domenica 26 febbraio 2023

In particolare, Zilahy - 26 febbraio 2023

Ogni tanto ritornano trame dedicate ai gialli italiani, di cui, penso si sappia, sono un attento osservatore. Questa volta, in particolare, c’è una grossa fetta dedicata a Mirko Zilahy ed alla sua trilogia con al centro il commissario Enrico Mancini. Una trilogia andata in calando, ma che, nel suo complesso, ha un buon grado di leggibilità. Meglio del giallo, un po’ filologico, di Crovi, e decisamente superiore al poco interessante lavoro di Federico Inverni.

Mirko Zilahy “È così che si uccide” Corriere Thriller Psicologici 10 euro 7,90

[A: 24/09/2018 – I: 19/06/2022 – T: 20/06/2022] &&& -- 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 408; anno: 2016]

Ero curioso di leggere l’inizio della trilogia thriller di Mirko Zilahy, di cui mi aveva accennato il Bissa. Ed anche perché un autore romano ben ci sta nelle mie letture. Il risultato è stato di sicuro gradevole, anche se mi aspettavo qualcosa di meglio. Non mi hanno convinto alcune costruzioni di scrittura, mi ha lasciato un po’ freddo il meccanismo thriller e la sua decodifica finale. Di certo, invece, mi ha coinvolto l’aggirarsi di una serie di scene in una Roma particolare. Quella tra il Gasometro, San Paolo fuori le mura e Testaccio, quest’ultimo non a caso perché ogni volta risveglia sentimenti familiari.

Su Testaccio parleremo anche in altra sede, anche se in zona ho prima passato domeniche su domeniche tra i mei cinque e dieci anni, e poi tanto tempo scandito dalle feste familiari sui colli aventiniani. Ma questa è un’altra storia.

Torno al libro, iniziando dalla cosa che meno in assoluto mi ha convinto. L’inserimento cioè in questa collana di “Thriller psicologici”. Una scelta del Corriere per riempire una collana, sebbene questo di Mirko sia certamente un thriller a tutti gli effetti, ma sul lato psicologico non mi pare abbia le cartucce del caso. Certo, ognuno di noi, come il killer, come il commissario, e come tutti i protagonisti del libro, scavando, ha un lato psicologico da approfondire e da esorcizzare. Ma il termine della collana, come detto anche altrove, è ben caratterizzante un genere cui il buon libro di Zilahy non aderisce.

Che qui abbiamo un thriller in piena regola, imperniato sulla figura del commissario Enrico Mancini. Uno dei commissari di punta del panorama romano, specializzatosi a Quantico (diventato ormai un must), ma tornato abbastanza distrutto in Italia in seguito alla morte per cancro dell’amata moglie Marisa. Così che ora dirige il commissariato di Roma Montesacro, cercando di rimanere molto defilato. È anche abbastanza maniacale, non ama i contatti con altri, indossa sempre i guanti, ed ogni due per tre ci riempie l’anima della moglie morta.

Nella sua zona, ed in particolare a Testaccio avviene il primo omicidio. Efferato, chirurgico, con una rivendicazione tra il plausibile e lo sfidante. Una mail (che diventeranno tante) che di sicuro nascondono qualcosa, non a caso viene firmata da un fantomatico “Ombra”. All’inizio c’è molto poco, tanto che Mancini si vorrebbe tirare indietro. Solo dopo il secondo omicidio, e la seconda rivendicazione, Mancini si fa persuaso del fatto che le morti sono ascrivibili ad un serial killer. Così, pur se non convinto, mette su la sua squadra. Che, oltre al capo della polizia, risponde alla PM Giulia Foderà, e comprende l’ispettore Walter Comello, l’ispettrice e fotografa tirocinante Caterina De Marchi ed il criminologo Carlo Biga.

Soprattutto con l’aiuto di Carlo, Mancini riesce a visualizzare il profilo del killer: solo, trentenne, intelligente, organizza le morti come a vendicarsi di torti subiti, con indizi che rimandano alle colpe da espiare (quasi fossimo in un contrappasso dantesco). A questo punto, è solo questione di loro due, dei due protagonisti, Mancini e l’ombra. Ma chi è la preda e chi il predatore? Come non collegarsi anche al passato del killer (per ora ignoto) ed a quello di Mancini (ben noto, ma fino a che punto intrecciato con il caso?).

Ma in seguito a complicazioni varie, Mancini sembra voler tirarsi indietro. Solo che il complesso rompicapo si sta ricomponendo nella sua mente. Si mettono in fila ai suoi comandi le direttive di Quantico: quando, cosa, dove, chi, come. Alla ricerca del perché Mancini mette tutto sé stesso in gioco, riuscendo tuttavia a comunicare alcuni indizi alla sua squadra, e come in una corsa a staffetta si riesce ad arrivare alla soluzione di tutti i nodi. Con la forte idea che questo potrebbe essere solo l’inizio di un nuovo personaggio seriale.

Una bella e promettente scrittura, un’indagine non solo poliziesca, ma anche sugli effetti del tempo sull’uomo: il passato che incide sul presente inducendo emozioni che si riversano sul nostro futuro. Uno stile anche curato, pur con la difficoltà che l’alternanza dei tempi verbali, tra presente e passato, porta ad una lettura distesa.

E poi c’è Roma, con il suo passato (il Colosseo, Testaccio) ed un presente proiettato nel futuro (la zona industriale del Gasometro, il futurismo dell’EUR). Una Roma, che, come Mirko, non potrò mai togliermi dal cuore. 

Inciso finale, sebbene Mirko cerchi in tutti i modi di camuffare le date, oscurandole dalle mail, tra il modo di agire dei protagonisti, e l’inizio della storia un lunedì primo di settembre, possiamo affermare che siamo nel 2014.

“Quel tratto del Tevere era un punto di approdo per le imbarcazioni che trasportavano le merci. Nel tempo le anfore che contenevano alimenti sono state accatastate sino a formare una montagnola … ne è derivato il nome di monte Testaccio o monte dei cocci,” (117) [ne vogliamo parlare…]

Mirko Zilahy “La forma del buio” TEA euro 12 (in realtà, scontato a 9,60 euro)

[A: 22/05/2021 – I: 27/11/2022 – T: 29/11/2022] &&& --- 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 414; anno: 2017]

Affrontiamo ora il secondo episodio della trilogia del commissario Mancini, sempre seguendo quel suggerimento del Bissa, anche se, andando avanti, la storia, l’intreccio, nonché la sua soluzione mi sembrano un po’ meno convincenti ed avvincenti rispetto alla prima uscita.

Come tutti i romanzi seriali, ci aspettiamo il progredire delle vicende dei protagonisti. In particolare, ci aspettiamo che il commissario Enrico Mancini esca dal suo torpore post-mortem dell’amata moglie, che un po’ ricalca gli atteggiamenti alla Rocco Schiavone, e questo ne frena di certo la simpatia. Aveva iniziato una timida intesa con il procuratore Giulia, ma in questa seconda puntata, primo Giulia compare poco, di sfuggita, e solo nel finale, e secondo Enrico è ancora bloccato nei rapporti con l’universo mondo, tanto che quasi mai risponde al telefono, e questo sarà un elemento che gli peserà molto nel corso delle indagini. Solo in finale, dopo la lettura di una lettera postuma della moglie, forse torna, nella parte umana, a comportarsi quasi normalmente. Lo vedremo di certo nel terzo romanzo.

Poi ci sono i due suoi sottoposti principali, Walter il vice e Caterina la fotografa, che invece sembrano aver imboccato non dico la strada di un rapporto definitivo, ma di certo un iniziale moto reciproco che non ci sorprenderebbe vada avanti. Anche se c’è una zeppa laterale: già nel precedente romanzo c’era Niko il rom che avevo aiutato Cate e da lei era benvoluto. Qui ricompare, fornisce aiuti, anche non fondamentali, e poi scompare, lasciando un segno nella mente della fotografa. Un nodo che dovrà sciogliersi presto.

Rimangono i due “dottori”. Il criminologo Carlo, che alla fine avrà modo di tornare a discettare con Enrico sul profilo dei criminali, anche rischiando di finire male. Il patologo Antonio, conflittualmente rapportandosi ai cadaveri, che sembra trovare finalmente anche scopi altri, ma fin dall’inizio a noi non sembrava una storia durabile.

Smarcato il punto dei personaggi, veniamo alla struttura. A me continua a non piacere l’uso, ormai in voga nei thriller, di inserire parti in corsivo, dove si crede di far vedere prospettive altre. Anche perché Mirko qui, a volte le usa come soggettiva del cattivo, altre descrittive, anche se sempre con il cattivo di mezzo. Insomma, continua a non piacermi questo utilizzo.

La struttura complessiva, poi, con le dovute differenze, ricalca l’impianto del primo romanzo. C’è un cattivo, che ci viene subito presentato, e che persegue un suo disegno criminale. Sappiamo che è disturbato, sappiamo che ha vissuto a lungo in un convento francescano, vediamo il suo sdoppiamento tipo dr. Jekyll e mr. Hide, con il secondo che a poco a poco prende il sopravvento. Ma non per fattori chimici esterni, quanto per una mutazione interna dei geni della persona, altro motivo che, medicalmente, lascia perplessi.

Dall’altra parte c’è la nostra squadra, che, come l’altra volta, all’inizio brancola nel buio. Scopre, uno dopo l’altro, i delitti, e la loro ferocità. Ma ci mette molto tempo a trovare i primi bandoli della matassa che porterà alla soluzione.

L’aspetto psicologico – horror è il modo in cui il cattivo compone i corpi dopo averli uccisi. Li trasforma in quadri mitologici, cominciando da Laocoonte, per poi passare alla Sirena, al Minotauro, a Scilla, a Lamia, a Caronte, al Ciclope, a Bacco, per terminare con l’Orco. Tutti aspetti in cui c’è una degenerazione dell’aspetto umano con intarsi animaleschi e di feroce cattiveria. Ci vorrà l’aiuto di una dottoressa esperta in mitologia per unire i puntini, anche se, fin dal suo primo apparire, a me suonava una partecipazione stonata.

Il puzzle si ricompone quando Walter trova una fune utilizzata come cordone dagli ordini francescani, riuscendo a risalire all’unica fabbrica che li produce, ed all’unico convento che li ha ordinati. Quello dove stava il cattivo all’inizio, e da dove scappa tre anni prima della vicenda che leggiamo. Una domanda sale facile alla mente, come abbia fatto per tre anni a rimanere occultato. Domanda cui Mirko dà una risposta, anch’essa poco convincente.

Altro elemento ripetitivo dello schema “Zilahy”, una volta capita la traccia che porta al cattivo, c’è il momento hard-boiled che scioglie definitivamente il dramma. Questa volta, tuttavia, il cattivo farà una fine diversa dall’Oreste del primo romanzo.

Non posso non dire, comunque, che, nonostante tutto, la scrittura di Mirko si mantiene quasi sempre ad un buon livello, rendendo facile la lettura anche per chi non conoscesse già i personaggi. Inoltre, ci sono ottime digressioni sulle parti mitologiche. Di sicuro, la Lamia intesa come personaggio metà donna, metà animale, rapitrice di bambini. Le altre sono più scontate, anche se trovo geniale il finale con l’Orco. Che non è il cattivo delle fiabe, ma il dio degli Inferi nella mitologia romana. E soprattutto un elemento mitologico di origine etrusca. Quindi, come non far collassare la storia verso la “Bocca dell’Orco” del Parco dei Mostri di Bomarzo. Altro elemento che mi avvicina alla topologia del romanzo, essendo quel parco ben vicino alla nostra casa campagnola.

Infine, come nel primo episodio, c’è lo sfondo, anche forse un po’ più di uno sfondo, della mia città, di questa Roma che meriterebbe una sorte migliore. C’è la Galleria Borghese, immersa nel verde della Villa omonima, c’è la Casina delle Civette di Villa Torlonia, c’è il giardino zoologico (o meglio il Bioparco), c’è il triste Lunapark dell’Eur. E ci sono quartieri, il Pigneto, la Garbatella, Trastevere e Montesacro. Ovvio, e non ci torno, il plusvalore del finale in quel di Bomarzo.

Questa volta, comunque, Mirko ha fatto tesoro di alcune osservazioni, togliendo ogni riferimento temporale diretto, così che possiamo solo desumere che la storia si svolga nel nostro presente, magari qualche settimana o un mese dopo la fine del precedente romanzo, quindi, conseguentemente, tra la fine del ’14 e l’inizio del ’15.

Mirko Zilahy “Così crudele è la fine” Corriere Profondo Nero 22 euro 7,90

[A: 05/12/2019 – I: 29/01/2023 – T: 30/01/2023] && 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 418; anno: 2018]

Terzo ed ultimo volume della trilogia che l’autore chiama “degli Spettri”. Dispiace che sia finita, come dispiace sempre quando si segue una serie, anche se non ha impatti emozionali stratosferici. Dispiace meno, che la serie andava in calando, e quest’ultimo romanzo l’ho trovato un filo sotto i precedenti.

Tra l’altro, facendo una summa della trilogia, forse questo è il romanzo che più avrebbe avuto sede nei Thriller Psicologici (leggete il commento al primo volume), che meglio si scava nella psicologia dei personaggi, soprattutto per far uscire dalle sue paturnie il commissario Mancini.

Oltre al commissario ritroviamo la sua squadra, coesa, compatta, e questa volta ben delineata: il vice Walter che ormai fa coppia fissa con la fotografa Caterina, l’esperta di antichità Alexandra in un piccolo cammeo, che serve a tirare finalmente fuori l’anima del patologo Antonio, il professor Biga che seppur costretto sulla sedia a rotelle, come sappiamo dal precedente libro, con alcuni scritti, vuoi voluti, vuoi perduti, dà un contributo non marginale all’indagine ed il PM Giulia Foderà, che sta riscrivendo il lato umano di Mancini, portandolo, senza invasività, anche se non da sola, a superare il dramma della morte della moglie Marisa.

Ma coprotagonista assoluta, ed in questo ringrazio l’acume di Mirko, è Roma. Certo, ancora una parte di Roma occulta, segreta, che a noi romani dice e molto. Mi domando solo quale ritorno ne abbia un lettore di altre città. Non dico solo per quei punti che, magari, anche ai romani sono noti, seppur solo perché ci passano ogni giorno, come il Campo Scellerato dietro via Collina, il tempio di Apollo Sosiano al Teatro Marcello o la Città dell’acqua sotto Fontana di Trevi. Ma anche a quelli più noti, che a noi dicono di Roma e delle nostre storie: Portico d’Ottavia, Talenti, Montesacro, Garbatella, la stazione Termini. Leggere la trilogia serve anche a ripassare Roma e la sua storia.

Come detto, tuttavia, la storia è una ricerca dell’identità. Ovvio che si cerca l’identità del serial killer, ma anche la squadra cerca la propria, come ho accennato sopra. E soprattutto, è il nostro Mancini che sta facendo un lungo percorso, iniziato 800 pagine fa, per ritrovare sé stesso, il suo io. Non è un caso che si faccia crescere la barba, che tolga gli specchi da casa. Non vuole vedere dove sta andando il suo corpo, non vuol vedere la sua faccia, per paura di capire che sta, finalmente, elaborando il lutto, uscendone, ed andando verso Giulia.

In questo percorso ad ostacoli, ecco che compaiono gli ostacoli dei nuovi efferati assassini. Certo che in questo, la fantasia di Mirko si lascia andare verso le più crudeli messe in scena. Che i morti vengono storditi, anestetizzati, torturati, risvegliati, ed alla fine murati vivi sia in  prigioni fisiche (il Campo Scellerato) sia ricoperti di calce che, seccatasi presto, toglie loro l’aria e la vita. Come se il killer volesse far provare alle sue vittime, negli ultimi istanti, il senso di isolamento che dovrebbe aver provato in qualche parte della propria vita.

Intanto, ben misteriosi appaiono all’inizio gli indizi, che non sembrano far convergere i morti verso un fattor comune. Saranno appunti sparsi di Carlo Biga che daranno un primo avvio alle ricerche. E sarà l’acume di ogni componente della squadra che fornisce a Mancini, su di un piatto d’argento, una motivazione globale. Ed è lì che Mancini dovrà usare le sue arti di profiler per calarsi nella mente del killer, per capirne le motivazioni, per anticiparne le mosse. Attività, quest’ultima, che non riesce molto, visto che tre dei cinque possibili omicidi vengono realizzati.

Per far sì che tutti i fili si annodino, così che questo possa essere realmente l’ultimo atto, mancano ancora alcune cose. Un killer che si deve intravedere tra le pagine, un motivo per capire come mai, in realtà, come nel primo libro, il killer vuole uccidere ma vuole anche essere scoperto. Forse c’è un ultimo mistero da scoprire. E con un colpo di bacchetta, Zilahy fa in modo che sia lo zingaro Niko a fare quest’ultimo passo.

Così che si evita un’ultima morte. Così che Caterina possa chiedere di adottare Niko e confessare a Walter che è un libro e mezzo che ci pensa. Così che Enrico si liberi dal passato e possa pensare (decidete voi se lo farà o meno) di rispondere ad una telefonata di Giulia.

Seppure, al solito, la scrittura è ben congeniata, tengo mio dovere sottolineare l’uso anche qui troppo massiccio di inserti corsivati. Che interrompono il flusso del pensiero, che spesso sono atemporalmente posti, che in alcune occasioni sono volutamente criptici per non farci capire se sono d’attualità o riferiti al passato. Insomma, un uso del corsivo che a me continua a non essere del tutto gradito. Anche se, quando avesse deciso di usare le stesse pagine non in corsivo, non credo che il libro sarebbe stato danneggiato.

Al fine però, alcuni piccoli misteri mi sono rimasti oscuri. Ad un certo punto, salta fuori il nome di chi commette i crimini, ma quando si trova davanti a Mancini, il nome è cambiato e non viene spiegato quando. Alle vittime vengono effettuate delle mutilazioni mirate (taglio delle dita, delle orecchie, di un occhio), che vengono ritrovate in fontane vicino al luogo del crimine. Qual è il senso delle fontane? Infine, capisco la psicologia disturbata dell’omicida, ma quando se ne ripercorre la vita, sembra che sia disturbata sin dall’inizio (e ci può stare) ma poi, per anni, vive nel consesso civile senza che questi disturbi escano fuori. Un rovello per la mia povera mente di lettore.

Zilahy ci ha portato alla fine del percorso di Mancini, che ci dispiace lasciare (come sempre verso i personaggi seriali cui ci affezioniamo), anche se la fine (così crudele) potrebbe essere un nuovo inizio. Purtroppo, per ora, non sulle pagine, che di altro parla il quarto libro dell’autore.

Luca Crovi “L’ombra del campione” Corriere Profondo Nero 30 euro 7,90

[A: 05/02/2020 – I: 09/09/2022 – T: 10/09/2022] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 202; anno: 2018]

Avevo apprezzato Luca Crovi nel suo bel documentato saggio “Storia del Giallo Italiano”, ben scritto e ben documentato. Mi aspettavo quindi una prova in linea con le capacità affabulatorie dimostrate. Purtroppo, pur rimarcando conoscenze e collegamenti, questa ombra gialla mi ha un po’ deluso.

Intanto, per la sua collocazione. Perché inserire un pastiche giallo, tutt’al più ironico, in una collana dal serioso titolo “Profondo Nero”? Il libro di Crovi è leggero, a tratti con delle punte di riflessione che vanno al di là del giallo e sconfinano nella storia. Ma non ha nulla di nero. Non ci sono indagini, solo qualche capitolo che racchiude delle storie, legate in gran parte dal fatto che sono ambientate a Milano.

Il secondo collante è la presenza di un commissario che viene da altrove. Qui si misura tutta la conoscenza del giallo italiano che il nostro possiede. Infatti, riprende il primo commissario del giallo italiano, il commissario Carlo De Vincenzi, uscito negli anni Trenta dalla magistrale penna di Augusto De Angelis, e lo fa muovere in una Milano del 1928, tra carceri, caserme di polizia, cimiteri, fiere campionarie, centro e periferia. E si muove similmente a come De Angelis lo avrebbe fatto muovere.

Infatti, rimarca i caratteri precipui del personaggio: solitario, gran lettore, pieno di intuizioni che avrebbero fatto la gioia di Fred Vargas (spero lo conosca), pieno di conoscenze, anche trasversali, ed una delle migliori forchette di piatti locali. Certo, chi conosce poco le avventure originali si domanda chi sia Antonietta, che spesso accompagna De Vincenzi. Ipotizzando ne sia una buona compagna, non sapendo che, invece, è la sua fida governante.

Che De Vincenzi è e rimane solitario. Inoltre, come giustamente rimarca l’autore nelle note, Crovi si prende qualche libertà sulle letture, che l’originale legge Sant’Agostino, Freud e Platone. Qui il commissario si concentra sull’ultimo, ed in particolare sul “Critone”, l’apologo sull’attesa della morte di Socrate, dove questi ribadisce che bisogna rispettare le leggi, anche se portano a sentenze ingiuste. Ovvio parallelo sul periodo della narrazione, dove si è nel pieno dell’onda alta del fascismo. De Vincenzi rispetta le leggi e cerca sempre di trovare qualche scorciatoia che ne consenta un parziale aggiramento. Così come ne scriveva a suo tempo De Angelis, le cui opere furono censurate dal regime, poi fu imprigionato per i suoi articoli antifascisti dopo il 25 luglio ’43, nonché massacrato ed ucciso da un repubblichino nel ’44.

Il romanzo, comunque, non è un romanzo, come accennato. Sono una serie di piccole storie di ordinaria malavita milanese, risolte da De Vincenzi con il suo solito spirito accomodante verso le carenze altrui. Solo due meritano di essere menzionate, seppur in breve.

La prima riguarda il campione del titolo, dove seguiamo uno dei tanti personaggi, questa volta reali, che si aggirano tra le pagine. C’è infatti Giuseppe Meazza, il Balilla del calcio italiano, che diciassettenne, si allena nottetempo dietro San Vittore, a tirar calci ad un pallone, e, dopo aver nel finale raccontato la sua storia al commissario, questi lo porta dentro San Vittore per essere omaggiato dai carcerati che hanno fatto sempre il tifo per lui. Meazza non è ancora un campione, ma è già ammirato dal popolo milanese di fede interista, poi anche in Nazionale, dove rimane il secondo marcatore di tutti i tempi, dopo Gigi Riva. Da leggere per documentarsi del periodo, dove tuttavia rimangono due domande: la prima squadra in cui giocò Meazza viene indicata come “Costanza A.S.” mentre risulterebbe essere “Gloria F.C.”. La suora che fa da nume e tramite tra Meazza ed i carcerati, viene indicata come Enrica, invece sarebbe Enrichetta, beatificata nel 2011.

L’altro e forse più interessante episodio riguarda lo scoppio di una bomba, il 12 aprile 1928, durante l’inaugurazione, da parte del re, della Fiera Campionaria. Episodio reale, che provocò venti morti, e che non venne mai risolto. I gerarchi fascisti cercarono a lungo sia la pista anarchica che quella comunista, senza successo (anche se misero in mezzo Romolo Tranquilli, fratello di Ignazio Silone, che ne morì per le percosse quattro anni dopo). Crovi fa assistere De Vincenzi allo scoppio, ma il commissario non parteciperà alle indagini, anche se Crovi mette qualche pulce nell’orecchio collegando lo scoppio alla morte di alcuni soldati in una rissa da caserma, come si volesse sottolineare l’attentato come un possibile epilogo della lotta senza quartiere tra Roberto Farinacci, il Ras di Cremona, e Arnaldo Mussolini, fratello del Duce.

Come vedete due episodi che poco hanno del giallo, uno perché forse più neroazzurro, l’altro che ancor’oggi è avvolto nel mistero. La scrittura di Crovi veleggia leggera nella sua Milano, dietro ai malviventi detti della “ligera” perché rubavano senza armi, leggeri, immerso nella “scighera”, la nebbia milanese, dietro ad uno dei tanti piatti che la siura Maria gli prepara. Ne ricorderei due: la “busecca” (piatto a base di trippa, fagioli, passata di pomodoro, carote e sedano) e la Torta di Michelacc (nome che deriva dall’uso di mica, cioè pane, e latt, o lacc in dialetto, e composta quindi di pane raffermo, latte e cacao, spesso arricchita da amaretti o biscotti di altro genere, uvetta, pinoli e canditi).

Allora plauso alla milanesità dell’autore, meno alla resa gialla del testo. Un risultato alla fine comunque gradevole, arricchito da una briciola di formaggio bettelmatt per finire il pranzo (perché “la bocca l’è minga stracca se la sa no de vacca”)

Federico Inverni “Il prigioniero della notte” Corriere Thriller Psicologici 15 euro 7,90

[A: 19/11/2018 – I: 16/12/2022 – T: 18/12/2022] & -- 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 471; anno: 2016]

Un libro che aggiunge poco alla conoscenza sia del thriller nei vari suoi aspetti, sia ad una cultura popolare come, in genere, si fa legare a queste tipologie di scritti, che usano il giallo non fine a sé stesso, ma per esplorare, con qualche vincolo in meno, il mondo in cui viviamo.

Ora, l’autore non si sa chi sia, che quello usato è uno pseudonimo. Con l’aggravante che in una intervista misterioso, in un sito che si occupa di gialli, il nostro dice che ha usato “Inverni” perché avrebbe voluto essere inglese, così da firmarsi “F. Winter”. Cosa che mi sembra risibile (come il fatto che avrebbe scritto le prime cinquanta pagine in inglese), anche perché, filologicamente, si sarebbe dovuto firmare “F. Winters” o “F. Inverno”.

Il secondo scoglio deriva dal fatto che si passa per thriller psicologico un testo solo perché qualcuno dei protagonisti ha delle turbe. Ora, dato per scontato che un criminale ha (quasi) sempre delle turbe psichiche, quando queste si allargano agli investigatori, e magari senza motivazioni particolari, abbiamo forse più un guazzabuglio che un thriller psicologico.

Il terzo inghippo è l’utilizzo di una collocazione fittizia in una località senza nessuna caratterizzazione. L’azione si svolge in un città denominata Haven (che significa porto, ma non sembra questa una città marinara, a meno che l’autore non si voglia collegare alla serie televisiva omonima, basata su di un libro di Stephen King e piena di fenomeni soprannaturali), e tutto è volto in inglese, anche se non si tipizza come matrice anglosassone. Anzi, l’uso di nomi e toponimi inglesi rende solo più fredda la narrazione.

L’ultimo problema è un finale molto veloce, in cui si sciolgono molti, ma non tutti i misteri. Quando si accumulano 400 pagine con avventure e colpi di scena variegati, sarebbe bene arrivare ad una spiega che elimini punti oscuri e chiarisca le dinamiche dei fatti. A meno che, ma questo è un po’ un inganno per il lettore, lo si voglia indurre ad aspettare e leggere altre avventure seriali dei protagonisti.

I due attori principali sono l’agente Lucas e la profiler Anna. Con una narrazione che alterna lo scrittore onnisciente a capitoli in soggettiva di Anna, con un resa molto bassa di questi, dove, a parte lo stato confusionale della profiler, poco si entra nella sua personalità.

Lucas, l’agente con la più alta percentuale di casi risolti (si dice all’inizio), capiamo subito che, oltre ad essere intelligente e capace di collegamenti geniali, ha dei forti problemi. Sapremo poi che derivano da un incidente d’auto, avvenuto due anni prima, dove, con lui alla guida, sono morti moglie e figlia. Da quel momento, soffre di una strana disfunzione psichica, rarissima, chiamata “sindrome di Cotard”, dove il paziente crede di essere morto. Ed ovviamente agisce in modi strampalati. Il dubbio dell’accumulo di indizi altri viene quando scopriamo che ha lavorato per molto tempo sotto copertura, e quindi come sappiamo che è molto in gamba?

Anna, al contrario, sembra, oltre che maniaca dell’ordine, colpita da altre turbe. In effetti, risulta essere stata rapita in gioventù, fuggita dai rapitori anche con uccisioni a latere. Dopo di che, cambia nome (si chiamava Anita) e decide di dedicarsi all’analisi di profili criminali. Attività dove raggiunge un buon successo, finché non si imbatte nel caso che viene descritto nel romanzo.

Un maniaco, serial killer, fa trovare corpi di donne uccise, senza che sia loro torto un capello (né sevizie né stupri), e, ad ogni ritrovamento, manda alla Polizia la foto della successiva ragazza che dovrà morire. In parallelo, un cecchino uccide una serie di persone, coinvolgendo Lucas, che pare non conoscerlo, ed innescando una catena di eventi in base alla quale Lucas e Anna si trovano a dover indagare insieme sui delitti.

Che il cecchino è il padre di una delle vittime, che qualcuno lo ha convinto chi sia il killer che ha ucciso sua figlia, e che deve invocare Lucas. Mentre Lucas porta avanti una serie di scoperte che sembrano miracolose, Anna in parallela sembra comprendere che Lucas sa troppe cose per non essere implicato. Si aggiunga la presenza, latente ma non approfondita, di nuove droghe, una psicologa che ha in cura Lucas e che scompare, e tanti altri piccoli indizi (che dovrebbero diventare una prova, ma non ci riescono).

Le ultime trenta pagine diventano frenetiche, che tutto sembra collassare, ogni volta in una soluzione ragionevole ma sbagliata, fino alla vera soluzione del mistero.

Tutto però con una scrittura poco coinvolgente, con una scarsa empatia tra scrittore e lettore, ed una forte volontà di farsi dire quanto sono bravo da parte dell’ignoto Inverni. Tuttavia, i meccanismi finto giallo-psicologici sono abbastanza scoperti, e quando si vengono a sapere alcuni contorni, tutto torna al suo posto molto prima che ce lo metta l’autore.

Qui si è parlato molto d’Italia, visto che Inverni lo lascerei nel dimenticatoio, mi vien voglia di pensare ad una bella citazione, stranamente italiana, di quel gran siciliano che fu Andrea Camilleri (1925 – 2019), che ne “Il corso delle cose” ci parla dei limiti ed a me rimanda alle odissee familiari dei tempi di guerra: “Forse, come al dolore, c’è anche un limite alla paura, oltre il quale non si può andare, ed è così che, certe volte, i vigliacchi finiscono per diventare coraggiosi” (122).

Infine, l’ipotesi di viaggio è diventata un certezza cui manca solo l’ufficialità per concretizzarsi. Non vi preoccupate, allora, se le prossime settimane le trame salteranno. Quando sarà così, sarà per un motivo lieto. Quindi, visto che vi mancheranno le mie trame ed i miei saluti, ve ne mando tanti, corredati da tantissimi abbracci.

 

domenica 19 febbraio 2023

Soprattutto Nesser - 19 febbraio 2023

Non tanto, anche se c’è, per la buona riuscita dei suoi scritti, ma perché sono presenti tre suoi libri su cinque. Libri che, dove compaiono i suoi storici personaggi, i commissari Van Veeteren e Barbarotti, hanno un deciso scarto verso l’alto. Lo svedese è accompagnato dall’unico giallo (postumo) di Lucinda Riley (così così) e da un nuovo libro dello scozzese Ian Rankin, una delle stelle della mia biblioteca. Qui in doveroso omaggio anche perché acquistato in un gradevole viaggio nuovamente in Scozia.

Håkan Nesser “Morte di uno scrittore” Repubblica Emozione Noir 38 euro 7,90

[A: 28/02/2020 – I: 05/09/2022 – T: 06/09/2022] - && --

[tit. or.: Rein; ling. or.: svedese; pagine: 188; anno 1996]

Essendo uno storico fan dei due personaggi creati da Nesser, il commissario Van Veeteren e l’ispettore Gunnar Barbarotti, non mi faccio certo mancare (quasi) nessuna uscita delle scritture del maestro svedese. Anche se questa prova l’ho trovata di sicuro meno interessante delle numerose letture che posseggo. A tratti, anche un po’ bruttina. Credo, comunque, che questa impressione vada calata con il contesto del libro, per collocarla nella giusta dimensione.

Intanto, guardando alla data di scrittura, vediamo che si tratta del 1996, epoca in cui aveva scritto i primi tre episodi del commissario, suscitando un discreto interesse, in patria ed all’estero. In quell’anno scrive un romanzone, intitolo “Berins Drejeck” o “Berins triangel”, cioè il triangolo di Berins, come a rimandare al ben più noto triangolo delle Bermude. Cui il libro si accosta quando mette in parallelo le tempeste caraibiche con le tempeste mentali. Il triangolo era composto di tre parti, ognuna con al centro un uomo che affronta situazioni anche psicologicamente complesse. A metà degli anni ’10 il regista svedese Daniel Alfredson, reduce dal successo della trasposizione cinematografica dell’opera di Stieg Larsson, è affascinato dal libro di Nesser. Che allora riprende il triangolo, lo spacchetta e produce tre romanzi, che sono poi le tre parti indipendenti del libro di partenza. Tre romanzi che escono con titoli diversi (Rein, Marr e Alois) ma uniti da un sovra titolo: “Intrigo”. In questo modo, Alfredson produce tre film (usciti in patria dal ’18 al ’20), che, come collegamento al testo di partenza, si intitolano: “Intrigo: Death of an Author”, “Intrigo: Samaria”, “Intrigo: Dear Agnes”.

Insomma, una genesi complessa, di libri che esplorano lati oscuri dei personaggi, e risentono della scrittura di venticinque anni fa, che spesso mascherava con “indecifrabilità” scritture un po’ pretenziose dedicate allo svelamento dei lati oscuri delle persone. Così che, sebbene alla fine si riesca a ricostruire il filo di una trama non dico sempre coerente, ma di sicuro a tratti intrigante, ci sono nel testo passaggi a vuoto, salti temporali, situazioni a volte buttate lì ad effetto, che però non ne producono.

La storia è una sorta di scrittura nella scrittura, una sorta di “mise en abyme”, dove una storia ne spiega un’altra, effettuando rimandi e spiegazioni tra l’una e l’altra.

Il personaggio principale, l’io narrante è David Moerk, di professione traduttore, ed in particolare, traduttore ed esperto del celebre scrittore tedesco Germund Rein. Tre anni prima era sposato con Ewa, con un rapporto molto sbilanciato, e con Ewa molto debole psicologicamente. Ewa si cura dallo psicologo Mauritz Winckler, di cui si innamora, decidendo di mollare David ed andare via con Mauritz. David, non accettando l’abbandono, pianifica il sabotaggio dell’auto di Ewa. Che realmente sparisce con l’auto scendendo da un monte verso un lago.

Ora, passati tre anni, David si imbottisce di alcool e si barcamena nella vita. Quando il suo editore riceve un manoscritto di Rein, con l’ordine di non pubblicarlo in originale ma solo nella traduzione di David. David ascolta un concerto registrato nella città di Rein sentendo un colpo di tosse che, per lui, è inequivocabilmente di Ewa. Decide quindi di recarsi nella cittadina, alla ricerca di Ewa e per tradurre il libro di Rein. Che è un libro ostico, di cui Nesser riproduce passi di dubbia comprensione, solo per dar modo a David di far luce ad un altro mistero.

Nel frattempo, Rein è scomparso, forse suicida. Decifrando il testo, e collegandolo ad altri scritti di Rein (per questo solo David poteva fare la traduzione) capisce che Miriam, la moglie di Rein, ha una storia con Otto, un amico di Rein. Alcuni passi del libro lo portano alla scoperta di lettere compromettenti che indicano i due come possibili esecutori dell’omicidio di Rein.

Contemporaneamente, ed in maniera fortuita, in quella cittadina, trova tracce di Ewa e Mauritz, effettivamente scampati al suo attentato. Il redde rationem porta al processo di Miriam e Otto per la morte di Rein, alla pubblicazione con gran successo del libro di Rein e ad un tentativo, non riuscito, di chiarimento di David con Ewa.

Di certo non vi dico le risultanze processuali, fatto sta che tre anni dopo troviamo David a Cipro (poi vi dirò perché) con un duplice tentativo: scrivere un memoir delle sue avventure tedesche, di cui ha narrato in prima persona nella prima parte, e cercare di trovare uno strano personaggio che si è esiliato nell’isola.

La scrittura svela alcune delle zone d’ombra precedenti (con quel procedere verso l’abisso di cui sopra). La ricerca lo porta a trovare il tipo, che sembrerebbe proprio essere il Rein di tutta la prima parte, come se avesse inscenato tutto per punire gli amanti fedifraghi e vivere in pace la sua vendetta.

Alla fine, forse, qualche d’un altro muore. David o il forse Rein? Entrambi, alla fine, scrittori. Da cui il titolo italiano, che è l’unico, in tutte le traduzioni effettuate per Nesser che si discosta dall’originale. Che giustamente si intitolava “Rein”, così come “Rein” era il titolo al libro di Rein tradotto da David. Una scelta editoriale assai discutibile, come spesso quelle italiane.

Accennavo al fatto di Cipro, che Nesser non cita mai, ma cita la famiglia che ospita David. Che guarda caso si chiama Kazantzakis. Che probabilmente a molti ricorderà l’autore cipriota di “Zorba il greco”.

Ho cercato qui di decrittare la scrittura di Nesser, che per tutto il libro, invece, cerca di imbrogliare le carte, facendoci credere a quello che vediamo, ma che poi non riusciamo a comprendere, cioè facendoci vedere cose altre. Come avrete capito, non sono molto convinto del libro e spero ci sia chi me ne chiarisca meglio lo sviluppo ed il significato.

“Ma cosa sappiamo realmente di ciò che si nasconde nell’animo delle persone che ci stanno vicine e delle loro motivazioni più profonde?” (50)

Håkan Nesser “Il dovere di uccidere” TEA euro 12 (in realtà scontato a 6 euro)

[A: 10/10/2018 – I: 08/09/2022 – T: 09/09/2022] - &&& --

[tit. or.: Münsters fall; ling. or.: svedese; pagine: 310; anno 1998]

VV06

Torniamo ancora una volta ad uno scrittore che ho sempre amato, frutto di una conoscenza iniziata in modo casuale, e proseguita piacevolmente negli anni. Fu infatti mia madre che venne convinta, all’inizio degli anni 2000, dal nostro giornalaio storico del tempo, a comprare e leggere “La rete a maglie larghe”. Come succedeva sempre, lei me lo fece leggere, ed io non mi sono più perso una puntata degli scritti di Nesser.

Fatta la premessa personale, veniamo a questo che è il penultimo libro dedicato al commissario Van Veeteren che avrò modo di leggere, dato che Nesser ne ha scritto un altro che leggerò, per poi passare ad altre scritture. Come vedete anche dall’indicazione, cronologicamente è anche il sesto dei dieci romanzi più uno dedicati al commissario. Dove, al solito, cominciamo ad essere insofferenti fin dal titolo.

Tradotto anodinamente, dato che l’originale riporta “Il caso Münsters”, dove si potrebbe leggere anche, “Un caso per Münsters”, dal nome del sovraintendente di polizia al centro del romanzo e delle indagini. C’è poi un sottotitolo inventato, che riporta “Un caso per il commissario Van Veeteren”, che non solo non entra in scena prima di pagina 150, ma che, oltre a due bevute di birra con Münsters ed una bellissima scena d’amore con Ulrike, non fa molto altro (pur arrivando alle stesse conclusioni di Münsters, anche se con qualche attimo di ritardo)

Comunque, mettiamo anche un po’ d’ordine che questo libro, tuttavia gradevole, esce in Italia solo nel 2018, venti anni dopo la pubblicazione in patria. Ed è comunque un tassello delle storie della polizia di Maardam, motivo per cui, più che “Serie del commissario Van Veeteren”, io avrei titolato la serie “Storie di Maardam”, dove ricordiamo che Nesser, ad ora, ha scritto dieci romanzi ad essa dedicati, nonché un undicesimo, definito “crossover”, che lega Van Veeteren all’altro poliziotto nesseriano, il commissario Gunnar Barbarotti.

Allora veniamo a questa indagine della polizia di Maardam. Nesser comincia abbastanza lontano dai protagonisti poliziotti. Ci presenta Waldemar Leverkuhn, Borger e due loro amici che festeggiano una vincita al lotto. Chiacchiere, bevute, allegria. Poi… Waldemar viene trovato pugnalato a morte nel suo letto e Borger scompare.

Münster, che a collegare i due fatti impiega del tempo, una volta appunto collegati pensa che sia facile fare due più due. Con uno e due scomparsi o morti, la vincita può essere divisa in modo diverso. Peccato che i superstiti abbiano alibi di ferro. Inoltre, si aggiunge un nuovo mistero, che nel bosco cittadino, sparse in sacchetti di plastica, vengono rinvenuti parti del corpo di una nuova vittima, Else van Eck, vicina di casa di Waldemar.

La squadra della polizia si attiva al completo: c’è chi segue la pista dello scomparso Borger, c’è chi approfondisce la morte di Else, mentre Münster e Moreno (ispettrice che abbiamo incontrato in un altro romanzo della serie a lei dedicato) continuano ad indagare su Waldemar.

Sembra che tutto si possa risolvere, quando la moglie di Waldemar confessa di essere stata lei a perpetrare i barbari assassini, e dopo aver confessato, quasi a non voler più essere coinvolta nel caso, si toglie la vita.

L’ispettore Münster non è convinto, continua ad indagare, chiedendo aiuto anche al suo vecchio capo, l’ex-commissario Van Veeteren. Che invece si sta godendo la pensione lavorando, finalmente, in un ramo che adora, una bottega antiquaria, ed instaurando un bellissimo rapporto d’amore con Ulrike.

Ma è il suicidio della moglie di Waldemar che induce Münster (e Van Veeteren) ad indagare più a fondo sulla famiglia Leverkuhn. Sul figlio, forse gay, di sicuro fragile, sulla prima figlia, impazzita da chissà quanti anni, sulla seconda figlia, dichiaratamente lesbica. Scoprendo, ma non ci meravigliamo più di tanto, che Else è una loro vicina di casa.

Se a questo quadro uniamo i ricordi di abusi giovanili del morto verso i figli, il quadro si completa. Se ne legge la fine, ripensando, come Van Veeteren, che, conoscendo Shakespeare, tutto sarebbe stato chiaro fin dall’inizio.

La scrittura di Nesser è sempre gradevole, le storie scorrono, non ci sono grandi colpi di scena, perché, spesso, non ce ne sono neanche nella vita. Non è neanche sgradevole l’alternarsi di diversi punti di vista, durante la narrazione.

Ultimo appunto, in questo penultimo romanzo del commissario: non viene mai chiamato, in questi dieci libri, con il nome proprio. Mistero.

“Tutti devono avere una storia … E per quelli che non ce l’hanno, bisogna inventarne una.” (202)

Håkan Nesser “La confraternita dei mancini” TEA s.p. (Regalo di Emilio&Fako)

[A: 07/05/2022 – I: 16/01/2023 – T: 17/01/2023] - &&& e ½  

[tit. or.: De vänsterhäntas förening; ling. or.: svedese; pagine: 511; anno 2018]

VV11 & GB06

Anche se a distanza di molti mesi dal regalo compleannico dei miei grandi sodali, eccoci ad un libro interessante. Un crossover, come si dice tra quelli che parlano di letterature. Perché compaiono, con  intensità e non come comparse, i due grandi personaggi delle storie di Nesser.

L’autore, sebbene non conosciutissimo, è forse uno dei migliori epigoni del giallo svedese, quello di Per Walöö e Maj Siöwall e di Henning Mankell, in particolare con le due serie cui ha dedicato tempo e spazio nel corso degli anni. La prima, iniziata nel ’93, vede come protagonista l’ispettore Van Veeteren, che seguiamo sia nelle ultime indagini, sia quasi come consulente esterno, una volta andato in pensione. La seconda, invece, inizia nel 2006, quando Nesser si prende una lunga pausa sulla prima, ed ha al centro l’ispettore Gunnar Barbarotti.

Nel 2018, dopo quindici anni in cui Van Veeteren è scomparso dalla penna di Nesser, con questo romanzo, torna sulla cresta dell’onda. Anche per dare una spinta a Barbarotti, che in effetti erano sei anni che “dormiva”. Dopo di che il primo torna a riposare, mentre ogni due anni esce un libro del secondo.

Comunque, in questo libro sono presenti entrambi, con pari dignità, come si dice. Con una lunga parte iniziale dedicata al primo, una seconda parte incentrata sulle evoluzioni del secondo, ed una parte finale in cui i due lavorano di conserva, arrivando alla soluzione del caso in parallelo e con le stesse modalità ragionative.

A parte la vicenda gialla, si riprendono così le storie dei commissari. Van Veeteren in questo libro compie settantacinque anni, ed è sempre più vicino e sodale alla bella Ulrike. I due fanno una coppia anziana ma affiatata nella diversità e nella sinergia dei pensieri. Barbarotti, pur sempre dolente per la morte della moglie, si avvicina sempre più alla collega Eva, con cui c’è un proficuo scambio di attenzioni reciproche, sempre attenti alle rispettive sfere.

L’azione si svolge principalmente nella zona della cittadina di Maardam (poi ci torneremo) dove la scoperta di un cadavere riapre indagini relativi ad un incendio di una ventina di anni prima. Dove erano morte carbonizzate quattro persone, sodali un tempo, tutte mancine, che per l’appunto, in gioventù, avevano creato un sodalizio, la confraternita dei mancini del titolo. C’erano tre ragazzi nella confraternita, cui si aggiunsero più tardi le gemelle Clara e Birgitte. Cui si aggiunge un quarto maschietto, Qvintus, e si aggirano intorno altri ragazzi, in particolare lo strano Zink. Le gemelle sono anche baby sitter della piccola Madelaine e, ma solo per presenza, del di lei fratello Ludwig, maniaco dell’ordine. Clara e la confraternita decidono di fare dei soldi inscenando il finto rapimento di Madelaine, senza dir nulla a Birgitte. Prendono i soldi, ma poi Zink sparisce con Madelaine.

Questo segna la fine del sodalizio, i mancini non si ritroveranno se non ventidue anni dopo, nella pensione Molly. Dove Birgitte, visto che sono uguali e omozigoti, sostituisce Clara che ha una fuga d’amore. Peccato che quattro muoiono bruciati, e Qvintus sparisce. È il suo corpo, trovato appunto dopo altri vent’anni che riapre le indagini. Cui Van Veeteren si ritrova coinvolto, un po’ per curiosità, un po’ perché era stato lui a chiudere l’inchiesta.

C’è tutta una parte, lunga ma ben costruita, in cui i tasselli della vicenda si accumulano come pezzi di un lego. Non vi dico molto, solo che Clara si è finta la sorella, e si è trasferita in Svezia. Qui si aggiunge il nuovo tassello. Nelle prossimità dei luoghi di Clara viene trovato un altro morto, sulla cui dipartita viene incaricato di indagare ovviamente Barbarotti.

Anche qui, a Kymlinge (anche qui ci si torna) oltre alla vicenda gialla, seguiamo l’evolversi della vita personale di Gunnar ed Eva. Comunque, come è ovvio, ad un certo punto tutti i poliziotti capiscono che i due eventi sono collegati, Barbarotti & co raggiungono allora Van Veeteren & co, e tutti insieme cominceranno a ragionare sul chi, come e cosa di tutta la vicenda. Come detto, i nostri due commissari arriveranno al fine a comprendere e decifrare la vicenda, che un attento lettore, forse, avrà già capito lui stesso.

Ma la storia è ben costruita, si regge fino alla fine, e non pesano le oltre cinquecento pagine della scrittura. Con dei bei spunti di riflessione. Van Veeteren che parla di Kant e dell’imperativo categorico verso la giustizia, che però mitiga con il pensiero di un filosofo polacco naturalizzato svedese, Leon Rappaport, che introduce il concetto di “determinante”, un pensiero che spinge a fare la cosa giusta. Sull’altro lato c’è Barbarotti che invece instaura un dialogo con Dio nei suoi momenti di riflessione. Dove l’ateo Gunnar, all’inizio chiede, nel suo monologare con Dio, che questi dimostri la sua esistenza. Un dialogo che, dopo la morte della moglie, rende Barbarotti più attento al dibattito, che al fine viene anche usato dallo scrittore come espediente per parlare d’altro.

Si diceva infine delle città. Maardam non è logisticamente identificata, anche se si pensa sia più sul versante olandese del Nord, anche perché, quando cita il filosofo Rappaport, sopra indicato, il nostro dice che non legge lo svedese. Anche l’altra città, Kymlinge non è di certa collocazione, anche se, per tutta una serie di rimandi, è sicuramente in Svezia.

Credo che un giorno o l’altro riuscirò a prendere in mano i venti romanzi delle due serie ed a parlarne in modo più costruttivo. Per ora, continuo a tenere Nesser nello scaffale dei libri di gradita lettura.

Lucinda Riley “Delitti a Fleat House” Giunti s.p. (Prestito di Alessandra)

[A: 30/08/2022 – I: 13/09/2022 – T: 14/09/2022] - && e ½  

[tit. or.: The Murders at Fleat House; ling. or.: inglese; pagine: 486; anno 2022]

Non penso che avrei letto questo libro se a) Lucinda Riley non fosse una delle autrice cult di Alessandra e b) questo non fosse, rispetto agli altri libri dell’autrice, un libro giallo. Magari non sempre ben riuscito, ma di certo confezionato con la consueta abilità che ha sempre dimostrato la scrittrice. Purtroppo, la Riley è morta lo scorso anno, e questo è un omaggio, pubblicato postumo quest’anno, per volere dei figli della scrittrice. Figli che, in gioventù, avevano frequentato college nel Norfolk, simili a quello qui descritto, anche se sono sicuro con conseguenze meno nefaste e devastanti.

L’azione si svolge nell’elitario college denominato St. Stephen’s School. Come spesso le istituzioni inglesi, è vissuto a tempo pieno, così da avere una serie di pensionati ove vivono gli alunni. In uno di questi, Fleat House, si scatenano le vicende che andiamo a seguire.

Si comincia con la morte del diciottenne Charlie Cavendish, un bullo della peggior specie, che stava sui cabasisi a molti, ma anche sofferente di una forma epilettica tenuta a bada da pastiglie serali. Peccato che qualcuno le sostituisca con aspirina, ed essendone allergico, il bullo in poco tempo soffoca e muore. Una morte che torna a visitare Fleat House dopo tanti anni, laddove proprio in quel pensionato un ragazzo, vessato come sono capaci di farlo nei college inglesi, e di debole flemma, si impicca nei sotterranei.

Per non farci mancare un filone parallelo, la Riley introduce per condurre le indagini, l’ispettrice Jazmine “Jazz” Hunter. Una detective molto capace e preparata, che però ha chiesto un anno sabbatico dopo aver scoperto che il marito, poliziotto anche lui, la tradiva bellamente, e approfittava anche delle sue intuizioni, per farsi avanti e fare carriera.

Visto che Jazz è vicina al college, si convince a seguire la vicenda. Sia per lavorare con un suo sodale (simpatico), sia per coinvolgere la sua amica psicologa Issy, sia per star lontano da quello che sta diventando il suo ex marito, sia, infine, per stare vicino al padre, che non sta proprio molto bene.

Jazz entra nel vivo delle dinamiche della scuola e soprattutto nelle reti di bullismo.

Scopre che Charlie bullizzava alla grande il piccolo Rory, figlio di David, un brillante analista di borsa che dopo un errore viene licenziato, nonché lasciato dalla moglie che cerca una sistemazione con molti soldi alle spalle. Dove sembra trovarla in Julian, un professore della scuola di Rory, che però non si accorge della cosa.

Oltre a Julian, incontriamo alcuni personaggi di gestione della scuola stessa. Il preside Robert, più preoccupato del buon nome della scuola che degli episodi nefasti presenti. La direttrice Madeleine, inflessibile tutrice dell’ordine e delle istituzioni, e la sua amica Jenny, tormentata dai sensi di colpa per aver avuto in gioventù una relazione adulterine con parto ed abbandono del figlio (un avvenimento che risale ad una quarantina di anni prima, col che vi rende conto anche dell’età delle persone coinvolte).

Rory è il più indiziato della morte di Charlie, essendo stato lui a portare le pasticche al bullo. Per questo scappa. Ma, lui assente, muore tragicamente anche Julian. Facendo ricerche accurate Jazz scopre che c’erano 4 ragazzi che bullizzavano quel ragazzo impiccatosi tempo addietro. Julian, Harry, un chirurgo, trasferitosi in Australia e trovato morto (ucciso?) in ospedale, Freddie, analista economico trasferitosi in America e suicidatosi (defenestrato?) dalla finestra del grattacielo newyorchese, e Adam, che coltiva vini in Francia ed è l’unico in vita.

Non c’è molto da fare le somme per capire che le morti sono organizzate da un parente della prima vittima. Ma chi sarà? Ovvio che abbia cambiato nome! E come mai ci va di mezzo Charlie? Jazz, con il suo intuito, collega tutti i pezzi, trova mezzi e motivi, ritrova lo scomparso Rory, e, per colpo di fortuna finale, dà nuove speranze a David, il padre di Rory, di entrare in possesso di eredità perdute, mentre giustamente verrà penalizzata la sua ex-moglie, che aspettava a sistemarsi sposando Julian, che muore prima di poterlo fare.

Una scrittura scorrevole, con un buono slancio finale, che poteva far presagire la volontà della scrittrice di poterne fare una saga di successo, come per le “Sette sorelle”. Purtroppo, fattori esterni ce ne hanno privato. Come hanno privato la scrittrice di effettuare un lavoro di ripulitura e raffinamento del testo, che mostra, a chiazze, momenti di non sempre uguale spinta creativa ed espositiva.

“È raro che il buon Signore ci dia indicazioni sbagliate.” (159) [forse a volte confuse]

Ian Rankin “In a house of lies” Orion euro 9 (in realtà, scontato a 4,50 euro)

[A: 10/11/2022 – I: 15/11/2022 – T: 18/11/2022] - &&& 

[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 428; anno 2018]

Sono contento che il caso, dopo cinque anni, mi abbia rimesso in mano un libro del giallista scozzese Ian Rankin, uno dei maestri del cosiddetto “tartan noir”, molto noto nei paesi anglofoni, ed un po’ meno da noi. Una letteratura che affonda le radici nella letteratura scozzese, si ibridizza con alcuni tocchi di hard-boiled americano e di “procedural thriller”, venendo fuori con le sue caratteristiche: la dualità dell’uomo, la natura del bene e del male, la salvezza e la redenzione. Non a caso si fa risalire il tutto a “Lo strano caso del dr. Jekyll e di mr. Hyde” di Robert Louis Stevenson.

Inoltre, come ho spesso detto, Rankin è uno degli scozzesi (nativi o acquisiti) che gradisco di più, unito, appunto, ad Alexander McCall Smith e a J.K. Rowling. Non a caso, ben 12 titoli sono presenti nella mia libreria, dieci delle diciassette storie dedicate a John Rebus, e due con l’ispettore Rebus in pensione ma presente, insieme ad altri personaggi della polizia scozzese.

Questo, comunque, secondo la genealogia accredita dall’autore, viene indicato come ventiduesima avventure di Rebus e settima di Malcom Fox. Un’indicazione che non mi convince perché Fox, anche qui, come nella terza avventura del detective, compare, anche se più a lungo del precedente che ho letto. Ma soprattutto perché una figura investigativa centrale, ed anche da molti romanzi, è l’ispettrice Siobhan Clarke, che, invece, non viene mai nominata nei titoli di testa.

Qui, la parte “tartan” è spesso data dai luoghi. Edimburgo, gli spostamenti tra Edimburgo e Glasgow, la campagna intorno a Glasgow dove sorge lo Scottish Crime Campus di Gartosch (dove lavora Malcom), ma anche, e soprattutto per noi che le amiamo, le Highlands.

Poiché Rankin è molto attento ai tempi, e poiché sappiamo dal primo racconto che Rebus è del ’47, qui John si avvierebbe ai settant’anni, e quindi, anche se non ci fossero altre motivazioni, sarebbe di certo una persona pensionabile (o pensionata). Tra l’altro ha un enfisema per cui ha smesso di fumare, come ha smesso in pratica di bere alcoolici. Tuttavia, rimane sempre nelle vicinanze delle indagini poliziesche, sia come mentore di Siobhan, sia come persona che ha visto tanti casi passargli sotto le mani (spesso scontrandosi con il boss di Edimburgo, Big Ger Cafferty, con il quale ha anche uno strano rapporto personale).

La costruzione dell’intreccio parte da queste premesse. Viene ritrovato il corpo di un investigatore scomparso dieci anni prima, ed alle indagini, al tempo, era presente Rebus. Essendo in pensione, del caso si occupa una squadra con Siobhan, cui ad un certo punto si affianca anche Malcom (ma non ha un peso tale da giustificarne l’inserimento nei titoli di testa). Molte le complicazioni: il morto era un investigatore gay che stava indagando sui possibili brogli di un affarista, che pochi anni dopo diviene anche onorevole. La polizia trattò male le indagini, e tutto finì nel nulla.

C’erano poliziotti corrotti, stupefacenti che circolavano sotto la regia di Cafferty, il fatto che il morto fosse gay, il fatto che il compagno del morto fosse figlio di un poliziotto. Insomma, tante cose lasciate perdere. Rebus però ha delle idee, coinvolge Siobhan in nuove ricerche, anche a partire dal fatto che la macchina con il corpo viene ritrovata in un posto abbondantemente analizzato dalla polizia. Si riprendono in mano filmati, si studiano movimenti, la squadra, con Rebus nell’ombra a lanciare idee, alla fine imbrocca la pista giusta incastrando l’insospettabile autore del tutto. Ed avete visto che non vi ho detto quasi nulla.

Come in molti procedural thriller, si segue anche un altro caso, in cui è coinvolta Siobhan, ed anche qui Rebus ha l’idea brillante, che porta alla soluzione di un omicidio di una sedicenne. Qui c’è un altro esempio dell’ambito scozzese del testo. Redenzione o condanna? Chi si incolpa è colpevole o copre qualcuno? Interessante dilemma che fomenta una discussione tra Siobhan e John.

Comunque, il fascino del sessantenne Rankin per me è molteplice: inserimento nell’attualità (si parla di Brexit da un’ottica scozzese), pub e birra, musica di cui sono amante, ironia, situazioni personali, intrecci.

Faccio solo due esempi. Per la musica Rebus a pagina 107 ascolta Arvo Pärt, compositore estone capostipite del minimalismo sacro, ed a pagina 216 mette il CD “Moondance” di Van Morrison. Per l’ironia, una parte importante della trama è occupata da una casa di produzione cinematografica fondata da Jackie Ness e John Locke, che, stando in Scozia, si chiama “Locke Ness Production”!!

Insomma, un buon prodotto, corroborato dalla mia indiscussa simpatia per l’autore.

Visto, in fine che si parla molto di Svezia,  farei un grande salto nelle citazioni di uno scrittore che ho citato all’inizio. Vorrei anche qui ricordare Henning Mankell (1948 – 2015) che nel libro “Nel cuore profondo”, sebbene non sia tra i suoi migliori (almeno per me), mi riempieva la memoria di alcune linee di memorie.

Il mare ed i suoi derivati (pensando a Renato, che il protagonista del libro fa il “batinauta”):  “Il mare è un sogno a cui non piace farsi domare” (23); “Stava tracciando rotte per permettere ad altri di navigare sicuri. Ma per sé stesso stava tracciando rotte che non portavano nel posto giusto” (125).

L’amicizia, il rapporto con sé e con gli altri: “Quale altro volto si nascondeva dentro di lui? Sarebbe mai riuscito ad assomigliare solo a sé stesso?” (67); “Si chiese se fosse possibile vivere senza mentire. Aveva mai incontrato qualcuno che non lo facesse? Cercò tra i suoi ricordi, ma non gli venne in mente nessuno” (149); “Essere soli è molto peggio per un animale che per una persona. Forse, però, per un animale è anche più semplice farla finita” (112); “A volte i pensieri erano di nuovo chiari. Capiva allora che non sarebbe mai potuto stare vicino ad un’altra persona, aveva troppa paura di perdere sé stesso” (343).

E perché no, infine l’amore: “L’amore è incomprensibile. Incomprensibile ma forse anche invincibile” (209); “Ho pensato davvero di aver trovato un uomo capace di mantenere fede alle sue promesse” (322); “Non puoi dire la verità almeno una volta?” (327).

Siamo a due settimana dall’ipotesi di viaggio, per cui non ne parlo più. Parlo del freddo (troppo per me che sto anzianando), dei femori malandati, dei tunnel carpali, di chi non sa andare in moto e di chi deve accendere ceri in tutte le chiese che incontra. Quindi, per dar conto di tutto ciò, questa settimana si torna a vedere la campagna, che lì la mente (e non solo il corpo) riposa. Ma anche da qui, di fronte al verde della villa, vi penso e vi abbraccio.