campionato dilettantesco campano, ecco che in poche righe avete il libro di fronte a voi. C’è qualche timido tentativo di frecce “sociali”: giocatori sull’orlo di droghe più o meno lecite, camorra che spinge con tutti i mezzi per vincere le partite, ed altre amene situazioni. Ma tutto un po’ leggero, sul filo della comicità più da Colorado che da Zelig. L’Atletico è sponsorizzato da una ditta di mobili che per colori sociali ha il giallo ed il rosa (una tuta da paura). Ci sono i tic dei giocatori (il trasportatore di mobili, l’elettricista, il colitico, il giovane e promettente Nino, l’inetto, il croato che parla toscano, il barese che quando parla non si capisce, ma che conosce Cassano, il guardiano che spezza le gambe, il panchinaro che parla solo attraverso le canzoni, ed intonerà “La leva calcistica del ‘68” durante l’ultima partita, e quindi avete già capito tutto). C’è il direttore sportivo, con tanto di SUV e di donnine al contorno (ma che alla fine trova l’amore con una slovacca e andrà a vivere nella campagna moldava). C’è Vanni con la sua fissa per “zero tituli” Mourinho, ma soprattutto con l’unica persona che crederà sempre in lui, la figlia Chiara, che con le sue perle di saggezza da adolescente under-10 farà rinsavire il Vanni. Ora, non dico che il calcio non sia o possa essere una cosa seria, ma, pur non apprezzandone tutto lo scritto, di ben altra levatura è un “Febbre a 90°” di Hornby. Vedremo se altri libri della serie riusciranno a risollevare queste uscite, che, per ora, si mantengono su livelli medio-bassi di resa e di coinvolgimento.
Anthony Cartwright “Heartland” Repubblica Pallone 6 euro 6,90
[A: 27/06/2014– I: 10/09/2015 – T: 12/09/2015] - && e ½  
[tit. or.: Heartland; ling. or.: inglese; pagine: 302; anno 2009]
Sapete (o anche se non lo sapete, potete ricostruirlo con i miei salti olimpici da lettore onnivoro) che ci sono lunghe liste di letture che mi attendono. Così ecco che solo ora capita tra le mani il terzo degli otto volumi che Repubblica dedicò al calcio per celebrare i mondiali brasiliani del 2014. (E ne riconoscete dalle sigle che ricordo sono A per la data d’acquisto, I per l’inizio della lettura e T per la fine). Non conoscevo l’autore, ed avevo sentito che l’originale era uscito in Italia presso i tipi dell’editore da poco sorto a rilevanza nazionale “66thand2nd” (interessante editore di cui lessi un paio di anni fa un buon libro dal titolo “il cielo color melograno”). Devo dire che, a fine lettura, riconosco all’autore una buona dose di capacità letterarie e di intreccio, anche se, in alcuni punti, il libro si sfilaccia. Anche perché pieno di nomi e di personaggi, che, per il modo molto “trascinato” come si svolge il racconto, a volte ho perso di vista. Riconosco meno, invece, la coerenza della collocazione, che si parla si di pallone, ed il personaggio (o almeno uno dei) cui la vicenda ruota intorno è un trentenne ex promessa del calcio. Certo, ci sono due partite intorno alle quali tutto l’impianto romanzesco ruota: la partita delle eliminatorie del torneo mondiale del 2002, tra Inghilterra e Argentina e la partita del campionato dilettantesco locale tra il Cinderheath Sunday ed il Cinderheath Muslim Community. Come vedete dai nomi e come immaginate dalle collocazioni temporali, la partita tra inglesi ed argentini non poteva che sottolineare la reciproca rivalità dopo la guerra Falkland-Malvinas. E la contemporaneità con la seconda, collocata quindi nel giugno del 2002, non può che sottolineare uno scontro con l’islam a pochi mesi dall’11 settembre. Ma se le due partite sono importanti, dando il ritmo alla narrazione, quello che interessa l’autore, e che ci vuole presentare, è uno spaccato dell’Inghilterra nei primi anni di questo secolo. Una nazione già multi-raziale, e già venata di problematiche legate al razzismo ma anche alla povertà. Si dipana così la descrizione della vita locale, con i vari personaggi. Rob, il promettente calciatore che lascia la scuola per le selezione giovanili di squadre di primo livello (va anche in panchina all’Aston Villa), ma che non sfonda mai, e si ritrova a trent’anni a fare l’insegnante di supporto alla scuola locale, cercando di tirar fuori dalla melma i ragazzi problematici, e con l’ovvia delega all’educazione fisica, dato il suo passato. I suoi rapporti con la comunità islamica, incarnata nei fratelli Zubair e Adnan. Il primo che si integra nel mondo locale, diventando avvocato. Il secondo che si isola, e che ad un certo punto, a metà dei ’90, sparisce. L’altra comunità è poi quella pakistana, che si istanzia con la meticcia Jasmine Qureishi, compagna di Rob e Adnan alle elementari, poi insegnante in Londra con una lunga storia con l’anziano Matt. Che lascia avendo ritrovato casualmente Adnan nell’estate del 2001. Con il quale ha una breve ed intensa storia d’amore, troncata da quest’ultimo che non riesce a tornare nel mondo normale, e che sparisce nuovamente. Lo ritroveremo, mentre tutti pensano sia morto nelle Torri Gemelle, millantando alcuni che sia addirittura passato ad Al-Qaeda, allo stadio di Seul, a vedere la partita che Rob e compagni seguono al pub. Partita legata anche al duello tra due portabandiera delle due nazionali: Batistuta da un lato e David Beckham dall’altra. Nonché all’arbitro, che fu il grande italiano Collina. Ma se volete seguire la partita, potete leggerne altrove. Più avvincente la partita tra le due anime di Cinderheath, dove un contro l’altro giocano Rob e Zubair. Partita che finisce con un sofferto pareggio, che tuttavia non serve a nessuna delle due per vincere il campionato. Poi c’è Jim, lo zio di Rob, nonché assessore locale del parlamentino cittadino, che nello stesso periodo fa campagna elettorale nelle elezioni suppletive, scontrandosi, lui laburista, con l’agguerrito avanzare del BNP, il partito d’estrema destra inglese che in quegli anni mieteva successi. Ecco quindi che si legano tutte le tematiche, i razzismi incrociati, il degrado inglese post-Thatcher senza che le immagini dorate di Blair portino a nuovo splendore, la lotta tra bande giovanili, l’analfabetismo, l’alcolismo, la voglia di rapporti con l’altro sesso (che Rob non riesce a far maturare né con Jasmine né con Stacey), le ragazze-madri, i giovani sbandati, lo sport come mito e riscatto, la parabola discendente del padre di Rob, anche lui promettente calciatore stroncato da un’incidente di gioco. Insomma tante piccole e grandi storie di miseria. Con l’illusione che il rigore di Beckham possa riscattare tutto. Ma noi ben si sa che il calcio serve solo ad ottundere maggiormente la coscienza dei popoli (vedi i nostri ultimi venti anni). Alla fine una narrazione con tanti spunti, tanti elementi, e tanti momenti che non riescono a concretizzarsi in qualcosa di veramente avvincente. Qualcosa di buono, ma sotto, anche se di poco, alla mia personale sufficienza.
“Con figli e marito una pensa di cavarsela meglio invecchiando, ma mica è detto.” (156)
Osvaldo Soriano “Pensare con i piedi” Repubblica – Pallone euro 6,90
[A: 24/06/2014 – I: 16/09/2015 – T: 18/09/2015] - && e ½ /&&& e ½     
[tit. or.: Cuentos de los años felices; ling. or.: spagnolo; pagine: 238; anno 1994]
Due valutazioni per questo libro di racconti, che non è riuscito completamente, anche se mi riporta sulla pagina del grande argentino, cui ho voluto tanto bene per una serie lunga di motivi, e che sono ormai 18 anni che ci ha inconsolabilmente lasciati. La votazione più bassa è sul complesso del lavoro, ma anche sulle scelte editoriali che non condivido. Questi racconti furono pubblicati anni fa da Einaudi con il loro titolo originario (“I racconti degli anni felici”), e con questo titolo da me inserito nelle ricerche future, aspettandone una versione economica che quando ne uscì traccia su Repubblica - Libri costava ben 16 euro. I racconti derivavano da tre mini raccolte: “Nel nome del padre”, “L’altra storia” e “Pensare con i piedi”. Ora, sapendo che Soriano era un grande appassionati di calcio (e tra l’altro tifoso del San Lorenzo de Almagro, come papa Francesco) i curatori di questa collana di Repubblica che continua a convincermi poco ne hanno fortemente voluto l’inserimento, utilizzando l’ultimo come titolo “da richiamo”. Ed è vero che in quel pezzo di raccolta ci sono 6 brani dedicati al calcio, ma sono tutto altro rispetto all'equilibrio complessivo del libro. Soprattutto a quella bellissima prima parte, dove in 17 piccoli elzeviri Osvaldo ricorda e ci ripropone la storia di Valentin Alberto Soriano, suo padre, ispettore delle acque nell’Argentina del Sud. Visionario e vagabondo. È seguendo il padre, che l’azienda delle acque mando in giro per venti anni in molta Argentina, ed in particolare in molta Patagonia, che si forma il nostro  Osvaldo. Che incontra personaggi strani e tristi, che popoleranno la sua opera migliore (“Un ombra ben presto sarai”). Ed è in questi bozzetti, non racconti ma ricordi, che Soriano riesce a dipingere la figura paterna, dato che è sempre difficile fare i conti e conciliarsi con qualcuno di così preponderante nella propria vita. E riesce anche a darci un quadro, fuggevole e pur tuttavia intenso, dell’Argentina degli anni Cinquanta. Di quella Argentina lontano dai facili bagliori di Buenos Aires. Lì nel profondo Sud, povero e desolato, sono lontani i miti patriottici, è lontana l’agiatezza possibile. Si lotta per l’acqua, si spera nel petrolio. Si incontra gente, si parla. Lì Osvaldo nasce come seguace di Peron, come molti, tanti, in quegli anni, per il populismo di maniera che il dittatore evocava. Lì Osvaldo diventa un fervente idolatra di Evita, la “Santa Madre” degli Argentini. E come non andare a quell'intenso film di ormai venti anni fa, con Madonna nella parte di Eva Duarte (senza dimenticare Banderas come Ernesto Guevara). Un immagine su tutti, la multa che il padre non riesce a dare ad un prepotente che consuma troppa acqua, ed il padre con la fionda di Osvaldo, gli rompe il vero di una finestra. Ecco, bastano dei tocchi così per dare senso e misura ad un rapporto che, come molti, troppi, non si è riusciti in vita a trasformare in dialogo. La seconda parte, invece, non mi ha preso quasi per nulla, troppo legata alla storia argentina, ai suoi miti, a cose che per loro sono importanti e vitali, ma che non conosciamo da qui, ed a volte ci sembrano sterili. Gli avvenimenti del 1810, San Martin ed altro. Peccato anche quel refuso di stampa che fa morire il rivoluzionario della Primera Junta nel 1881 invece che nel 1811! Fin a quel piccolo “pastiche” su Robespierre poco intrigante. Si risale con l’ultima parte, quella dedicata alla palla rotonda. Al bellissimo rigore più lungo del mondo, fischiato all'ultimo minuto di una partita intensa, sospesa per intemperanze, ripresa in quell'ultimo minuto una settimana dopo. E se noi si ricorda quel “Prima del calcio di rigore” di Peter Handke, qui, in poche righe, Soriano ci riporta all’ansia dei tifosi, alla paura del portiere, ed a tutto quello che si condensa in pochi minuti in un rigore, dilatandolo in una lunghissima settimana. O il lungo viaggio della squadretta di giovani locali che va a sfidare la guarnigione inglese di stanza alle Malvinas, senza mai riuscire ad arrivarci per una serie infinita di intoppi. O la figura del mister Pellegrini, duro, implacabile, che avrebbe potuto fare di lui un calciatore, che si inventava ruoli e situazioni prima che la figura dell’allenatore diventasse un emblema quasi totemico. Nonché la figura del figlio di Butch Cassidy (che sappiamo fuggì in Patagonia insieme a Sundance Kid, come se ne trova traccia nelle belle pagine patagoniche di Chatwin o cilene di Sepúlveda), rimasto lì in Argentina e diventato cow-boy ed arbitro per necessità di vita. Una chicca che lui stesso racconta di aver buttato di getto dopo aver visto palleggiare Maradona a Trigoria. Sono scritti, questi, che pubblicò sparsi a suo tempo su “Il Manifesto”, servendo come antidoto ad uno sport che già cominciava a drogarsi e che ormai è diventato un qualcosa di alieno, rispetto alla purezza filosofica delle partite del secolo scorso. Ho sempre voluto bene a questo tristo argentino, scrittore, esule e poi a quarant'anni finalmente di ritorno nell'amata Baires. Hasta siempre, Osvaldo!
Ecco, prima trama del mese, anche le letture augustane, dominate da una rilessante lettura dei gialli di Agatha Christie, pur senza troppe vette. Ma illuminata dal bel libro della Yourcenar e dal bellissimo saggio su povertà e ricchezza di Jared Diamond.
#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Elena Ferrante
Storia del nuovo cognome
E/O
s.p.
3
2
Agata Christie
Due mesi dopo
Corriere della Sera
6,90
3
3
Marco Polillo
Testimone invisibile
Corriere della Sera
6,90
3
4
Gianrico Carofiglio
Una mutevole verità
Einaudi
12
3
5
James M. Cain
Il postino suona sempre due volte
Adelphi
9
3
6
Jared Diamond
Da te solo a tutto il mondo
Einaudi
13
4
7
Agata Christie
La domatrice
Corriere della Sera
6,90
3
8
Marguerite Yourcenar
L’opera al nero
Feltrinelli
9
4
9
Agatha Christie
Il Natale di Poirot
Corriere della Sera
6,90
3
10
Agatha Christie
È troppo facile
Corriere della Sera
6,90
2
11
Sofi Oksanen
When the Doves disappeared
Atlantic Books
9,79
3
12
Agatha Christie
Poirot non sbaglia
Corriere della Sera
6,90
3

L’India è stata al solito bella, coinvolgente, con un gruppo di grandi capacità viaggiatrici. Ora però ci si riposa, per sistemare case, cose, Natali ed altro. Certo, dovesse apparire una Patagonia all'orizzonte non ci si fermerebbe certo. Ma non sarà sul breve. Ricordo a tutti di scrivermi per dubbi ed approfondimenti.