domenica 30 luglio 2017

Avventure minori - 30 luglio 2017

Dopo gli ottimi saggi della settimana scorsa, ecco che passiamo a qualcosa di tipicamente estivo. Avventure alla massima potenza, almeno in prospettiva. Visto che Cussler latita, ecco allora che riprendo il meno amato (da me) Smith. Con la trilogia di Cross ed una ripresa della serie egizia. Continua comunque ad essere di molto inferiore alle attese, attestandosi su un giudizio complessivo tra 1 e 2 libretti. In vero, un po’ poco. Chissà se le serie maggiori…
Wilbur Smith “La legge del deserto” TEA euro 12 (in realtà, scontato a 7,80 euro)
[A: 26/01/2017– I: 06/03/2017 – T: 08/03/2017] - && --  
[tit. or.: Those in Peril; ling. or.: inglese; pagine: 464; anno 2011]
Poiché la mia ottima amichetta Otto mi ha regalato per Natale un libro di Smith che tuttavia è il terzo volume della trilogia dedicata ad Hector Cross, e volendo, come ho deciso in uno dei caposaldi del mio leggere, anticipare i libri regalati per poter dare un ritorno a chi mi ha con tanto amore omaggiato, ho comprato i primi due volumi e cominciato a leggere questo che, per l’appunto, è il debutto della saga di Cross. Come sapete, Smith è uno dei due “grandi” dell’avventura, l’altro essendo il mio preferito Cussler. Ho letto e commentato di Smith i primi quattro volumi dedicati all’Egitto, che, ricorderete forse, mi hanno convinto in parte. Alcuni spunti, più sesso di Cussler (almeno più descritto), ma spesso cadute di ritmo ed altri spunti poco significativi. Pensavo che, passando dall’Egitto alla modernità (prima o poi mi dedicherò anche al recupero del corpo principale di Smith, dedicata ai Courtney ed ai Ballantyne), potesse scattare qualche meccanismo migliorativo. Invece… si è rischiato poco di cadere nel precipizio. Certo, in alcuni punti anche qui c’è ritmo. Ma non c’è suspense. Fin da subito vediamo i buoni contro i cattivi, lotta che continuerà per tutto il libro. Dove si spera che ci siano colpi di scena, che si rimescolino le carte tra buoni e cattivi. Ma no. Tutti sono congelati nel loro ruolo. Con alla fine (anticipo, ma è ovvio, altrimenti non sarebbero stati scritti altri due libri) tutti i cattivi che hanno la peggio, ed almeno Cross e qualche altro buono che vince. Il tutto comunque sembra servire più che altro a tratteggiare il nostro eroe, a dotarlo di una vita, prima e dopo dell’incontro con noi. Chi è allora Cross? Hector Cross detto Heck è un ex-SAS (Servizi Aerei Speciali) che dopo aver fatto diverse guerre mediorientali (anche da infiltrato, tanto che parla arabo come un egiziano nativo), a seguito di uno scontro in Afghanistan dove uccide tre persone che, probabilmente, stavano per fare un attentato. Non coperto dalle autorità militari, decide che ne ha abbastanza dei soldati, si mette in proprio e fonda una società di security di immediato successo. Tanto che ben presto ha l’incarico prestigioso di provvedere alla sicurezza dei pozzi petroliferi della Bannock Oil. Dove, nel corso di poco tempo, sventa due attentati alla società stessa. È un rude, che spara prima di pensare, ma poi si ferma, elabora, e riesce sempre a triar fuori piani miracolosi di attacco o di salvataggio. La Bannock, fondata dal compianto Henry, è ora guidata dalla giovane vedova Hazel, ex-tennista vincitrice di un grande slam. Che entra subito in conflitto con Heck, essendo una persona più dotata a vedere il buono che il cattivo. Anche se, capiamo presto, è un lupo della finanza. Ovvio anche, che, dopo alcune scaramucce, i due si conosceranno meglio, e daranno vita ad alcune di quelle scene che a Smith sembrano piacere molto. Questo anche perché Hazel chiede aiuto ad Heck quando viene sequestrata da terroristi somali la figlia Cayla. Qui scopriamo che il sequestro, oltre ai beni di Hazel, punta proprio a Heck, che nelle tre operazioni menzionate ha ucciso tre figli dello sceicco Tippu Tip. Ed ora il nipote dello sceicco, il perfido Adam, ha organizzato tutto un casino per avere la testa del nostro. Si è finto innamorato di Cayla, l’ha rapita e portata nel Puntland (regione autonoma della Somalia, dall’altre parte dello stretto di Aden, confinante quasi con Gibuti). Cross e Hazel organizzano una battuta di salvataggio che occupa i primi due terzi del libro. Si organizza, si assiste allo schieramento delle forze (Amad ed il rinnegato Uthman tra i cattivi, Heck, Paddy e l’arabo Tariq tra i buoni). Buoni che librano Cayla, tentano la fuga in elicottero, abbattuto da un lanciarazzi di Uthman. Provano con una nave verso la costa, distrutta da Kamal, zio di Amad. Ed alla fine riescono a fuggire verso l’Etiopia, salvati da Paddy e le sue forze di terra. Qui si apre un inciso dove Heck e Hazel si sposano, Heck diventa il numero due della Bannock ed altre amenità. Ma gli scontri non sono finiti. Che Adam, morto il nonno Tippu Tip, decide (e passano almeno uno o due anni) una nuova offensiva. Uccide e decapita prima la madre di Hazel, poi la stessa Cayla. A questo punto Heck si “incazza” di brutto e decide di attaccare e distruggere Adam (che aveva anche ucciso la moglie ed il figlio di Tariq). Organizza (e non vi dico come che sarebbe tedioso) un grande assalto alla roccaforte dei cattivi. Dove alla fine lui ucciderà Uthman e Hazel giustizierà Adam applicando la legge della sharia “una vita per una vita”. La mesta storia si chiude con Hazel che vuole un figlio da Heck. Ripeto, le scene di guerra movimentate sono ben orchestrate, ma il tutto è pervaso da un filo di anti-islamismo mascherato da anti-terrorismo. Molti dei cattivi sono invasati tipo ISIS, ed uccidono decapitando i prigionieri, in scene cruente. Heck è anche lui un filo reazionario, e come detto, prima spara e poi pensa. Infine, non si capisce perché “Quelli in Pericolo” diventi “La legge del deserto”. Misteri del marketing italiano. Personalmente, non vedo figure positive nella storia, come invece spesso in Cussler, anche in quelle meno ambientaliste tipo la serie “OREGON”. Tra l’altro, benché in una zona calda, il Puntland da anni sta cercando di lavorare attivamente contro la pirateria delle coste somale, mentre qui è descritto come un territorio usato solo da bande di arabi assetati di sangue. Non solo, ma collegati (si capisce solo all’inizio, poi si cerca di passare sotto silenzio) nella mente di Smith alle forze siriane (Uthman chiede aiuto al cugino a Damasco per entrare in contatto con Adam). E non mi sembra di poter condividere il giudizio dato da alcuni che sia “una bella storia di sesso, violenza e caos, con qualche buona risata”. Non ho mai riso, c’è violenza e caos, c’è sesso ma poco coinvolgente. Spero che le prossime avventure di Cross migliorino.
Wilbur Smith “Vendetta di sangue” TEA euro 12 (in realtà, scontato a 4,80 euro)
[A: 26/01/2017– I: 10/03/2017 – T: 13/03/2017] - && ---- 
[tit. or.: Vicious Circle; ling. or.: inglese; pagine: 510; anno 2013]
Purtroppo le speranze espresse alla fine del primo volume della trilogia di Cross si sono, per ora, rivelate infondate. Questo secondo volume si mantiene sulla falsariga dello scarso coinvolgimento emotivo del lettore, ribadendo i punti che, secondo Smith, erano gli elementi forti del primo volume. Dispiace dirlo, ma la violenza e il caos aumentano, il sesso rimane al livello che ci si aspetta dai libri dello scrittore ex-rhodesiano, e le punte di buon umore, i sorrisi come diceva Smith, non si vedono proprio. Certo, cambia leggermente il registro, che almeno si abbandonano per queste cinquecento pagine gli anatemi anti-islamici, anche se ben coperti dalle grida anti-terrorismo ed anti-ISIS. Quello che rimane in Smith è comunque un forte spirito diciamo critico nei confronti dei paesi africani, di certo mutuato dalla sua esperienza giovanile nella natia Rhodesia del Nord, oggi Zambia. È certo anche che, secondo quanto lui disse in un’intervista, si allontanò dal territorio africano ai tempi di Ian Smith (e dell’apartheid) essendone fortemente critico al riguardo. Quello che compare in alcune parti di questo libro è comunque un sentimento grandemente critico verso tutti gli stati e staterelli africani, con i loro dittatori ed altre magagne (non a caso, in alcune parti i cattivi sembrano una caricatura di Mugabe, per la parte “buona”, e di Ida Amin, per la parte cattiva). Intanto la storia si riapre che Hazel è incinta, quasi partoriente. E subito si precipita nel baratro. Qualcuno uccide Hazel che però riesce a partorire la piccola Catherine Cayla. Heck, ovviamente a pezzi, cerca di capire se qualche propaggine della stirpe di Tippu Tip cerca ancora vendetta. Ovviamente no, altrimenti sarebbe una ripetizione. Anzi, l’unico rimasto è un imam talmente buono che convince Tariq ad andare con lui. Tolti di mezzo gli arabi, chi ci rimane? A questo punto Heck ed i suoi (notoriamente Paddy e Nasty, la sua donna russa) si danno da fare. Ma non arriveranno a nulla se non si mettesse in mezzo lo studio di avvocati che gestisce l’immenso fondo della famiglia Bannock. Dopo svariate inutili pagine, arriviamo al cuore del problema. Jo, la segretaria dello studio, si presenta ad Heck con una documentazione sulla storia della famiglia Bannock. Ovvio che Jo sia una bella donna, e, visto che Hazel nel testamento ha detto ad Heck di non restare chiuso nel lutto, i due presto finiranno a letto. Con un accordo che sembra buono, tanto che anche la piccola Cathy accoglie la nuova donna di “baba”. Jo ha portato un lungo scritto che ripercorre tutta la storia della famiglia. Qui abbiamo almeno duecento pagine di un altro libro: la storia dei Bannock. Il capostipite Henry (il defunto marito di Hazel) aveva messo su un impero economico, ma all’inizio aveva mosso i primi passi sposando un ex-ballerina tedesca, Marlene, che aveva un figlio di primo letto, tal Carl (il cui vero padre era un ex-gerarca nazista). Henry adotta Carl, poi Marlene gli dà una figlia, Sasha. Ma Carl è un vero porco, e seduce e stupra la sorellastra, tanto da stravolgerle la mente. Nessuno se ne accorge, e Marlene ha una seconda figlia Byroni. Sarà quest’ultima che, empatica con la sorella pazza, prima scoprirà gli stupri di Carl, poi ne subirà a sua volta gli attacchi sessuali. Ma lei reagisce, fa arrestare Carl. E noi ci dobbiamo subire il lungo processo, dove Henry (a causa del fondo che aveva istituito ed in base alle regole da lui stabilite) deve pagare sia la difesa che l’accusa. Alla fine, grazie a Byroni, Carl è condannato a 15 anni di carcere. Lì, dopo aver subito anche lui iniziali violenze, trova il modo di sfruttare la sua immensa ricchezza, alleandosi con il più cattivo di tutti, tal Johnny Congo. Con i suoi soldi e con le conoscenze di Congo, mette su, pur dal carcere, una banda di efferati assassini, che provvedono ad uccidere, con grandi torture, prima Marlene, poi Sasha ed infine Byroni (in un modo talmente schifoso che neanche ve ne parlo). Poi, fanno arrivare il video con queste nefandezze a Henry, cui prende un infarto secco. Mentre poi si svolgono gli avvenimenti del primo volume, Carl esce dal carcere avendo scontato la pena, fa evadere Johnny (sul quale pendeva una condanna a morte in quanto pluriomicida) ed insieme mettono su un piccolo esercito ed invadono diventando i re il piccolo stato fittizio di Kazandu. Uno stato irreale, posto tra il Congo ed il lago Tanganika. Da lì continuano le loro nefandezze sessuali, ed organizzano, riuscendovi, l’assassinio di Hazel. Se pensate che Heck si incazzi sbagliate per difetto. Molto di più. Ovvio che organizza, con l’aiuto della sua squadra di sicurezza e con le dritte che gli dà la sua nuova amante Jo, una contro-rivoluzione in Kazandu per andare a prendere i due cattivoni. Johnny viene preso e portato via, Carl viene preso e Heck si vendica lasciandolo cadere nella fossa della reggia di Kazandu, dove vivono due coccodrilli che, come ovvio, ne fanno scempio. Il nostro vorrebbe uccidere anche Johnny, ma Jo, che non ha apprezzato tutta questa violenza, gli chiede di consegnarlo alla giustizia americana. Cosa che il nostro fa per amore. Peccato che prima di essere giustiziato, Johnny evade. A questo punto Hector sa che dovrà dargli la caccia, e Jo capisce che la violenza non avrà fine. Mentre finisce il libro con i due che si lasciano e con la promessa di Heck di non dare quartiere al cattivo. Insomma tutto fila liscio, si fa per dire, a parte che anche qui sembra ci siano due libri in uno. C’è realmente l’incapacità di trovare un giusto equilibrio tra violenza e reazione alla stessa. Inoltre mancano completamente colpi di scena. Mi aspettavo che Jo si rivelasse dalla parte dei cattivi, ed invece no. Ci si aspetta sempre ad ogni passo che qualcuno tradisca. Per ora neanche questo. I buoni sono tutti da una parte, e lottano contro i cattivi, ogni volta diversi. Ma non prende, non coinvolge, non ha nessun aspetto che attira (ambiente, finanza, risorse, nulla di nulla). È solo un serial book, ben scritto ma dal respiro corto. E con quella tara che continua a colpire i romanzi di avventura: perché intitolare “Vendetta di sangue” un libro il cui titolo originale era “Circolo vizioso”? Qualcuno prima o poi avrà la bontà di spiegarmelo. Magari attendendo di scoprire cosa vedremo nel terzo episodio.
Wilbur Smith & Tom Cain “La notte del predatore” Longanesi s.p. (regalo natalizio di Otto)
[A: 25/12/2016– I: 24/03/2017 – T: 27/03/2017] - & e ½   
[tit. or.: Predator; ling. or.: inglese; pagine: 483; anno 2016]
Non mi è per nulla piaciuto. Non mi è piaciuto il titolo. Non mi è piaciuto lo svolgimento. Sono anche poco convinto del finale. Tuttavia sono contento di averlo ricevuto in regalo, cosa che mi ha consentito di colmare una lacuna, e di comprendere che questa tipologia di avventura per me è solo meramente estiva. Poiché tuttavia è un regalo ho cercato di leggerlo prima possibile, insieme agli altri due libri della trilogia. Spero di avviarmi presto ad un quarto così da poter pubblicare quanto prima questi commenti. Tornando al libro, notiamo anche che, come il mio amato Cussler, Smith si avvia alla costituzione di una factory, facendosi aiutare in questa avventura dal giovane autore inglese Tom Cain, specializzato in “serial book”. Intanto il titolo, che non si capisce perché si stata aggiunta “La notte” al diretto titolo inglese “Predatore”. Non aggiunge nulla, se non il solito tentativo di rendere appetibile un libro che di per sé aveva già i crismi della buona riuscita editoriale. Lo svolgimento, poi, ricalca, in grande linee, quello delle precedenti avventure. Il protagonista Hector “Heck” Cross si trova invischiato in grossi guai perché qualcuno delle persone cui ha pestato i piedi vuole vendicarsi. Ci sono donne di mezzo, ed in genere finiscono male (o abbastanza male). Alla fine Heck riesce se non a vincere almeno a indirizzarsi verso una possibile vittoria. Peccato che qualche cattivo rimanga ancora in piedi, tanto da poter ipotizzare una nuova puntata (e qui mi sa che c’è il tocco di Cain). Inoltre, con pervicacia degna di miglior causa, le prime cento pagine dilatano a dismisura le ultime tre del romanzo precedente. Dove, ricordo, Cross aveva sconfitto ed ucciso il cattivo Carl, sconfitto e consegnato alla giustizia l’altrettanto cattivo Congo, e si stava godendo un meritato riposo con la sua nuova fiamma Jo. In quelle ultime pagine, veniamo a sapere che Congo evade dalla cella della morte, e Jo, capendo che Cross non avrà pace fino a che non si farà giustizia, pensa bene di lasciarlo e tornare nello studio di avvocati che gestisce il Trust Fund della famiglia Bannock-Cross. Ora, in queste cento pagine, ci viene spiegato per filo e per segno come Congo, aiutato dall’avocato Weiss, ma soprattutto da Brown jr., il fratello di quell’Aleutin ucciso da Heck nel libro precedente. Quest’ultimo è trafficante ma dalla parvenza esteriore di onestà (un padrino di alta levatura) e riesce nell’intento. Congo si rifugia in Venezuela, dove Cross lo rintraccia, dove tenta di acciuffarlo ma fallisce (ogni tanto una battuta a vuoto per non far finire subito il libro). Ma Congo non sta con le mani in mano. Approfitta della sconsiderata (perché con poca copertura di sicurezza) apertura di un pozzo petrolifero da parte della Bannock al largo dell’Angola, per allearsi con il tristo Da Cunha, politico che propugna l’indipendenza della regione (unico dato rilevante, che Cabinda è realmente una exclave angolana, tutta fondata sul petrolio; e se non sapete cos’è una exclave, chiedetemi pure). Qui si apre anche una parentesi finanziaria che ho capito poco, dove un finanziere d’assalto si allea con Congo, e con Weiss, per sfruttare il possibile crollo della Bannock. Intanto Weiss compera anche il trust Bannock, dove però è tornata Jo, che ne scopre le mire. Ovvio che Jo ci lascia le penne, uccisa da dei sicari. Heck si incazza di brutto, anche perché nel frattempo Congo riesce a far saltare in aria il pozzo, provocando il crollo definitivo della Bannock. Con qualche uscita laterale, aiutato da dei Ranger del Texas, Heck riesce tuttavia a mettere all’angolo sia Weiss che il finanziere. Intanto, sbuca fuori la sorella di Nasty (vedi libro precedente), Zenja, di cui ci si narra la storia (poco rilevante) e che diventa la nuova fiamma di Heck, nonostante i 15 anni di differenza. Ma Nasty e Zenja non stanno con le mani in mano, si intrufolano nell’entourage di Da Cunha, rivelando a Heck i piani per la rivolta in Cabinda. Nel convulso finale, finalmente, le forze dei buoni assaltano la nave di Da Cunha, lo arrestano e Heck, altrettanto finalmente, uccide anche Congo. Per tornare, contento anche se molto più povero di quando ha cominciato, alla sua amata figlia Cathy. Perché anche il finale è poco convincente? Perché Heck si mette con una nuova donna, e tutte le donne che gli sono state intorno hanno fatto una brutta fine. Cayla, la figlia di Hazel, nel primo libro, uccisa da terroristi arabi (che Heck uccide). Hazel, nel secondo libro, uccisa da Aleutin (anche lui ucciso da Heck). Jo, che muore qui, uccisa da scherani di Brown jr., che purtroppo è l’unico che rimane in vita. Quindi, nel prossimo episodio, se ci sarà, dovremmo vedere: la nuova ascesa di Heck, che farà risorgere la Bannock dalle ceneri cui è sprofondata, la ricerca di Brown jr. per ucciderlo, e la possibile triste fine di Zenja (a meno che non cambi un po’ il registro, come speriamo). Fortunatamente, e qui un mezzo libricino in più, ci siamo tolti di mezzi gli arabi cattivi, e ipotizziamo dovremo smetterla anche con gli africani corrotti. Forse la nuova idea sarà di mettere mano a qualche sudamericano poco affidabile? Non so se lo vedremo, perché l’unico motivo per leggere questi libri è stata la curiosità, non certo l’intreccio, la storia o altri elementi che fanno i un libro un elemento gradevole con cui stare in compagnia. Però non manco, anche in finale, di ringraziare Otto che mi permette di sfogare così la mia cattiveria.
Wilbur Smith “Il Dio del deserto” TEA euro 7,50
[A: 05/07/2016– I: 08/04/2017 – T: 11/04/2017] - & e ½   
[tit. or.: Desert God; ling. or.: inglese; pagine: 491; anno 2014]
L’avevo comperato sull’onda del ciclo egizio di Smith, dove la pubblicità ne elogiava i rimandi ed i collegamenti. L’ho letto in anticipo sul mio piano di lettura, perché volevo completare un quartetto “smithiano”, dato che della trilogia di Cross non credo leggerò altro, se e quando uscirà. Ed ho fatto bene, che questo mette una pietra tombale anche sul ciclo egizio. Illeggibile e scollegato! Capisco che lo stile di Smith è scrivere qualcosa usando personaggi delle sue serie. Ma almeno in Hector Cross c’è una sequenzialità, come insegnano i seriali moderni. E credo che nelle sue serie maggiori (quella dei Courtney e dei Ballantyne, che prima o poi leggerò, ma senza fretta) ci sia comunque un minimo di attenzione. Qui siamo alla confusione totale. Intanto, dal precedente libro della serie sapevamo che: 1. l’Alto e il Basso Egitto erano stati riunificati e 2. Taita, l’eroe della saga, dopo una visita in India, viene operato e ritrova la virilità. Allora Smith fa un salto doppio all’indietro, e ci riporta a poco dopo la morte della regina Lostris, il grande e non consumato amore di Taita, con il Faraone Tamose ancora vivo, e con due sorelle, Tehuti e Bakatha, ma non abbiamo notizia invece del figlio che aveva nell’episodio numero 3, il famoso Nefer, quello che riunificherà l’Egitto. Ovviamente, Taita è ancora eunuco, ed altrettanto ovviamente, cerca con le sue arti diplomatiche, di vincere la guerra contro gli hyksos. Altrettanto incongruentemente, riposiziona la geografia dell’epoca, collocando sugli altri vertici del potere mondiale Nimrod, il re babilonese, ed il Supremo Minosse di Creta (l’isola del Minotauro e del Labirinto, di antichissima ed epica memoria). Quindi Taita cerca di trovare il modo di stringere alleanze a tre contro i cattivissimi hyksos. Per fare ciò si inventa una strategia lunga e complicata: i cretesi avevano fatto un patto di non belligeranza con gli hyksos, mettendo un avamposto dalle parti del delta del Nilo, con soldati e tanto, tanto argento. Taita arma una nutrita legione con la quale assalta i cretesi vestiti da hyksos, ruba l’argento ma lascia vivi i cretesi che possano dire di essere stati assaliti dagli hyksos, risale il Nilo con le barche cretesi e l’argento, ed attraversando Menfi si scontra con gli hyksos e ne uccide il capo. Una volta salvi a Tebe, decide di dare le due ragazze in sposa al cretese, passando per Babilonia, dove pensa di coinvolgere Nimrod con promesse e soldi. Ma Babilonia è senza risorse (spese per i giardini pensili), e viene salvata da Taita con il suo argento. Poi finalmente arrivano a Creta, le due ragazze vanno spose al Minosse di Creta. Ma Creta è un regno lussurioso, capaci di grandi navigatori e di grandi barche, ma oppresso da un re che pensa solo al sesso, e da un vulcano che ogni tanto esplode e per calmarlo, ovvio, si pensa solo a sacrificare vergini. Così mentre con la flotta cretese, Taita ed i suoi sbaragliano un altro po’ di hyksos, ma senza dare il colpo finale, le ire del vulcano devono essere placate dal sacrificio di Tehuti e Bakatha. Che però vengono all’ultimo salvate da Taita, e da due dei suoi comandanti (oltre alla bravura di Tehuti con la spada). Ovvio anche che i due comandanti sono innamorati delle due. Alla fine, Taita e le sue legioni tornano vittoriose a Tebe, mentre le ragazze e i due guerrieri migrano verso il Nord. Ma non c’è una riga di nuovo sotto il sole. Taita è bravo, è il migliore, non sbaglia un colpo (e non muore nessuno dei suoi, incredibile!). Il suo amico Zaras è ferito quasi a morte e lui lo salva con una temeraria operazione. Sa parlare tutte le lingue note. Mette al suo posto Nimrod, ed altrettanto farà con Minosse. Smith infarcisce tutto poi con leggende raccogliticce e decontestualizzate. Tanto per fare degli esempi: le invasioni degli Hyksos, che servirono da passaggio tra il Medio ed il Nuovo Regno egizio sono intorno al 1600 a.C.; la tremenda esplosione vulcanica di Santorini, che coinvolse e distrusse molte città cretesi, è del 1450 a.C.; addirittura i giardini pensili sono del 600 a.C. (se non si vuole da credito alla leggenda che li fa risalire a Semiramide ed alla costruzione di Babele). Poi ci sono gli altri “classici” della scrittura di Smith, anche qui senza variazioni: ragazze belle che girano nude o quasi, che si innamorano con amori contrastati, ma dove o vince l’amore o muoiono, guerrieri audaci, battaglie. Purtroppo pochi paesaggi, che erano una caratteristica del bello scrivere. Infine, dove sta, in queste pagine, il famoso “Dio del Deserto”? Certo, Taita ed i suoi attraversano la penisola arabica per andare da Tebe a Ninive, hanno scontri con predoni (ma ne avranno anche in mare, ovviamente, con i “Predoni del Mare”). Ma non ho trovato nessun cenno al Dio, se non (ma non è certo del deserto) la ribadita più volte fede e devozione di Taita ad Horus (che è più e meglio degli dei assiri o cretesi). Boh! Mi sono perso qualcosa, o forse lo ha fatto Smith. Comunque, questo è l’ultimo libro della saga egizia che leggerò. E non capisco come faccia l’autore ad essere non solo prolifico alla bella età di 85 anni, ma anche comperato e letto. Mistero!
“Mi ritrovai incantato da quel paesaggio brullo e tetro ma al contempo di una bellezza indimenticabile… costituito da un’infinità di dune, cangianti come le onde di un mare tranquillo.” [ah, il mio deserto…] (178)
“Alcuni uomini, per quante cose si vedano offrire, cercano sempre di ottenere di più.” (304)
Con questa trama, credo si chiuda anche il ciclo pre-vacanziero, che si stanno organizzando le prossime settimane verso il più fresco Nord Europa, dopo il caldo omanita e l’umidità romana. Ciò non toglie che si continuerà a leggere e scrivere, magari riprendendo queste fila nel più riposante settembre. Mentre vi saluto, lancio un pensiero di biasimo alla fino ad ora ottima libreria di anobii, che con il nuovo look messo in onda è diventata inguardabile. Speriamo in qualcosa di meglio.

domenica 23 luglio 2017

I saggi non deludono - 23 luglio 2017

Riprendiamo le trame periodiche dopo la breve, intensa e gradevole al fine parentesi omanita. Aggiungendo altri indirizzi alla schiera dei miei (fedeli) lettori. Riprendiamo inoltre con una settimana di belle letture. Quattro saggi, tutto sopra media, anche di molto. Tra l’altro, non mi aspettavo di meno né da Borges né da Eco. Una gradita sorpresa Zucconi, ed una intrigante lettura del (forse solo a me) simpatico D’Avenia.
Jorge Luis Borges “L’idioma degli argentini” Adelphi euro 14
[A: 01/11/2016 – I: 08/02/2017 – T: 12/02/2017] - &&&&-  
[tit. or.: El idioma de los argentinos; ling. or.: spagnolo; pagine: 187; anno 1928]
Chi mi conosce, anche se non a fondo, sa, direttamente o per vie traverse, che Borges è uno dei numi tutelari del mio pantheon privato. Ci sono cose che non si riescono a spiegare in modo completamente razionale, ed a prescindere dalla persona, dal suo essere e dalle sue posizioni, ogni suo scritto mi ha sempre dato qualcosa. Una riflessione, uno spunto, finanche un piacere isolato dell’intelligenza a tutto tondo. Ne lessi consapevolmente le prime righe quasi quaranta anni fa, e non l’ho più lasciato. Così, non potevo esimermi dal prendere in mano questo libro, pur nella sua disomogeneità e conscio della sua storia trasversale. Perché è uno scritto giovanile, scritto quando aveva meno di trenta anni. Ma soprattutto perché è uno scritto che l’autore, quando ha ripensato alla sua opera, l’ha ordinata e ripulita, ha deciso che non fosse inserito nel corpo maggiore dei suoi scritti. Solo ora, a trent’anni dalla morte, la moglie argentino-tedesco-giapponese ne ha consentito la pubblicazione, anche a dispetto dei voleri del grande Jorge. Qui si potrebbe aprire una lunga discussione su cosa sia lo scritto di un autore, su quanto sia di sua proprietà e quanto un “bene comune”. Se ad esempio sono assolutamente certo che lettere private, ancorché piene di alti commenti, siano e debbano essere gestite dallo scrivente, un libro, una volta pubblicato, può diventare un esempio circolante del bene e del male dello scrittore stesso. Quindi, nel 1928, seppur in soli 500 esemplari, uscì questa eterogenea raccolta di testi. E se Borges, e lo poteva fare, non ne volle l’inclusione nella pubblicazione della sua “Opera Omnia”, sono contento che ora, noi, ne possiamo usufruire, anche per l’ottima traduzione di Lucia Lorenzini nonché le note esplicative e di commento di Antonio Melis. Nel merito, i diversi articoli riprodotti spaziano sui tre vertici del triangolo costitutivo del libro. Da un lato il linguaggio, dove la capacità di Borges è di spaziare “dall’inclito al volgo”, da una parodia dell’uso di un’analisi stilistica della frase di apertura del Don Chisciotte (che volando mi fa tornare a quel capolavoro di invenzione e metaforizzazione che sarà “Pierre Menard, autore del Chisciotte”, sei scarne pagine sconvolgenti), alla diatriba sulla realtà del linguaggio, sulla contrapposizione tra lingua e scritto, sulla strenua lotta tra i grammatici ed i seguaci di Benedetto Croce per i quali solo il testo nella sua interezza è reale. E dove Borges propone una sintesi, utilizzando come metodo di analisi la sintassi. In un passaggio esemplare, poi, riporta quanto logici e scienziati vari sostenevano e sostengono (ed io con loro) che la scienza tende alla semplicità e che qualsiasi teoria che non può essere spiegata in termini semplici è una mera bravata narcisistica. L’altra base del triangolo è l’Argentina, o meglio ancora Buenos Aires, su cui tornerò più avanti. Sintesi di entrambi, mistero e speranza, è l’eternità. Quella che si cela dietro le parole, quella che ci fa dire, mi fa dire ancora e per sempre, che è esistito un Cervantes, un Quevedo, un Borges, ma anche un Calvino o un Queneau. Ma io non so volare così alto, anzi mi sembra di essermi già spinto troppo avanti. Perciò torno a Buenos Aires, dove Borges mi ha fatto tornare con due dei suoi articoli. Uno dedicato al tango, alle sue ascendenze, alla genesi delle sue parole da taverna. Righe che portano e cullano quasi ovunque nei miei spazi. Da quel bar, il Cafè Tortoni nell’Avenida de Mayo, sino all’angolo con Calle Florida, dal cimitero della Recoleta agli ampi spazi del quartiere Palermo. Fino all’inarrivata melodia di Pedro Navaja di Ruben Blades. L’altro dedicato al truco, un gioco di carte che ho provato a comprendere ma che mi risulta più complicato delle spiegazioni di una partita di cricket. Quello che ho capito, e che mi affascina, è il fatto che il truco si giochi a coppie, sia fatto di una parte di dichiarazioni varie (invito, richiesta, rifiuto, truco, e altre parole) ed una fase di gioco. È un parente lontano e non riconosciuto (anche perché ha tante altre cose che non sto qui a narrare) del bridge. Ma come il bridge, ha il suo fascino nel fatto che abbia una sua sintassi, e che non possa che ripetere giocate ancestrali, che qualche d’uno ha fatto nella sua vita. Una ripetizione, una coazione alla ripetizione, che però è talmente diversa dall’azione iniziale, che ogni volta, e per sempre, sarà diversa. Tuttavia mi sto dilungando al solito su di me e non su Borges. Ma di proposito, che il libro, se ne volete leggere, è d’obbligo farlo. Che ovviamente si parla di cose ben più serie del truco. Di Gongora, di culteranesimo, delle poesie di Jorge Manrique. Dell’amore, infinito, per i libri, come dice quella bellissima frase finale, dove Borges confessa di aver amato anche gli errori di stampa. Ma per me si parla sempre dell’uso dell’intelligenza per addentrarsi nei meandri della vita. Quindi si parla ancora di truco. Con quante “c”?
“Cos’è il truco [ma potremmo leggere anche ‘il bridge’] per chi ci gioca se non un’abitudine? … Ogni giocatore, in realtà, non fa che ricascare in giocate remote. Il suo gioco è una ripetizione di giochi passati.” (35)
“Io sono un uomo più o meno triste che viaggia in tram [autobus?] e che sceglie strade dissestate per passeggiare, ma trovo giusto che esistano … automobili e una calle Florida con le vetrate splendenti.” (60)
“Se la matematica (sistema specializzato di pochi segni, fondato e governato con assiduità dall’intelligenza) contiene cose incomprensibili … quante non saranno le cose incomprensibili che oscurano il linguaggio, truppa raccogliticcia di migliaia di simboli?” (62)
“Ciò che davvero è stato non si perde; l’intensità è una forma di eternità.” (93)
“Credevo a tutto, persino alle brutte illustrazioni ed agli errori di stampa.” (94)
Vittorio Zucconi “Gli spiriti non dimenticano. Il mistero di Cavallo Pazzo e la tragedia dei Sioux”” Mondadori s.p. (Natalino di Paola)
[A: 25/12/2016 – I: 22/02/2017 – T: 27/02/2017] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 381; anno 1996]
Mi è sempre risultata gradita la prosa di Zucconi, che scorre via bene sia nei lunghi articoli su Repubblica, sia sulle cronache dall’America che si leggono sui supplementi “Venerdì” e D. Ma credo che anche sui saggi sai altrettanto leggibile e godibile. Come in questo lungo giro per gli Stati Uniti di 150 anni fa, sulle tracce dei nativi americani, sulle loro tragedie, e su quei bianchi che ora sembrano tornati al potere. Leggi di Zucconi e dei generali dalle vesti azzurre e vedi Trump ed i suoi amici. Insomma, un bel libro, ben scritto, che lo leggi e ti viene voglia di prendere gli americani e di sbatterli tutti contro il muro. L’ho finito talmente incazzato che se vedevo un immigrato americano gli avrei dato un paio di schiaffi. Per tornare al libro, ed a Zucconi, la trasformazione della vita di Cavallo Pazzo in un romanzo ha per corollario la (riuscita) rappresentazione da parte dell’autore di altri due aspetti: la vita dei Sioux (soprattutto lontano dai bianchi) e la tragedia del contatto tra nativi americani ed immigrati (che avranno la meglio, e quindi, da bravi vincitori, scriveranno loro la storia, con tutte le conseguenze che ben sappiamo). Vediamo intanto il primo aspetto. Chi erano, chi sono i Sioux? Innanzi tutto, non sono Sioux. Nel senso che la parola è lo spregiativo utilizzato dai nativi filo-francesi quando gli invasori americani chiedono il nome di questo popolo nomade arroccato tra il Wyoming ed il Montana. Spregiativo che traslitterato dall’originale ha il significato di “meno importante di un serpente”, dato che l’appellativo “serpente” era dato ai tradizionali indiani delle praterie canadesi, gli Irochesi. I Sioux (ed usiamo questo nome per comodità) erano una comunità di sette tribù, divise in tre gruppi: i Dakota orientali, i Dakota occidentali ed i Lakota. Questi ultimi, a loro volta, erano divisi in altre tribù, tra cui gli Oglala (con a capo Nuvola Rossa), i Brulé (con a capo Coda Pezzata) e gli Hunkpapa (con a capo Toro Seduto). La vita dei Lakota era diventata nomade a seguito delle lotte con i canadesi e dell’avanzata dei bianchi dell’Atlantico. Una vita legata alla terra, alla poca cultura stanziale, ed alla caccia al bisonte. Una vita da guerrieri, per gli uomini, e di grandi lavori per le donne (che costruivano le tende, i famosi “tepee”, cucinavano e badavano ai figli). Una vita “quasi” paritaria: se una donna voleva divorziare dal marito, poteva prendere le cose di lui e portarle fuori dalla tenda o andare via a vivere nella tenda di qualche d’un altro. Oltre che guerrieri, erano anche dediti al sacro: onore al grande Dio unico, Watan-Tanka, fumo della pipa sacra e partecipazione alla grande “Danza del Sole”. Ci sarebbe molto da approfondire, ma per ora fermiamoci qui. Perché seguiamo anche brevemente la storia di Tashunka Uitko (questo il nome Lakota di Cavallo Pazzo, che in realtà sta per “Ta” – grande, “shunka” – cane, “Uitko” – estasi, follia sacra). Una storia durata meno di quaranta anni (qualcuno vorrebbe i soliti 33 delle grandi figure storiche e religiose, da Alessandro Magno a Gesù), dove seguiamo la gioventù del piccolo Oglala, presto uomo dopo aver ucciso il primo bisonte, posseduto da una visione mistica che non gli fece mai indossare altro che una piuma di uccello (senza quindi tutti quegli orpelli orrendi dei pellerossa cinematografici), che non gli fece mai commettere scempio sui nemici, che rifiutò sempre di farsi fotografare (ed infatti non ne abbiamo nessuna rappresentazione iconica), che non si sa con esattezza dove sia la sua tomba. La sua vita è narrata sui due versanti: quello privato, dove “Riccetto” (così il nome che aveva in gioventù) è timido e riservato, tanto che il prepotente Senz’Acqua gli frega la donna (figlia di Nuvola Rossa). Che poi riconquista, ma lascia sotto l’ingiunzione dei capi tribù per non creare divisioni durante le guerre. Avrà una seconda moglie (parente di Coda Pezzata), ed una figlia che muore di colera. Ma la sua importanza è la vita pubblica, di indomito ed invitto guerriero, mai colpito da pallottole nemiche. Infatti verrà ferito solo da Senz’Acqua durante la lite per la donna, e poi ucciso da un traditore Lakota mentre con l’inganno veniva arrestato. Era il 5 settembre 1877. Secondo il mito aveva 33 anni. Ma seguendo le tappe della sua vita dove averne tre o quattro di più. Le tappe che poi sono altrettanti momenti di battaglia tra nativi ed invasori. Il primo, e forse più importante, quello che fece scatenare ripicche e rappresaglie, e che non si riuscì mai a ricucire, nasce quasi come un caso “ridicolo”. Nel 1855, durante il passaggio dei mormoni verso lo Utah, dalla loro carovana fugge una mucca, che irrompe nell’accampamento di Coda Pezzata seminando il panico. Tanto che gli indiani sono costretti ad ucciderla. E da buoni nomadi, una volta ucciso un animale, cosa fare di meglio che mangiarlo? Ma i mormoni chiedono un risarcimento e l’esercito invia una pattuglia guidata dall’inesperto tenente Grattan ed avendo come interprete il sangue misto Arsene Lucier, che però non conosceva il dialetto locale. Una serie di incomprensioni porta Grattan ad uccidere il capo tribù Orso Conquistatore, cominciando a sparare sui nativi. I giovani capi presenti, Coda Pezzata e Nuvola Rossa si ribellano, ed uccidano Grattan ed 11 soldati. È l’inizio ufficiale delle “Guerre Sioux”. Se volete seguirne l’andamento, con l’ascesa di Cavallo Pazzo, forse è meglio che leggiate Zucconi piuttosto che queste scarne note. Certo non vanno via dalla mente i successivi tradimenti degli immigrati in Giacca Blu, che promettono aiuti se i nativi si arrendono, per poi negarli. Riuscendo a fomentare anche dissidi interni. E riuscendo a dare il comando di truppe a generali ignobili. Con gesta che culmineranno ad esempio, nel massacro di Sand Creek (quello della bellissima canzone di De André). I nativi, sotto la spinta unificatrice dell’uomo sacro, Toro Seduto, e del comandante mai sconfitto, Cavallo Pazzo, resistono, contrattaccano. Quando poi un filibustiere dell’esercito, tal generale George Armstrong Custer, trovando dell’oro nelle Colline Nere, luogo sacro di tutte le tribù Sioux (ma anche Cheyenne e Arapaho), decide di prendersi anche questo territorio, lo scontro è inevitabile. Scontro che ha il suo apice vicino alla riva di un piccolo fiume, il Little Big Horn. Sapete meglio di me l’iconografia di queste battaglie. Siamo nel giugno del 1876. Toro Seduto ripara in Canada, Cavallo Pazzo tenta di resistere, ma, fiaccato dal duro inverno, si arrende nel maggio 1877. Per poi essere ucciso, con una dinamica mai accertata, il 5 settembre 1877. Leggete il libro di Zucconi, che ringrazierò sempre Paola di avermi regalato. Mi ha fatto incazzare dalla prima all’ultima pagina, ma è un bel saggio. E con Cavallo Pazzo rivolgo a tutti il suo grido di battaglia: “Hoka Hey!”, che significa “Andiamo uomini!”, e solo dopo viene la parte che invece risulta impropriamente tradotta “Oggi è un buon giorno per morire”!
“Porgeva sempre la sinistra e mai la destra e non perché fosse mancino. ‘La sinistra è la mano del cuore, che si dà agli amici’ ripeteva, ‘La destra è la mano che afferra il pugnale … è la mano che fa il Male’.” (165)
“Gli indiani dovevano arrendersi perché avevano avuto l’impudenza di vincere.” (!) (343)
Umberto Eco “Come viaggiare con un salmone” La Nave di Teseo euro 10
[A: 29/02/2016 – I: 08/03/2017 – T: 10/03/2017] - &&&& --
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 206; anno 2016]
Pubblicato dalla (allora) nuova casa editrice “La Nave di Teseo” all’indomani della morte del grande Umberto, lo avevo immediatamente comperato, come sentito omaggio ad uno dei fari del mio pantheon privato. Che questo è stato Eco. Ne imparai le impervie vie letterarie ai miei tempi universitari, dove lessi il suo “Come si fa una tesi di laurea”, anche se stavo facendo un corso di laurea scientifico. Lessi e rimasi incantato dal “Diario minimo” e da “Il superuomo di massa”. E non solo per quel piccolo capolavoro di arguzia che fu “Fenomenologia di Mike Bongiorno”. Mi appassionai a tutte le sue scritture, e da logico di media capacità dedicai molto tempo alla lettura approfondita del suo “Trattato di semeiotica generale”. Lo seguii poi sempre fino… (lo so caro Umberto, eri assolutamente contrario ai puntini, ma qui per me ci vogliono) a “Il pendolo di Foucault”. Che non riuscii a finire. Dopo di che rimase un riferimento per l’analisi del contemporaneo, ma non una lettura costante (se non qualche arguta ed imperdibile “Bustina di Minerva” pubblicata su “L’Espresso”). Ma non potevo esimermi da un omaggio alla sua scomparsa. Ed allora eccomi ritornato alla lettura delle sue scritture. Con un testo non sempre pienamente riuscito, che spesso risente dei tempi di uscita di questi elzeviri (che vanno saltabeccando dal 1975 al 2014), ma che, di fondo, mi ha restituito il piacere del “mio” Eco (ed il dispiacere di aver perduto una persona degna). Non è certo il caso entrare nel merito di ognuno dei 45 piccoli pezzi che compongono questo mosaico di letture. Che non ritengo (come si commenta in quarta di copertina) un “libro di istruzioni”, anche se la capacità di mantenersi coerente fa sì che tutti i pezzi possano intitolarsi: “Come…”. È invece, come sempre in Eco, un libro di istantanee sulla nostra vita, sui suoi componenti, sui nostri comportamenti, sulle nostre reazioni (a volte mancanti, purtroppo) ai comportamenti altrui. Ed è, soprattutto, un libro coerente. Leggete due racconti a caso, e non avrete dubbi che siano scritti dalla stessa mano, anche se uno esce alla fine degli anni settanta ed uno agli inizi del secondo decennio di questo secolo. Leggeteli tutti, pur nella loro non omogenea riuscita, ed avrete la visione del mondo di questo illuminista del ventesimo secolo. Sempre pronto a cogliere le note stonate di quanto gli succede intorno. Sempre pronto sia ad accogliere la tecnologia che avanza, ma anche, e con più forza, a farcene avvertire i limiti ed i pericoli. Fin dall’inizio, Eco, ad esempio, ha stigmatizzato l’uso distorto prima del fax, poi dei cellulari, ed infine di internet. Riconoscendo che, ovvio, non è che si poteva circoscrivere il misutilizzo creando barriere, ma cercando di capirne l’uso positivo. Un esempio su tutti, quando (ed io sono d’accordo con lui) non si scaglia inutilmente sull’uso di internet per ricerche ed approfondimenti vari. Ma sa, e noi sappiamo con lui, che in rete si può trovare di tutto (ed anche la negazione del tutto). Allora propone ad un illuminato professore liceale di indirizzare una ricerca alla comparazione di come un dato evento sia stato riportato in modo diverso in diversi siti. La comparazione fa nascere pregi e difetti, ma, in particolare, costringe poi gli alunni a confrontarsi tra loro. Dicevo coerenza anche nell’analisi di ciò che ci succede: tutti i piccoli comportamenti vengono in Eco esasperati sino al paradosso, ma coerentemente e logicamente, dalla modalità di percezione che abbiamo dei pellerossa americani (o che avevamo il secolo scorso) alla protervia di dipendenti (pubblici e privati) ad attenersi a regole e modalità standard, in quanto la deviazione porta allo scoperto. Ad esempio dell’utilizzo di un frigorifero alberghiero per non far deperire un ottimo salmone scandinavo. Una coerenza, al fine, che gli consentiva già nel 1990 di indicare le linee guida delle disposizioni testamentarie, palesatesi purtroppo ora nel momento della sua morte. Dove fin da 25 anni fa si scagliava contro il malvezzo di indire convegni appena qualcuno passi a miglior vita. Imponendo allora come ora, che non se ne facessero su di lui e sulla sua opera per un congruo numero di anni. Quindi non lo farò neanche io, non entrerò più a fondo in altro, ma non posso che chiudere sentendo la mancanza del suo lucido occhio. Come tutti i momenti positivi, e tutte le cose buone che si dicono sui suoi scritti, e come mi insegnò la mia maestra di comportamento sociale, termino solo ora sottolineando come, purtroppo, anche in Eco, come in altre degne persone che considero miei punti fermi (leggi ad esempio Zygmunt Bauman), la lucida analisi non sia potuta istanziarsi in un’altrettanta lucida prassi propositiva, che non fosse, forse, quella personale. Ma forse, è proprio questo lo scopo di un degno maestro. Indicare il metodo per arrivare alla via, non la via stessa. Rileggete Savater, allora.
“Ci sono diversi modi di fare un buon caffè: c’è il caffè alla napoletana, il caffè espresso, il caffè turco, il cafesinho brasiliano, il café filtre francese, il caffè americano.” [peccato che hai scordato il caffè vietnamita, degno di comparire in questo elenco] (89)
“Ah, dimenticavo. Ci sono anche le cartoline che ti arrivano da Kuala Lampur firmate ‘Giovanni’. Giovanni chi?” [ovvio che ero io, uno dei pochi che manda ancora cartoline] (107)
“L’intera industria dell’informazione … rischia di non comunicare più nulla perché dice troppo.” (115)
“Io non ho nulla contro il calcio … non amo il tifoso perché ha una strana caratteristica: non capisce perché tu non lo sei, e insiste a parlare come se tu lo fossi.” (144)
“Il cui motto era ‘provando e riprovando’ – e ‘riprovare’ non significava provare di nuovo … ma respingere (nel senso della riprovazione) quello che non poteva essere sostenuto alla luce della ragionevolezza e dell’esperienza.” (201)
Alessandro D’Avenia “L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita” Mondadori euro 19
[A: 21/03/2017 – I: 05/05/2017 – T: 12/05/2017] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 209; anno 2016]
Anche questo di D’Avenia si inserisce nel filone “novità” inaugurato con la Moyes. In particolare, dato che risulta il libro più venduto nel gennaio di quest’anno. Premesso che D’Avenia mi sta discretamente simpatico, e che trovo interessante la sua scrittura (anche se ho letto solo il suo primo libro), e che il fatto di essere un insegnante me ne rende coinvolgente il modo di porgere, mi aspettavo qualcosa di più, come coinvolgimento cuore-testa-stomaco, triade immancabile per far salire i miei giudizi. Intanto mi ha dato un po’ fastidio il sottotitolo. Non perché non sia o possa essere vero che Leopardi ci possa aiutare. Lo fa e lo fa bene. Ma sembra proprio ammiccare a quei molti titoli usciti negli ultimi anni, spesso anche delle buone scritture ma alla fine molto, troppo, alla moda. Mi riferisco a quei tanti “Come… può salvarti la vita”. Ed al posto dei puntini potete mettere (cito a memori) Kafka, Proust, Schopenhauer, e via discorrendo. Credo che tutti coloro che hanno scritto cose intelligenti (cioè usando l’intelletto) se noi li ascoltiamo veramente, possano “salvarci la vita”. Anche se, forse, per salvarci la vita (a patto che uno decida proprio di rovinarsela, e quindi sia costretto a salvarsi) basta usare cuore, testa e stomaco. Basta capire che si possono fare sbagli, che si possono con umiltà ricucire, che è bene capire di non essere soli al mondo, che c’è una vita di relazione, che la felicità non si costruisce mai da soli. Continuo? Forse è sufficiente. Seguendo questa moda, credo che si potrebbe scrivere (potrei scrivere), come Asimov può salvarti la vita. O mio cugino Alessandro potrebbe aiutarmi magari con il suggerimento di come Borromini possa salvarci. Ma torniamo a questo Alessandro, ed a questo Leopardi. Sono contento che il libro abbia avuto un buon successo di vendita, pur non essendo né un romanzo né un saggio. In realtà, è molto difficile darne un’etichetta (se pure ce ne fosse bisogno). Un epistolario con una persona defunta (e che persona! E che epistolario!). Senza risposte dirette, ma con tante risposte che si possono trovare nelle bellissime (e qui sono concorde pienamente con l’autore) pagine di Leopardi. Ha scritto di tutto, e di tutto possiamo trovare. Per chi conosce poco, o in modo superficiale il grande recanatese (ed ha magari visto l’interessante seppur un po’ palloso film di Mario Martone) è un bel percorso, che sfata, se ce ne fosse bisogno, tutti i falsi miti su Leopardi. Pessimista, sfortunato, malinconico, e via etichettando. D’Avenia ci fa capire, con delle citazioni giuste ed opportune, che sì, è tutto vero. Ma la bellezza, la forza di Leopardi è quella di darci la speranza, la possibilità, i mezzi, per uscirne fuori. Per vedere la possibilità di fare, di essere altro. Come l’ultima ginestra che fiorisce dalla lava del Vesuvio. Come le stupende, bellissime domande del pastore errante. Come la durezza della Natura a cospetto dell’Islandese. come, sempre e comunque, la forza, immensa, dell’infinito. Una poesia che ho sempre mantenuta cara fin dai tempi del liceo. Quando, nel nostro piccolo, io e Pier Vittorio ci scagliavamo contro le letture in “calando” che ne faceva il nostro (ora amatissimo, allora odiato) professor Torinto. Grazie Alessandro di avermi ricordato come quegli interminati spazi anch’io mi figuravo. Per poi decidere, quando è stato possibile, di percorrerli, di andare a trovare anche quei sovrumani silenzi, scoperti finalmente nei miei amati deserti (ah, quando si tornerà nell’Akakus!). È un libro che invoglia a parlare di sé, che non serve percorrerne l’ordito. Passeggiando e scrivendo con Leopardi, l’autore ci porta attraverso le stagioni della vita, dalla pericolosa adolescenza alla difficile età cosiddetta matura, sino alla morte, unica certezza della vita. La fatica dell’autore è quella di rivolgersi, più che a noi, ormai consolidati giovanotti, che dovrebbero aver fatto qualche percorso interiore nella nostra lunga vita per capire chi siamo, anche se non sappiamo dove andiamo, di rivolgersi ai giovani, ai suoi studenti, a quelli che ogni giorno incontra nelle aule dove insegna. Sono loro che devono capire non solo chi sia Leopardi, ma come si approccia un autore, come ci si pone verso la scrittura, la poesia, la vita. Rivenendomi in mente i tempi delle mie frequentazioni al Liceo Dante, delle autogestioni, e del Nanni di allora. Non entro tuttavia nel merito della fragilità. Una categoria corretta per affrontare il mondo, si sia un gigante come Leopardi, o una persona normale come noi. Perché fragilità implica rispetto, di sé e degli altri. Rispetto dei limiti, rispetto delle proprie e delle altrui capacità (ed essenze, ed esistenze). E rispetto è la mia categoria di vita. Alla fine però, il libro non si eleva verso le vette che ci si poteva aspettare. Rimane forse troppo didattico (stavo per dire didascalico), esortativo, che sicuramente serve ai ragazzi di D’Avenia. Io mi aspettavo, al fine, più incisività. Tuttavia D’Avenia si conferma un solido scrittore. Che non mi dispiace leggere.
“Contemplare la natura e leggere libri sono abitudini che non generano consumi.” [trasposizione da parte dell’autore di alcuni pensieri desunti dal “Mondo nuovo” di Huxley da far leggere a molti Ministri della Pubblica Istruzione degli ultimi venti anni] (46)
“Se si sottovaluta o addirittura si trascura una tappa della vita, si rischia di passare il tempo a recuperarla in altre età.” (47)
“Dov’è la conoscenza che abbiamo perduto nell’informazione?” [cit. di T.S. Eliot] (63)
“Niente ci fa morire in vita … come un amore non corrisposto.” (134)
“Non si può rimanere fedeli a sé stessi se i veri amici non si sostituiscono a noi proprio nei momenti in cui abbiamo smesso di credere nella nostra più profonda essenza.” (151)
Sebbene a singhiozzo è pur sempre la terza trama del mese, onde per cui ecco che vi dovete sorbire anche l’appendice per i libri felici, questa volta dedicato ad un mondo d’infanzia che, seppur nella sua ingenua rappresentazione, mai dobbiamo scordarci.
Anche pochi giorni in questa calda Roma di luglio (mai calda come il nostro simpatico Oman), e si andrà di nuovo verso altri lidi, in previsione più freschi. Intanto si aspettano gli amici che transiteranno nei prossimi giorni, per svago o per lavoro, in questa nostra città. Aspettandomi di vederli, sentirli, abbracciarli, ed insieme a tutti gli altri, salutarli.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
LUGLIO 2017
Non è bello dilungarsi troppo in questo caldo mese, ma è bello passare momenti di serenità accanto ad un libro più che centenario.

PILLOLE D’AVVENTURA E FANTASIA (I)

IL GIARDINO SEGRETO di FRANCES H. BURNETT (1911)

Una bambina orfana e inizialmente un po’ antipatica, uno zio anaffettivo e assente che la ospita in un tetro castello immerso nella desolata brughiera, un cugino malaticcio e piagnucolone, un bambino con il pollice verde, un pettirosso, una chiave che apre un mondo di avventure e, soprattutto, un giardino abbandonato e segreto che riporta tutti alla vita. Questi sono gli ingredienti principali de “Il giardino segreto”, un super classico per l’infanzia che conquista fin dalle prime righe mettendo in circolo nel sangue il vivace messaggio che tutto può riprendere vita, bastano un po’ di cure e tanto amore. Un principio valido sia per un giardino abbandonato che per una persona, perché le erbacce possono crescere anche in un cuore trascurato e le relazioni umane hanno bisogno di essere coltivate con costanza perché fioriscano. L'autrice era più che convinta che il giardinaggio fosse un’attività pedagogica e terapeutica, pertanto, se vivete in città e i vostri pargoli non possono cimentarsi con il gardening, considerate “Il giardino segreto” come un’alternativa altrettanto salutare dal punto di vista umano nonché un valido vaccino contro la noia e quella fastidiosa tendenza a dire sempre ‘no’ che, se sottovalutata, in età adulta rischia di degenerare in una invalidante componente caratteriale. L’effetto indesiderato osservato più frequentemente è la richiesta di un fazzoletto di terra da trasformare in giardino segreto. Chi ha letto il romanzo lo sa, è un desiderio contagioso che tormenta tutti, come quello di avere un cucciolo o un pony.
Per coltivare nei bambini sentimenti come amore, amicizia, ottimismo e capacità di affrontare le difficoltà con coraggio, si consiglia la lettura di altri due classici di Frances H. Burnett: “Il piccolo lord” e “La piccola principessa”.

Commenti

Della Burnett, ricordavo il film tratto da “Il piccolo Lord” (anche per l’ineguagliata bravura di Alec Guinness). Ma questa avventura di fantasia va letta con gli occhi di quelli che eravamo, e che speriamo diventino i piccoli uomini intorno a noi (ed anche le piccole donne).
Frances Hodgson Burnett “Il giardino segreto” DeAgostini euro 10,90 (in realtà, scontato a 1,64 euro)
[trama scritta il 24 maggio 2017]
Non poteva mancare di essere letto, prima o poi, questo libro. Pietra miliare dei libri per l’infanzia, anche se poco diffuso in Italia. Dove, ad esempio, l’autrice è forse più nota per “Il piccolo Lord”. Sia i libri felici che i libri curativi ne consigliavano la visione. Ed io sapevo, nelle pieghe della mia memoria, che ne avevo scorso dei pezzi in qualche edizione “antica” ed ero, moderatamente, curioso di leggerne. Cosa dire a valle della lettura? Pur avendo più di 100 anni, se preso nella sua giusta visione filologica ed educativa, è ben congeniato, e discretamente utile ad un pubblico giovane. Dirò di più: può essere un’utile lettura anche ad un pubblico adulto che non voglia chiudere gli occhi alla magia dell’adolescenza (o dell’infanzia) e che può prendere spunto per rapportarsi alle giovani generazioni in modo comprensivo ed empatico. Certo, confrontandolo con l’originale, si nota che la versione “per ragazzi” della DeAgostini qualcosa taglia. Ma rimane la freschezza e lo spirito con cui fu scritto. Seppur quindi con occhio adulto, non possiamo far meno di seguire la piccola, viziata e non amata Mary Lennox, dall’India natia sino al veloce ritorno in patria. Perché nella guarnigione del padre scoppia un’epidemia di colera, e solo Mary si salva, venendo mandata dallo zio Archibald. Uno zio che vive in un castello isolato, e che è colpito dal grande dolore della morte improvvisa della giovane ed amata moglie. Per questo passa la maggior parte del suo tempo in giro per il mondo, lasciando le cura della giovane Mary ai famigli della casa. Sarà soprattutto Martha a prendersi cura di Mary, a farle tornare il sorriso, a narrare delle buone cose di casa sua (povera ma onesta), a presentarle il fratello ecologo e bucolico Dickon. Le parla inoltre del famoso giardino segreto, quello curato dalla moglie morta, cui a tutti è vietato l’accesso. Ovvio che Mary comincia a cercarlo. Ovvio che lo trova, lo apre, se ne innamora. Condividendolo con Dickon, con le sue piante e i suoi animali. Ma un nuovo mistero attanaglia i giorni della nostra signorina, che diventa a poco a poco, un po’ più simpatica. Le grida notturne, che al fine si scopre essere quelle del cugino Colin. Malato di incerta malattia, poco curato o mal curato. Sicuramente poco amato dal padre, che gli rimprovera, anche se non esplicitamente, la morte della moglie. Mary comincia un’azione di coinvolgimento alla vita di Colin. Narrando del giardino, narrando degli animali, narrando di Dickon. Tanto che l’altrettanto viziato Colin decide di seguire le orme della cugina. Uscendo di casa nella sedia a rotelle. Andando in giardino. Cominciando a muovere i primi passi. Sino a che, ignota la malattia, ma sicuramente giovandogli aria aperta e compagnia, anche lui si integra nella cura del giardino e nell’inno alla vita. Tanto che la madre di Martha non si perita di richiamare sir Archibald dai suoi giri lontani. Il vecchio (ma credo che non arrivi ai cinquanta!) torna a casa, scopre le “malefatte” della nipote, ma scopre anche i benefici che ne porta il figlio. Così che, curando le piante si cura anche il cuore. E tutti quanti, alla fine, saranno contenti, e ne usciranno vittoriosi. Quante piccole zeppe di insegnamento in così poche pagine. Certo ingenue, certo senza nessun infingimento, subito lì, dirette. Mary non amata, unica che sopravvive (quindi anche chi sembra poco simpatico è meglio di chi è realmente antipatico). Martha e la sua famiglia (cioè il cuore aperto, il sorriso sulle labbra, il lavoro anche umile non possono che portare serenità). Martha e Dickon (quando l’amicizia travalica ogni confine). Martha e Colin (quando l’empatia vince ogni malattia, vera o presunta). Martha e lo zio Archibald (come non aver paura dei grandi quando si ha una grande idea in testa). La “pedagogica” Frances inzeppa il libro di buoni sentimenti. In particolare, l’ultima grande metafora è il collegamento tra i ragazzi ed il giardino: in entrambi i casi, i buoni semi, oltre ad essere piantati, devono essere difesi e coltivati. Ed il giardino, così come il bambino, potrà al fine crescere e diventare una pianta, un uomo o una donna. Ignorando Freud e tutta la psicologia, il bello (seppur limitato) del libro è proprio in questa immediatezza senza barriere. Un’ultima lancia la spezzerei sulla rivoluzione che all’epoca portò il libro. La convinzione nel mondo occidentale dell’inizio del XX° secolo era che solo la guida, l'insegnamento e la vigilanza costante degli adulti potevano garantire l'educazione di bambini e adolescenti, che l'amicizia tra ragazzi poteva essere pericolosa e andava sempre vigilata dagli adulti e che l'amicizia tra giovani di sesso opposto era molto pericolosa e andava controllata e limitata dagli adulti. Tutte e tre queste posizioni vengono confutate da Frances. Che apre vie nuove che hanno portato a noi. Perché allora non cominciamo anche noi a tracciarne altre? Forse è tutto troppo facile. Ma che dire se si riesce a togliere le barriere, i pensieri, gli attaccamenti a comportamenti troppo ingessati. Per comunicare. Questo, in fondo, è quello che insegna Mary: parlare, chiedere, è sempre meglio che stare zitti. Un NO è sempre meglio di non sapere la risposta. Tanto che spesso, il NO diventa un magico, bellissimo, giurassico SI. Quindi, salvando un po’ di ingenuità, perché non leggerlo ai Tommaso, ai Matteo, e a tutti gli altri?

Finalino

Che dire? Non posso che ripetere il finale di trama. Qualche pillola di avventura e fantasia per tutti i citati, e per quelli in arrivo (vero nipotina?).

domenica 9 luglio 2017

Simoni è meglio - 09 luglio 2017

Un quartetto italiano di scrittori generalmente seriali, che popolano la mia libreria, spesso con successo. Invece qui, coloro che dovevano portare tranquillità alla lettura mi hanno decisamente deluso. Mi riferisco soprattutto a Margherita Oggero, che fuori della professoressa Baudino non sempre mi convince. Ma anche a Pandiani, che i primi libri de “Les Italiens” aveva una verve interessante. Rimane Gianni Simoni, che in genere non mi convince, ma che qui si erge sopra il resto delle letture. Con interesse e qualche genialità.
Margherita Oggero “Il rosso attira lo sguardo” Mondadori euro 9,50 (in realtà, scontato a 7,60 euro)
[A: 21/03/2016 – I: 05/02/2017 – T: 07/02/2017] – && --  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 169; anno 2008]
Ho comperato il libro a scatola chiusa, perché l’autrice mi ha sempre fatto avere sensazioni positive nei suoi romanzi. Purtroppo la scatola, una volta aperta, si è rivelata un po’ come i cioccolatini di Forrest Gump: a volte ne capita uno al liquore, quando a te non piace. Ed in effetti, il primo dispiacere è che siano racconti, e come tali devono avere un carattere forte per essere ben digeriti. In genere, tra l’altro, i racconti gialli (o noir) sono tra i più difficili da digerire che ci vuole una particolare abilità per condensare sensazioni ed inchieste varie nello spazio di poche pagine. Il secondo è la mancanza della professoressa Camilla Baudino. Comprendo, nelle interviste nel tempo lasciate dalla Oggero, che il personaggio stava diventando ingombrante, quasi a crearne una identificazione istantanea tra l’autrice, Camilla e l’interprete della serie TV. Tuttavia, anche qui, bisogna sapersi muovere in questo mondo di libri. Camilleri è di certo l’autore di Montalbano, ma scrive anche altro, e vende bene in ogni caso. Comunque torniamo al libro, che scorre velocemente durante il viaggio cambogiano, e forse anche per questo, distratto dalle bellezze esterne, lascia poco spazio a sé, e non mi coinvolge molto. Unico elemento di rilievo, che rimarco per sottolineare che, volendo, autori ed editori riescono a fare uno sforzo per non essere troppo piatti, è il titolo ed il sottotitolo. “Il rosso attira lo sguardo” è un comune denominatore che unisce i quattro testi del libro, uniti appunto dal colore rosso: c’è un top rosso non indossato, gli abiti rossi di una professoressa oversize, un abito rosso da sera lacerato, una buca delle lettere di colore rosso. E sono elementi importanti nello svolgimento delle trame. Poi c’è il sottotitolo, “Quattro stagioni di relazioni pericolose”. Si comincia infatti con l’inverno, dove una rapina in una villa nella notte di capodanno trasforma un incontro galante in un incubo per il giovane rampante (che ci sta cordialmente antipatico) e Roxy, la bella cantante, dagli abiti troppo stretti e dalle calze a rete smagliate. Racconto poi ben costruito perché si alternano le varie voci dei protagonisti nel descrivere lo svolgimento della vicenda, l’accostarsi dei personaggi, l’avvicinarsi ad una possibile tragica conclusione, che, fortunatamente e/o probabilmente non arriva. O arriva in modo trasversale. Si continua con la primavera, intesa sicuramente come stagione iniziale della vita, dato che poi il racconto prosegue per anni ed anni. Dove la giovinezza di un ragazzo viene sconvolta da una storia d’amore con Nadia una ragazza attraente, misteriosa, pericolosa. Che lo usa, che gli fa commettere cose che non avrebbe pensato poter fare. Che scompare, lasciandogli dentro il ricordo ed il rimpianto di un amore che non poteva essere, anche se sarà l’amore di tutta una vita. In estate ci si presenta un difficile rompicapo da decifrare: la morte di una ragazza che ha sedotto diversi uomini nelle vacanze al mare di un microcosmo di famiglie borghesi. L’unico che contiene anche una parvenza di indagine, intorno alla strana morte della bella Biki. Ma le scarpe tacco dodici lasciate all’inizio della scogliera, ed il tormento che sentiamo esserci nella storia stessa della ragazza possono far pensare anche ad una soluzione personale. Quale sarà lo scioglimento del mistero? Questo, come poco altro, ma che sicuramente c’è, lo lascio agli intrepidi estimatori dell’autrice. Come lascio concludere a voi l’autunno della fine della giornata di lavoro di Alessandra, una giovane donna, coinvolta nuovamente in una rapina, il cui tragico epilogo le riporta alla mente il suo turbolento passato. E la porta verso una decisione che deve prendere per sé stessa e per la sua vita. Notiamo che tutti i personaggi principali, anche se non sempre i soli al centro delle storie, sono donne e sono giovani. E come dissi in altre trame ed in altre tempi, solo una donna riesce a rimandarmene sentimenti che sento autentico. Sono poi tutti personaggi solitari, chiusi, che fanno fatica a comunicare emozioni e sentimenti, come molto del mondo attuale, chiuso tra lo smartphone e Facebook. Però non c’è slancio, non c’è partecipazione intensa. Rimane tutto lì, scritto discretamente bene, ma senza che io riesca ad emozionarmi. Peccato che la Baudino mancherà ancora dai nostri scaffali.
“Mi accorgevo che non riuscivo a provare con le altre le stesse emozioni che avevo provato con lei.” (89)
Enrico Pandiani “Lezioni di tenebra” Instar euro 11
[A: 18/02/2015 – I: 26/02/2017 – T: 28/02/2017] - && e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 411; anno 2011]
Eccoci allora al terzo episodio della serie “super hard-boiled” di Enrico Pandiani. Libri che hanno una ventina di morti violente per ogni romanzo, nel solco di quella tradizione francese che faceva capo a quel maestro che ne fu Jean-Pierre Manchette. Certo, con un occhio anche oltre oceano a Spillane ed epigoni suoi. Comunque siamo ancora qui, a seguire la brigata della polizia criminale chiamata “Les Italiens” (come dal titolo del primo libro), guidata dal commissario Jean-Pierre Mordenti, e composta tutta da personale di ascendenza italiana o corsa: Servandoni, Cofferati e Coccioni, e tutti con l’accento sull’ultima “i”. tuttavia, dopo la prima uscita, e la seconda buona riuscita con “Troppo piombo”, qui si comincia un po’ ad essere ripetitivi. Non tanto nello schema particolare, di cui parleremo più avanti. Quanto nell’iterazione di morti, indagini, vendette, morti, ed ancora morti. Altro elemento che poco mi ha convinto è l’uso della lingua. Ora, se un romanzo ambientato a Parigi è giustamente, visto che l’autore è italiano, scritto nella madre lingua, si ha dell’ovvia difficoltà quando l’azione si sposta a Torino (pur ben caratterizzata e non a caso città madre dell’autore), dove si incontrano i francesi che parlano italiano con gli italiani che parlano italiano davanti ad alcuni francesi che non lo capiscono. Il tutto crea un senso di straniamento poco consono alla trama. Forse, avrei evitato in questa parte i dialoghi, così da non cadere in bisticci linguistici. Tra l’altro, Mordenti sembra avere un dono per le donne fatali, o comunque una vocazione a rimanere ben presto solo. Qui, purtroppo, il primo morto è proprio la compagna di Mordenti, la bella Martine, uccisa davanti a lui da una misteriosa donna dai capelli rossi (parrucca?) e dal volto coperto. Che uccide le vittime dopo averle legate con la tecnica erotica giapponese, lo shibari, di cui vi ho ampiamento parlato tramando il libro di Aldo Budriesi “Identità violate”. Il colpo basso rischia di falsare l’obiettività indagativa che deve avere un commissario, tanto che il suo capo gli affianca, per aiutarlo ma anche per frenarne le pulsioni omicide, il tenente Maëlis Deslandes, affascinante poliziotta, discretamente belloccia, tanto da attenuare (anche se non cancellare) l’ossessione del nostro relativamente alla morte di Martine. Mordenti, Maëlis e gli “italiani” cominciano allora un’indagine che porta ben presto nel mondo dell’arte e dei falsari. Che Martine lavorava per uno studio fotografico di fama, specializzato in foto soprattutto di opere d’arte destinate a cataloghi importanti. Il nostro non sa che Martine era stata messa lì dal capo della sezione “furti d’arte”, e che lì aveva cominciato ad avere sentore appunto sia di furti, sia di falsi ben realizzati, sia di future grandi opere. Non vi sto a narrare la lunga scia di morti che le indagini ci fanno scoprire pagina dopo pagina. Altri fotografi dello studio, che avevano per denaro tradito Martine, un titolare dello studio, il falsario da anni scomparso ma che continuava a produrre opere di difficile riconoscimento. E via morendo, con altre uccisioni laterali, e meno importanti. Le indagini incrociate tra Mordenti e le altre forze di polizia portano i nostri a Torino dove si deve fare un servizio su di un quadro del Mantegna. Che è un obiettivo primario dei ladri d’arte, dove si utilizza un meccanismo ruotante per sostituire al volo il quadro con la copia fatta dal falsario Calogero. Anche se poi, indagando sul marchese Raschera-Bettelmatt e sulla sua segretaria ungherese Szathmary, Mordenti ed i suoi capiranno che il vero obiettivo è un oggetto unico custodito in quel di Torino: la sacra Sindone. La parte finale è un po’ folleggiante intorno al conte che sta fuori di testa credendosi un discendente semi-divino, sua moglie, la bella Carmilla, disponibile e forse non coinvolta, e la fondazione tutta. C’è anche tempo per un interludio di sesso tra il nostro commissario e Maëlis, anche se, come ci si aspetta, la bella poliziotta, pur trovando simpatico Jean-Pierre, è innamorata e ricambiata da un ispettore italiano, il commissario Cat Berro. Che aiuta i franco-italiani nelle indagini, svolgendo anche parti importanti nel finale convulso. Dove muoiono in molti, tra cui la famosa rossa erotico-giapponese che non vi dico chi sia a che ho nominato nel corso della trama. Insomma tutto si risolve, Maëlis si apparta con il suo amore, e Mordenti troverà modo di avere una piccola consolazione con… E che mo’ vi svelo tutto? Pandiani abbonda, e con gusto mio, di ironia, di citazioni (anche musicali), di parole gergali (madama, berta, cannone, bambola, e via citando). Ha anche un gusto onomatopeico per i nomi che ci suonano come ben presto provenienti da intrighi internazionali (il falsario Calogero Vastedda, il marchese Raschera-Bettelmatt e sua moglie Carmilla, l’ispettore Cat Berro, la segretaria dottoressa Szathmary). Manca un po’ della suspense cui ci aveva abituati, e Mordenti, morta Martine, ha per molto tempo un’aria afflitta e distruttiva. Questo fa scendere un po’ il giudizio, anche se la lettura procedeva con piacere.
“Un uomo ha l’età della donna che si trova accanto.” (308)
Gianni Simoni “Lo specchio del barbiere” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 12/06/2015– I: 26/03/2017 – T: 28/03/2017] - &&& -
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 320; anno 2010]
Torno dopo due anni alle storie descritte nel sottotitolo come “Un caso di Petri e Miceli”. Notando che, invece, nella scrittura Simoni lascia passare tre anni tra il deludente “Ucciderò Labruna” e questo nuovo caso. Ha scritto altro, e questo ha affinato la scrittura stessa, rendendola più adeguata alla trama, anche se, e credo sia una sua caratteristica, l’autore non riesce a fare a meno, ad un certo punto, di partire per la tangente e divagare da qualche parte. Come in questo caso, quando per una cinquantina di pagine seguiamo le peripezie mediche dell’ex-giudice, riuscendo solo a stabilire che sarebbe meglio smettesse di fumare (ma si poteva fare anche più velocemente). Certo, il lungo giro permette di inserire una terza storia, alle due che fanno da binario alle indagini della nostra onesta squadra poliziesca bresciana. E sottolineo il dato cittadino, che le indagini, i modi, e le andature dei personaggi, riescono mirabilmente a riproporci l’atmosfera della “Leonessa d’Italia” di carducciana memoria. Questo per dire, prima di tornare alla trama, che il libro, pur con degli alti e bassi certificati da quel meno in pagella, è gradevole. Da buon ex-magistrato capace di mettere in ordine ai suoi processi (ed anche da buon conoscitore dei libri seriali), Simoni ci fa immergere immediatamente nell’atmosfera della sua squadra, che è lei che tira le fila delle indagini, con Petri come punto di riferimento. Tanto che direi questo essere un libro dedicato principalmente a lui. La squadra, probabilmente per via delle ferie, è ridotta all’osso: Grosso e Tordelli (il duo “comico” ma che sta sempre più connotandosi come coppia investigativa puntigliosa anche se non celere) che indagano su di un neonato abbandonato, morto, in un cassonetto, Grazia Bruni, con l’aiuto del sempre a lei più vicino Maccari, sulle tracce della morte di un presunto rapinatore per mano di un tabaccaio. E Petri su tutti che prima si riposa a Montisola nel Lago d’Iseo, dove trova modo di imbattersi nella strana vicenda della signora Lucia, del suo odioso marito Anselmo e della di lui amante Gertrud. Con una serie di colpi di teatro che sembrano portare Lucia sull’orlo della depressione psichiatrica. Poi, tornando a Brescia, si scopre che il tabaccaio che ha sparato è quello che gli ha insegnato a fumare la pipa (vista che deve smettere le sigarette; ma non sarebbe meglio non fumare affatto, allora?). Il duo poliziesco aveva comunque individuato una possibile madre del bimbo morto, una cameriera, che Petri e la Bruni vanno a scrutare sul posto di lavoro, facendosene un’idea di persona poco propensa a mali affari. Anche perché, se è vero che era incinta, il bimbo nato è ora in custodia dai nonni in provincia. Tra una divagazione e l’altra, tra una sigaretta, una fumata di pipa ed una passeggiata, incluso il ritorno di Miceli dalle ferie (ma non darà un apporto decisivo alle indagini), è sempre Petri che butta là domande che illuminano la scena. Anche perché, e noi lo sappiamo dalle prime pagine, il tabaccaio è sicuramente autore di un omicidio premeditato nei confronti dell’amante della giovane moglie. Dal patologo inoltre veniamo a sapere che il DNA del bimbo morto corrisponde con quello della cameriera. Dalla motorizzazione veniamo anche a sapere che il numero di targa nel portafoglio del tabaccaio è della macchina del morto (che per l’inciso era anche in combutta con l’Anselmo di cui nell’isola). Ma che il morto aveva venduto ad un conoscente di Petri, quello che lo aveva indirizzato al tabaccaio come ad un esperto fumatore di pipa. Spronato dall’analisi del tentativo di suicidio della signora Lucia, alla fine saranno comunque le intuizioni di Petri ha portare a soluzione i tre misteri. Il tabaccaio voleva uccidere il morto o ha sbagliato bersaglio? I bambini nati erano gemelli, come testimonia il fatto che il padre, sposato, ha già avuto due gemelli della legittima consorte. Ma chi e perché uccide la vicina di casa della cameriera? E la signora Lucia è vittima della cattiveria del perfido Anselmo o ha inscenato tutto per sbarazzarsene? Lascio a voi le conclusioni, sia se le volete indovinare sia se volete leggere un libro leggero ma non inutile. Due soli appunti. Uno leggero: la morte della vicina viene risolta in meno di mezza pagina, senza entrare nel profondo, quasi sorvolando. Uno più di fondo: nell’epilogo la simpatica moglie di Petri paragona tutte queste vicende allo specchio del barbiere (da cui il titolo) dove si vede l’immagine riflessa e bisogna capire realmente quale sia la destra e quale la sinistra. Ma non è così per tutti gli specchi? O quello del barbiere è particolare ed io non ho capito come? Per concludere, un libro come detto sereno, che merita di essere letto in pace, su di una bella poltrona, sentendo della buona musica (magari del mio amico Carlo) e perché no, fumando una sigaretta.
“Mi faccio sempre i miei quattro piani di scale a piedi … E la respirazione come va? … Va come per uno che ha fatto quattro piani di scale a piedi … E non hai mai pensato che senza sigarette di piani potresti fartene anche otto? … Non ho mai avuto intenzione di trasferirmi in un grattacielo.” (45)
“Sarebbe come … concludere un capitolo, e non potrei evitarmi di pensare che, alla mia età, ben che vada, di capitoli ne restano molto pochi.” (47)
Gianni Simoni “La morte al cancello” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 6,75 euro)
[A: 27/07/2015– I: 28/03/2017 – T: 30/03/2017] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 371; anno 2011]
Parafrasando il vecchio adagio, direi ad epigrafe della nuova lettura di romanzi di Gianni Simoni: “Scrivendo si impara”. Perché qui, scritto a ruota del precedente, crescendo sui (pochi) sbagli di scrittura, abbiamo un capitolo più interessante della vita bresciana dei nostri giorni. Un capitolo più equilibrato, meno disperso in tanti rivoli, con i personaggi ben centrati, e con finali non scontati. Tra l’altro, appunto sfruttando il reiterato scrivere, seppur cerca di cominciare con più inchieste contemporaneamente, così come è ormai uso dei serial televisivi alla Fox Crime, noi sappiamo che l’inchiesta è una sola. Come anche se non tanto presto lo scopriranno Miceli e compagnia. Ed appunto dalla compagnia cominciamo, che anche qui ci si va consolidando. Intanto, l’ex-giudice Petri, pur illuminando la scena con le sue idee che consentono di arrivare al centro della soluzione, ha un ruolo meno ingombrante rispetto al libro precedente. Qualche passo avanti fa il commissario Miceli, si posiziona ben sui ragionamenti collettivi la simpatica Grazia Bruni, tallonata in ufficio ed altrove dal “suo” Maccari. Scendono qualche gradino i Gianni e Pinotto del comando, anche perché l’ispettore Grasso è assente per lungo tempo a seguito di un’influenza. Cresce invece Esposito, che si rivela una fonte di buoni propositi e belle riuscite (sa usare il computer, sa stenografare, e chi più ne ha più ne metta). La vicenda, che ripeto è bresciana fino al midollo, come evidenziavo nella trama precedente, è poi presentata su due versanti, in modo che il lettore possa seguire l’accadimento, magari sapendo qualche cosa in più della polizia. Ma non tutto. Così vediamo presto e senza fallo chi sia l’assassino e come venga commesso il delitto di cui al cancello del titolo. Ma saperlo non ci fa risolvere il mistero, che vediamo anche ci sia qualcuno che muove i fili nell’ombra. La morta è una donna facoltosa sposata ad un medico di fama. Vediamo qualcuno ingaggiare due dropout, Gaspare e Giovita, nella zona malfamata della città (dove c’è una simpatica trattoria che si chiama “Il Gatto in affitto” ed un curioso caffè, il “Caffè del Porto”, gestito da un nostalgico della Francia, che non fa pagare chi ordina un Pernod) per effettuare il colpo. I due però non se la sentono, e subappaltano il lavoro ad un vero duro, il Nero (e certo un nome simile a Brescia, fa subito pensare ad altro, ma stiamo divagando). Il Nero fa il lavoro, ed una parte della squadra di Miceli comincia ad indagare. Ma quando Gaspare e Giovita vanno a riscuotere, l’ingaggiatore non paga e li uccide. Qui parte il secondo filone di indagine. L’indagine sui due è più veloce, che scopriamo presto che i due erano stati notati in quanto più in soldi del normale, traccia che permette di risalire al caffè, e da lì all’ingaggiatore. D’altra parte, si riesce anche a risalire a Camillino, un ex-ladro di auto, rimessosi sulla buona strada, che aveva collegato Gaspare al Nero. Così si capisce che questa pista è ben stretta sull’altra, che più complicata invero lo è. Il medico di fama, dottor Anselmi, è davvero in vista in città, tanto che il Procuratore Martinelli cerca di proteggerlo. Tuttavia il lavoro incrociato di Miceli e Petri non glielo consentirà. Scopriamo così che Anselmi ha per amante la bella Luisella, da circa tre anni trattata con tutti gli onori dal medico (tutte le spese pagate, una casa intestata, insomma, la bella vita, seppur nell’ombra). Scopriamo che Antonella, la morta, aveva una relazione con un fantomatico ingegnere, che però si rivela soltanto un avido Don Giovanni, che, una volta avuti i soldi per un suo progetto di casa, stava mollando la signora. Signora che era stata presa di mira anche da Dominici, il titolare di un’azienda vinicola, amico di famiglia. Ma la mira era sbagliata, che Antonella l’aveva subito mandato a quel paese, anche se l’enologo non mollava, non per affetto, ma per urgente bisogno di soldi. Cosa di cui si era accorta Clara (dei soldi, ovvio) per investimenti vitivinicoli sballati, e per la presenza di Salvi, un factotum che un po’ puzza. Comunque, Antonella, la morta, era quella che, tra tutti, aveva i soldi, e circuita dall’ingegnere, aveva detto ad Anselmi di volere il divorzio. Quindi, quasi tutti avevano interesse alla sua morte: Anselmi che avrebbe ereditato i soldi della morta, Luisella, che avrebbe potuto uscire dall’ombra, Dominici che poteva vantare dei ritorni economici tramite strani e contorti giri gestiti da Salvi. Una volta esaurita la pista del Nero (con l’arresto del pericoloso pluriomicida), Petri riesce a collegare il filone “omicidi su commissione” all’azienda vincola scoprendo che la macchina usata per ingaggiare Gaspare e Giovita era proprio dell’azienda. Ma sarà solo quando Petri avrà un ultimo colpo di genio che tutti i tasselli torneranno al loro posto, scoprendo una realtà finale meschina ma ipotizzabile e ricostruibile con il ragionamento anche da noi poveri ed inermi spettatori. Un solo appunto: capisco che per rendere l’emarginazione di Gaspare e Giovita sia corretto utilizzare il dialetto (due ubriaconi che parlano la lingua di Dante sono un po’ stonati), ma il bresciano è talmente ostico che, confesso, non ho capito un quarto di cosa si dicono i due, come potete vedere dall’esempio che riporto. Delle note a piè pagina erano troppo difficili? Sul versante curiosità in positivo, invece, mettere proprio Giovita, che non è una qualsiasi storpiatura di nomi classici, ma proprio uno dei nomi più usati nel bresciano, dove per l’appunto la città ha per patroni i Santi Faustino e Giovita, due nobili bresciani del II secolo, martirizzati dall’imperatore Adriano il 15 febbraio 134. Mentre Giovita rimane comunque un santo locale, Faustino fa carriera, e venendo ricordato il giorno dopo San Valentino, diventa il santo di riferimento dei single. Stiamo un po’ divagando, ma per tornare al libro, la trama come detto è solida, e tutti i nodi vengono ben illustrati nel loro scioglimento, in una piccola cascata di finale e sottofinale. Trovo insomma una serie in crescita, aspettando prove successive.
“Èco šà che ghé söm … Tè i solc’ tè i-ét finìc’ o no?” [cioè?] (32)
Seconda trama lugliesca, e quindi vi prendete tra capo e collo (anzi tra bocca e fronte) questa cura per la … miopia.
Confermo la prossima partenza per un posto dove fa più caldo che in questa Roma estiva e desertata. Salteremo così una settimana di notizie dal caldo dei contorni vaticani. Non salterò, almeno nella memoria, compleanni e prese della Bastiglia.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

LUGLIO 2017
Non è sempre facile portare gli occhiali, tuttavia a volte, cambiare lo sguardo rende la vita migliore, o almeno così diceva Proust.

MIOPIA

Michel Tournier                 “Il re degli ontani”
Anna Maria Ortese             “Il mare non bagna Napoli”
Joào Guimaràes Rosa         “Miguilim”
La miopia è un guasto di focalizzazione, una perdita di lucidità. Era già piuttosto diffusa al tempo degli dei e dei miti. I ciclopi, si sa, ci vedevano male, sin dall’inizio. Polifemo aveva un occhio solo, e perderà anche quello. Ma ci sono storie più recenti. Abel Tiffauges è un orco contemporaneo «affamato di tenerezza, miope e visionario» che abita le pagine di un romanzo di Michel Tournier. Nel suo corpo c’è un primato del rovescio sul diritto della medaglia. Ha un nome biblico e oltre che miope è mancino. Vive nell’antro sporco di grasso di un garage. Eppure il suo sguardo insufficiente è capace di riconoscere il demone del suo tempo: la purezza. Nella primavera del 1938, scrive nel suo diario con la mano sinistra: «la purezza è l’inversione maligna dell’innocenza». Sa bene che in nome di questa ossessione, di razza, religiosa, linguistica, politica, sono stati e saranno perpetrati i peggiori crimini della storia. Tenete a mente la storia dell’orco Abel. La questione è tutta nel gioco tra vicino e distante. Così, se qualcuno vi prende in giro perché avvicinate troppo le cose agli occhi, mostrerete con facilità a tutti quanto un miope può vedere lontano.
In fondo, la miopia può anche essere un antidoto efficace alle brutture e al dolore di stare nel mondo. Curiosamente, in due parti opposte del pianeta, ma affratellate dallo stesso spettacolo e sentimento di un Sud misero e irredimibile, nascono all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento due personaggi analoghi: Eugenia, la bambina di un racconto di Anna Maria Ortese, e il piccolo Miguilim dell’omonimo romanzo breve di Joào Guimaràes Rosa. I luoghi sono un basso di Napoli e la desolazione del Nordeste brasiliano. I due bambini sono miopi e poveri. Un velo di afflizione e di ignoranza gli copre gli occhi, ma li protegge anche: la vita è uno spaesamento, ma sopportabile. Fino al giorno in cui il dottor Lourenço nell’entroterra del Brasile e la zia di Eugenia a Napoli non gli poseranno sul naso un paio di occhiali e tutto di colpo, per loro, smetterà d’essere opaco e spugnoso. L’intollerabile percezione della realtà li colmerà di nausea. Improvvisamente, per Eugenia «i balconi cominciarono a diventare tanti, duemila, centomila; i carretti con la verdura le precipitavano addosso; le voci che riempivano l’aria, i richiami, le frustate, le colpivano la testa come se fosse malata; si volse barcollando verso il cortile, e quella terribile impressione aumentò». Quello di Miguilim sarà invece un ultimo sguardo di commiato, prima di partire. Le correzioni, come ci ha insegnato Jonathan Franzen, sono dolorose. Quindi, il nostro consiglio è di abituarvi ai vostri piccoli difetti. Anche togliersi gli occhiali, di tanto in tanto, può far bene.

Bugiardino

Lessi qualcosa di Tournier, ma l’ho sempre trovato ostico e sono che l’ho abbandonato. Così come ho fatto per il brasiliano, con una scrittura troppo fantastica per le mie povere capacità di comprensione. Rimane Anna Maria Ortese, che conoscevo di nome. E che invece consiglio a gran voce.
Anna Maria Ortese “Il mare non bagna Napoli” Adelphi euro 10 (in realtà, scontato a 7,50 euro)
[trama pubblicata il 21 settembre 2014]
Anna Maria Ortese è una scrittrice il cui nome riecheggiava in qualche fondo di memoria. Ne sapevo l’esistenza, mi giungevano echi di possibili scritture, e mi rimaneva in testa questo titolo, come se sapessi che prima o poi ne avrei letto. E prima della lettura, c’erano anche i rumori di lotte, discussioni, forti dissensi, infiniti ed insormontabili litigi. Mi sembrava ricordare qualcuno che parlava male della scrittrice, che bollava astioso ed irreale questo suo scritto. Non avevo mai avuto voglia di sbrogliare questa matassa. Ma, come dico anche altrove, la forza della maturità mi spinge a prendere in mano testi che forse non pensavo di leggere. Maturità e curiosità direi. E bene ho fatto. Che questo libro, pur coevo, e quindi con del testo che va misurato all’età, rimane bello, appassionato. Una serie di scritti, tre racconti e due testimonianze, che, nelle loro diversità, ci fanno scendere nei gironi danteschi dell’universo napoletano del dopoguerra. Sia una discesa fisica, come nei crudeli racconti e nella testimonianza, sia una discesa della testa e dell’intelligenza in quell’ultima, lunga e bellissima narrazione dell’universo intellettuale partenopeo di quegli anni. E separiamo allora, anche nella narrazione, questi due momenti. Nei racconti e nella prima testimonianza, Ortese ci cala nella Napoli del dopoguerra, nella vita quotidiana, nell’estrema povertà. La si accusa di “godere” della descrizione del dolere di vivere. Ma a me restituisce il senso di una certa vita. Della piccola Eugenia e del dramma di essere povera e quasi cieca. Dello scorrere quasi inutile della vita della quasi zitella Anastasia. Della vita quotidiana e delle sue piccole furberie tra San Biagio dei Librai ed il Monte di Pietà (ed ancor oggi, passeggiando per Spaccanapoli se ne avverte il sapore, quasi immutato dopo sessanta anni). Di quel monumento descrittivo della miseria e del degrado che furono i Granili, e la massa di senza tetto che per decenni vi si era ammassata (Granili poi finalmente demoliti proprio nel ’53). Le immagini della Ortese, nella loro crudezza, non sono crudeli. Forse irreali, laddove l’irrealtà a volte descrive meglio la realtà di una foto sbiadita. Ne leggo, e torno a Napoli ed a pensarla nella vita minuta. Nei gesti dei napoletani che ho conosciuto dopo, ma che ritornano, come delle maschere immote nel tempo. E poi c’è la lunga, sofferta testimonianza della vita dei sodali della scrittrice nei primi anni del dopoguerra. In quell’insieme di intellettuali, scrittori, giornalisti ed altro che cercarono, ognuno con le proprie forze ed idee, di dare svolta ad una città che si andava incartando su sé stessa. Ne uscirono sconfitti, e la nostra scrittrice, andando a ritrovarli dopo, nell’epoca della sconfitta avvenuta, ce li rende con il suo pathos di un essere altrettanto sconfitto, ma che vuole salvarne il senso dall’oblio. Il ritratto viene fuori impietoso, e posso capire che chi ne lesse si sentisse colpito dall’essere messo davanti alla propria sconfitta. Ed a quella di una generazione. Ma non capisco, non accetto, l’ostracismo che verso l’Ortese ne seguì. Il fatto che proprio in seguito a questo scritto, nessuno dei suoi ex-amici la volle più in città. E lei ne fuggì, con la Napoli nel cuore, errando per luoghi italici, fino al buon ritiro e morte in una Rapallo di fine secolo. Io invece li vedo, Luigi Compagnone zoppicante con il suo bastone, il suo salotto, con Pratolini, con il giovane Domenico Rea. La casa dell’allora azzimato La Capria (che rimarrà nella mia testa quando lo incontrai con la moglie Ilaria Occhini alla GS del Pantheon). E, ultimo e molto importante, Prunas, il motore della rivista “SUD”, che tanto sembrava poter smuovere, e che purtroppo non smosse. Lo vedo allontanarsi, dopo un caffè al Gambrinus, verso Monte di Dio, che mi riporta al migliore De Luca di tanti decenni dopo. Tutto quel dolore non è inutile mostra delle ferite di una sconfitta, né astio per chi ti allontana. È comprensione per quello che poteva succedere. Ed è anche speranza. Quella che in molti non ebbero. Quella che mi ritornava in mente leggendo il libro e pensando alla di non molto successiva morte di Renato Caccioppoli (ed alla bellissima interpretazione che ne diede Carlo Cecchi in “Morte di un matematico napoletano”).  Ma torniamo al libro, alla Ortese, ed a quel mare che non bagna Napoli. Un libro che va letto. Nonostante.

Conclusioni

Penso che la miopia della Ortese sia da prendere ad esempio. Prima di degenerare nella cecità di Saramago. Sul resto, come dicono i migliori di me, non sapendo, non mi pronuncio.