domenica 31 maggio 2020

Niente America, please - 31 maggio 2020


Mateo García Elizondo “Appuntamento con la Lady” Feltrinelli euro 15 (in realtà, scontato a 5 euro con Payback)
[A: 21/12/2019 – I: 08/02/2020 – T: 11/02/2020] - && e ½
[tit. or.: Una cita con la Lady; ling. or.: spagnolo; pagine: 159; anno 2019]
Ecco un altro libro della scuderia delle novità, anche questa volta al seguito di una proposta di “Robinson” il supplemento letterario di Repubblica. Scopriamo così una bella scrittura di un giovane predestinato comunque alla scrittura. Per la sua carriera di giornalista e sceneggiatore, ma anche per i suoi natali. È infatti nipote di due scrittori: il grande Gabriel Garcia Marquez ed il messicano Salvator Elizondo. Da sue interviste fu poi nonno Gabo che per primo gli regalo un quaderno per scrivere le sue impressioni, quaderno che ritorna come leitmotiv in questa sua prima opera letteraria. Come direbbero critici e dotti, una scrittura che affonda nelle radici messicane di Juan Rulfo, ma che non disdegna collegamenti agli studi di Mateo. Che si laurea a Londra in letteratura inglese, e vengono parole di Kerouac e dei beatnik, pensando di aver Burroughs come nume tutelare. Fortunatamente, per noi lettori non molto addetti ai voli grafici, queste radici si manifestano in un discorso monologo (o quasi) intellegibile e piano. Che comunque ci fa partecipe di un mondo e di una visione di vita che il giovane protagonista ci mostra crudamente. Lo scrivano è un tossico all’ultimo stadio, che ha visto morire molti (tutti?) i suoi amici, nonché il suo grande amore, la Valerie. Allora, con un po’ di oppio e venti grammi di eroina, fugge dalla metropoli, per rifugiarsi nell’ignota città di “El Zapotal”. Ora noi europei diciamo ignota, ma in effetti, è un importante sito archeologico messicano nello stato di Veracruz, patria della cultura “Totonac”. Ma non è questo che interessa Mateo. Lui ci porta nella discesa negli abissi del protagonista, che visti sparire tutti i suoi riferimenti, si rintana laggiù per spararsi una overdose potente, farsi cullare dalle braccia della Lady (così come chiama il rush nell’eroina, rush che per i meglio informati è l’euforia iniziale della droga, prima che venga il down e l’assalto delle “scimmie”), ed andarsene da questo mondo. Non sono un esperto, né tanto meno un blando conoscitore, del mondo della droga. Per quanto ne ho sentito parlare, e visto in circostanze altre (soprattutto filmiche, devo dire) Mateo riesce bene nella rappresentazione di questo mondo. Ci fa partecipe degli alti e bassi che seguono la ricerca e l’assunzione di sostanze stupefacenti. Si capisce come il drogato vede il mondo esterno, ed anche come gli altri lo vedono. In questo suo vagabondare, senza meta sempre, poi senza soldi, poi senza nulla, in questa sperduta località. Come ben presto, nei momenti di astinenza, ma anche nei momenti di fuga oppiacea, il protagonista sia assalito dai suoi fantasmi. Dal ricordo dei suoi amici, della vita che aveva fatto in città. Ed in particolare, tra le sue parole, traspare la bellezza dell’incontro con la Valerie, il loro amore, profondo, fino all’ultimo stadio. Fino a quando lui si tira indietro e la Valerie non ritorna. Per molto tempo (di lettura) ho aspettato di capire come poteva evolversi, come Mateo ci avrebbe presentato la dose finale e la morte del protagonista. Perché non c’è mai stato un dubbio nella mia lettura, che lì avrebbe finito il suo mondo. Non entro nelle pieghe oniriche del racconto, a volte forse le parti migliori. Come alte sono le pagine del degrado, la descrizione delle piaghe, della sofferenza, del rifiuto del cibo e dell’isolamento, per andare il prima possibile tra le braccia della Lady. Purtroppo, la seconda parte del libro si avvia verso lidi che mi sono sembrati poco consensi alla partenza dello scritto. Non si comprende quando il protagonista muore, né se muore veramente, né se la confusione della testa persa nelle droghe lo porta a scrivere in quel suo quaderno cose e momenti strampalati. Come la visione di una donna che si lava nel fiume (ed in realtà, El Zapotal è sulla riva del rio Blanco) dopo aver fatto l’amore. Che lui, guardone triste, osserva tra le foglie, spergiurando di aver sentito nascere una vita in quell’unione. Tanto che potrebbe venire il sospetto che ci siano venature di induismo nelle pieghe del racconto. E chi vuole, lo capisca. Ma a me è piaciuto il modo, crudo e dolente, della rappresentazione della disperazione di chi non sa che farsene della propria vita, e cerca soltanto di lasciarla. Magari senza dare troppo fastidio, magari portando in tasca degli orecchini per pagarsi una sepoltura. Insomma, un giovane poco più che trentenne, che scrive un racconto lungo che si lascia leggere. Con qualche perplessità finale, ma sicuramente meglio di tanti celebrati scrittori, che le perplessità me le lasciano fin dalle prime pagine.
Andrea Vitali “Le mele di Kafka” Garzanti euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 23/06/2017 – I: 12/02/2020 – T: 14/02/2020] - && +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 225; anno 2016]
Non devo certo ricordare a chi da tempo mi legge che Andrea Vitali è uno scrittore, di certo leggero, ma che gradevolmente si può leggere. A volte riesce ad essere anche più interessante, altre volte è solo un utile momento di riposo dei due neuroni affaticati, che possono seguire le vicende paesane descritte dal dottor Vitali in modo estremamente rilassante. Ho sempre rilevato, poi, che le vicende migliori, quelle che oltre ad essere rilassanti erano anche moderatamente ironiche, erano i romanzi ambientati nel Ventennio fascista, laddove la vita di paese assurgeva a microcosmo spaesante dei guasti nazionali. Qui siamo in altre zone. Vicenda ambientata nel 1958, tendente verso un boom economico ancora da arrivare. Personaggi locali e paesani, dagli interpreti principali ai comprimari (come il parroco e la perpetua), ma senza un centro deciso come in altre descrizioni. Ci sono tante piccole storie, che confluiscono nel grande fiume del racconto, eppure nessuna riesce a prendere il sopravvento e ad interessare e coinvolgere. Ci sono, e in questo bisogna riconoscere che Vitali è un maestro, i nomi dei personaggi sempre con quel sapore paesano che diventa quasi un marchio di fabbrica. Qui si comincia dai capostipiti, anche se marginali nella vicenda. Bigonio che vuole le figlie ben sposate, anche per dare un seguito al negozio di ferramenta, e la moglie Stellina, patita persa di Mike Bongiorno e di “Lascia o raddoppia”. I due hanno due figlie: Fioralba che sogna il grande amore con il quale fuggire e sposa Eraldo lo svizzero, con il quale va a vivere a Lugano, e Rosalba, quella silenziosa, un po’ rubacuori di paese, che alla fine, anche se ha dato un bacio ad Eraldo, sposa Abramo, che rileva il negozio di ferramenta e diventa l’idolo del paese in quanto impareggiabile giocatore di bocce. Ma di bocce in coppia, che per le gare ci vuole chi accosta e chi boccia. Tutta la vicenda ruota, tra presente e feedback, nella storia appunto della famiglia Spotti. Nel progressivo malessere e morte di Stellina. Nella volontà di sponsali di Bigonio. Ma soprattutto nelle vicende di Rosalba e Fioralba. La seconda silente ad aspettare il principe azzurro. La prima un po’ sognatrice, prima accompagnandosi con il Tirelli, poi tradendolo con Abramo. Ovvio che parliamo di tradimenti di paese, di sguardi, di passeggiate sul lungolago. Non si sta di certo in città, dove di tradimenti sarebbero passati “di letto in letto”. La diatriba tra Abramo ed il Tirelli, che sarebbero la coppia di punta della bocciofila locale, sfocia nella rottura della coppia (di bocce), nel matrimonio di Abramo e Rosalba, e nella crisi di Mario, il manager della bocciofila che si vede sfuggire l’ambito trofeo. Ma ricordiamo anche che nel frattempo arriva Eraldo a far innamorare Fioralba, tanto che si organizza in pratica un doppio matrimonio, dove, nelle euforie dei festeggiamenti, ci scappa anche il bacio furtivo tra Rosalba ed Eraldo. La storia attuale invece comincia con una telefonata dalla Svizzera: Eraldo ha un coccolone e sta per morire. Tutto ruota quindi sulla preparazione del viaggio di Abramo e Rosalba verso la “lontanissima” Lucerna (ho controllato su Google, ora tra Bellano e Lucerna, a parte il confine, c’è una strada di montagna di certo tutta curve, di ben 203 chilometri…). Sui sentimenti di Rosalba che non sopporta più Abramo e ripensa al bacio di Eraldo. Sulle paure di Mario, visto che a giorni c’è la finale del campionato di bocce, dove Abramo è fondamentale per la vittoria della squadra locale. Sulla caratterizzazione di Lucerna e sull’accoglienza degli Svizzeri agli emigranti (fate un po’ il paragone con oggi…). Ci saranno tutta una serie di avventurine e rivolgimenti, alla fine dei quali, personalmente, credo rimangano tutti delusi i personaggi locali. Ed anche noi lettori non è che si riesca a fare il tifo per l’uno o per l’altra. E poi c’è Kafka. Ma che c’entra? Vitali si appoggia ad un dato certo (nel 1911, Kafka e Max Brod fecero un giro in Svizzera e passarono per Lugano). E vi aggiunge il suo tocco personale: l’albergo dove Kafka soggiornò a Lucerna, secondo lo scrittore praghese, aveva frutta poco saporita. Da quel giorno, il direttore faceva mettere nella hall un cesto di mele, le mele di Kafka appunto, che non si dovevano toccare. Ovvio che Abramo cercherà in tutti i modi di mangiarle, anche se questa è una piccola punta della storia principale. Vi lascio, se avete voglia, scoprire le piccole cose che succedono nelle duecento scarse pagine del romanzo. Come dicevo gradevole ma nulla di più. Aggiungo solo un tocco laterale. Cercando notizie su Kafka in Svizzera ho scoperto che in quel viaggio, a lui ed al suo amico Max, essendo delusi delle guide roboanti alla “Baedeker”, venne in mente di proporre delle guide economiche e piene di spigolature, un po’ antesignane delle attuali “Routard”. Un progetto che non andò in porto, come le mele che non furono mangiate. Spero in qualche futura lettura di un Vitali migliore, e più ironico.
Amos Oz “Giuda” Feltrinelli euro 9 (in realtà, scontato a 6,90 euro)
[A: 28/08/2017 – I: 25/02/2020 – T: 28/02/2020] - &&&& -
[titolo: Habasorah Al Pi Yehuda Ish Qariyot; lingua: ebraico; pagine: 329; anno: 2013]
Una piccola opera di rimozione del titolo, che in ebraico suona molto più “provocante” come “Il Vangelo secondo Giuda della città di Karyot (cioè Iscariota)”. Reso in italiano con solo “Giuda” in maniera forse troppo riduttiva. Fatto questo accenno rilevo come sia il primo libro che leggo dopo che anche il grande scrittore israeliano ci ha lasciato, senza che si sia potuto fregiare, come io auspicavo da anni, di un Nobel per la Letteratura, che avrebbe senza dubbio meritato. Per il complesso dei suoi scritti, e per le posizioni, difficili, che nei suoi scritti ha sempre preso. Come in questo, uno dei suoi ultimi lavori, complesso nella costruzione di rimandi tra passato e presente, ma con un paio, almeno, di idee forti che ne rendono, alla fine, una lettura interessante, forse non coinvolgente al massimo, nella parte diciamo attuale, anche se l’ambientazione è nell’inverno a cavallo tra il 1959 ed il 1960. Il personaggio principale è un giovane universitario, Shemuel, che non riesce ad andare avanti nella tesi, che viene lasciato dalla fidanzata, e, sbandato e senza scopi, si ritrova a fare da “dama di compagnia” ad un vecchio semi-paralitico ma di grande cultura e di grande voglia di parlare (visto che sta relegato in casa, tra letto, chaise-longue e piccoli passi con le stampelle). Accudito dalla moglie del figlio morto durante i combattimenti del 1948, durante la nascita dello Stato d’Israele. Nuora figlia di un personaggio importante (morto una decina di anni prima). Un antagonista di Ben Gurion, tale Abrabanel, che pensava fosse più utile mantenere una convivenza con gli arabi sui territori comuni. Posizioni troppo filoarabe all’epoca, che lo fecero relegare nell’angolo, additare come traditore, che lo videro chiudersi in casa, con il consuocero. Il cui figlio, il marito di Atalia (e non apro parentesi sul nome legato anche a vicende familiari), benché illuminato e progressista (d’altra parte era un professore universitario di … matematica, quindi a fortiori un dotto!), decide di arruolarsi alla chiamata alla difesa da parte di Ben Gurion a valle della risoluzione delle Nazioni Unite sulla nascita di Israele. E che sfortunatamente, muore subito. Rimarranno in tre nella casa, e poi in due alla morte di Abrabanel. Ed occasionalmente in tre, quando Atalia assolda qualche giovane per far compagnia al vecchio. come il nostro Shemuel. Sui cui studi si impernia il filo forte della narrazione, e su cui torneremo. Ma che, giovane venticinquenne alla deriva, non bello, né particolarmente motivato ad uscire dal proprio ombelico, si trova ad avere tanto spazio di riflessione nell’accudire il vecchio. ovvio che si innamora anche della quasi quarantenne Atalia. Un amore che già sappiamo non avrà sbocchi. Il giovane farà un percorso lungo e di riflessione, che lo porteranno alla fine al distacco con la famiglia e la casa dove ha vissuto quell’inverno, ed a rifugiarsi (ma forse rinascere) in un kibbutz che sorge nelle vicinanze di Ramon. Qui si vede in controluce anche un piccolo spaccato della vita di Oz, che decise di andare in kibbutz molto prima del giovane (aveva 15 anni) ma che è sempre rimasto legato al “socialismo comunitario” dei kibbutzin. Cosa cui lego due miei ricordi personali: la prima volta che andai in Israele, riuscii a passare due notti in kibbutz al Nord verso il Libano. E fu un’esperienza interessante. Mentre l’ultima mia visita lunga in Israele mi ha portato sia a Mitzpe Ramon, dove lasciamo Shemuel alla fine del romanzo, sia a Beer Sheva, dove lui si sta recando. Anche qui, ho dei bei ricordi di posti, di sensazioni. Ma anche di un caldo assurdo che arriva dal deserto del Negev. Tutto ciò però ci ha allontanato dalla parte forte del romanzo, e dal titolo. Che Shemuel, nei suoi studi, stava indagando sulla visione ebraica di Gesù e sul ruolo di Giuda. Oz riporta alcuni passi relativi al primo pezzo di indagine. Poi, in un capitolo intenso, disvela la sua (anche se non sua personale, forse derivata da letture e scritture dotte) visioni di Giuda. Visto come l’artefice della gloria del Nazareno. Giuda, diversamente dagli altri apostoli, era benestante, veniva dalla ricca città di Karyot, dove era un possidente. Alcuni ritengono che fosse stato inviato a Gesù proprio dai sacerdoti del Tempio, per controllare il nascente profeta. Ma Giuda si appassiona, passa “il Giordano”. Diventa uno dei più vicini a Gesù. Convinto della sua discendenza divina, ipotizza la grande apoteosi: andare a Gerusalemme, sfidare i sacerdoti, salire sulla Croce, e da lì discenderne, mostrando la propria vicinanza al divino. Costruisce quindi trame ed inganni per attuare tutto ciò, convincendo il, secondo Oz, recalcitrante Gesù. Ma quando Gesù non scende sulla croce e muore, Giuda “perde la fede”, pensa il suo disegno sia stato fallace, pensa di aver lui portato alla morte il Nazareno. Fugge e si toglie la vita. Senza aspettare la seconda parte della vicenda. Dove Gesù, che Giuda pensava di manovrare e che invece manovrava lui Giuda, risorge al terzo giorno, mostrando appieno la sua essenza divina. Questo, ovvio, molto in sintesi, che se ne potrebbe discettare a lungo. Ma lo scopo di Oz, oltre a comunicarci il vangelo secondo Giuda, è anche quello di tornare al problema che lo assilla da sempre. La lotta, senza possibilità di uscita, tra arabi ed ebrei. Il rimando è quindi ad Abrabanel: era anche lui un Giuda, come quello di storicità ebraica, che aveva le idee giuste, ma che, tradotto in comportamenti sbagliati, non hanno portato gli effetti sperati? O era quello di tradizione cristiana, un traditore e basta? Solo alcune annotazioni per concludere. Il padre di Amos, si chiamava anche lui Yehuda (nome molto comune tra gli ebrei). Gli Abrabanel, infine, erano una grande famiglia storicamente sorta nella Vecchia Russia, tra Lettonia, Lituania ed Ucraina. Ed uno dei discendenti della ramificata famiglia, era tal … Boris Leonidovic Pasternak. Qui mi fermo.
“Non cercare continuamente qualcosa da dirmi. Possiamo camminare insieme anche senza parlare. Io quasi ti ascolto anche quando taci, sai. Anche se taci troppo di rado.” (108)
“La verità è che tutta la forza del mondo non basta per trasformare l’odio in amore. Colui che odia lo si può trasformare in servo, ma non in uno che ama. Tutta la forza del mondo non basta per trasformare il fanatico in illuminato. Tutta la forza del mondo non basta per trasformare in amico chi ha sete di vendetta.” (122)
“Diceva che … chi muore in questo mondo, non solo i caduti di tutte le guerre, anche chi muore per un incidente o di malattia e financo di vecchiaia, … tutti muoiono assolutamente invano.” (196)
Amitav Ghosh “Diluvio di fuoco” Beat euro 12,50 (in realtà, scontato a 9,60 euro)
[A: 28/08/2017 – I: 29/02/2020 – T: 02/03/2020] - &&& +
[tit. or.: Flood of fire; ling. or.: inglese; pagine: 703; anno 2015]
Ed eccoci a quella che si dovrebbe ritenere la conclusione della trilogia della “Ibis”. Una trilogia che ho letto scandendo un libro ogni 4 anni (il primo recensito appunto nel 2012 ed il secondo nel 2016). Tanto che ci sarebbe il dubbio di scordarsi i personaggi, di mescolarli oppure di pensare che siano diversi da quello che poi appaiono ora. Ghosh è sempre uno scritto che non mi dispiace, per il fluente modo di condurre storie corali. Anche qui non si smentisce. Non solo, ma prende in mano una storia veramente “voluminosa”, che tuttavia, come confessa nella lunga epigrafe finale, alla fine con circa 1800 pagine, è riuscito a tratteggiare solo circa 4 anni della storia che aveva in mano: dal 1838 al giugno 1841. Una storia avvincente, in ogni caso, tanto che quest’ultima puntata, pur con le sue 700 pagine, mi ha tenuto abbastanza spesso legato alla pagina, nonostante si avessero altre cose da fare. Non è certo un capolavoro indimenticabile (e questo lo possiamo rimarcare dal fatto che supera di poco i 3 libri di gradimento) ma è ben fatto, piacevole da leggere, e con qualche cosa, alla fine, che mi consente di polemizzare con l’autore. Ricordo che l’idea di base della storia era quella di utilizzare alcuni personaggi tipici del mondo indo-cinese dell’epoca per tratteggiare non solo un modo di vivere, ma anche una svolta epocale della vita nella regione. Così, all’inizio, Ghosh fa convergere su di una nave, la goletta “Ibis”, i suoi personaggi. Poi li scatena, e li segue, chi più chi meno, eventualmente aggiungendone di nuovi e complementari. Il fulcro della narrazione si incentra su Zachary Reid, un nero partito mozzo dai cantieri di Baltimora, su Paulette Lambert, un’orfana appassionata di piante, su Deeti, una vedova che cerca di sfuggire al suo destino, su Neel, un rajah caduto in disgrazia, e su Jodu, fratello di latte di Paulette, mussulmano e marinaio. Tutti loro si trovano ad un certo punto sulla nave fulcro, e da quella (vedi i capitoli precedenti) fuggono, alcuni mettendosi in salvo nelle isole Mauritius, altri tornando verso le terre di diversa provenienza. In realtà, Paulette, nel secondo libro, già si sistema nell’isola di Kowloon, continuando la sua opera di botanica. Mentre, nel corso della seconda trama, lamentavo la scomparsa dalla scena di Zachary. Ebbene, in questo lungo finale, proprio lui prende buona parte del centro della narrazione. Insieme a Kesri Singh, il fratello di Deeti. Peccato che qui non si parli più di lei né delle Mauritius, ma si incentri tutto di nuovo sulla seconda parte della prima guerra dell’oppio. Ricordo che durante il secondo libro, l’imperatore cinese aveva bandito l’importazione dell’oppio, e cercato di cacciare via inglesi ed altri stranieri che da Canton inondavano la Cina di droga. Ovvio che è una cosa che non sta bene alle potenze economiche, anche se basate su traffici illeciti. Saranno proprio i mercanti che riusciranno a convincere le forze inglesi ad intervenire, a stroncare le lecite richieste cinesi, dall’alto della loro potenza militare, ed ottenere alla fine (questa è storia, non certo anticipazione del libro) non solo il risarcimento per tutto l’oppio perduto, ma di avere una base gratuita nella baia di Kowloon, e precisamente ad Hong Kong. Base che gli inglesi terranno sino al 1997, e che ritorna in questi giorni di attualità politica. Ma questo è un discorso diverso. Qui ritorniamo invece a Zachary, e lo incontriamo alla fine del processo per i fatti dell’Ibis narrati nel primo libro. Viene giustamente assolto, ma si trova senza un soldo, costretto a reinventarsi tutto da capo. Trova un ingaggio da carpentiere presso Mrs. Burham, una trentacinquina di cui sappiamo del marito, uno dei maggiori commercianti di oppio (vedi volume due). Ma ora è sola, e con Zachary si consola. Anche se il suo cuore era rimasto all’amore di gioventù, quando, appena ventenne, cacciava nelle giungle paterne, aiutata da un bell’alfiere, il tenente Mee, e dal suo aiutante, Kesri. Sono queste le due storie binario del libro: Zac sedotto da Cathy Burham, che pensa anche di vendicarsi di lui pensando che avesse sedotto Paulette, di cui invece si era innamorato. Zac che con i soldi guadagnati da Cathy (che lo pagava anche come gigolò) riacquista i gradi, e con l’aiuto di una specie di santone indiano, investe i soldi in oppio, riprende la guida delle navi, guadagna una barca di soldi. Ed alla fine, quando è scaricato da Cathy per giusti motivi, trova anche il modo di vendicarsi di lei, di Mee, e di entrare in sodalizio con Mr. Burham ed il suo contraltare cinese. Mr. Chen. Dall’altra vediamo Kesri, attendente di Mee, che con lui si offre volontario nell’avventura di riconquistare Canton ed il mercato cinese. Vicende che li porteranno anche a ritrovare Cathy, da parte di Mee, e notizie della sorella Deeti, da parte di Kesri. Tutto si intreccia con la vicenda dei parsi di Bombay, ed in particolare della bella signora Shiraam, moglie dello sfortunato commerciante Moddie (morto nel secondo volume). Che qui ritrova il figlio bastardo del marito, in cerca di sfuggire alla vendetta di Chen, tracce della morte del marito, ed un nuovo amore in Zadig Bey. Non entrerò più di tanto nelle varie storie, che ritroviamo anche Neel, passato dalla parte dei cinesi, ma che, prima di essere sconfitto nuovamente, viene salvato da Jodu. Le vicende sono tante, ma rimangono alcune perplessità. Ad esempio, su Zachary che nelle prime vicende sembrava buonissimo, e che qui comincia a metà strada, per poi diventare antipatico ed insolente, ed alla fine, forse, in via di redenzione. Certo si riavvicina a Paulette, ma la strada percorsa lo ha portato su sentieri poco eleganti. Si accenna a Neel, appunto, ma poi lo si relega alle note dell’epilogo. E molti cattivi, o presunti tali, non pagano il fio delle loro cattive azioni. Rimane, dal punto di vista storico, l’interesse per la conquista di Hong Kong, per il suo futuro sviluppo, per la pervicace cattiveria degli inglesi (e devo dire che non riesco a farmeli piacere quasi mai). Personalmente, sento quasi che, se Ghosh ne avesse le forze, potrebbe scrivere un altro capitolo della saga. Anche perché ho perso traccia di Deeti e di Kalua, cui vengono riservate circa dieci righe su 700 pagine. Comunque, e per finire, una lettura per riposare la testa, in questi tempi di pensieri buiamente virali.
Avendo anche maggio una domenica in più, questa festività regalata ci consente di riprendere alcune letture della fucina dei libri curativi.
Stiamo entrando nel terzo mese di quarantena, e devo dire che, personalmente, i segnali della sua fine non mi sembrano così chiari come molti sostengono. Penso che ci sia ancora molto da fare e da lavorare. Come ci sarebbe da fare e da lavorare sulle nostre esistenze, visto che poco, anche in una crisi come questa, sembra essere migliorato. Sempre nel mio inconfessato egotismo, credo di aver compreso qualcosa di più su di me, migliorando l’aiuto ormai troppo datato della mia mentore Luisa. 
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
Quasi DUE GIUGNO 2020
Quando c’è una domenica in più, come in questo maggio in quarantena, cerco di recuperare trame e malanni passati. Eccone altri tre.

EVASIONE, I DIECI MIGLIORI ROMANZI DI

Quando avete bisogno di scordare la pena che avete nella testa, nel cuore o nel corpo; quando aspettate un autobus che non arriva mai; quando volete sganciarvi dalla routine quotidiana, svignatevela con uno di questi.
 Roberto Bolaño       I detective selvaggi
 Raymond Chandler   Il lungo addio
 Joseph Conrad         I duellanti
 Julio Cortázar          Il gioco del mondo
 Alexandre Dumas     Il conte di Montecristo
 E. M. Forster           Passaggio in India
 Graham Greene       Il nostro agente all’Avana
 Jerome K. Jerome    Tre uomini in barca. Per non parlare del cane
 Stephen King           Stagioni diverse
 Nevil Shute             Una città come Alice

NOVANT’ANNI, AVERE

I dieci migliori romanzi per novantenni
 Heinrich Böll                    Opinioni di un clown
 Lewis Carroll                    Alice oltre lo specchio
 Charles Dickens               Casa desolata
 Ernest Hemingway            Il vecchio e il mare
 Milan Kundera                  Il libro del riso e dell’oblio
 Primo Levi                       Il sistema periodico
 Gabriel Garcia Marquez      L’autunno del patriarca
 Salvatore Satta                Il giorno del giudizio
 Mario Soldati                       America primo amore
 P. G. Wodhouse               La stagione degli amori

PREMESTRUALE, SINDROME

Vi fanno male le gambe. Vi vengono i brividi. Meglio fare piano. Qualcosa di troppo impegnativo potrebbe ridurvi in lacrime. Oggi restate sotto il piumone con la borsa dell’acqua calda e un buon romanzo per ragazze: il miglior analgesico del mondo.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER QUEI CERTI GIORNI
Isabel Allende                “La casa degli spiriti”
Thomas Bernhard           “Perturbamento”
Luciano Bianciardi           “La vita agra”
Truman Capote              “A sangue freddo”
Arthur Conan Doyle         “Uno studio in rosso”
Jeffrey Eugenides           “Le vergini suicide”
Helen Fielding                  “Che pasticcio, Bridget Jones”
Yu Hua                          “Cronache di un venditore di sangue”
Anna Maria Ortese          “L’Iguana”
Giovanni Verga              “I Malavoglia”

Bugiardino

Recuperiamo allora altri tre libri dalla banca dei ricordi scritti. E lo faccio in ordine inverso, cominciando dalla sindrome premestruale e da Helen Fielding.
Helen Fielding “Che pasticcio, Bridget Jones!” BUR euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,42 euro)
[tramato il 23 dicembre 2018]
Tre anni dopo il successo planetario del “Diario”, Helen prova a rinverdire la sua fama con questo secondo capitolo della saga. Un tentativo veramente poco riuscito ed alquanto prevedibile. Se nel primo romanzo c’era la freschezza della novità, l’ingenuità delle situazioni (con Bridget sempre leggermente fuori fase rispetto a quanto le capita intorno), questo secondo romanzo, non variando molto lo stile, risulta ripetitivo ed anche un po’ noioso. La maggior parte dei protagonisti del primo si ripresentano qui con immutato stile, ripercorrendo senza troppe variazioni quanto di scellerato (dl punto di vista dell’attività umana quotidiana) facevano nel primo. Fortunatamente sparisce quasi del tutto “il bastardo Daniel”, con una puntatina dimenticabile. Dispiace invece la quasi totale assenza del “gay” Tom, troppo preso dai suoi amori americani. Invece le pagine sono piene di Jude e Shaz, con le loro improbabili ricette derivate dai libri di auto-aiuto (che la quarta di copertina lascia nell’inglese self-help). Sempre pronte a dare il consiglio sbagliato nel momento giusto. Precipitando sempre più in basso la stima e l’autocomprensione di Bridget. Grande spazio, invece, prende l’odiosa Rebecca, subito pronta a cercare di soffiare il buon Mark alla nostra. Organizzando cene, viaggi, e quant’altro riesca a mettere in difficoltà la nostra eroina. Ma prima di passare a Mark, c’è la solita tirata sui genitori di Bridget. Con la madre con non vuole crescere, e questa volta passa dall’improbabile indiano al fasullo keniota. Fortunatamente non viene ripreso a lungo, anche perché ripercorrerebbe la stessa solfa del primo. Wellington invece appare, fa delle stupidate, dice cose sagge inascoltate e se ne torna tranquillo e felice nella sua Africa. Lasciando mamma Jones alle prese con l’alcolismo di papà Jones. Unico momento esilarante: il rifiuto di rinnovare il passaporto da parte di mamma Jones, perché dovrebbe mettere una foto aggiornata, quindi “più matura”. Mark, per riprendere il filo, sembra sempre uguale a sé stesso. Molto imbranato, molto innamorato, ma incapace a) di mostrare a Bridget quanto la ami e b) altrettanto incapace di capire il modo di comportarsi di Bridget. Ma se ami qualcuno, non puoi stare solo lì sulla porta a vedere passare quello che succede, senza mai una volta intervenire, dire, fare qualche cosa. Solo quando Bridget passa un bruto momento sembra rinsavire e capisce che sia bene fare qualcosa. E facendolo, tira finalmente fuori dai guai la nostra eroina. In tutto questo Bridget prende al solito il centro della scena, ma continua a ripetere i suoi stereotipi: ingrassare/dimagrire, fumare/smettere di fumare, ubriacarsi, avere una fiducia cieca dell’altro che la porta ai tre momenti topici del libro. Il primo, unico, positivo ed esilarante, è l’intervista romana con il “vero” Colin Firth (e suggerisco di tornare ai film che ne sono tratti, con il momento double face: intervista con Colin e rapporti con Mark interpretato da Colin; gustoso). Il secondo è il conflitto con Gary il muratore, con la ristrutturazione di casa, con i soldi che mancano, e con la finale scoperta che Gary non è altro che un piccolo topo d’appartamenti, che ha l’unico intento di rubacchiare dove può (anche poco, vista l’imbranataggine palesata). Il terzo, e punto forte del libro, è invece il viaggio in Thailandia. Con tutto lo sballo di alcolici e funghi “eccitanti”, con la comparsa del perfido Jed, e con l’incastro che questi le procura nascondendo droga nel trolley di Bridget. Qui Helen fa un’operazione che vorrebbe essere ridanciana, ma che, per chi legge giornali e sa del mondo, risulta quanto meno improbabile. Il possesso di droga in Thailandia è perseguito con una durezza estrema. E le descrizioni della settimana nelle carceri thailandesi sono una discreta presa in giro, per chi sa che, una volta finito in quel girone, difficilmente se ne esce prima di un congruo lasso di tempo (anni!). E non se ne esce mai bene. Visto che siamo (almeno nello scorrere temporale) nel 1997, non poteva mancare l’accenno alla morte di Diana. Che tuttavia avrei omesso per rispetto del personaggio. Il tutto finisce poi come cominciato con Mark e Bridget che tornano insieme. Un po’ scontato. E non capsico, ne leggerò poi, perché i miei libri guida continuano a citare la Fielding nelle loro terapie. Un’ultima considerazione: il titolo. Perché modificare l’originale “limite della ragione” con questo “pasticcio”? Certo, Bridget continua a non combinarne una buona, come abbiamo visto, ma credo che l’idea dell’autrice sia stata invece di procedere su quel solco fra razionale ed irrazionale, per continuare a sostenere la sua idea di fondo. Tutti siamo un po’ sbalestrati in questo mondo, ed è difficile procedere perseguendo una razionalità che non ci è propria. Così come non è propria per la nostra povera Bridget. Ne vedremo ancora, di sue avventure? Ai postumi l’ardua sentenza.
Proseguiamo poi con i novantenni, pensando ai miei cari zii.
Mario Soldati “America primo amore” Sellerio euro 12 (in realtà scontato a 10,20 euro)
[tramato il 5 agosto 2018]
Ricordo, nelle nebbie della memoria, di aver letto, venti anni fa almeno, “La giacca verde” di Soldati, forse perché entrò in qualche lettura paterna di campagna. Ma Soldati lo ricordavo e lo ricordo per l’immagine con il sigaro e la regia di “Piccolo Mondo Antico” (soprattutto per quella filastrocca “Ombretta sdegnosa…” che risuonava nella mia mente di bimbo intorno ai dieci anni). Così, ho accolto con interesse l’invito a leggere questo libro, che le mie “amiche” di libro sostengono essere utile a chi raggiunge i novanta anni. Cosa sulla quale fin da ora dissento. Anche perché il libro, o meglio la serie di articoli giornalistici scritti dall’autore nel suo primo soggiorno americano, sono interessanti, intensi, ed aiutano a scoprire (o riscoprire) quel mondo di là dell’oceano, che tanto è presente sia nel nostro immaginario che nel nostro reale. Soldati ha 23 anni, da poco laureato, vince una borsa di studio di un anno alla Columbia University, e, deluso dal clima italiano post Patti Lateranensi, va in America deciso, internamente, di emigrare. Vi passerà due anni (uno di borsa ed uno nel tentativo di restare laggiù), ma non trovando sbocchi, dovrà, amante deluso, tornare in Italia. Dove pubblica diversi articoli sulla sua esperienza americana. Articoli che nel 1935, assemblati e ripensati, decide di pubblicare in un libro. Un libro d’amore per la sua “idea America”, con le sue speranze, le sue scoperte, i suoi giudizi. Siamo nel pieno dell’ondata fascista degli anni Trenta, e non tutto quello che Soldati pensa riesce ad essere espresso. Fortunatamente riprenderà più volte il libro nel corso degli anni, e, come magistralmente ci mostra la post-fazione di Salvatore Silvano Nigro, lo renderà un insieme compatto e coeso.  Riordinare gli articoli, limarli, raccordare i tempi, serve, a lui ed a noi, per fare un viaggio insieme al possibile emigrante. L’imbarco sul “Conte Biancamano”, la traversata, la conoscenza con i primi italo-americani (magistrale l’incontro con il fallito baritono), e tutte le traversie che il nostro passa sul suolo americano. È stato bellissimo, per me che avevo a trent’anni il mito americano, e che proprio sul limitare di quell’età, per la prima volta varcai l’oceano (con un improbabile volo Roma – Belgrado – New York), ripercorrere con i suoi occhi alcune delle tappe che mi hanno fatto amare – odiare quel mondo. L’arrivo nella Grande Mela, il passeggiare tra le “street” e le “avenue”, gustare Battery Park, entrare e rimanere, più e più volte, nel coacervo di suoni e di odori di Times Square. Ricordo ancora lo stupore di vedere, oltre il Greenwich e verso Tribeca, le scale antincendio esterne. Come nei film. Come se anche io fossi in un fil americano. Soldati incontra la comunità italo-americana e non ha parole di elogio per questi immigrati che di italiano, ormai, hanno solo il cognome. Lo capisco. Come capisco, una volta che finiscono i soldi, il suo immergersi nel mondo dei poveri: fare lo sguattero in condizione miserrime, cercare di coniugare il pranzo con la colazione del giorno dopo (che la cena si può saltare). Come non stargli vicino quando viene rapinato a Chicago (ed io che ricordo quel ristorante vicino al Palazzo delle Nazioni Unite dove assistetti ad un inseguimento tra un ladruncolo ed un poliziotto). Quanta nostalgia leggere di pezzi di new York che erano già scomparsi quando ci sono andato la prima volta, cinquanta anni dopo Soldati, e che ancor di più sono spariti ora. Anzi più che ora, due anni fa quando ci sono andato per l’ultima volta (anche se spero di tornarci ancora). Le chiese, i cattolici americani, ma anche i gospel di Harlem, lassù, oltre la 105^ strada. Dopo il percorso, che le sue parole ricostruiscono (l’arrivo, New York, Chicago, i risentimenti, l’addio), due articoli sono rimasti impressi, fuori dagli schemi del girovagare diurno, delle parole, dei gangster, degli amori fugaci. La bellissima disamina dei film americani, con quell’affermazione che riporto e che condivido in pieno. La cattivissima sparata contro il mondo accademico americano. Certo viziata un poco dal fatto di essere stato rifiutato. Ma di un’esattezza scientifica: in un mondo basato sul mito del denaro, fare il professore risulta a volte un ripiego per chi si tira fuori dal mondo “di lotta” in stile americano. Tanto che spesso i professori sono falliti (o quasi) e tentano di perpetuare il mondo sulla falsariga del loro fallimento. Da un lato riecheggiano le distruttive parole berlusconiane (con la cultura non si mangia). Dall’altro, ricordo perfettamente lo scontro con i colleghi d’oltre oceano, ai tempi universitari, che sapevano perfettamente “come” funzionasse ad esempio un telefono, ma non si erano mai domandati “perché”. Ciliegina sulla torta americana, i due ricordi incrociati, di Soldati e del suo grande amico Carlo Levi, su come nacque la copertina della prima edizione, all’alba dell’arresto e dell’avvio al confino dello stesso Levi. Da leggere assolutamente. Come va letto il libro. Che mi riporta ad amare quell’America che non aveva ancora Trump, ma di cui ricordo lo spaesamento, un dì, in un caffè di Flagstaff, guardato con meraviglia da un locale, quando gli dissi che vivevo a Roma, vicino al papa. Esperienze che non si scordano.
“Dormire in una camera, mangiare ad una tavola per cui non debba pagare immediatamente mi dà il senso del gratuito. Alla fine … presentano il conto … Ma pagare un conto non è pagare per avere qualcosa … è fare un sacrificio misterioso … a ignote potenze organizzate.” (153)
“Meglio vere paure che orribili fantasie.” (207)
“Un film americano innanzi tutto e sempre è un film. Cioè non annoia.” (209)
Finendo quindi con un’evasione ancora da meditare con Bolano.
Roberto Bolaño “I detective selvaggi” Adelphi s.p. (regalo de “I Floridi”: Mario, Ines e la signora Laura)
[finito di leggere il 20 aprile 2020, anteprima]
Un libro discretamente complesso, che impegna nella lettura pieno com’è di rimandi e di informazioni altre. Ma una delle prove migliori, per me, tra quelle del mio coevo Bolaño (che in effetti è nato 10 giorni prima di me) che ormai da troppo tempo ci ha lasciato. Il romanzo è veramente complesso, tanto che meriterebbe un libro a sé per poterne parlare, e decrittare tutte le sfaccettature. Di certo è il tentativo di uno scrittore con una testa meravigliosa di lanciare un peana, o meglio come direbbe uno dei suoi personaggi, Juan Garcia Madero, una trenodia ad una generazione centroamericana che uscirà con le ossa rotte dal calderone della storia. Non solo è complesso nella storia, ma lo è anche nella struttura, tripartita e polifonica. Il nodo centrale è l’incontro di vari giovani latino-americani, scrittori, poeti o comunque vicini alla letteratura (anche giornalisti, grafici di riviste, ed altro) che convergono verso la creazione di un movimento letterario dal nome attraente “realismo viscerale”. Movimento che qualcuno di loro fa risalire ad un analogo, simile movimento degli anni ’20, che avrebbe avuto esponente di picco una poetessa, Cesarea Tinajero, poi scomparsa senza lasciare traccia nel distretto di Sonora (una regione semi-desertica di confine tra Messico e Arizona). Già da questo vediamo il mascheramento ed il tentativo dell’autore di descrivere un’epopea basata sui rimandi. Infatti, si vede in trasparenza il movimento che intorno al 1974 fondarono lo stesso Bolaño ed il suo carissimo amico Mario Santiago con il nome “infrarrealismo”. L’idea dei due è di dare vita, in Messico ed in lingua spagnola, ad una “cosa” (e mi scuso ma non c’è un nome singolo per quello che volevano fare) che percorresse strade analoghe, letterarie e di vita, alla Generazione Beat americana degli anni ’50. Anche il movimento messicano aveva un antenato anteguerra mondiale, con lo stesso nome, legato però non ad uno scrittore ma al pittore cileno Roberto Matta, che lo avrebbe coniato quando fu espulso dal movimento surrealista da parte di André Breton. Anche il “realvisceralismo” di Cesarea aveva avuto a suo tempo un ombrello da cui fu espulso. Era lo “stridentismo”, fondato nel 1921 in Messico dal poeta Manuel Maples Arce, anche qui un movimento interdisciplinare, legato al sociale, con radici nel futurismo, nel dadaismo, nel surrealismo, così denominato per il gran rumore che suscitò alla sua comparsa (stridente à rumore sgradevolmente acuto secondo il dizionario). Già da questa genesi vediamo la complessità dell’idea di base. Ma anche la struttura, come detto polifonica, è magistrale. Il libro è composto da tre parti. La prima e la terza sono il diario scritto dal giovane Juan Garcia Madero, diciassettenne innamorato di poesia, che ci racconta gli avvenimenti da lui vissuti dal novembre 1975 al febbraio 1976. L’incontro con i fondatori del “realvisceralismo”, Arturo Belano e Ulises Lima. La sua entrata nel movimento. L’incontro con tutti i personaggi che gravitano intorno, in special modo le donne (di cui si innamora ed altro). La fuga con Arturo, Ulises e l’ex-prostituta Lupe sia per sfuggire al di lei magnaccia, sia per cercare tracce di Cesarea nello stato di Sonora. Di certo non vi dico cosa succede prima, durante e dopo questa ricerca, e se viene trovata Cesarea, ed altro. La parte centrale, corposa e molto articolata, è invece basata su decine e decine di voci diverse, che raccontano cosa succede della vita di Arturo e Ulises dal 1976 al 1996. Questo coro, cui i due letterati centrali del romanzo non partecipano mai, ci farà seguire le loro gesta. Arturo, il cileno, e le sue donne. I suoi amici omosessuali. La sua fuga in Europa, dove farà mille mestieri, dal commesso, al guardiano di campeggio. I suoi matrimoni, e forse uno o due figli. La voglia di non star mai fermo, come se avesse paura di qualcosa. La sua seconda ed ultima fuga in Africa, dove, come Rimbaud, pare (o riesce?) voler perdersi senza ritorno. Ulises che invece rimane ancora in Messico all’inizio, ed è quasi ignorato. Ma che poi va anche lui in Europa, si incontra con Arturo, poi decide di andare a trovare una sua fiamma in Israele, dove trova che questa è sposata con un altro. Il ritorno in Messico. L’incontro con l’ormai anziano Octavio Paz, l’emblema contro cui i realvisceralisti avevano scagliato le prime pietre. Ma queste sono solo piccole piume della ricchezza della scrittura. Perché ogni voce, ogni persona che interviene, fa nascere spesso un microracconto interno al romanzo. Un racconto che a volte si esaurisce, a volte si riprende più tardi. E da tutte queste voci, che di sicuro non riesco a riportare qui, alla fine esce fuori il monumento dolente di una generazione. Di un insieme di intellettuali che avrebbero voluto portare novità, che avevo iniziato a portarne, ma che, come tutte le cose, alla fine rimane solo qualche elemento, qualche rovina, anche se delle rovine bellissime. Qualcuno, meglio attrezzato di me, parla di una “educazione sentimentale” alla Flaubert legata a persone e a movimenti. Non so, non mi pronuncio. Quello che è certo, è che dietro ogni personaggio c’è sempre una persona. Non a caso i due di cui cerchiamo di capire le gesta e la vita, Arturo e Ulises, sono gli alter ego di Bolaño e di Mario Santiago. Come molti altri personaggi, per cui penso che dedicherò del tempo a ritrovarne voci e sentimenti nello spazio e nella memoria. Nel libro Arturo-Roberto sparisce e Ulises-Mario rimane a vagare in una Città del Messico che, ad ogni passo, mi torna alla memoria. Nella realtà, in quel 1998 in cui finì la scrittura, Roberto stava ormai da tempo a Barcellona, cercando di curarsi per un male che ce lo porterà via cinque anni dopo. Mario stava sì in Messico, ma venne travolto in un incidente stradale e non riuscì mai a leggere di questi detective selvaggi. Di questi cercatori che le voci del bravissimo cileno utilizza per cercare di trovare, e di presentarci, l’anima di una generazione. Investigatori dell’anima e scopritori di sentimenti. Un libro che a volte è troppo “messicano” per me profondamente occidentale. Ma che mi ha stimolato, mi ha preso, e mi ha fatto voglia di andare oltre. Di viaggiare, col corpo e con la mente. Di visitare il deserto di Sonora, e di trovare i segni del passaggio di Juan Garcia Madero, uno dei pochi al mondo che sapeva cosa fosse l’epanadiplosi.
“Tutti i libri del mondo stanno aspettando che io li legga.” (20)
“Peccato che il tempo passi, vero? peccato che si muoia e si invecchi e che le cose belle si allontanino da noi al galoppo.” (204)
“Le storie che si raccontano negli aeroporti si dimenticano in fretta, a meno che non siano storie d’amore.” (560)

Conclusioni

Per alcuni versi, pur essendo stato contento della spinta alla lettura, trovo le motivazioni di questi tre libri poco gradevoli. Il rinchiudere le donne nei recinti mestruali, considerare un libro di formazione e di sconfitta come evasione, nonché pensare i novanta anni diano necessità all’indulgenza letteraria, mi trova poco convinto. Per ora godiamoci il piacere anche di queste letture.

domenica 24 maggio 2020

Un nero viaggio - 24 maggio 2020


[A: 05/09/2017– I: 06/12/2019 – T: 08/12/2019] - && e ¾
[tit. or.: El Juego de Ripper; ling. or.: spagnolo; pagine: 524; anno 2013]
Sinceramente mi aspettavo qualcosa di meglio da questo che credo sia un po’ un divertissement uscito dalla penna della mia, comunque amata, scrittrice sudamericana. Certo, questo libro nasce in maniera un po’ trasversale, iniziato come un romanzo a quattro mani con William C. Gordon, all’epoca della scrittura secondo marito di Isabel. Gordon cui comunque viene dedicato il libro, ma dove la scrittura in comune era risultata complicata, tanto che nei ringraziamenti Isabel confessa che, se non avesse continuato da sola, la co-scrittura avrebbe portati ad un divorzio. Cosa che comunque avviene due anni dopo, anche se in una intervista ad un giornale latino-americano l’autrice dice che si sono lasciati in amicizia, essendo finito l’innamoramento. Forse è anche classificabile come “juvenilia”, un po’ nella tendenza di Theodore Boone di Grisham, anche perché, sebbene ci siano personaggi adulti e storie adulte, anche troppo, quella che rimane al centro del gioco è la diciassettenne Amanda. Che il libo ci presenta nella sua complicata situazione familiare. C’è la madre, Indiana (come Indiana Jones, per capirci), che dopo percorsi vari, ora si dedica alle medicine alternative, in una fantomatica “Clinica Olisitca”. C’è il padre (ovviamente i due sono divorziati), Bob Martin, che sposa Indiana quando lei ha 16 anni, incinta di Amanda, e dopo tre anni divorziano. C’è Blake, il nonno, nonché padre di Amanda, l’unico che è rimasto sempre vicino ad Amanda in tutti i periodi di crescita. C’è la famiglia di Bob, in particolare Encarnación, con i suoi manicaretti e la sua empatia. In mezzo c’è questo gioco, “Ripper”, che in effetti fu un video games in auge nei primi anni Novanta, e che qui viene ripreso più come “role play” alla D&D, con una forte iniezione di quello che da noi è noto come “Cluedo”. Amanda ed alcuni suoi amici e coetanei, sparsi per il mondo e collegati in rete, cercano di risolvere misteriose morti, seguendo le regole del gioco. Ora però, essendo la San Francisco di Amanda percorsa da una vera serie di misteriose uccisioni, i nostri decidono di dedicarsi a risolvere il caso, usando Blake come pedina d’avanscoperta, e cercando di coinvolgere Bob, il padre di Amanda, che è un poliziotto, ed è anche incaricato delle indagini. Benché sia abile, come sappiamo da tutte le letture che si sono fatte, nel gioco corale, e benché riesca a gestire tutti i personaggi (e ce ne sono altri, ma sarebbe lungo entrare in tutti, e forse, qualcuno direbbe che parlo troppo delle trame e la gente non legge più i libri, ma finiamola qui), la trama risulta poco incisiva. Certo, si entra, nei differenti capitoli, nella vita di molte persone, se ne seguono vicende passate e presenti. In particolare, oltre ai menzionati protagonisti, non possiamo dimenticare Alan, l’amante di Indiana, e Ryan, il discreto innamorato, nonché ex-marine con un piede in meno (quasi emulo del Cormoran Strike della Rowling, o viceversa, essendo entrambi i libri del 2013). Per quattro mesi, da gennaio ad aprile, con una scrittura veramente lenta, seguiamo le indagini, anche su alcuni delitti avvenuti poco prima (tipo ottobre). Poi, finalmente, da pagina 400 entriamo nel vivo. Si avvera la profezia della quarta di copertina, ed il gioco di Ripper diventa il modo di entrare nelle indagini e di avvicinarci meglio alla trama più marcatamente gialla. Le ultime 100 pagine lasciano il tono da divertimento giovanile per passare ad una trama poliziesca. Abbiamo persone in pericolo, abbiamo Amanda che cerca di prendere il comando delle indagini, a dispetto del padre e del nonno. Per arrivare alla ricerca del colpevole di tutte le malefatte fin ad allora narrate. La scrittrice fa un grosso sforzo per far tornare tutti i conti, riuscendo a trovare un filo rosso che lega tutte le morti e tutte le modalità di uccisione. Sforzo lodevole, che lascia ben presto il passo alla consapevolezza di aver capito chi c’è dietro gli efferati delitti. Ora si tratta solo di trovare il modo di far quadrare il cerchio. Nelle ultime pagine “normali”, avevamo intanto assistito anche alla morte del cosiddetto fidanzato di Indiana, il poco simpatico Alan. Ed all’avvento in prima persona di Ryan, con tutti i misteri della sua presenza e delle sue attività (misteri che, purtroppo, non saranno tutti svelati, lasciandoci un po’ di amaro in fondo allo stomaco). Ci si domanda solo se Ryan, che comunque è un personaggio improbabile, sia coinvolto, e, se non lo è, in che modo far sì che ne possa uscire. O che possa avere un suo spazio. Alla fine, anche se non per un happy end totale, la maggior parte delle azioni hanno il loro risvolto positivo. Che non vi narro, e che vi lascio leggere, se volete. Sottolineo soltanto che, nonostante tutti gli sforzi, i giocatori del gioco di Ripper non sembrano avere la tempra giusta per balzare in primo piano come protagonisti. Solo Amanda ha, ha avuto ed avrà, un suo spazio ed un suo ruolo. Insomma, un librone lungo più del dovuto, con tante storie che si affastellano, ma che non soddisfa né noi vecchi lettori della Allende, né chi cercava un giallo. Speriamo che il ritorno alla scrittura della scrittrice cilena acquisti di nuovo il suo passo, quello de “La casa degli spiriti” per intenderci.
John Banville “False piste” Repubblica Noirissimo 29 euro 7,90
[A: 27/12/2017 – I: 16/02/2020 – T: 20/02/2020] & + 
[titolo: Vengeance; lingua: inglese; pagine: 316; anno: 2012]
Continuo a leggere imperterrito questi libri sperando in un miracolo. Tutti parlano bene di Banville, Citati lo indica come uno dei migliori romanzieri degli ultimi quaranta anni, alcuni lo vedono anche candidato al Nobel. Io continuo ad essere perplesso. Sia per le sue cosiddette opere maggiori (e confesso che “Il mare” non è che sia riuscito a digerirlo bene), sia per questo finale che, è bene rammentare, si inserisce tangenzialmente alla sua opera. Tanto che all’inizio ne pubblica sotto lo pseudonimo di Benjamin Black. Quasi a rimarcare che si tratta di opere diverse dalla sua scrittura abituale. L’idea iniziale, quella di mettere al centro della vicenda un personaggio strambo come può essere un anatomopatologo nella Dublino degli anni Cinquanta, è sembrata abbastanza originale. Ma Quirke non è stato un personaggio che ho preso in simpatia. Ed anche l’autore si è accorto che, da solo, aveva poco spessore giallo (forse spessore narrativo sì, ma allora sarebbero altre tipologie di scritti), così da affiancarlo ben presto nelle indagini con l’ispettore Hackett, che magari è di andatura diesel, ma con quell’andatura arriva sempre a soluzione. Qui, inoltre, ho anche una difficoltà dovuta al salto librario, che dopo aver letto i primi due episodi della serie, per vicende incontrollate, ora leggo il quinto episodio. Dove, rispetto a quanto lasciato nella trama precedente, vediamo una maggiore distensione tra Quirke e la figlia. Non solo, vediamo la stessa accompagnarsi con Sinclair, il secondo di Quirke nelle analisi dei cadaveri. Rimangono così sospesi una serie di puntini di congiunzione, una serie di personaggi che spariscono, e magari qualcuno che compare, senza che John-Benjamin si periti di spiegarlo. Ad esempio, la donna che per una breve notte si accompagna con Quirke, e la cui presenza viene data per nota (cosa falsa) e viene fatta scomparire dopo poche pagine, senza alcun motivo plausibile. Certo, rimane l’atmosfera irlandese degli anni Cinquanta, ma è l’atmosfera della classe alta (o almeno così a me pare). Sono gli anni dei primi governi di Eamon de Valera, ancora devono arrivare le lotte e la guerriglia. Mentre qui si parla di un sodalizio tra due famiglie entrate in società agli inizi del Novecento. Samuel Delahaye e Philip Clancy avevano cominciato con il carbone; poi Samuel aveva intuito le possibilità delle automobili, ed i due avevano aperto autofficine, riparazioni meccaniche ed altro. Ora ci sono i nuovi, i figli, Victor e Jack. Ma sono sempre i Delahaye che tengono il timone, mentre i Clancy sono sempre in secondo piano. È Victor che dopo la morte della prima moglie che gli aveva dato due gemelli, sposa la giovane Mona. Mentre Jack, sposato con Sylvia (che gli perdona tutte le sue “uscite dal guscio”), ha avuto con il figlio Davy, e cerca di capire come uscire dall’ombra di Victor. In questo clima da lotte di potere, si instaurano due elementi “gialli”. Victor esce in barca con il giovane Davy, gli fa strani discorsi sull’indipendenza, prende una pistola e si uccide davanti a lui. Poco dopo, Jack, esperto velista, affonda con la sua barca e annega. Qui interviene il nostro Quirke, che rileva la possibilità del primo fatto e l’impossibilità del secondo, che Jack ha anche un forte ed inspiegabile colpo in testa. Questa volta Quirke, rispetto alle ritrosie del precedente romanzo tramato, non si tira indietro, ne parla con Hackett, ed i due cominciano ad indagare. Scoprono ben presto che la vita dell’azienda stava per essere rivoluzionata. Jack, lavorando nell’ombra, aveva acquistato azioni e interessi vari, ed ora aveva in mano la forza per estromettere l’odiato Samuel dall’azienda. Samuel lo aveva capito, come aveva capito che la giovane moglie Mona lo tradiva con un Clancy. Distrutto ed incapace di trovare una via d’uscita pensa bene di inscenare il suicidio, sperando, forse, che andando alla deriva la barca travolga ed uccida Davy, poco uomo di mare. Qualcuno, ovviamente, capisce la trama, e pensa di trovare (giustamente? ingiustamente?) in Jack il capro espiatorio, inscenando una complessa trama che porta Jack alla morte. La narrazione di Banville procede lentamente, senza mai coinvolgere più di tanto. Fortunatamente, c’è la figlia Phoebe, ora legata appunto a Sinclair (sarebbe interessante averne seguito l’evoluzione, ma tant’è), che collega alcuni fatti apparentemente scollegati, che prende due puntini distanti e riesce a trovare i collegamenti. Si scivola un po’ nella tensione, nel finale. Anche se la trama, almeno quella gialla, appare presto chiara. Mentre la trama “romantica e romanzata” delle vicende economica è già ben palese sin dalle prime pagine. Cosa resta allora? Un’ottima capacità di descrizione delle atmosfere irlandesi di un tempo, con l’utilizzo dei ragionamenti per arrivare al punto nodale. Visto che non siamo ai nostri tempi, quelli dei laboratori alla “Bones” (tanto per rimanere nell’anatomopatologia). Continuo, ancora, ad essere perplesso di questi libri. E continuo a non capirne il successo editoriale.
Sascha Arango “La verità e altre bugie” Repubblica Noirissimo 22 euro 7,90
[A: 06/11/2017 – I: 10/03/2020 – T: 11/03/2020] - && e ¾ 
[tit. or.: Die Wahrheit und andere Lügen; ling. or.: tedesco; pagine: 285; anno 2014]
Continuiamo un periodo di alternanza tra noir e fiction, con un autore che non conoscevo. Dove, guardando le mie note, mi sono ricordato che era anche citato nell’antologia dei “Libri che ci aiutano a vivere felici”, come esempio eponimo (come direbbe mio cugino Stefano) di un libro sulla bugia e sulla verità, come d’altronde dice bene il titolo (che questa volta è lasciato intonso, e ne rendiamo merito agli editori). L’autore è uno sceneggiatore sessantenne molto noto e molto premiato in patria, figlio di madre tedesca e padre colombiano. E la matrice televisiva (e filmica in genere) si sente in alcuni passaggi del libro. Che, nonostante la buona scrittura, il sapiente dosaggio tra noir classico e commedia nera (c’è dell’humor anche se non è che si rida a crepapelle), mi ha lasciato dei punti oscuri. Dove il nostro Henry, il protagonista ha delle visioni poco comprensibili e poco funzionali al testo. E dove alcuni punti rimarranno volutamente oscuri, ed io, nella mia mania di sapere tutto, sono sempre alla ricerca di chiarimenti. L’altro corno del dilemma che il romanzo non ha un eroe cui identificarsi, che non sempre è un male, ma lascia un po’ sbalestrati. Che all’inizio sembra ci si possa appoggiare proprio ad Henry, poi però tutto si modifica. Ed io rimango sospeso sul filo del dubbio. Il noir si incentra su pochi personaggi principali: Henry, il personaggio misterioso, sua moglie Martha, l’editor della sua casa editrice Betty. Attori non protagonisti il capo di Betty, Claes, la sua segretaria Honor, lo strano Gabriel ed il pescatore Obradin. Sullo sfondo, l’ispettore Jenssen e gli altri poliziotti. Arango riesce (e questo gli diamo merito) ad introdurre la trama con astuzia e con molta calma. Non c’è fretta in questa cittadina tedesca in riva ad un qualche mare del Nord. Scopriamo, ma con molte pagine che consentono alcuni “colpetti di scena”, che c’è questo Henry che pubblica thriller di successo presso una casa editrice dove l’ha scoperto la grassottella Betty. Henry è un tipo d’uomo che non dice mai di no ad un corpo femminile, e, pur mantenendo amore (e profondo sembra) con la moglie Martha, intavola una relazione sessualmente soddisfacente con Betty. Fino a che questa non rimane incinta. Che fare? Confessare tutto alla moglie? Trovare il modo di disfarsi del nascituro? O forse anche della madre? Mentre Henry si dibatte in questo dilemma, scopriamo che in realtà chi scrive i libri è la moglie, che però non ha nessun interesse a comparire e lascia, consensualmente, gli oneri del palcoscenico ad Henry. Che questo riesce bene ad impersonare: l’uomo di successo, ricco, ben vestito, con Maserati e tavoli riservati nei migliori ristoranti della zona. La svolta al libro, alla trama ed ai comportamenti dei protagonisti avviene quando Henry decide che il modo migliore di risolvere la questione è spingere la macchina di Betty, con Betty dentro, in una scogliera a strapiombo sul mare. Cosa che fa con successo. Peccato che il caso ci metta lo zampino: per qualche misterioso caso o decisione improvvida, Martha era andata da Betty dicendo che sapeva tutto (anche senza le confessioni di Henry) e avendo la macchina in panne, chiede in prestito quella di Betty. Così Henry ha ucciso Martha, non solo, ma la vera scrittrice non aveva ancora finito il libro che doveva uscire a breve (e che Henry non sarebbe capace di portare avanti neanche di un rigo). Da qui cominciano gli intrecci del caso, e le misteriose storie che ci giungono sul conto di Henry. Che di certo è strano, tanto che Gabriel, suo compagno di orfanotrofio e che lo sta pedinando per scrivere una biografia non autorizzata, confessa di aver trovato su di lui notizie fino agli undici anni e poi negli ultimi nove anni in cui è diventato un personaggio pubblico. Nel mezzo, il vuoto (e questo il punto che mi ha convinto poco, che vuoto rimarrà sempre). Henry è impanicato: moderatamente addolorato della morte di Martha, timoroso di essere scoperto. Tanto che comincia a costruire brandelli di possibili alternative, sempre con un pizzico di verità, che le bugie devono contenere un pizzico di verità per essere credibili. Con la sua diabolica abilità di bugiardo, riesce a far convergere i sospetti su Betty, spera che Betty sposi Claes, liberandolo del peso di un nascituro indesiderato. Quando questa sottotrama fallisce, trova il modo di far sparire anche Betty, con un alibi perfetto ed una costruzione micidiale di piccole prove indiziarie. Alla fine, tra una chiavetta USB che contiene quasi tutto il romanzo, una misteriosa lettera postuma di Martha con il finale del libro, con la polizia che non troverà neanche mezza prova a carico, con Honor che sposa Claes in fin di vita, Henry sparisce inviando una misteriosa cartolina all’amico Obradin. Di certo il nostro senso di giustizia rimane colpito. Ma ripeto è gradevole e scorrevole l’incastrarsi del caso nella vita di Henry. E l’abilità del nostro bugiardo laureato di costruire castelli di menzogne che alla fine, miracolosamente, non crollano. Lettura discretamente veloce ed autore da tenere a mente.
Ian Manook “Yeruldelgger. Morte nella steppa” Repubblica Noirissimo 15 euro 7,90
[A: 05/10/2017 – I: 07/04/2020 – T: 09/04/2020] - &&& e ½ 
[tit. or.: Yeruldelgger; ling. or.: francese; pagine: 574; anno 2013]
Il libro mi è discretamente piaciuto, e di questo ne parliamo più avanti. Meno per alcune cose che elenco immediatamente. Il titolo italiano che ha dovuto aggiungerci quel “Morte nella steppa”, non presente nell’originale, e che non si capisce perché. Il fatto che, come per le saghe lapponi di Olivier Turc, l’autore non è, nonostante il nome, un mongolo ma un francese, anche discretamente simpatico, perché scrittore e viaggiatore (tra l’altro). Il cui vero nome è Patrick Manoukian, e si capisce che l’origine è armena. Lo pseudonimo gli deriva dall’agenzia “Manook” che fonda nel 1987, che si occupa in vario modo di turismo. Veniamo allora al libro, ed ai motivi del gradimento, ed alla storia, ed a quant’altro mi ha fatto venire in mente il libro. Intanto, ammirevolmente, l’autore scrive questo primo libro della trilogia di Yeruldelgger a 64 anni, e quindi c’è sempre speranza. Si vede, anzi si legge tra le righe, che Ian conosce bene la Mongolia, i suoi usi e costumi. Cosa che mi fa tornare la voglia, mai sopita, di andarci un giorno, come promisi dodici anni fa a mio padre ricoverato in via finale al Policlinico, promessa che ancora non sono riuscito a mantenere. Il libro, deve dire, e si capisce dal numero delle pagine, mette molta carne al fuoco, forse anche troppa. Iniziando come un giallo, travestendosi ben presto in un cantastorie che ci parla dei mongoli e della loro terra, e delle loro lotte con i popoli vicini, per poi tornare ad essere un giallo, anzi un noir, di cui sappiamo cosa siano e cosa facciano tutti i personaggi, ed aspettiamo solo di capire se i buoni vinceranno, e di quanto. Come avete capito, quindi, c’è un mix tra storia personale, storia legale e storia poliziesca. Il personale segue appunto l’eroe, il commissario di polizia di Ulan Bator Yeruldelgger Khaltar Guichyguinkhen, che per brevità chiameremo solo con il primo nome. Un valente poliziotto, alcuni anni prima (cinque, credo) coinvolto in un problema giallo – personale. Mentre indaga su appalti truccati, la figlia di cinque anni viene rapita, per farlo desistere. Lui non molla, la piccola muore. La moglie perde il senno, e l’altra sua figlia, Saraa, si allontana da lui e si invischia in torbide trame con malavitosi di vario genere. Gli rimangono invece sempre accanto, la sua aiutante, Oyun, ed il medico legale, la dottoressa Solongo (che è anche molto innamorata di lui). Invece, lo osteggiano ai limiti della legalità (ed anche fuori) il suo vice, Chuluum, ed il suo capo Mike Sukhbataar (soprannominato Mickey, cioè “topolino” nello slang disneyano). Il via alla vicenda viene dato da due episodi “noir”: il ritrovamento nella steppa del corpo di una bambina di cinque anni, ancora in sella ad un triciclo, e l’uccisione di tre cinesi all’interno di una fabbrica (più che uccisione, massacro, con evirazioni ed altre efferatezze). Le indagini saranno tortuose, coinvolgeranno Saraa (che rischia di morire) in quanto legata ad una banda di nazisti mongoli (che sostituiscono l’Yin e Yang della bandiera nazionale con la croce uncinata), nonché le lotte contro gli stranieri che stanno occupando l’economia mongola. Uscita infatti, dal giogo sovietico, la Mongolia viene stritolata dall’invasione dell’economia cinese, cui a volte tenta di ribellarsi, magari appoggiandosi (anche fraudolentemente) a capitali coreani. Questa, seppur interessante antropologicamente, è la parte meno coinvolgente del libro, che ne capiamo i connotati, ma ne seguiamo con poca voglia le vicende. Legate, pare, alla scoperta in terra mongola di grossi depositi di “terre rare”, fondamentali nelle tecnologie avanzate (superconduttori e fibre ottiche), che sembravano a disposizione solo della Cina, ma che gruppi mongoli vogliono vendere ai coreani. E non sembra un caso che il capo di queste cordate sia Erdenbat, il patrigno di Yeruldelgger. Non entro in tutte le complicate vicende poliziesche, che vi consiglio di leggere nel libro. Dove andrà avanti anche la storia personale di Yeruldelgger, che farà pace con la figlia ed inizierà una storia con Solongo. Peccato (ma è ovvio sapendo che è una trilogia) che Manook non chiuda tutte le parentesi che apre, così da potersi concedere le successive puntate. Quello che invece vorrei sottolineare sono gli aspetti mongoli del libro, che molto di più mi hanno affascinato. La geografia, innanzi tutto. La visione del fiume Tuul che attraversa la capitale. Le avventure che si svolgono nei boschi e nei monti e nelle steppe intorno a Ulan Bator: la regione di Khentii (dove non si capisce perché il traduttore non usi la traslitterazione italiana di Hentij, regione legata alle origini di Gengis Khan), le scorribande in quad nelle Flaming Cliffs (anche qui perché non usare l’italiano “Colline fiammeggianti” o il nome locale di Bajanzag), nonché il Parco Nazionale di Khustain Nuruu (dove vive il raro cavallo della Mongolia, in via di estinzione). Altro elemento per me bellissimo riguarda la cucina. Con le bevande, dal tè mongolo (servito salato con una noce di burro), all’arkhi (delicato liquore di latte) per finire con la principale bevanda nazionale, l'airag, ottenuto da latte di cavalla fermentato. Nonché i due piatti base della tradizione. L’uno in tutte le cucine, i khuushuur, simili a frittelle, che sono in pratica dei ravioli fritti ripieni di carne. L’altro solo in occasioni speciali: il boodog, una marmotta svuotata, che viene cotta inserendo pietre calde nello stomaco, ricucendolo, ed avvicinandolo ad altre pietre bollenti, in modo che la carne si cuocia dall'interno e dall'esterno. Infine, una serie di notizie sulle tipicità mongole: la vita nomade nelle yurte, la descrizione delle stesse, la visione delle yurte all'interno delle città stesse, le modalità di rapportarsi tra abitanti delle yurte e visitatori. Nonché il rito finale, quando ce ne andiamo dalle yurte, e chi rimane sparge latte ai quattro punti cardinali per augurarci un felice viaggio. Latte che aspergo anche io, sperando sia di augurio per la ripresa del nostro “normale” cammino nella vita.
“La vita non fa niente di noi. Siamo noi a fare la vita, a suon di rinunce, paure, abbandoni, imbrogli, furori! Siamo noi a impedire di fare della vita una cosa diversa da quello che è.” (510)
Come molti sanno, quando siamo alla quarta settimana del mese, ci si prende una pausa da notizie ed inserti vari. Tanto si ha tempo per riprendersi, così come, con giusta lentezza, ci stiamo riprendendo da questa pandemia. Al secondo mese di quarantena personale, scelta e non subita, sono felice di questa parte di esperienza. Che sarebbe bello integrare con altro. Speriamo presto. Intanto non posso che concludere con un grande augurio a mio fratello Paolo per il suo genetliaco (accomunandolo quanto meno all'amica Anto). 

domenica 17 maggio 2020

Donne alte, donne basse - 17 maggio 2020


Danielle Steel “L’eredità segreta” Pickwick s.p. (prestito di Alessandra)
[A: 19/11/2017 – I: 29/12/2019 – T: 31/12/2019] - &&  
[tit. or.: Property of a Noblewoman; ling. or.: inglese; pagine: 334; anno 2016]
Volevo leggere prima o poi un romanzo “sciacqua-cervello” di Danielle Steel, una campionessa di incassi e di best-seller di quella branca di letteratura popolare definita “rosa”. Ora, anche se personalmente sono abbastanza restio a suddividere letteratura in “generi”, che penso chi scriva abbai voglia di scrivere “tout-court”, non c’è dubbio che, almeno per quanto se ne legge, i romanzi della Steel siano tutti sulla falsariga di “buoni sentimenti e lieto fine”. Anche questo, per ora prima e credo unico romanzo che ne leggo, ha un andamento simile, tanto che se ne prevede la prosecuzione e la fine sin dalle prime pagine. La scrittrice è tentata, ogni tanto, di mettere qualche bastone tra le ruote, di farci vedere possibili sviluppi, non così felici come quelli che emergono dalle pagine. Però ben presto se ne pente, torna sul solco ben tracciato dei buoni sentimenti, straccia tutte le varianti che renderebbero complicati e/o problematici i rapporti, e continua, con il vento in poppa verso l’approdo sicuro della scontata fine. L’inizio sembra procedere abbastanza anonimamente. C’è una cassetta di sicurezza alla Metropolitan Bank di New York, la cui proprietaria muore senza aver lasciato disposizioni. Così che Jane Willoughby, tirocinante presso il tribunale e Phillip Lawton, esperto d’arte e gioielli della casa d’aste Christie’s, entrano in contatto per dirimere l’entità e l’evoluzione della successione ereditaria. Ovvio che rimangono basiti dalla scoperta non solo di lettere e foto, ma di gioielli con pietre spettacolari incastonate in sorprendenti montature. Jane, che si sta lasciando da un torsolo innominabile, è affascinata dalla personalità di questa Marguerite Pearson. Ne comincia a leggere le lettere ed a tentare di decifrare le foto. Phillip ancor di più che Pearson è un nome di famiglia, e che la sessantenne madre sembra attratta irresistibilmente dalle foto che il figlio le mostra. Diciamo anche che Phillip non ha legami stabili, essendo il suo grande amore una barca, e non trovando nessuna donna che condivida la sua passione. Diciamo pure che Jane lascia il torsolo, si trova a frequentare Phillip, e scopriamo che è una discreta velista anche lei amante del mare e dei suoi silenzi. I due si improvvisano investigatori del cuore, e seguono le tracce di Marguerite, sposata con un conte italiano facoltoso con villa in Campania. Scoprono che Marguerite è giustamente americana, fuggente dagli States poco prima della Guerra. Andando a Parigi per valutazioni dei gioielli da Cartier, non solo Phillip e Jane si trovano innamorati, ma decidono di seguire le tracce di Marguerite prima a Roma, dove si era rifugiata all’inizio della fuga, e poi a Napoli, in quel castello del marito di cui si favoleggiava nelle lettere. Castello rilevato da un nobile ma spiantato napoletano, che tuttavia conserva il rispetto verso quella coppia fugacemente transitata laggiù. Avrete già capito che c’è un legame forte tra la madre di Phillip e la scomparsa Marguerite. Legame le cui tracce legali sarà l’avvocato Jane a trovare, a rendere visibili e plausibili. Così che la signora Lawton diventerà di colpo molto benestante, potrà permettersi di girare il mondo sulle tracce di Marguerite, finendo anche lei nel castello napoletano e cadendo con molta accondiscendenza tra le braccia dell’italiano. Così come cadranno in un letto d’amore i nostri eroi, Phillip e Jane. Lui riavendo i posti di esperto d’arte che aveva dovuto abbandonare, lei finalmente seguendo il suo istinto di avvocato delle cause perse e dell’infanzia in difficoltà. Nonché con delle passate rilassanti sulla loro barca. Come detto c’erano molti punti in cui il racconto poteva svoltare verso una realtà meno dorata. Poteva Jane rimanere con il torsolo. Poteva l’eredità appartenere ad altri. Poteva il nobile napoletano mirare solo al denaro. Insomma, c’erano molte strade che avrebbero deviato il romanzo verso lidi meno tranquilli. Quei lidi che sin dalle prime pagine, quando appaiono in diversi contesti Phillip e Jane, uno si diceva: ecco che questi due finiranno a letto insieme. E così è, senza sorprese, senza sussulti, così come vuole un libro che impegna gli occhi e poco altri. La scrittrice sarebbe anche tentata di inviarci un messaggio criptico, visto che qui si parla di eredità, benché segreta. Marguerite lascia sì dei beni materiali, ma l’eredità che lascia a Phillip, alla madre di lui, a Jane, al napoletano, è l’eredità del cuore. Marguerite ha molto amato e molto sofferto. I protagonisti del romanzo devono imparare a non soffrire e molto amare. Insomma, una lettura proprio da vacanze natalizie, senza possibili, per ora, riedizioni in altri scritti.
Savi Sharma “This is not your story” Westland euro 2,50
[A: 19/01/2020 – I: 19/01/2020 – T: 19/01/2020] - & e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 218; anno 2017]
Sono all’aeroporto di Delhi, aspettando di imbarcarmi nel volo di ritorno verso Roma, via Doha, dopo 16 intensi giorni in giro per il Rajasthan. Ho finito i libri portati dall’Italia, e cerco qualcosa da leggere in aereo, possibilmente di indiano, possibilmente che tocchi le zone appena viste. Un mio vezzo, quando sono in viaggio, di tornare con un libro (strano, un libro, eh?) locale. Dopo lunghe ricerche sugli scaffali, pesco questo abbastanza agile libro, scritto da una donna, Savi Sharma. Lei ha 25 anni ed è nativa del Gujarat, lo stato giusto al di sotto del Rajasthan verso l’Oceano Indiano. Ma quello che mi ha convinto è la prima pagina, dove si vede il protagonista cominciare a raccontare la sua storia dalla sua città natale, Jaipur. Beh, preso, letto e finito prima di arrivare a Roma, che è scritto in un inglese facile, e la storia non ha picchi complicati di lettura. Questo però è il massimo di bene che si può dire del libro, che alla fine risulta essere poco più di un Harmony in salsa Masala. Non devo dire che sia irritante, né che sia scritto in maniera andante. Ha anche qualche appiglio con la realtà indiana, almeno quella della borghesia agiata, che alla fine non ha pochi elementi di conflitto, che non entra nelle grandi problematiche tra indù, mussulmani e sikh. O che deve tener conto dell’enorme massa di povertà che permea questo subcontinente. Ciò detto, tuttavia, non possiamo che plaudire nuove leve che si affacciano alla scrittura, ovunque esse siano. Benché giovane come detto, Savi ha già abbastanza in mano alcuni canoni di scrittura, tanto che riesce, e senza troppa difficoltà, ad imbastire una storia con quattro personaggi, usandone tre come voci narranti. Due direttamente, ed una attraverso un doloroso diario. La storia segue le vicende di 4 giovani: Shaurya, Miraya, Anubhav e Kasturi. Shaurya è un ragazzo che vuole seguire la carriera di sua scelta, cioè fare il regista a Mumbai, la patria del Bollywood, ma anche di tutte le maggiori produzioni indiane, ma è costretto a fare un dottorato di contabilità dai suoi genitori, contrari alla sua scelta. Per molta parte del libro, dilaniato tra l’obbedienza filiale e le aspettative personali, Shaurya è realmente confuso, tanto che spesso sembra un pesce fuor d’acqua, un ragazzo senza spina dorsale. Miraya è una talentuosa designer d'interni che ha avuto una brutta esperienza con l'amore. Tradita e depressa Miraya trova conforto in compagnia di sua cugina Kasturi, la quale sta laureandosi in un MBA, e adora empaticamente i suoi amici e farà tutto il possibile perché ognuno segua la sua strada, raggiunga il proprio scopo nella vita. Anubhav è un imprenditore di successo, spostatosi dalla nativa Jaipur nell’operosa Bangalore, dove ha tutto il successo che vuole. I destini dei quattro trovano uno strano modo di incontrarsi. Anubhav, in partenza per Bangalore, incontra alla stazione un indeciso Shaurya che non sa decidersi di prendere il treno per Mumbai, nonostante gli incoraggiamenti di Anubhav stesso. Shaurya non parte, e si getta, anche se malvolentieri, nello studio, dove viene aiutato da Kasturi nei momenti difficili, incrociando così la strada di Miraya. Mentre c’è l’altalena di Shaurya tra i suoi due poli, quattro anni dopo, pieno di successo a Bangalore, Anubhav ha un colpo fatale. I genitori, che non vede da 4 anni, per fargli una sorpresa, vengono in macchina a trovarlo, ma da Jaipur a Bangalore sono circa 2000 chilometri, ed alla fine, arrivati stanchi in città, il padre perde il controllo dell’auto, ha un incidente ed entrambi i genitori muoiono. Ciò manda nel pallone Anubhav che si incolpa della loro morte, manda a pallino tutte le sue imprese, e povero in canna si ritrova a fare quasi il mendicante a Jaipur. Dove incontra Shaurya, che lo accoglie, lo consola, gli presenta la sua cerchia. Sarà soprattutto l’empatica Miraya che, benché sappiamo dei suoi problemi d’amore attraverso il suo diario, che farà in modo che Anubhav abbia di nuovo voglia di vivere. La rinascita del giovane coincide anche con la decisione di Shaurya di affrontare i suoi demoni, e, sorretto dall’amore di Kasturi, abbandonare tutto e trasferirsi a Mumbai. Il finale sarà tre anni dopo i fatti, con Shaurya che torna a Jaipur e… Sarà riuscita Miraya ad aprirsi ad Anubhav ed affrontare di nuovo l’amore? Kasturi aspetterà ancora Shaurya? Beh, se volete ve lo dico, ma in privato. Comunque, chi vuole fare un piccolo corso di “simple english” può agevolmente usare questo libretto come base. E poco di più.
“There is a cost for everything you want in life. A cost for making your life better, a cost for not making your life better. And it’s you who will have to pay for it. So, decide carefully what you want.” (24) [C'è un costo per tutto ciò che vuoi nella vita. Un costo per migliorare la tua vita, un costo per non migliorarla. E sei tu che dovrai pagare per questo. Quindi, decidi con attenzione cosa vuoi realmente.]
Sally Rooney “Conversations with Friends” Faber&Faber euro 10
[A: 22/08/2019 – I: 26/02/2020 – T: 04/03/2020] - && e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 321; anno 2017]
Eccoci ad un altro libro scaturito da uno dei miei tanti viaggi. Il bel giro dello scorso anno, il periplo irlandese, dieci giorni di macchina, visite, campagne, mare. E tanto inglese. Alla fine, anche con questo libro di una delle voci nuove del panorama locale, l’under 30 Sally. Un’autrice che nasce da dibattiti pubblici, e che proprio nella parola genera la sua forza. Perché queste conversazioni sembrano proprio un flusso di dibattiti, una schermaglia di parole, di affondi verbali e di tentativi di soggiogare, sorprendere l’altro con la forza del testo. Usando anche, dato che Sally è giovane, anche i diversi modi di comunicare attuali: e-mail, sms, WhatsApp e quant’altro esce dalla bocca e dalle dita dei giovani. Ma se questa è la forza del libro, la materia e le conseguenze delle azioni dei protagonisti mi hanno lasciato alquanto perplesso. Così come nel da poco tramato “Questa non è la tua storia”, questo “Parlarne tra amici” (cito i titoli italiani se qualcuno volesse leggerne, soprattutto il secondo però), abbiamo quattro personaggi che si aggirano per le 300 pagine del romanzo. Qui però sono descritti, narrati, voltati e rivoltati dalla penna (e dalle tastiere) della protagonista, Frances. Tanto per fissarceli in mente, Frances è una ventenne studentessa universitaria, poetessa e conosciuta nell’ambito cittadino (siamo a Dublino, amici), per i suoi “speak poetry”. Squattrinata, sempre alla ricerca dei soldi che il padre dovrebbe darle, ma non lo fa quasi mai. Tanto che abita nella casa dello zio, che spesso mangia solo se qualcuno le regala riso e pollo. Da poco uscita da una relazione lesbica con Bobbi. Anche lei ventenne, studentessa, femminista e sicura di sé. Spesso alticcia, e, al contrario di Frances, senza troppi problemi economici. Le due si incontrano con una coppia più grande (trentenni!): la fotografa Melissa e l’attore Nick. Tutto il testo gravita intorno alle interrelazioni tra loro quattro. Frances, vedendo Nick, se ne innamora e fa di tutto per andarci a letto. Nick resiste per un po’, ma il matrimonio con Melissa è sempre sull’orlo di qualche cosa (e la fotografa gira spesso per l’Europa). Così che i due hanno la loro storia, senza mai chiedersi, o almeno senza che Frances se lo chieda, dove andrà a parare. Quello che le basta sono i bellissimi momenti di sesso. Ma… e già c’è un ma. Nick non ha intenzione alcuna di lasciarsi con Melissa, anche se la fotografa ha avuto altre storie. Frances per esorcizzare la sua solitudine scrive un lungo racconto dove c’è tutta la storia di Bobbi com’era quando erano insieme. Ma non lo dice a Bobbi, e quando Melissa, per ripicca avendo saputo di lei e Nick, lo fa leggere all’amica, la rottura è inevitabile. Verso i tre quarti del romanzo, c’è l’inevitabile scena del male che si insinua nel testo. Frances soffre di endometriosi, ma tiene la malattia per sé. Però la malattia la costringe a confrontarsi con le proprie scelte. Dapprima fa la pace con Bobbi, ritornano quasi ad essere una coppia, anche se non legate dal sesso come prima. E poi si interroga su sé stessa e su Nick. Quale sarà la sua scelta? E quale quella di Nick? Lasciamo a voi lettori la scoperta. Quella che emerge nello scritto di questa dotata under 30 è il mondo giovanile: l’amore multiplo, la sessualità non definita, tra etero e bi, ma soprattutto le feste, l’alcol, i ritrovi con le persone più grandi, laddove un trentenne sembra già essere una diversa generazione, il femminismo e l’antiborghesia, la fermezza pubblica e la scompostezza privata. È doloroso ma veritiero vedere Frances grattarsi a sangue nel chiuso del suo bagno. Mentre Nick, l’anziano (!) quando perde la bussola, va in una clinica psichiatrica per riordinare le idee. Alla fine, com’è stato osservato, non c’è una vera trama, non ci sono paesaggi descritti, se non la vacanza nel sud della Francia ad Ètables, dove Bobbi e Frances arrivano in volo, ma sempre usando solo voli low-cost e generalmente notturni (millennial a go-go). Ci sono case, ci sono persone, ma soprattutto ci sono parole. Lunghi duelli verbali, dove soprattutto Frances cerca di mantenere il controllo su tutto. Usando spesso mail e WhatsApp, così che si può leggere lo scritto prima di “donarlo” all’altro. Quello che mi risulta poco chiaro è lo scopo di tutto ciò (“o” stretta). Se Nick non vuole lasciare Melissa, che senso ha, oltre il sesso, la storia tra lui e Frances? Perché iniziarla? O meglio, ci può stare una scopata, ma poi basta. Oppure ci si deve per forza fare un giro di pippe mentali su com’è stato, perché si è fatto, cos’ha detto lei di lui con l’altro. Sarà questa la forza della giovinezza, ma è anche la debolezza di un testo, che, come in Melissa, risulta in una bella fotografia, ma non è Newton, magari è una foto di un quadro di Hopper. E tanto per rimanere sull’allegro, bella ma veramente triste la citazione finale della poesia di Yeats “Lake Isle of Innisfree”. Personalmente, ricordo solo che la madre di Frances vive a Ballina, dove lei ogni tanto si reca. E della County Mayo ho un bel ricordo.
Aroa Moreno Durán “Cose che si portano in viaggio” Guanda euro 16 (in realtà, scontato a 13,40 euro)
[A: 13/02/2020 – I: 04/03/2020 – T: 06/03/2020] - &&& +
[tit. or.: La Hija del comunista; ling. or.: spagnolo; pagine: 171; anno 2017]
Ecco un altro dei titoli “hit”, nuove entrate da leggere abbastanza in fretta, rispetto alla forse troppo lunga lista di letture arretrate. Dovuta alle solite nuove proposte di “Robinson”. Una lettura decisamente sopra la media, per intensità e per tematica. Anche se il titolo italiano non rispecchia i sentimenti espressi dall’autrice, la spagnola Aroa (bel nome di difficile traduzione). Che, come vedete sopra, l’originale era “La figlia del comunista”. Con un senso ben preciso, che i viaggi cui potrebbe alludere il titolo, non sono viaggi, ma piuttosto rifugi, scappatoie, allontanamenti, voluti o forzosi. Non conosco la storia di Aroa, e mi domando anche i sensi dei ringraziamenti finali che alludono a frequentazioni con il mondo germanico, che non sembrano uscire dalla biografia nota. Il testo, infatti, è sì incentro su di una protagonista spagnola, Katia, ma anche su tutta una biografia, una vita molto germanica. Katia è figlia di due esuli spagnoli, fuggiti dalla madre patria in seguito alla vittoria del franchismo. Prima il padre, poi raggiunto, ricongiuntosi con la moglie, rifugiati nella comunità degli esuli spagnoli in Germania Est. Vediamo l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza di Katia in un Berlino prima solo capitale dell’Est, poi divisa dolorosamente dal ’61 in poi dal famigerato Muro. Katia cresce divisa tra ricordi non suoi di una patria che non ha mai visto ed un presente, fatto di tante piccole cose, di file per il cibo, di rammendi di vecchi maglioni o di vecchi cappotti. Aroa riesce a ben rappresentare la rottura mentale di chi, negli anni Cinquanta, viveva all’Est, ma vedeva ancora, seppur forse in modo distorto, cosa avveniva “al di là”. Erano i tempi in cui si poteva circolare abbastanza, così come faceva Johannes, tedesco occidentale che capita casualmente a Berlino Est, ed altrettanto casualmente vede Katia e ne rimane fulminato. La narrazione segue infatti una tripartizione. La gioventù di Katia in quello strano mondo recluso fino all’agnizione, alla scoperta di Johannes, ed alla decisione di fuggire. Senza sé, senza ma, e senza guardarsi indietro, lasciando padre, madre, sorella, affetti, certezze. Una dura parte centrale, in cui seguiamo le peripezie di Katia, che con uno sconosciuto si reca prima in Cecoslovacchia. E da lì, più facilmente, ma sempre con pericolo, attraversa clandestinamente la frontiera austriaca, e ricongiungersi con il suo Johannes. Quindi l’ultima, dolorosa sezione dedicata alla vita in occidente. Ai difficili rapporti con la famiglia dell’amato. Il matrimonio, i figli, la mai completa accettazione della sua “esistenza” da parte degli occidentali. Lei, la “spagnola” (anche se nata e cresciuta a Berlino), la figlia del comunista, in un mondo in cui tanto per dirne una, il padre di Johannes aveva combattuto nelle forze armate del Reich. La storia narrata da Aroa si allunga per quasi quaranta anni, si arriva alla caduta del Muro, alla riunificazione tedesca. Senza entrare in particolari che vi consiglio di leggere (c’è un dolore che la scrittrice rappresenta con una bella scrittura), Katia decide di tornare a vedere cosa sia successo alla sua famiglia. La notizia della morte del padre. Il ritrovamento della sorella e della madre. Ed il doloroso, lacerante confronto tra loro. Finendo con la lettura di tutta una serie di documenti che le rivelano l’altra faccia della sua fuga. Che tirano fuori tutte le brutture che si sono accumulate in anni e anni. Non è certo facile la materia che Aroa decide di trattare, piena di tante domande e di poche risposte. Cosa si aspettava Katia fuggendo? L’amore, si, una vita diversa, si, ma poi? Cosa lasciava indietro? Cosa avrebbero subito i suoi cari in seguito alla sua fuga? Una parte che ci fa risaltare in maniera lampante l’apolidismo di Katia è il viaggio a sorpresa che le regala Johannes, una volta caduti i muri, portandola per la prima volta a vedere la Spagna della sua famiglia. Ma anche lì, Katia non ha posto. È la figlia del comunista fuggito, ma non è spagnola, non è tedesca, forse è solo Katia. Ma anche questa identità non è chiara, almeno per lei. Sembra una foglia che si fa trasportare dal vento senza riuscire a metterci qualcosa di suo, ad essere non dico positiva, ma almeno propositiva. Subisce, soffre. Lotta per uscire da una situazione dura (almeno per una diciottenne) ma sembra non prendere mai coscienza. Però la storia è bella, cioè avvince per le domande che pone. Come si viveva all’Est? La storia scritta dai vincitori alla Merkel quanto si riflette nella storia subita dai perdenti? Ah, come vorrei poterne parlare ancora con mio padre, che tanto di quel mondo conosceva! Un ultimo accenno, dove nel primo capitolo si parla di balli dell’Est e dell’Ovest, soprattutto per quella musica che non conoscevo, e che fu spinta a lungo dai media dell’Est negli anni Cinquanta. La “Lipsi Tanz”, che consiglio, a chi non conosce, di sentirne su “YouTube”. Imperdibile.
In giorni di quarantena, si ha anche più tempo per i miei voli mentali, quindi vi allego una disamina completa della felicità e della Ferrante.
Spero i più attenti abbiano notato che questa diciassettesima trama viene pubblicata nel diciassettesimo giorno di maggio, creando una ripetizione dell’editing che a me intriga: “17 2020 del 17 05 2020). Per il resto, da domani si comincia a mettere il naso fuori casa con meno “angosce”, in settimana si potrà andare senza tema in campagna, e da giugno saremo con ogni probabilità in giro anche più a lungo. Lo auguro a tutti di cuore, così che non più virtuale possa darvi abbracci .

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
MAGGIO 2020
E dopo svariati mesi di cure “rapide”, passiamo a cose più massicce, a delle cure intensive, indicate anche in questi mesi di scarsa mobilità, e soprattutto questa poderosa dedica alla saga “geniale”.

CURE INTENSIVE 2

Ci sono situazioni in cui un approccio terapeutico tradizionale si rivela insufficiente e si richiede un intervento più prolungato e massiccio, cure intensive da ripetere a cicli.
“L’AMICA GENIALE” di ELENA FERRANTE (2011-2014)

Cicli di cure: quattro.L’amica geniale 2011
Storia del nuovo cognome, 2012
Storia di chi fugge e di chi resta, 2013
Storia della bambina perduta, 2014
Principio attivo: amicizia tra donne.Eccipienti: rivalità, complicità, amore, odio, Napoli, vita.
Composizione
Elena Ferrante è un caso letterario non solo per il successo indiscusso dei suoi romanzi, capaci di stregare i lettori di tutto il mondo (in America ne vanno pazzi), ma anche per il mistero che circonda la sua identità. Chi è Elena Ferrante? Nessuno lo sa, nessuno l’ha mai vista e lei non ha nessuna intenzione di svelare questo segreto. Tra la disapprovazione di chi detesta gli enigmi e l’adorazione di quanti sono convinti che il fascino dei romanzi sia molto più importante della vera identità dell’autore, il caso è materia per detective consumati. Ma con quella abilità di sorprendere che è una delle sue doti migliori, è Elena Ferrante per prima a dimostrare eccellenti doti investigative nella quadrilogia dell’Amica geniale in cui, con l’andamento di un moderno romanzo popolare, indaga a fondo nella natura complice e complessa del rapporto d’amicizia tra Elena e Lila. Le conosciamo bambine, le vediamo diventare adolescenti, giovani donne e poi adulte mature, pedinando indiscreti il loro percorso individuale e l’evolversi del loro legame sullo sfondo del rione, di Napoli e dell’Italia dal dopoguerra ad oggi. Una folla di personaggi secondari, forti e potenti come fossero protagonisti, completa questo enorme quadro in cui le frasi hanno il vigore vorticoso e colorato delle pennellate di Van Gogh e di cui viene raccontata una storia fiume che, con un flusso di parole fitte come gocce di pioggia battente (ma non c’è una goccia di troppo) travolge il lettore trascinandolo, volente o nolente, fino all’ultima pagina. C’è una malia nella scrittura della Ferrante che impedisce di lasciare il libro a metà perché si ha la sensazione che, chiudendolo, le protagoniste rischino di rimanere intrappolate nella storia e si teme di far loro un torto non accompagnandole fino all’epilogo. Così il lettore finisce per divorare il libro mentre la storia lo inghiotte in un mondo quasi prevalentemente femminile. Con una naturalezza sorprendente, Elena Ferrante affronta le complicate sfumature (altro che cinquanta) dell’amicizia tra donne, che dopo il rapporto madre-figlia è uno dei più complessi da decifrare.
Fin da piccola Lila ha un carisma che attare e allarma, incanta e spaventa, accende e brucia, ipnotizza e scotta. Ha la potenza di una sirena, enigmatica, incantevole e pericolosa. Ha la capacità di rendere ogni cosa seducente, iniettando calore in ciò che è freddo, immaginando cose che non ci sono e riuscendo a farle vedere anche agli altri, è una stella esplosa di cui ognuno vuole afferrare un frammento, anche chi la detesta. Disubbidiente, sfrontata, perfino cattiva, è spinta nella vita da una determinazione assoluta, sempre alla ricerca di un modo per far funzionare la testa, una testa che non sa darsi pace. Per dirla come Michele Solara, eternamente innamorato di lei, Lila “se la lasci fare cambia la merda in oro”. Nel luccichio di tutto questo oro a Elena, voce narrante della storia, caparbia e tenace fin da piccola nel suo slancio per studiare, migliorarsi, distinguersi e lasciarsi il rione alle spalle, non resta che inseguire l’amica, vivendo nella sua ombra e nutrendosi della sua luce anche quando è lei a essere sotto i riflettori. Lila e Lenù sono ‘una di due, due in una’, legate da un filo invisibile di complicità e rivalità, odio e amore, competizione e ammirazione, dipendenza e volontà di autoaffermazione. La continua e dolorosa competizione con Lila, amorevole e perfida, devota ed egoista, è per Elena una sfida con sé stessa, capace di insinuarle il dubbio che tutte le sue scelte, le sue decisioni, i suoi pensieri, le conquiste e i successi in realtà siano merito di Lila. E così continua a vivere nell’ombra di quell’amica che odia e ama come sé stessa e senza la quale si sente mutilata. È così forte la natura di questo rapporto da credere che forse l’altra metà della mela di cui parlava Platone sia propria la migliore amica. Ovviamente no, ma è certo che senza la presenza (anche nell’assenza) dell’amica geniale, sia Lila che Elena sarebbero due metà destinate a marcire, proprio come molti dei personaggi che animano le strade del rione e le pagine dei quattro romanzi.
Ogni donna sa quanto sia difficile l’amicizia tra donne. Non è un argomento scoperto da Elena Ferrante, solo che sentirlo raccontato da lei fa tutto un altro effetto (terapeutico). Questo, d’altra parte, è il potere taumaturgico della letteratura.
Posologia
Si dice sempre che l’amicizia tra uomo e donna sia impossibile. Ma perché, quella tra donne vi sembra più facile? In entrambi i casi a complicare i rapporti sono due patologie. Per dirla come Billy Crystal in “Harry ti presento Sally”, tra uomo e donna il problema è la fissazione maschile a fare sesso con ogni donna considerata attraente. A rendere difficile e spinosa l’amicizia femminile, invece, è il complesso d’insicurezza che spinge involontariamente le donne a fare continui confronti e paragoni, in una perenne sfida con l’altra che è una sfida con sé stesse. In questo modo si alimenta una sorta di gelosia inconscia e inconsapevole che non è invidia ma una forma di paura, il timore di essere abbandonate perfino dalla propria migliore amica. Al manifestarsi dei primi sintomi contrastanti di amore e odio verso la vostra migliore amica, l’assunzione della quadrilogia de “L’amica geniale” vi garantisce una graduale sensazione di sollievo mettendo in circolo la consapevolezza che il vostro è un sintomo piuttosto comune (da tenere sotto controllo per evitare che degeneri). Se applicati con costanza, i romanzi si rivelano una pomata dalla consistenza corposa, utile per alleviare varie forme d’insicurezza e curare eventuali dolori muscolari causati dall’eterna rincorsa della propria amica geniale (il muscolo a cui ci si riferisce in particolare è il cuore). Massaggiando con cura, è possibile attenuare quel velenosissimo senso d’inferiorità che è una delle maggiori cause dell’infelicità femminile.
Le lunghe vicende delle amiche geniali consentono anche di ricomporre le fratture emotive causate dall’insoddisfazione personale. Elena, mite e docile, è attratta dalla forza di Lila che, dominatrice e leader per natura, è a sua volta abbagliata dalla caparbia determinazione dell’amica. Questa è la riconferma che tutti vorremmo essere sempre come non siamo e, nonostante gli altri ci sembrino più forti, siamo in realtà tutti ugualmente sperduti e impreparati di fronte alla vita. L’assunzione di questo principio attivo depura l’organismo dalle scorie ella frustrazione esistenziale.
Effetti collaterali
Vista la difficoltà del rapporto che lega le protagoniste, alcune lettrici (soprattutto quelle con storie pregresse di amicizie complicate) potrebbero essere portate a convincersi che sia più salutare non avere affatto un’amica del cuore in modo da proteggere il muscolo cardiaco da eventuali ripercussioni negative come tachicardie, aritmie e soffi. Ma questo effetto collaterale non dovrebbe manifestarsi se si porta a termine il ciclo di cure arrivando alla balsamica conclusione che le cose più belle sono sempre faticose. L’amicizia non fa eccezione.
Anche la lettura della quadrilogia potrebbe essere faticosa: la trama è densa di eventi concatenati che risucchiano parecchie energie a livello emotivo. Si consiglia, pertanto, d’intraprendere l’iter curativo on ottimo stato fisico e mentale. L’autrice stessa ha dichiarato che ‘i moltissimi fatti della vita di Lila ed Elena mostreranno come l’una tragga forza dall’altra. Ma attenzione: non solo nel senso di aiutarsi, ma anche nel senso di saccheggiarsi, rubarsi sentimento e intelligenza, levarsi reciprocamente energia’. Risucchiati nella storia, noi saccheggiamo l’intelligenza alla Ferrante mentre lei ci sottrae energie ricaricandoci di forza interiore. Non vi rimane che restare sdraiati sul divano a finire la quadrilogia.
Alcuni lettori poterebbero esser contagiati dalla smania di conoscere la vera identità di Elena Ferrante, nevrosi collettiva che causa forti cefalee e inutili malumori. Sconsiglio pertanto di lasciarsi contagiare. In molti sono convinti che l’unico dato certo riguardo l’identità segreta dell’autrice sia il sesso, perché solo una donna è in grado di parlare alle donne delle donne in modo così sincero, profondo e spietato. Un uomo sarebbe stato, forse, più indulgente. Certo che, se fosse un uomo, bisognerebbe stringergli davvero la mano e dargli il Nobel per la scienza perché sarebbe uno dei pochi esemplari al mondo ad aver capito davvero qualcosa del mistero femminile. Anzi, di quel groviglio ingarbugliato di sentimenti contrastanti che è l’amicizia tra donne. Già una donna è complicata, ma due insieme sono un cubo di Rubik, un rompicapo che pochi riescono a risolvere senza farsi venire crisi isteriche. Tra quei pochi c’è Elena Ferrante, chiunque sia.

Commenti

Nonostante il finale in altalena, ritengo sia una quadrilogia da leggere in ogni caso. Dei quattro libri, sfogliando i mei appunti, vedo che il giudizio è andato così: 3 e ½, 4, 3 e 2 e ½. Faccio anche notare che non ho faticato molto ad avere questi libri, frutto di doppi regali, graditi e compleannici.
Elena Ferrante “L’amica geniale” E/O s.p. (Regalo di compleanno 2014 in ritardo di Rosa&Emilio)
[pubblicato il 21 settembre 2014]
Per rimanere in un linguaggio tematico caro all’ignota autrice, eccoci a leggere il primo libro della trilogia (o forse quadrilogia) de “L’amica geniale”. Appunto si diceva, una scrittura “molesta”, nel senso di scomoda, tormentata, in ogni cosa, che non lascia indifferente. Come non lascia indifferente la non esistenza di Elena Ferrante. Perché si sa che questo è uno pseudonimo, e si sa anche che non vuole si sappia chi si cela dietro. Quindi non è mai comparsa in pubblico, non è presente nei talk-show televisivi (e per fortuna), non si sa nemmeno se sia donna o uomo (anche se la sensibilità dei suoi scritti mi farebbe escludere che ci sia dietro una mano maschile). E questi sono tutti punti a favore. Così ne parliamo solo rispetto a quello che produce. Non possiamo nasconderci dietro contesti vari, ma dobbiamo attenerci al testo, ed a quello che ci suscita. Detto quindi tutto il bene possibile di chi scrive, di come ha scelto di vivere, e del resto “esterno”, veniamo al libro, alla trama, alle sensazioni. Un libro non facilissimo, bello sicuramente, che ci trasporta per 300 pagine nel ventre di Napoli, nelle sue miserie, nelle sue esaltazioni. E che ci porta nell’infanzia dell’io narrante, intorno alla seconda metà degli anni Cinquanta, usando un approccio che ci fa presagire (anche se non lo sapessimo) l’uscita di altri volumi. Si inizia, infatti, ai giorni nostri quando Lila, sessantasei anni, scompare, e la sua amica e sodale di sempre Elena detta Lena, comincia a narrare le loro storie, per farci capire chi fosse Lila (e chi è lei stessa, Elena). Percorriamo così, in questo primo volume, l’infanzia e la prima adolescenza delle nostre due ragazze napoletane. L’incontrarsi alle scuole elementari, Lila figlia dello scarparo, e Lena figlia di un usciere. La nascita di un’amicizia, narrata con un piglio che ci fa percorrere, battito dopo battito, tutte le palpitazioni che percorrono la vita degli adolescenti. In questa la Ferrante è senza dubbio magistrale. Dipinge e ci fa sentire vive attrazioni e repulsioni, sfide e contro-sfide. Fin dall’inizio cerchiamo poi di immaginare il titolo e la sua applicazione. Che Lila è geniale ma lo è, a suo modo, anche Lena. Scrittura stratificata, dove non solo si parla di bimbi che crescono (e già questo ben riesce), ma si parla di una città che uscita dalla guerra stenta a ritrovar sé stessa. E se lo fa, spesso lo fa in modi svogliati e sbagliati (quanto si sente la vicinanza della scrittura della Ortese ne “Il mare non bagna Napoli”). Contemporaneamente, ed intorno, si vede anche l’Italia stessa uscire dalla guerra, crescere ed avviarsi al boom degli anni Sessanta. Ferrante riesce in una sapiente opera di fotografia in progressione, mostrando piccoli elementi che ci fanno capire grandi rivolgimenti. Anche volendo tralasciare i “guappi” di periferia e le loro prime macchine, ci sono i primi trasporti pubblici verso il centro, la discesa per via Toledo, le pizzette di Spaccanapoli, le prime televisioni che riuniscono amici e nemici per vedere Mike Bongiorno e “Lascia o raddoppia”. Ma anche i sogni di chi ha l’intelligenza per studiare ma non i soldi (Lila) e chi i soldi riesce a trovarli e studia e con profitto (Lena). Pur nel divergente parallelismo, le nostre due ragazze rimangono legate da un sentimento di fondo più forte del resto. Anche quando Lena prenderà tutti dieci al liceo. Anche quando Lila, dopo uno sfortunato tentativo di sfondare nella calzoleria, deciderà di sposare, a quindici anni, Gino, il figlio del farmacista. Uno con una posizione, lì nel Rione. E se vogliamo con i soldi (anche se non si sa quanto “puliti”). Altrettanto bella è la descrizione corale degli altri ragazzi del rione, con i loro sogni, le loro paure, i loro entusiasmi, le loro tante sconfitte ma anche le rare ed entusiasmanti vittorie. Vedremo, se capiterà, cosa avverrà dopo, quali saranno le strade che Lila, Lena e Napoli percorreranno. E detto tutto il bene della scrittrice, della scrittura, dei temi trattati, insomma della cosmogonia presente nel libro, devo comunque alla fine confessare che non mi è piaciuto “alla morte”. Molte volte le situazioni mi hanno trascinato senza coinvolgermi, le sensazioni le ho viste ma non vissute. Ho apprezzato il punto di vista femminile da cui venivano lette le situazioni, ma, forse, non sempre l’ho capito sino in fondo. Da come ne parlavano amici e conoscenti mi aspettavo senza dubbio qualcosa di più intrigante. Un bel libro, però, che continuerei a consigliare a chi volesse leggerlo, e che sono contento mi sia stato regalato.
Elena Ferrante “Storia del nuovo cognome” E/O s.p. (regalo di Rosa&Emilio)
[pubblicato il 29 novembre 2015]
E siamo al secondo volume della tetralogia di Elena Ferrante (su cui non ritorno) dedicato all’amicizia. Chi mi legge assiduamente sa che del primo volume (sempre regalo di Rosa & Emilio che spero ora mi regalino anche gli altri), letto lo scorso anno, ho apprezzato la scrittura, potente e fluida, ma il libro in sé non mi aveva convinto del tutto. Qui siamo senz’altro in ripresa. Sarà forse che le protagoniste crescono e le loro storie mi avvincono più delle vicende infantili (cioè dell’infanzia) narrate nel primo. Sarà che esce di più la personalità della scrittrice, dell’io narrante, questa Elena Greco che cerca, attraverso lo studio di uscir fuori dal mondo chiuso e gretto del rione di Napoli che ne ha visto i natali (uscire per poi apprezzare il buono che comunque quel mondo le ha dato). Sarà anche che Lila, l’amica geniale (che non mi sta per ora proprio simpatica) è a volte più sullo sfondo, anzi talvolta viene lasciata da parte per pagine e pagine. Pur se la sua presenza, ed il rapporto simbiotico palesemente nascosto tra Lila e Lenù è sempre vivo e sempre fa da filo rosso della storia. Se devo fare solo una prima critica personale, mi trovo in difficoltà con tutti i personaggi che girano introno alle pagine. Certo, alla fine delle quasi 550 di questo libro, molti hanno ormai una loro caratteristica, una loro presenza, anche se tuttora, dopo due libri, continuo a confondere Antonio ed Alfonso. Ed anche se c’è una specie di indice dei personaggi all’inizio del volume, riesco sempre a mescolare i parenti tra di loro. Anzi mi sfugge spesso chi è parente a chi. Comunque, si terminò il primo volume con il matrimonio di Lila che poco aveva convinto Lenù. In tutto questo secondo volume assistiamo alle due parabole di vita che coinvolgono le due amiche, tra discese ardite e le risalite (come diceva Lucio). Lenù come detto studia, anche se all’inizio con fatica. E ribadisco che vede lo studio solo come mezzo di uscita dalla vita che sta vivendo, anche se non focalizza uscita per dove e da dove. Si illude di voler bene ad Alfonso (o era Antonio?) ma è fumo. Per 2/3 invece parla del suo trasporto verso Nino, che nel primo l’aveva baciata. Che ora è universitario, che fa grandi discorsi politici (siamo comunque nei primi anni ’60). Nino che ritrova in vacanza ad Ischia, che lei cerca in tutti i modi di conquistare. Ma Nino non se la fila de pezza, perché invece è preso, e da sempre da Lila. Delusione tremenda, tanto che Lenù si concede addirittura al maturo padre di Nino per perdere la verginità. Poi però passa la maturità con buoni voti, tanto che partecipa al concorso e vince una borsa di studio per la Normale di Pisa. L’ultimo terzo del libro è quindi narrato un po’ su ricordi, e molto su quanto poi apprenderà al ritorno dalla città degli studi. A Pisa, fa vita libera, finalmente lontano dalla madre oppressiva. E soprattutto dalla presenza di Lila che ogni volta la tarpa. Così che riesce anche a scrivere un corto libro (137 pagine, dice) trasponendo le vicende della sua pur breve vita. Ed il suo ultimo amore, tal Pietro di Genova, dai buoni natali e dai buoni contatti, riesce a farlo pubblicare. Dall’altra parte vediamo la parabola inversa di Lila, che si accorge ben presto di non amare Stefano, di aver pensato di sposarlo per raggiungere una agiatezza economica che le consenta di uscire dal suo mondo chiuso e gretto (quello che Lenù vuole ottenere con lo studio). Ma non è la “sua” vita quella di bottegaia di salumeria, o anche di padrona di negozio di scarpe. E non riesce a far figli con Stefano. E sono proprio le vicende dei negozi che complicano tutto (ed i soldi a quello legati). Con il suo modo “strampalato” di vedere le cose, che solo Lenù riesce a decrittare, si inimica Pina, poi Carmen, litiga sempre di più con i Solara (i mafiosi del rione), e soprattutto si avvia verso la rottura con Ada. Come detto, ovvio, ha delle uscite geniali. Il primo modello di scarpe, l’arredo del negozio. Ma è un giullare, capace di singole imprese mirabili ma a cui manca la continuità. E quando ad Ischia ritrova Nino, un’altra persona capace di risvegliare il suo lato geniale, si dà fino in fondo all’amore proibito. Pur sapendo che Lenù è presa da Nino, lo vuole per sé, lo prende. E tornata a Napoli continua ad averlo come amante. Tanto che finalmente rimane incinta. Ma quando decide di fuggire con Nino, la quotidiana convivenza sopravvivrà solo 23 giorni. Troppo forte il suo carattere. Per chiunque. Ed anche Nino si perde e fugge. Lila torna per un po’ con Stefano. Partorisce Rinuccio, il figlio di Nino. Cerca di sopravvivere. Ma intanto il marito si era già allontanato, instaurando una tresca stabile con Ada. Allora si, che Lila e Rinuccio fuggono, rifugiandosi dall’amico Enzo, in un rapporto di convivenza e di amicizia senza sesso. Anche se Enzo è da sempre innamorato di Lila. Il libro si chiude con un dibattito in una libreria di Milano per la presentazione del libro di Lenù. E sull’intervento, più o meno critico, che fa uno spettatore. Che guarda caso è proprio lo scomparso Nino. Mi accorgo, rileggendo, che ho narrato la storia a modo mio. Saltando molte parti. Ma questo è il mio modo di tramare. Non è detto che si debba fare un riassunto del libro. Io tiro fuori quelle bolle che le parole mi hanno fatto scaturire. Saltando, tralasciando, fissandomi magari su elementi marginali, che a me hanno comunicato qualcosa. Ed alla fine, sono comunque contento di aver avuto questo regalo che mi ha forzato a leggere questo secondo libro. E mi ha incuriosito di sapere cosa succede negli altri.
Elena Ferrante “Storia di chi fugge e di chi resta” E/O s.p. (Regalo di Natale di Bene&Fra)
[pubblicato il 23 settembre 2018]
Concludevo la lettura e la trama del secondo libro della geniale amicizia di Elena Ferrante con il voto di poter leggere gli altri volumi sperando di averne in regalo da chi mi aveva omaggiato con i primi due. Per ironia della sorte o del caso, i due ultimi (ultimi?) volumi mi sono stati invece sempre regalati da una coppia, passando da Rosemilio a Benefra. Ma non di questo voglio parlare, ma solo ricordare di passaggio. Vorrei invece andare subito al libro e nel libro. Di quelli ad ora letti, devo dire che è quello che meno mi è piaciuto, quello con cui meno sono entrato in sintonia. Anzi, la parte finale l’ho trovata dura da leggere, non riuscivo a progredire, laddove la trama ed il testo si andavano infilando in cul de sac prevedibile e scontato. L’altro dato che emerge da questo terzo libro è lo spostamento sempre più accentuato dell’attenzione da Lila a Lenù. Sebbene non sappia dirvi se sia un bene o un male, è da constatare e sottolineare. Lenù ormai ha la maggior parte della vita lontana da Napoli, ed i suoi rapporti con la città e con l’amica sono sempre più telefonici e distanti. Abbiamo così le loro due storie che proseguono, a volte si intrecciano, ma come i binari forse si incontreranno solo all’infinito (vedremo nel prossimo volume). Quindi a Napoli abbiamo Lila che continua a vivere con Enzo e Rinuccio in quel di San Giovanni a Teduccio, in quelli che saranno gli anni Settanta (e quindi con le protagoniste che si avviano ai trenta anni essendo nate, come sappiamo, nel 1944). Lila lavora in fabbrica, sopporta angherie varie. Enzo fa lavori oscuri e studia la sera su libri di programmazione, capendo, intuitivamente, quale sarà il prossimo futuro. Lila fa uscire la sua coscienza politica con le prime lotte in fabbrica, e lì la nostra autrice ha buon gioco nel descrivere il clima italiano e napoletano di quegli anni. Studenti velleitari a volantinare davanti alle fabbriche, operai che non capiscono che cosa si vuole da loro, padroni e fascisti alleati a reprimere, con la forza, tutte le manifestazioni del dissenso. Lila si ribella, Lenù l’aiuta pubblicando un articolo sulla fabbrica, Lila viene licenziata, anche perché sono sempre i cattivi Solara che hanno in mano la fabbrica. Lenù che con i suoi contatti derivanti dallo sposo (su cui si tornerà) procura un nuovo posto di lavoro a Enzo e Lila, nel centro informatico che la IBM inaugura a Bagnoli (e la storia dell’informatica di allora di intreccia con la mia storia, che alla fine degli anni ’70 anche io entrai in quel mondo, pensando durasse poco, e ne sono uscito solo 35 anni dopo). Enzo e Lila che, forse, cominciano ad avere una “loro” storia d’amore, ma lì, in IBM, Enzo guadagna più di Lila (solita disparità uomo-donna) tanto che alla fine Lila accetta il ruolo di capo informatico nella nuova industria messa in piedi proprio da Michele Solara, il cattivo, mafioso ed antipatico, che dal primo libro la insidia. Lila dice che sarà lei ad usare Michele, mentre Lenù sostiene il contrario. Vedremo. In parallelo, ma sempre più in primo piano, seguiamo invece la storia di Elena Greco. L’avevamo lasciata all’uscita del suo libro ed all’incontro con il mai sopito amore di Nino Serratore. Ma Lenù procede, anche se non a grandi passi. Sposa, ma solo civilmente, Pietro Airota, alla cui famiglia si è appoggiata per allontanarsi da Napoli ed avere una sua indipendenza. Aiuta Lila nelle lotte sindacali, inimicandosi l’ala estrema dei movimenti napoletani, esemplificata da Pasquale Peluso (il primo che si innamorò di Lenù) e da Nadia Galiani (la figlia della professoressa). Ma la vita di famiglia la prende oltre misura. Fa due figlie, Dede ed Elsa. Si inimica la sorellina Elisa che si fidanza con l’orrido Marcello Solara (si quello dei camorristi). Vede passare da Firenze Pasquale e Nadia, avviati (noi lo sappiamo, loro no), alla lotta armata. Elena prova a continuare a scrivere, ma non ci riesce più. Trova un aiuto, parziale e laterale, da Mariarosa, la sorella di Pietro, diventata super-femminista. Per tutto il libro assistiamo alla caduta verso lo sfacelo della vita di Elena, ce ne accorgiamo noi, forse anche gli amici, ma lei no. Sarà il ritorno alla ribalta di Nino che provocherà una svolta. Nino che ha fatto un figlio (Rinuccio) con Lila, Nino che ha fatto un figlio (Mirko) con Silvia di Milano, Nino che ha sposato Eleonora ed ha fatto un figlio (Albertino) con lei. Nino che le professa il suo immutato amore sin dai tempi di Ischia (ma perché non lo fece allora? Perché si mise con Lila?). Ed Elena cade con tutte e due i piedi nel trappolone amoroso. Certo, questo gli dà la spinta di riprendere la scrittura, che la quotidianità e la poca verve di Pietro le avevano spento. Il libro finisce con la fuga d’amore di Elena e Nino, che abbandonano i rispettivi figli per una settimana a Montpellier. Finisce anche con Lila che questa volta prende lei a male parole Elena, così come questa aveva fatto all’epoca del matrimonio dell’amica. Trovo che il libro (non la scrittura) si stia troppo scentrando. Come parlare a nuora perché suocera intenda. Proclamare tutto l’interesse per l’amica geniale, e passare quasi mille pagine a parlare di sé. Vedremo nel quarto libro come tutto ciò andrà verso il suo fine. Sono stato contento, andando in giro per il mondo di vedere i libri della Ferrante in molte librerie, soprattutto anglosassoni. Sono contento del successo di una scrittura che non può che portare lo straniero ignaro a cercare di capire meglio Napoli ed il nostro tormentato Sud. Tuttavia, questa svolta non mi è piaciuta, penso che questo sia il meno belli dei tre libri che ho letto. Troppa carne al fuoco, perché si passa anche dall’analisi della sola Napoli ad un voler mescolare tutto, nel calderone dell’avanzare dei giorni e degli anni: economia, politica, carriera universitaria, nascita dell’informatica, terrorismo. Un romanzo non è (sempre) un calderone che contiene tutto. Basta alla sua esistenza che contenga anche una sola idea che ci coinvolga, che ci faccia pensare. Vorrei sempre leggere un libro, non una sintesi wikipediana del mondo. Vedremo, vedremo, vedremo.
“Ebbi la certezza che gli volevo bene, era una persona che sapeva il suo valore e tuttavia, se necessario, si dimenticava di sé con naturalezza.” (83)
Elena Ferrante “Storia della bambina perduta” E/O s.p. (Regalo di Bene&Fra)
[pubblicato il 23 settembre 2018]
E con questo quarto volume si chiude la grande “saga” di Elena Ferrante intitolata “L’amica geniale”. Per i maniaci della precisione riporto in fondo l’elenco completo delle “puntate” così come risulta dallo scritto stesso dell’autrice. Intanto, riprendo, ribadisco ed approfondisco il giudizio, che questo libro mi è piaciuto ancora meno del precedente. Sarà che finalmente esce allo scoperto (ma lo dirà solo a pagina 438, e io non vi dico cosa dirà), sarà che abbraccia un arco di tempo lungo, troppo lungo, sarà che questo è il tempo (anche) mio, ma la lettura che ne dà Greco/Ferrante è troppo poco incisiva. Non che io abbia desiderato un libro politico, non è questo il luogo, ma se si danno pennellate sulla vita che ci ha visto presenti ed attivi, avrei bisogno di qualche scatto in più. Scatto morale, scatto politico. Invece, continuando l’equilibrismo tra pubblico e privato, non si dà luce né all’uno né all’altro. Continuiamo così a seguire le vicende delle due amiche. Come sappiamo Elena lascia il marito per Nino, che però non lascia la moglie. Nino è sempre stato un personaggio a me antipatico. E qui, pagina dopo pagina, scopriamo fino a che punto lo è. Non lascia la moglie, con cui fa un altro figlio. Fa una figlia con Lenù, che verrà chiamata Imma. Continua a tradirla senza che lei se ne accorga. Ci impiegherà una vita, ma alla fine lo caccia via. E di Nino seguiamo tutta la parabola personale e politica: barricadero in gioventù, poi comunista ma moderato, negli anni ’80 socialista ed onorevole, quindi travolto da “Mani pulite” (ma che la Ferrante non cita mai con il suo nome), poi riciclato in qualcosa tipo “Forza Italia” o giù di lì. Insopportabile. Soprattutto, nell’atteggiamento verso le donne. Non se ne lascia scappare una. E Lenù, occhi foderati d’amore, faticherà una vita a capirlo. Lenù che scrive di meno, affogata tra la cura di Dede, di Elsa, di Imma. Che è tornata a Napoli. Che ha ripreso le vecchie ragnatele di rapporti. Che si ritrova con Lila. Lila fa anche lei una carriera folgorante, ma nel ramo informatico. Si mette in proprio con Enzo, sfrutta per prima le molte possibilità dell’elettronica, continua a fare sgarbi ai Solara, a tutti e due i fratelli camorristi, ed alla fine con Enzo fa anche una figlia Tina. Qui la Ferrante mette il pezzo forte di questo ultimo libro: non si sa come, né forse esattamente perché, durante un momento convulso della vita di Lila, Lenù, Nino e le figlie, scompare Tina. E non sarà più ritrovata. Ormai la strada è in discesa, ed il libro non farà altro che percorrerla tutta, attorcigliandosi intorno ai rimpianti di cosa poteva essere e non è stato. Ma se Lila si “liquefà” intorno a questo avvenimento, non ne uscirà più (e con ragione), andando sempre più alla deriva, con mestizia, a volte, ed a volte con cattiveria. Sino alla conclusione che conosciamo sin dal primo libro. Perché è quella conclusione che ci viene presentata nel prologo, e che ora ci si ripresenta. Senza soluzioni, che la vita non sempre chiarisce tutto (non siamo certo in un romanzo giallo). D’altra parte, invece, abbiamo Lenù, che si rimette a camminare con le proprie gambe, che non dipende (cerca di non dipendere) né da Pietro né da Nino. Ma trascura le figlie, che ben presto crescono ed avranno voglia di vedere altro nel mondo. In questo aiutate più da Pietro che da altri. Elena, in questo crescere tormentato, (ri-)scopre l’amore per la madre Immacolata e la assiste nella sofferenza e nel trapasso. Elena continua a combattere per continuare a scrivere, per essere sé stessa, anche se la colpa di non seguire le figlie da vicino la spezza interiormente. Ma lei ha bisogno di scrivere, di viaggiare, di girare l’Europa, e tanto altro. Ha bisogno di tempo per continuare a scoprire sé stessa, per continuare a sentirsi o ad essere indipendente. Lina e Lenù vivono l’approssimarsi della vecchiaia, della morte, in parallelo, vicine ma ognuna per proprio conto. Lila affoga le sue angosce nel tentativo di scoprire i misteri di Napoli, leggendone e scrivendone, ma solo per sé stessa. Ma quando Elena le chiede di ripensare a questi cinquanta, e poi sessanta anni, e poi quanti altri ancora, ecco che Lila esce fuori con una delle sue frasi che vanno dritte al cuore, al cuore dell’amica e dei problemi: “Stai invecchiando come si deve … hai smesso di essere figlia, sei diventata veramente madre.” Poi le figlie di Elena vanno a vivere all’estero, Elena scrive un’ultima storia sulla sua amicizia con l’amica. Con la speranza che Lila possa finalmente vivere una vita sua, secondo i suoi canoni, che i legacci della vita le avevano impedito di seguire. Speranza vera? Speranza folle? Speranza di due amiche che forse sono entrambi geniali, almeno in alcuni ambiti. Perché come sappiamo, è difficile, forse impossibile, essere geniali, essere intelligenti “a tutto tondo”. Ci saranno sempre per ognuno delle zone d’ombra. Ci sarà sempre qualche pagina di troppo scritta dalla Ferrante per questa storia, che, finalmente, dopo più di 1500 pagine giunge al suo termine. Come ho più volte ripetuto, la scrittrice è potente, è da leggere, è da seguire. Ma solo il secondo di questi quattro libri mi ha coinvolto e convinto. Il resto l’ho letto, e lo rileggerei se non lo avessi fatto. Ma lasciandomi tutte le perplessità del caso. Troppo lontano dalle mie sensazioni il primo libro sull’infanzia, troppo privo delle mie sensazioni questo che dovrebbe parlare degli avvenimenti a me contemporanei. Comunque, sono anche contento che questi libri mi siano stati regalati. Che un pensiero è trapelato tra tutte queste ombre e tutte queste luci. Un pensiero che è mio, e lì rimarrà. Buona fortuna, Ferrante, che in tutto il mondo ormai c’è la “Ferrante fever”.
“Quando la testa mi dice: è meglio che fai in questo modo, lo faccio e non ci penso più. Se ci torni sopra fai solo guai.” (233)
“Ogni rapporto intenso tra esseri umani è pieno di tagliole e se si vuole che duri bisogna imparare a schivarle.” (429)
Indice completo dell’opera “L’amica geniale” (1630 pagine, come da indicazione di Elena Ferrante stessa in coda all’ultimo romanzo)
PROLOGO                Cancellare le tracce
INFANZIA               Storia di don Achille
ADOLESCENZA         Storia delle scarpe
GIOVINEZZA            Storia del nuovo cognome
TEMPO DI MEZZO     Storia di chi fugge e di chi resta
MATURITÀ               Storia della bambina perduta
VECCHIAIA              Storia del cattivo sangue
EPILOGO                 Restituzione

Finalino

Come immaginavo, la punta per me più coinvolgente è stata l’adolescenza, visto che non si riesce a diventare adulti. Ma, ripeto, dei libri senz’altro da leggere.