domenica 29 giugno 2014

Misticanza con crauti - 29 giugno 2014

Da un quartetto di autori inglesi, oggi passiamo ad una terzina di lingua tedesca, che come i miei amici ben sanno, è quella a me più ostica delle lingue occidentali. Meno gli autori, soprattutto il ri-emergente Zweig, che dopo anni di oblio sembra tornare sulla cresta dell’onda con quel suo lucido pessimismo sulle sorti del mondo. Qui con due racconti lunghi, entrambi dolorosi, entrambi scritti con una maestria ben lontana dai pressapochismi attuali. Ma tutti i libri di oggi sono sopra media. Anche il bel libro sui suoni e le incomprensioni. Anche, e come spesso accade, nel libro che apre ogni volta le ferite del nazismo tedesco (e da quel bel film che ne fu tratto).
Stefan Zweig “Viaggio nel passato” Ibis euro 8 (in realtà, scontato 6,15 euro)
[A: 06/12/2013 – I: 30/12/2013 – T: 31/12/2013] - &&&&
[tit. or.: Widerstand der Wirklichkeit/Reise in die Vergangenheit; ling. or.: tedesco; pagine: 84; anno 1929/1975]
Due titoli e due date per un romanzo breve dove la storia dei titoli è quasi più lunga del romanzo stesso. In vita, nel 1929, Zweig ne pubblicò una versione sintetica, con il titolo “Widerstand der Wirklichkeit” (Resistenza della realtà). Poi nelle sue carte fu ritrovato l’originale, con il titolo cassato a penna, e qui riproposto, di “Reise in die Vergangenheit” (Viaggio nel passato). E solo negli anni Ottanta, alla pubblicazione delle opere complete dell’autore austriaco il romanzo ha visto la luce per intero. Come molte delle cose di Zweig, è fulminante nel cogliere l’essenza del problema. Purtroppo, sempre per la sua grande capacità, è anche pervaso di quel grande senso di pessimismo che accompagnò l’autore per tutta la sua vita. Non che non ne avesse ben donde, ovvio. Ha visto disgregarsi il mondo austro-ungarico in seguito alle follie della prima guerra mondiale (e cosa di meglio che leggerne ora ad esattamente 100 anni!). Ha visto crescere, episodio dopo episodio, un mondo in cui non si riconosceva, un mondo ariano dove non solo in quanto ebreo, in quanto raziocinante, si trovava a disagio. Tanto da fuggirne. Tanto da dolersene e togliersi la vita. Qui, in questo romanzo, in forma di apologo, cerca  di dare alcuni elementi di questa crisi (e ben ci riesce). Seguiamo così le vicende di questo ragazzo, onesto lavoratore, che si costruisce il proprio mondo con le capacità e la volontà. Viene da famiglia poco agiata, ma la bravura nel trattamento degli affari, lo fanno emergere. Fino a che un potente professore industriale lo prende a ben volere, e decide di farne il proprio alter ego. Tanto da accoglierlo in casa, in qualità di segretario particolare. Con piglio sicuro ed in poche frasi, Zweig ci fa notare le difficoltà di quest’uomo onesto ma povero a rapportarsi nel mondo agiato dell’alta borghesia. Fortunatamente, trova un’alleata nella moglie del magnate. Che fa di tutto, e con successo, per farlo sentire a proprio agio. Il punto di svolto l’abbiamo nel 1912, alla scoperta di una ricca miniera in Messico. Dove verrà inviato Ludwig per sfruttare al meglio la miniera e fare la sua luminosa carriera. Peccato che in quel mentre scopra di essere innamorato (ricambiato) dalla moglie del suo luminare, anche se di dieci anni più anziana. Ma troppo sarebbe il peccato, per cui anche se dolenti, i due “non consumano”. Ed anche da lontano tuttavia, continuano a comunicare, a scrivere. Ludwig passa due anni d’inferno. Quando sta per chiudere la miniera e tornare, ecco il disastro: scoppia la guerra, e non si può varcare l’Oceano. Ludwig è costretto in Messico. E le notizie da casa sono sempre più rarefatte, sino a cessare. Il nostro allora decide di farsi una vita colà. Si sposa. Ha dei figli. La miniera prospera, e lui diventa l’agiato benestante cui aspirava diventare. Per lavoro solo dopo nove anni dalla partenza torna in Germania. E, inopinatamente, decide di incontrarla di nuovo, lei ormai vedova. Alla vista la passione rinasce immutata. Vorrebbe tornare indietro. Vuole passare una notte con lei (ah, potenza della carne). Prima del ritorno in Messico, fanno una fuga, lei obtorto collo, che si rende conto dei mutati contorni della vita. Lui no, accecato dal desiderio della carne. Ma in quella squallida pensione di Heidelberg non potranno consumare, ritrovandosi “come due spettri che cercano il passato”. E su queste dolenti note, il romanzo termina. Immaginiamo, più che sappiamo, il ritorno di lei mesta a Berlino, e quello di lui, in Messico, verso la sua vita e la sua famiglia. Ma non si toglieranno più quella patina di tristezza. Per quello che poteva essere e non è stato. E che tuttavia, tra me ragiono, su chi sia la colpa maggiore. Ne ha chi non ha lottato? Se Ludwig fosse rimasto saldo nel suo amore, avrebbe forse vinto guerre e disfatte. Se avesse deciso, una volta cambiata vita, di voltar pagina definitivamente, avrebbe evitato altre disfatte, morali ma dolorose quante altre mai. Zweig, nel suo pessimismo, ritiene inevitabile la disfatta. Io, nel mio ottimismo, ritengo si possano smorzare i dolori di una sconfitta. Certo, quel che rimane, sono alcune pagine potenti e mirabili, in cui l’autore ci fa immergere in questo mondo di cento anni antico. Ed ancora ne fa emergere la vivezza. Come se neanche un giorno fosse passato.
“Non appartiene alla natura umana vivere soltanto di ricordi.” (50)
Bernhard Schlink “A voce alta” Garzanti euro 9,90
[A: 04/01/2014– I: 15/03/2014 – T: 18/03/2014] - &&&& e ½  
[tit. or.: Der Vorleser; ling. or.: tedesco; pagine: 180; anno 1995]
Ultimamente, nella mia fornita biblioteca, stanno entrando alcuni libri da cui sono stati tratti film (più o meno) famosi. Ho sempre pensato che queste due forme espressive siano disgiunte, e da giudicare nella loro specificità. Ciò nonostante, quando capitano punti di intersezione è anche interessante annotare come, queste due espressioni, muovano diverse sensazioni, a fronte di una materia omologa. Tutto questo panegirico per introdurre il bel libro di Schlink, e ricordarne l’interessante film che ne fu tratto nel 2008, dal titolo “The reader” con Ralph Fiennes e Kate Winslet. E se nel film esce fuori prepotentemente la figura di Winslet – Hanna, tanto che prenderà l’Oscar, il libro tutto in diversa soggettiva, ne fa si uscire la problematica, ma anche i problemi generali dei tedeschi verso l’Olocausto. Comunque cominciamo con la solita tirata d’orecchi agli editor italiani che l’hanno ribattezzato “A voce alta”, dopo che in tutto il mondo il libro è intitolato come nell’originale tedesco, “Il lettore”. Perché si legge a voce alta? Ma non è la voce, il punto. È proprio l’azione di leggere. Venendo al libro, ha una sua struttura tripartita molto ben scandita. La prima parte è l’innamoramento e poi la storia d’amore tra Michael e Hanna. Lui sedici anni, lei qualche cosa in più di trenta. Lui va scuola, si sente male, lei lo aiuta. Comincia così prima una frequentazione. Poi sempre qualcosa in più. Fino ad una bella storia d’amore. Certo, è soprattutto Michael che è preso da Hanna. Ma è ben descritto il loro prendersi e litigare (meglio che nel film). Il tempo passa, Michael cresce, ed Hanna d un certo punto sparisce. Prima però, c’è tutto il tempo che il nostro ragazzo passerà a leggere libri ad alta voce alla sua bella. Stacco sulla seconda parte. Il ragazzo cresce, fa legge all’Università. E per un seminario partecipa da uditore ad un processo. Che coinvolge Hanna ed altre donne accusate di essere aguzzine di un lager durante la Seconda Guerra Mondiale. Qui esce fuori la capacità giuridica dell’autore, anche lui avvocato, che ci fa partecipi del processo. Ma tutto dalla prospettiva di Michael che si interroga: perché Hanna fece quello che fece nel lager? Perché non si difende dalle accuse, molto labili, che le vengono mosse? Durante un insight sulla sua vicenda, il nostro capisce: Hanna non sa leggere. E questa “vergogna” è più forte della volontà di essere assolta. Michael, pur nolente, capisce e rispetta questa espiazione. Ed Hanna viene condannata all’ergastolo. Nella terza parte, vediamo il nostro cresciuto, poi sposato, divorziato, sempre problematico con le donne. Al fine l’unico legame che gli resta è proprio con Hanna. E comincia ad inviarle cassette con le sue letture. Fino alla grazia che dopo 18 anni riceve l’ergastolana. Michael finalmente la va a trovare. Scambi di sguardi. Possibilità di amicizia in tarda età. Ma Hanna rimane legata alla sua storia, e prima di uscire dalla prigione, si impicca. Prima di lasciarci Michael esaudisce l’ultimo desiderio della sua vecchia amante, devolvendo i denari di lei per un’associazione che si occupa di analfabeti. La seconda parte della storia, devo dire che è meglio resa nel film, dove lo scandire delle immagini, e delle letture di Michael, viene meglio in video che in scrittura. Quindi dire che tra libro e film c’è un sostanziale pareggio. Quello che esce più forte nel libro è forse la domanda (o le domande) sull’Olocausto. Quanti cittadini “normali” hanno fatto cose “anormali” in quegli anni? Esce forte quella banalità del male di cui parlava la Arendt nel suo bellissimo libro sul processo ad Eichmann (ma perché viene citato il poeta Auden dal nostro scrittore? C’è forse qualche poesia che mi sfugge?). E ci tormenta fino in fondo la domanda su quanto la vergogna di non saper leggere sia prevalente sul bisogno di espiazione di Hanna. Dov’è nasce il confine tra i due? Merito di Schlink di porre queste domande, e di porle dall’interno della Germania. Un ottimo libro, che narrando altro ci pone queste domande e ci riporta sempre lì, al conflitto tra obbedienza e follia. Consiglio a tutti la lettura (anche e soprattutto chi non ha visto il film).
“Quand’ero ragazzo, io mi sentivo sempre o troppo sicuro o troppo insicuro. O mi vedevo totalmente incapace, insignificante e indegno, o pensavo che sarei riuscito in tutto e che tutto dovesse riuscirmi. Se mi sentivo sicuro potevo superare le più grandi difficoltà. Ma il minimo insuccesso bastava per convincermi della mia indegnità.” (57)
“Siccome la verità di ciò che si dice, è ciò che si fa, si può anche fare a meno di dire.” (143)
Stefan Zweig “Novella degli scacchi” Einaudi euro 8,50 (in realtà, scontato 6,38 euro)
[A: 01/02/2014 – I: 03/04/2014 – T: 04/04/2014] - &&&&
[tit. or.: Schachnovelle; ling. or.: tedesco; pagine: 79; anno 1942]
Come riempire un mondo in meno di 80 pagine! Continuo nel tempo la riscoperta di Zweig. Con questo che viene considerato uno dei migliori romanzi brevi. Che io trovo bello, ma ho letto cose di Zweig che mi hanno fatto lievitare di più. Certo, l’indubbia capacità dello scrittore austriaco riesce a costruire un meccanismo ad orologeria impeccabile. C’è una storia, una storia dentro una storia, una seconda che sembra convergere con la prima, ma che, autonomamente, darà il tocco ed il senso a tutto l’insieme. Viaggio per nave da New York a Buenos Aires, il narratore (di cui non sappiamo i motivi del viaggio) in partenza viene attratto da una strana figura che si aggira per la nave. Scopre che è il campione del mondo di scacchi. Vuole avvicinarlo incuriosito dalla sua storia personale. E trova il modo di scardinare le resistenze di Mirko, coinvolgendo un magnate americano che imbandisce un incontro di scacchi a pagamento. I nostri non possono che perdere, se non che, ad un certo punto, uno strano signore, che poi sapremmo austriaco, molto dimesso, dà loro una mano per portare la partita ad una patta. Mirko allora sfida l’austriaco. Il quale prima dell’incontro racconta al narratore la sua storia. Poi l’incontro, le difficoltà del campione, l’esaltazione del dilettante, la vittoria di questi. Dovrebbero fermarsi, ma Mirko chiede la rivincita, l’austriaco si concede, e comincia una seconda partita del tutto diversa, dove il campione ora pensa, ed il dilettante sembra entrare in trance agonistica, o in altri modi esaltati. Fino a che il nostro sbaglia mosse, ed è il narratore che lo riporta alla realtà, e lontano, per sempre, dalla scacchiera. Ma se questa è la storia, privata dei due contesti, sono le due storie che danno il senso alla vicenda. Prima veniamo a conoscenza di Mirko. Contadino boemo, praticamente analfabeta, impara gli scacchi dal curato del paese, e come lo stolto sapiente comincia a giocare sempre meglio. Ed a vincere sempre. Rimane però inculturato, non riesce a vedere gli scacchi se non con la scacchiera davanti. Ha bisogno del contatto con gli oggetti per poterli usare. E poiché, pur valente, sempre dalla povertà viene, fa sì la scala del potere scacchistico, ma poi gioca ovunque qualcuno gli offra dei soldi per farlo. Diventa, consapevolmente, un professionista del gioco. Magistrale, ma in un certo qual modo, meccanico esecutore di una strategia di gioco. Dall’altro lato, invece, più complessa è la storia dell’austriaco. Ricordo che la narrazione si svolge nei primi anni ’40. L’austriaco è un avvocato di uno studio legale che da sempre cura gli interessi della casa reale e del clero. In maniera discreta ed occulta. Sempre più nascosta poi, da quando Hitler prende il potere in Germania, ed apertamente fuorilegge dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nel 1938. Lo studio legale del nostro viene incarcerato, ma non in un lager, bensì nel famigerato Hotel Metropol, che si doveva loro estorcere i segreti dei beni da loro governati. Il nostro viene relegato in una stanza di nullo arredo, dove aspetta che, di tanto in tanto, lo si interroghi (si rivive quasi una riedizione del processo di Kafka). Prima di impazzire, il nostro trova un manuale con 150 partite di scacchi, descritte in notazione algebrica (è un modo di individuare i pezzi e la loro posizione sulla scacchiera). Comincia a studiare di nascosto, impara a memoria le partite, se le rigioca in testa, non avendo scacchi né scacchiere. Questo lo corazza contro le angherie degli interrogatori. Poi esaurisce tutto il libro, e comincia ad inventarsi partite. Qui scatta il meccanismo che lo porterà quasi alla follia. Non potendo giocare con altri, scinde quasi il suo essere in un Io bianco ed un Io nero che, schizofrenicamente, fanno le parti dei due avversari. Una parte di sé lotta contro l’altra. Questo non potrà che portarlo ad andare fuori di testa. Ricoverato all’ospedale, il medico lo riconosce, e lo aiuta ad ottenere il permesso d’espatrio. Ora trovandosi lì sulla nave, nella partita di Mirko contro il magnate riconosce una delle 150 partite del libro (un classico per gli scacchisti, la partita Alekhine – Bogoljubov del 1922 con la presenza successiva di tre regine da parte di Alekhine). Ma quando comincia la sua partita con Mirko, riprende latente la febbre che lo aveva portato fuori di testa. E se nella prima partita si controlla e vince, nella seconda Mirko, accorgendosi della progressiva perdita di lucidità dell’austriaco, rallenta coscientemente il gioco. Il nostro avvocato allora, parte per la sua tangente, giocando altre partite nella sua testa, ed appunto non può che sbagliare perché, tornato alla realtà non riconosce la scacchiera reale. Perché è diversa da quella che aveva in testa. E non può che sbagliare. Fermarsi. E consentire al narratore di portarlo fuori scena. Come direbbe Neruda, è tutta una metafora. La partita a scacchi, che sempre è una metafora del combattimento. L’intelligenza che si deve avere per poter padroneggiare lo sviluppo dell’azione dei pezzi. Poi c’è lo stolto sapiente, che sa d’istinto dove muovere, ma deve vederlo. È concreto, rozzo ed essenziale. Ha un’intelligenza forte, ma settoriale. E Zweig non concepisce (e noi con lui) un’intelligenza che non sia ad ampio spettro. Dall’altra parte l’intellettuale, che, per l’appunto, colto e pieno di tante nozioni, parte verso una sua immagine della storia (della vita, della scacchiera), e non si accorge di cosa succede nella realtà. Anche perché apprende gli scacchi (la vita) da solo, senza relazionarsi con l’esterno. E Zweig che era stato un intellettuale a tutto tondo, grande letterato e grande viaggiatore, non può che sentire i limiti di questo isolamento intellettuale. Il pessimismo di Zweig non potrà quindi che portare l’intellettuale a ritirarsi, a farsi da parte, non avendo mezzi per contrastare la rozza bravura di Mirko. Due mesi dopo la stesura del romanzo, Zweig, austriaco in esilio volontario in Argentina, non trovando sbocco alla sempre crescente avanzata delle forze del male (siamo nel 1942, nel pieno dell’ondata montante del nazismo durante la guerra), si toglie la vita.
“Non è forse facilissimo considerarsi un grand’uomo se non si nutre nemmeno il sospetto che siano esistiti i Rembrandt, i Beethoven, i Dante, i Napoleone?” (12)
Robert Schneider “Le voci del mondo” Einaudi euro 10 (in realtà, scontato 7,50 euro)
[A: 01/02/2014 – I: 10/04/2014 – T: 12/04/2014] - &&&&
[tit. or.: Schlafes Bruder; ling. or.: tedesco; pagine: 181; anno 1992]
Flavio Cuniberto fa una bella e condivisibile post-fazione a questo ormai ventennale libro, e probabilmente anche una buona traduzione (mi fido, che non so il tedesco). Non so se però sia colpa sua o dei soliti, malefici pensatori di marketing librario, quel titolo che, al solito, travisa un po’ il senso originale. Sebbene sia un libro pieno di voci (e ci torneremo), quella parentela con il sonno a ben altro si ispira. Penso (nella mia ignoranza germanofona) ai versi di uno dei capitoli finali (“Vieni, morte, sorella del sonno”) che credo “Tod” sia maschile e quindi ha senso tradurre con “sorella” il “Bruder(à fratello)” originale. Perché, alla fine, con ironia, con tristezza, con rimpianto, è la morte che pervade tutto il libro. Non sempre angosciosa, in alcuni casi liberatoria. Pur tuttavia, ricostruendo le vicende che si svolgono nella cittadina austriaca di Eschberg, lo scrittore Schneider fa una specie di resoconto dei lutti e delle morti. Cominciando dalla fine, dall’ultimo incendio che devasta e finalmente distrugge senza speranza la cittadina ed il suo ultimo abitante. Un Adler, che, come sanno i montanari, in quelle sperdute lande, nell’altro versante delle Alpi, ci si mescolava molto, ed in Eschberg, in pratica, c’erano due famiglie: gli Adler e i Lamparter. Schneider segue le vicende del paesino, dalla nascita alla morte di un genio irrivelato, Johannes Elias Adler. Questa è la parte di tristezza che alla fine non può non lasciarci il libro: Elias era un genio della musica e dei suoni. Per una sua capacità sapeva imitarne di ogni specie. Aveva un orecchio globale (un “terzo orecchio” come diceva il jazzista Berendt), e riproponeva i suoni come erano. Con la voce, imitando tutti gli abitanti del villaggio, ma anche gli animali. Con ultrasuoni, con cui (forse) parlava agli animali stessi. Con l’organo, attraverso la cui musica (quando riuscì a suonarlo) costruiva cattedrali di luci e silenzi, degni e superiori a tutti i maestri (passati, presenti e futuri). Ma come dice l’autore, nessun buon samaritano passò mai di là, e Johannes non fu mai preso e fatto sbocciare. Qualcuno si ricorda delle sue costruzioni armoniose, ma quel che ci rimane è una lapide sulla tomba, con i suoi 22 anni di vita. E con i tormenti che l’hanno costellata. Nascita laboriosa, poi comprensione dei suoni, cambiamento degli occhi dal verde al giallo, ostracismo del paese. Ma capacità, appunto, di sentire tutto. Strano rapporto, fin dal battesimo, con il cugino Peter. Ed il loro intreccio pervade tutto il romanzo. Elias viene ostracizzato per gli strani poteri che ha (occhi, suoni, empatia che non riscuote simpatia, voce strana per un bambino). E solo Peter, sebbene da lontano, gli fa compagnia. Elias a cinque anni, sentendo il battito di un cuore nascente, si innamora perdutamente di Elsabeth. E cercherà per tutta la vita di conquistarla, di dichiararle il suo amore. Ma i montanari son di poche parole, e la musica non riesce a far breccia nei cuori. Peter invece ama quasi omosessualmente (ma solo nella sua fantasia) il cugino. E soprattutto, ha un senso di odio per il paese, per il padre che gli spezza il braccio. Tanto che sarà lui a dar origine al Primo Incendio del paese. Dove Elias salverà la piccola Elsabeth. Dove il padre di Elias ucciderà l’innocente carbonaio (ma solo Elias lo vedrà e non lo perdonerà mai). Dove Elias, ancora, sa che è colpa di Peter, ma non lo tradirà. Come in un racconto di campagna, descrivendo la vita austera dei monti, ed ogni tanto perdendosi (con molta felicità di noi lettori) in qualche rigagnolo laterale, la storia va avanti. Elias per caso diventa organista. Elias si accompagna ad Elsabeth. Elias continua a suonare senza che i rozzi paesani capiscano. Peter lo coinvolge in suoi strani giochi tra l’erotico e l’ironico. Crescono, invecchiano. Elias a 20 anni ne dimostra 40. Ma ha un suo momento di gloria suonando l’organo nella città principale. Questo non gli darà la serenità. Anzi, capirà fino in fondo l’inutilità della sua vita. Avrà una lotta tremenda tra il sé e la religione. Perderà completamente il lume della ragione, ipotizzando che l’amore totale deve essere sempre presente, giorno e notte. E deciderà di andare verso sorella morte uccidendosi attraverso la tortura del non dormire. La vita andrà avanti, Peter diventerà più buono. Elsabeth si sposerà ed avrà tanti figli. Ma non è questo il nucleo della storia. Schneider ci vuole portare verso la comprensione che ci sono (ci possono essere) migliaia di geni che vivono ovunque. Milioni di cose e di persone che meriterebbero attenzione. Ma nulla è bello, nulla è importante, se non lo si svela, se non se ne toglie il manto oscuro, e lo si condivide, tutti. Questo a me rimane, più che la musica ed altro. La necessità, la voglia, il bisogno di aver un rapporto con l’altro. Solo così anche il nostro piccolo apporto alla vita di tutti avrà un senso.
“È meglio conoscere la verità che nutrirsi di illusioni!” (114)
“Quanti uomini eccelsi il mondo avrà perduto solo perché non fu loro concessa una vita più serena, un più giusto equilibrio di pena e felicità.” (167)
Come sapete, continua a ballare la possibilità di viaggiare. Tramontò la Tunisia, ora tramontano anche i parchi americani. Si spera nell’Africa australe, ma non c’è molta gente che mi voglia seguire in queste imprese sotto l’equatore. Peccato. Intanto si rivolgano i pensieri verso chi sta meno bene di noi. Con tutti gli abbracci del caso

domenica 22 giugno 2014

Misticanza all'inglese - 22 giugno 2014

Se la volta scorsa si parlava di vini, ecco invece che oggi parliamo di verdure. Ed in particolare di un mix di insalate, possibilmente accompagnate dall’unica cosa che, nel bere, ci si abbina: l’acqua. Perché gli inglesi, o gli anglofoni, sono sempre un tantino fuori le righe nel bere. Così come ci narra l’australiano in un bel girotondo di ravanelli e sedani che parte da uno schiaffo. O come si torna a leggere dell’inglese Coe, in uno dei meno riusciti (per me) libri. L’impareggiabile Wescott ci porta un’insalata greca con tanta feta. E per finire, un libro di quelli che si doveva leggere in gioventù, ma che fu stranamente saltato. Ora, pur un poco datato, è comunque un punto interessante del vasto panorama letterario.
Christos Tsiolkas “Lo schiaffo” Beat s.p. (regalo collettivo Almaviva)
[A: 07/05/2013– I: 26/01/2014 – T: 30/01/2014] - &&&
[tit. or.: The Slap; ling. or.: inglese; pagine: 535; anno 2008]
L’avrei collocato vicino a Markaris, quando ne lessi il titolo e vedendolo uscire per i tipi della Beat, una casa editrice associata di tascabili, che, in genere, pubblica molti romanzi di genere. Poi lo prendo in mano (dopo un po’ di mesi è vero) e scopro che l’autore è australiano, seppur d’origine greca. E che il plot maggiore del poderoso volume, è proprio ambientato nella comunità greca emigrata in Australia, ed in quel melting pot che ne risulta. Forse risulta strano per chi ne legge. Me se siete stati a Melbourne (e spero che ci potrà ci andrà) potrete capire meglio sia la mescolanza delle comunità (qui si parla di greci, indiani e arabi, ma io ricordo anche gli italiani, a passeggio lungo lo Yarra River) sia i difficili rapporti tra emigrati e locali (quando poi ci si rende conto che per locali, si intendono solo emigrati di terza generazione, che di aborigeni pochi ne rimangono). L’autore (non a caso sceneggiatore, che si sente una mano teatrale nel muovere l’articolata vicenda) con un’inusuale tecnica, riesce a farci fare un giro, lungo e articolato, in queste comunità. Scoprendone vizi (tanti) e virtù (mica tante), problemi di rapporti, odi, ma anche rispetto (in alcuni casi) ed altre qualità di un mondo giovane (che così si sentono i nativi). Riprendendo l’idea di base di Rashomon, ma facendola evolvere e mischiandola con Schnitzler, Tsiolkas non ci presenta la stessa scena vista dagli occhi dei vari protagonisti. Ma ci racconta una storia, che si spande per diversi mesi, utilizzando 8 personaggi in soggettiva. Che narrano una parte delle vicende, ma che, ovviamente, tornano anche su avvenimenti precedenti, dandocene la loro interpretazione. I personaggi principali di questa sarabanda sono appunto Hector (il greco) con la moglie Aisha (indiana), le due amiche di Aisha, Anouk (single) e Rosie (sposata con Gary, alcolista perso), e poi Harry (il cugino di Hector), Manolis (il padre di Hector) ed infine Connie (la studentessa che lavora con Aisha nello studio di veterinaria) e Richie (il più grande amico di Connie, e gay). Nella storia quindi si intrecciano relazioni e dipendenze. I greci sono dei gran puttanieri, ma Hector dice fin da subito che sesso è una cosa e amore è un’altra; è “onesto” nei suoi sbandamenti. Come invece non è onesto Harry che mantiene un’amante visto lo scarso affetto per la moglie australiana. Le tre amiche, che si sono trasferite da Perth nel nord dell’Australia, sino a Melbourne, sono molto legate, ma anche molto problematiche, ed a volte, molto in conflitto. Anouk è single, ha una storia con un attore più giovane di lei, e si tira un po’ fuori, quasi a far da analista esterno. Rosie ha avuto infanzie problematiche, ha sposato un inconcludente alcolista, e l’unica sua “gioia” è il figlio Hugo che all’inizio del romanzo ha poco più di 3 anni. Rosie riversa su di lui tutte le sue nevrosi, e cerca di educarlo secondo teorie libertarie, come solo in Australia si può pensare di portare avanti. Tant’è che lo allatta ancora. E gli fa fare quello che vuole. Hugo è quindi un capriccioso rompipalle, che alla festa di Hector e dei suoi figli, fa delle scenate assurde, prendendo a calci Harry. Il quale (certo sbagliando, ma lo avrei fatto anch’io) gli molla un sonoro ceffone. Questo è lo schiaffo del titolo, quello che dà il là a tutte le peggiori concatenazioni di vicende. Rosie decide di denunciare Harry per maltrattamenti, Harry si vuole scusare, ma niente, si va in causa. Dove Harry, forte dei suoi soldi, comunque ne esce indenne. Provocando una frattura tra Rosie e Aisha, la quale è dilaniata tra il dar ragione all’amica (non si prendono a schiaffi i bimbi) e la lealtà verso la famiglia. Dove Tsiolkas ci fa piombare, nei riti e nei ricordi della patria lontana, nell’interludio in cui diventa protagonista Manolis, il patriarca. Nel frattempo Aisha, in un seminario a Bangkok, ha una fugace storia d’amore con un cino-canadese (tutti sangue misti…). In una successiva vacanza a Bali con Hector questi le confessa di averla tradita con una diciannovenne. Dilaniati e dilanianti, alla fine l’amore e l’attrazione tra i due è più forte del resto. Torneranno uniti in patria. Dove però non sanno che la diciannovenne di cui sopra è Connie, che però capisce l’inutile storia con il greco e si mette, con sua somma felicità, con Ali l’arabo. Non prima di aver confessato le sue scappatelle all’amico del cuore. E finiamo con Richie, il suo rapporto nullo con il padre che lo ha abbandonato da piccolo, il suo amore per la madre lesbica, il suo outing (ma solo con Connie) di essere gay, il suo sbandamento quando vede Hector nudo sotto la doccia, ed il tentativo di far crollare tutto. Ma quel mondo di relazioni, di razzismi, di legami, è più forte del timido tentativo. Gli unici a patirne saranno Rosie e la sua famiglia, che non potranno alla fine che andarsene da Melbourne. Mentre tutti gli altri continueranno a vivere i loro amori e le loro ipocrisie. Benché lungo si legge molto bene. Non avvince nella storia in sé, ma illumina in alcuni di quei tratti che ho delineato prima. La madre di Hector non chiama mai per nome la nuora, ma la chiama “l’indiana”. Per uno schiaffo si monta addirittura un processo. E tanti altri piccoli tasselli miranti alla composizione di un bel quadro. Non un capolavoro, ma un’interessante vista della vita nel nuovo mondo (ed anche in molti vecchi, che i rapporti interpersonali d’amore e d’amicizia, ovunque hanno modo di esprimersi).
“Solo gli imbecilli non hanno rimpianti.” (360)
Jonathan Coe “I terribili segreti di Maxwell Sim” Feltrinelli euro 9,50 (in realtà, scontato a 7,12 euro)
[A: 03/08/2013– I: 03/02/2014 – T: 05/02/2014] - && e ½
[tit. or.: The Terrible Privacy of Maxwell Sim; ling. or.: inglese; pagine: 363; anno 2010]
Sempre ambivalente il nostro amico Coe. Ne leggo dal primo folgorante “La famiglia Winshaw”, ed ogni volta ne constato l’ondivagare. A volte perché non riesce a trovare un centro. Qui perché c’è tutta la parte centrale del romanzo che è pesante, inutile, ed ho veramente faticato a digerirla. Non per le vicende (terribili, appunto) del nostro Max, ma per quel lungo rapporto tra Max ed il suo navigatore satellitare dalla voce di donna. Una lunga, inutile, palla. Certo, Coe voleva portarci all’esasperazione, facendoci sentire con mano come anche Max si stesse sentendo (poi vedremo perché), ma l’ho trovata inutilmente protratta nel tempo. Altro punto, che poteva essere gestito meglio, è l’andare su e giù (ma solo in maniera accentuato nel finale) tra l’autore onnisciente e il racconto in prima persona. Sembra quasi che Coe non sapesse come chiudere la storia, e tira fuori il cilindro di se stesso (o un suo alter ego), che scrivendo questa lunga metafora ha intrecciato realtà e finzione. Bah, debolino. Peccato, che il romanzo in se sembrava essere più promettente, anche se, credo, una lettura da parte di Coe del bellissimo “Il senso di una fine” di Julian Barnes ne avrebbe asciugato i toni. Infatti, seguiamo un brano della vita di Max Sim, incartandoci con lui in una serie di incontri, che svelano (a lui ed a noi) alcune storie della sua vita. E Max si accorge che spesso quello che pensava non è quello che era (vedi Barnes, appunto). Purtroppo, mentre cerca di chiudere il cerchio, Coe interviene e chiude il libro. Questo non glielo perdono molto. Ma torniamo a Max. ed ai suoi incontri. Vede una donna con figlia in un ristorante di Sidney che gli danno un senso di serenità mai provato prima (anche perché era andato in Australia per trovare il padre senza riuscire a comunicare con lui in seguito all’abbandono da parte della moglie con figlia). In aereo, muore il suo vicino di posto, posto che viene preso dalla giovane Poppy, che gli dà modo di conoscere la strana professione di “facilitatore di adulteri” (e questa conoscenza gli potrebbe servire con Allison, ma la lascia cadere) e di presentargli il simpatico zio Clive. Uno zio che lo introduce nella vita e nella morte di un grande illusore, il finto navigatore solitario Donald Crowhurst. Questo meriterebbe un inciso: Donald partecipò alla grande Golden Race intorno al globo, nel 1968, ma non avendo barca adatta né capacità, girellò per l’Atlantico, fino a riprendere le barche dopo il capo Good Hope. Sperava di passare inosservato, ma a quel punto era fintamente primo. Per questo, va fuori di testa, si toglie la vita e lascia la barca alla deriva. Quello che potrebbe succedere a Max, quando va alla deriva per le campagne scozzesi cercando di vendere spazzolini da denti (idea ridicola). E Max era andato al Nord perché, lasciato dalla moglie Caroline, era rimasto depresso per sei mesi, si era licenziato, era stato incastrato del suo vecchio amico Trevor (ma non si domanda come mai il vecchio amico lo cerchi solo quando ha bisogno di soldi?) in questo giro di spazzolini, che lo aveva portato alla vecchia casa del padre, a visitare la nuova casa della ex-moglie e della figlia, ad incontrare la sorella del suo primo grande amico. Ma questo primo grande amico (come scopre da un racconto scritto da Caroline e che furtivamente legge) lo abbandona cinque anni prima quando Max (lui dice con cattiveria, Chris dice con astio) spinge il figlio di questi in una buca di ortiche. E leggendo anche lì non autorizzato uno scritto di Allison (la sorella di Chris) scopre che questa era pronta a mettersi con lui, se lui non fosse stato così assurdamente preso da altro (campeggio, Chris, il fuoco che non si accende) e non avesse scoperto che il padre di Max le aveva fatto una foto “un po’ osé in succinto bikini accanto al fratello, grondanti d’acqua dopo il bagno”. Ma le sorprese e gli incontri non sono finiti, che nella vecchia casa del padre, scopre (altra violazione di privacy) il diario del padre. E scopre che questi era sempre stato attratto dall’amico Roger per cui aveva una passione quasi omosessuale. Roger con cui avevano fatto grandi cose e grandi progetti (leggete quali, non posso scrivere tutto, no?), e che si erano lasciati per essersi dati un ultimo appuntamento in un pub, ed avendo aspettato tutta la notte ognuno nel giusto pub. Peccato che a Londra fossero due i pub dal nome “Rising Sun”. Dalla delusione, il padre va a scopare con l’amica di una notte, Barbara. Peccato che quella scopata porti proprio alla nascita di Max. I due si sposano, e Roger vola via per il mondo. Capisce forse Max, che il padre era più attratto da Chris che da Allison? E si domanda perché di tutti questi incontri, lui ricordi quello con Clive piuttosto che la fallimentare cena con Caroline? Coe è poi maestro nel casualmente riannodare situazioni irriannodabili. Max vede al lavoro Poppy all’aeroporto di Bangkok, e risentirà quella voce 250 pagine dopo, quando il marito di Allison telefona per mentire su un ritardo (e lui lascerà cadere, anche se Allison vorrebbe portarlo a letto). E poi c’è la madre di Max, che muore di cancro, come di cancro muore la vera madre della figlia cinese adottata dalla donna del ristorante delle prime pagine. Cancro da lei preso mentre lavorava ad una fabbrica … si spazzolini da denti. Non ho parole. Se Coe avesse avuto coraggio di rimanere su Max poteva essere un bel romanzo di crescita e di autocoscienza di una persona sempre immersa in situazioni più grandi di lui, con persone più intelligenti di lui, più furbe di lui. E con lui che poteva capire cosa sia il suo se stesso. Ma Coe fugge di lato, e, ripeto, non glielo perdono. Come non perdono il revisore che a pagina 283 per una scommessa sui cavalli lascia il termine errato maringala invece del corretto  martingala. Dobbiamo migliorare tutti: io, Coe, i traduttori e gli editori. Ci si riuscirà?
“Sembra che io abbia perso un bel po’ di amici negli ultimi anni. Non è che abbia troncato con loro in modo drammatico, abbiamo solo deciso di non tenerci in contatto…. A mano a mano che invecchi… alcune amicizie ti sembrano sempre più ingiustificate. E un bel giorno ti chiedi: ‘A che servono?’. E allora interrompi i contatti.” (13)
“Non arrabbiarti troppo con chi pensa di conoscerti meglio di quanto tu conosci te stesso. Ha buone intenzioni.” (353)
Glenway Wescott “Appartamento ad Atene” Adelphi euro s.p. (regalo collettivo Almaviva)
[A: 07/05/2013 – I: 05/03/2014 – T: 08/03/2014] - &&&
[tit. or.: Apartement in Athens; ling. or.: inglese; pagine: 246; anno 1945]
Un’interessante lettura dovuta ad un trailer sbagliato ed un ricordo corretto. Il ricordo riguarda l’autore che rammentavo autore di un veloce libricino che mi era molto piaciuto “Il falco pellegrino”, le memorie di un anziano ripensante i suoi tormenti d’amore. E quando gradisco un autore, rimane il suo ricordo in fondo alla memoria. Il trailer sbagliato invece riguardava un film, quello tratto da questo libro, che ricordavo aver visto in qualche cinematografica occasione. Sbagliato che ne avevo tratto elementi ironici, che poi non sono stati verificati dal libro. Infatti, vedendo il libro, ed avendo queste memorie, lo comprai a scatola chiusa. Ma il libro è ben diverso dalle mie aspettative. Non è ironico, ma è allegramente triste. Per tutta la lettura aspettavo lo scatto dei momenti filmici, che non sono mai arrivati, avendo io confuso film diversi (ahi, quando la memoria comincia a far dei buchi…). Ciò nonostante, lo scrittore, pur misconosciuto in Italia, sa ben scrivere. Ed il libro è stato tutto sommato interessante. Specchio di momenti antichi e di dolori che mai sopiranno. Ambientato in Atene (come dice giustamente il titolo), narra le vicende di una famiglia greca costretta, obtorto collo, ad ospitare un gerarca nazista durante l’occupazione tedesca nella seconda guerra mondiale. Per sopravvivere al crollo economico e lavorativo, la famiglia Helianos è costretta ad ospitare il capitano Kalter, cosa che gli consente di avere viveri in più, nonostante la penuria guerresca. C’è Nikolas il padre che si vorrebbe gioviale, ma che sempre si deve contenere. C’è la madre, in perenne crisi di nervi, dovuta anche alla morte del figlio maggiore. E ci sono i due figli: il maschio spensierato e la femmina, leggermente ritardata. I quattro devono far fronte ai modi bruschi e molto militareschi del capitano. Che si allarga nella casa, relegandoli alla cucina e poco altro. Che li vessa in mille maniere, negando loro gli avanzi (che preferisce dare al cane di un suo commilitone), trattando male il figlio per raddrizzarne il carattere, ignorando la piccola Leda (e questa ne soffre). Il racconto procede con il procedere della guerra, con i piccoli micro – episodi giornalieri, che sprofondano sempre più gli Helianos nella cupezza, loro che sarebbero (almeno il padre) di indole comunicativa. Non solo il tempo avanza, ma anche le storie. Ed il capitano, verso la fine della guerra, comincia ad avere qualche tracollo. Sembra concedersi all’umanità. Comincia ad interagire con Nikolas, soprattutto a valle di due avvenimenti: la promozione del capitano (avvenimento subito palese) ed un dolore dello stesso che stenta a venire fuori (la morte prima della moglie per malattia, poi dei suoi due figli in guerra). All’apparenza tutto pare andare verso un’umanizzazione anche dell’occupante. Tanto che Nikolas si lascia sfuggire commenti non ortodossi sulla guerra, e sugli alleati dei tedeschi (in particolare Mussolini). Qui c’è il colpo di genio dello scrittore, la capacità di mostrare tutta la cattiveria dei cattivi (scusate la ridondanza). Il tenente Kalter denuncia Nikolas come sovversivo. E mentre questi è in carcere, interrogato dalla Gestapo, il tenente, sempre più cupo, decide di porre fine alla sua esistenza, sparandosi un colpo di pistola alla tempia. Ma non è questa la perfidia di Kalter. È la lettera in cui, rivolto al suo sodale Sertz (quello del cane) denuncia la famiglia Helianos come esecutrice della morte. Fortuna che Sertz è meno “tedesco” di quanto sembri, e che, nonostante la frequentazione, avesse capito quanto odioso potesse essere Kalter. Fa quindi in modo che gli Helianos siano scagionati dalla morte di Kalter. Ma non può far nulla per Nikolas, che da giorni, per la testimonianza di Kalter stesso, è stato già giustiziato. Nel tracollo di tutto quanto, la madre esce dalle sue crisi di nervi, e pur fragile comprende la necessità, comunque, di contrastare gli invasori. E prenderà contatto con la resistenza, affinché il piccolo Alex possa fare la sua parte. La bellezza dello scritto è in questa sequenzialità che porta tutto all’estremo. Tutto che ci aspettiamo fare un salto verso il buono, ma che (tremendo ma vero) non sarà così. E Wescott lo rende con un procedere lento ma costante verso il baratro. Aspettavo l’ironia (come dicevo sopra). Ho trovato solo una grande tragedia. Da non dimenticare. Mai.
“In momenti come quello capiva che non avrebbe potuto vivere senza di lei. Era la sua cara mente femminile … a fargli conservare la ragione.” (76)
“La bellezza non è soltanto sentimento, è matematica e psicologia.” (140)
“Io sono stato infantile per tutta la vita, e a volte mi sembra che tutti gli uomini e le donne di buon cuore che ci siano al mondo siano bambini, e che solo i malvagi abbiano una mente adulta; e allora mi sento disperato.” (216)
Tom Robbins “Natura morta con Picchio” Baldini Castaldi Dellai euro 8,90
[A: 04/01/2014 – I: 25/03/2014 – T: 30/03/2014] - &&&&
[tit. or.: Still Life with Woodpecker; ling. or.: inglese; pagine: 262; anno 1980]
Ecco un altro autore di cui avevo sentito parlare abbastanza qua e là durante anni di convivenza con la letteratura, ma che, per una ragione o l’altra, non mi ero mai deciso ad affrontare. A parte i panegirici che si trovano un po’ ovunque su di lui (autore di culto, autore esimio, fuoco di fila di trovate intelligenti ed esilaranti) e la sua sbandierata amicizia e vicinanza con Timothy Leary, elementi appunto che mi avevano frenato, dopo la lettura devo dire che è moderatamente interessante, sicuramente capace nell’uso della scrittura, con quelle capacità descrittive che, probabilmente, gli derivano anche dagli inizi come critico, sia di arte che di musica. Altrettanto sicuramente, per chi lo conosce, è però anche un emulo di Kurt Vonnegut jr che, personalmente, trovo però più incisivo. C’è la stessa capacità di entrare ed uscire dalla pagina, di parlare a ruota libera un po’ di tutto, di mettere molta carne a fuoco. Troppa forse. E forse con qualche inconcludenza in più. Kurt arrivava sempre al punto, Tom spara a raffica, colpendo un po’ qua ed un po’ là, ma lasciando alla fine il dubbio su quale fossero i suoi “veri” bersagli. O se ci fossero veri bersagli, e non sia tutto frutto di una lunga serata con Tim. A cominciare dal titolo, dove Picchio è maiuscolo non per banalità tipografiche, ma in quanto soprannome di uno dei due personaggi al centro della storia: Pupo “Bernard” Wrangler detto Picchio. L’altro personaggio è, fortunatamente, una donna, la principessa Leigh-Cheri. E c’è anche una storia, all’interno del lungo narrare di Tom verso il lettore di cose altre. La principessa vive in esilio a Seatlle insieme ai genitori, essendo eredi e spodestati di un’oscura monarchia europea (i Furstenberg-Barcalona). Ventenne vive di sogni e di ambizioni ecologiche, per cui non appena ne ha notizia parte per un convegno ambientalista mondiale che si deve tenere alle Hawaii. Lì incappa nel Picchio, un fuorilegge dinamitardo con il vizio di far saltare in aria quello che poco gli aggrada. Come gli ecologi da strapazzo. Tra uno scoppio e l’altro, tra i due scoppia la scintilla della passione, e poi dell’amore. Fuggendo dall’isola (Picchio è ricercato dopo un ennesimo scoppio) tornano a Seattle. Leigh-Cheri cerca di introdurlo nella sua famiglia, ma l’anarchico Picchio difficilmente riesce a seguire delle regole (un fuorilegge è sempre fuori della legge). anche se cerca di farlo per amore della bella. La frustrazione dell’insuccesso lo portano ad abbassare la guardia ed a farsi arrestare. La parte centrale vede l’amore di Leigh-Cheri concretizzarsi nell’auto-isolamento per stare vicino idealmente al suo amato. Ma dopo 20 mesi di passioni solitarie, l’idea della pubblicità ed ostentazione dell’amore turbano Picchio che sembra mollare l’amata. Che per la frustrazione decide di cedere alle lusinghe dello sceicco A’ben. E per regalo di nozze chiede la costruzione di una nuova piramide. Altri 20 mesi passano e si ultima la costruzione. Intanto, i ribelli hanno rovesciato il governo fantoccio della Barcalona, e messo sul trono Giulietta, la governante nonché sorellastra di Leigh-Cheri. La quale chiede in cambio la liberazione di Picchio. Sorvolando alcuni passaggi, i due si ritrovano il giorno prima delle nozze di lei dentro la piramide con tanta dinamite, tanto champagne e tanta torta nuziale. Lo sceicco cornificato (ma chi cornifica chi?) li vuole morti. Loro, anche a duro prezzo, si salveranno. Vivranno felici e contenti? Questo lo scoprirete se leggete il testo. Ma questo testo è solo il contesto del vero testo di Robbins, che, tra una riga e l’altra se la prende: con i falsi ambientalisti, con Ralph Nader e le sue farneticazioni, con la CIA ed i servizi segreti, con gli arabi presupponenti, con la sinistra radical chic (rappresentata dall’avvocato Nina e da un bel duello verbale tra lei e la principessa), con chi crede nel sovrannaturale, con chi vede segni ovunque. L’idea di base, poi, che fa da motivo conduttore al libro, ed alle agnizioni che arrivano a poco a poco, è la piramide sul pacchetto delle sigarette Camel. E sul fatto che i protagonisti sono entrambi rossi di capello. Tra una lotta immaginata che vede scontrarsi extra-terrrestri di pelo rosso e di pelo biondo, con conseguente nascita delle civiltà Maya, Olmeche, Tolteche e via discorrendo. Ed un parallelo tra la piramide sul biglietto di un dollaro e quella sul pacchetto delle Camel. E sulla nascita delle piramidi stesse, sui loro perché, sul loro essere sempre rivolte ai quattro punti cardinali. Insomma, capite anche voi, da ogni spunto Robbins parte ed imbastisce storie. Anche intriganti. Come tutto il panegirico finale, dove la metafora viene tutta basata sulla parola CHOICE. Scelta, che è l’unica azione degna di essere attuata. Insomma, una bella galoppata, un torrente di parole, a volte, purtroppo, un po’ datate. A volte, come detto sopra, senza una mira precisa, un po’ alla colpirne cento per educarne uno. Ma intrigante, e moderatamente divertente. Capisco inoltre la fatica del traduttore, dove appunto ogni tanto si deve mettere qualche parola in originale, che altrimenti si perdono giochi e nessi. Pur tuttavia, un po’di attenzione in più non avrebbe guastato, quando a pagina 165 si lascia l’inglese Plato invece di usare l’universalmente noto Platone. Ripeto, preferisco Vonnegut, ma Robbins ha qualche freccia al suo arco.
“Il mio amore per te non ha secondi fini. Ti amo gratis.” (128)
Bella questa frase di Robbins, che sottoscrivo in pieno. Aspettando le vacanze anglofone (che non si sbloccano, purtroppo), o altre mete che non si profilano all’orizzonte, affrontiamo con piglio deciso una bella e calda settimana. 

domenica 15 giugno 2014

Bellaneide - 15 giugno 2014

Se fossimo in un ambiente “enologico” vi parlerei di una verticale di libri del simpatico medico e scrittore quasi – comasco. Cioè di una serie di suoi libri analoghi (stesso vitigno) ma differenziati nel tempo. I primi tre sono delle monoculture, la prima forse un po’ troppo invecchiata (andava stappata prima). La seconda migliora, ma solo perché rinforzata, come fosse un Primitivo di Manduria liquoroso. La terza, probabilmente, la migliore del lotto. Di pronta beva, con un leggero retrogusto di mandorle e fichi. Il quarto invece sarebbe un tentativo ibrido, come quando si tenta di piantare dello shiraz in altura. Un esperimento poco riuscito. Tuttavia Andrea Vitali è sempre capace di creare atmosfere, e, fuor di metafora, quattro libri quasi – veloci, di letture sparse per quasi otto mesi. E senza dubbio di quelle che non deludono mai (troppo).
Andrea Vitali “La modista” Garzanti s.p. (regalo collettivo Almaviva)
[A: 07/05/2013– I: 09/11/2013 – T: 10/11/2013] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 385; anno 2008]
Qual è lo strano destino dei libri? Un autore scrive per anni libri, non aulici, ma certamente godibili e leggibili. Riceve riconoscimenti, tributi ed altri omaggi, tra cui un doveroso premio per il complesso della sua opera e della sua ambientazione comasca. E poi ricevi un premio per il meno riuscito dei propri libri. Sì, perché questa modista, storia di guardia e ladri come recita il sottotitolo, ha ricevuto nel 2008 il Premio Ernest Hemingway (certo premio minore, assegnato in quel di Lignano Sabbiadoro). Perché questo, pur essendo una discreta scrittura, in linea con quanto Vitali scrive da sempre, non è particolarmente riuscito. Uno dei marchi distintivi e positivi della sua scrittura è, infatti, quello di incentrare la vicenda su di un personaggio e poi creare un carosello di avvenimenti all’intorno. Qui, sembrava che Anna Montani, la modista del titolo, fosse quel centro. Un personaggio intrigante dei primi anni ’50. Bella figliola, cameriera, poi operaia nell’opificio, infine (con l’aiuto del losco Gargassa) proprietaria di un negozio di scampoli e merceria, da lei definito “di moda”. Ma il losco finisce in prigione e sparisce. Da chi farsi “proteggere” allora? Prima dall’Eugenio Pochezza. Ma questi ha una madre incombente da cui non si riesce a distaccare. Allora dal maresciallo Carmine Accadi, siciliano trapiantato nelle brume del Nord. Tipico esempio di arroganza e supponenza nascosta dietro ai simboli del potere. Che non ne imbrocca una, facendosi tirare più volte le orecchie dai superiori a Como. Infine, con lo spazzino ex-guardia notturna Firmato Bicicli. Tutto vano. La modista Anna rimane sola, ed ha l’unico colpo di coda nel vendicarsi del Pochezza quando questi convola a giuste nozze con la bella Ersilia (che però è solo bella, e si rivelerà una arpia in casa, in questo aiutata dalla madre Olga). Letto in quest’ottica sembrerebbe aver senso. Ma questa è la mia lettura dei fatti che vengono immersi nel brodo della quotidianità di Bellano. Dove forse riesce ad emergere l’appuntato Assunto Marinara, carabiniere atipico perché del luogo, e conoscitore e solutore di fatti e misfatti. Però essendo del luogo ha anche l’empatia con i poveri ladri, e spesso li lascia andare. Come lascia andare il Picchio, quando questi ruba dal tabaccaio. Per poi fermarlo quando sembra (ma in realtà no) rubare in farmacia dalle sorelle Gerbera e Austera Petracchi. Che invece lo avevano usato per loro loschi bisogni sessuali. Tanto loschi che una volta scoperti dovranno lasciare il paese. O forse il Bicicli stesso, inutilmente guardia che non arresta mai nessuno. Tanto che il suo protettore, il sindaco Amedeo Balbiani si vedrà costretto a declassarlo a spazzino pur di toglierselo di torno. O il sindaco stesso, con la sua passione per la caccia. Meglio il torvo maresciallo siculo, ossessionato dalle donne e dallo scarico puzzolente dei suoi gabinetti. Stupenda l’immagine sua che si alza dal letto con la retina in testa, veri salti indietro di sessanta anni. E ce ne sono decine di altri, di piccoli bozzetti cittadini, usciti dalla penna di questo atipico medico condotto, che sui suoi foglietti di lavoro in attesa dei pazienti dell’ambulatorio, continua a tratteggiare persone e cose di questa cittadina in riva al lago di Como. Piacevole è quell’ultima cartina in ex ergo, dove finalmente si possono seguire i luoghi delle vicende, e capirne i modi ed i percorsi. Dalla caserma dei Carabinieri alla casa della modista, dalla Farmacia al caffè dell’Imbarcadero, dal Municipio all’Osteria del Ponte. E le persone che vi passano la vita, con quei talmente inventati da essere veri. Che solo chi si chiama realmente così può passeggiare per Bellano. Firmato, Assunto, Ersilia, Eutrice. Quanti sono i personaggi di Vitali usciti da questa e dagli almeno quindici libri dedicati alla saga di Bellano. Tutti realmente falsi. Potendo ribadire un concetto già espresso, quando Vitali risale al ventennio fascista, la verve e le situazioni imbarazzanti che si svolgono intorno al lago di Como sono intriganti ed umoristicamente gradite. Quando comincia ad avvicinarsi al presente, si sente un calo nella scrittura. Come in questa modista, romanzo senza centro, gradevole, scorrevole, ma forse dimentichevole.
Andrea Vitali “Il meccanico Landru” Garzanti euro 11,60 (in realtà, scontato a 9,86 euro)
[A: 29/06/2012– I: 11/11/2013 – T: 12/11/2013] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 370; anno 2010]
Anche se non a livello del miglior Vitali, questo secondo romanzo, letto a ruota del precedente, mi è sembrato decisamente migliore. Ed ho anche capito perché: in realtà è una “second edition”, come si dice in gergo. Cioè Vitali ha preso un racconto lungo di quasi venti anni prima, e lo ha trasformato in romanzo. Aggiornando, tagliando, cucendo e mettendo tutto in una prosa in linea con le altre sue uscite. Il secondo elemento che rende più gradevole la scrittura, è (come spesso da me sottolineato) l’ambientazione negli anni trenta, che a Vitali riesce meglio nelle descrizioni e negli spunti umoristici. In realtà siamo proprio nel 1930, ed in quel di Bellano si intrecciano nuove storie, catalizzate dall’arrivo di un simpatico mascalzone “alla Vitali”. Come dice appunto il titolo, il meccanico Angelici Landru, così battezzato dal padre in quanto la madre (una delle sue tante donne) gli stava sugli zebedei. Abbiamo quindi la storia di Maddalena, trasferitasi dalla Sardegna in quanto promessa di un bellanese, che prima di sposarla muore. Si trova così senza arte né parte alla balia dei fratelli cattivi. Ma viene “salvata” dal parroco, che riesce a farne innamorare Otello Personnini, messo comunale nonché difensore centrale della squadra di calcio locale. Il quale stava per dichiararsi a Mirandola, una delle belle del paese (l’altra, l’Augusta è non solo bella ma anche un po’ p…ella). Ma Mirandola è farfallona, anche senza affondare, e sembra girare intorno a Landru. Così Otello la molla, e si appiccica a Maddalena. Con problemi di sposalizi vari, che per problemi di eredità prenderà tutto il patrimonio chi si sposerà prima tra lui e la sorella Emilia. Lei, integerrima segretaria dell’opificio bellanese, che tuttavia cade con tutte e due le gambe nella rete di Landru. Che la irretisce con le promesse di una fuga d’amore in Argentina. Promesse che portano Emilia non solo a svuotare il suo conto postale, ma anche a tentare una truffa con i buoni pasto dell’opificio. Ovviamente la truffa sarà messa a tacere, ma Emilia verrà licenziata. E non avrà neanche la consolazione di Musante, il capostazione di lei invaghitosi, che, quando lei si mette sulle piste di Landru, decide di chiedere il trasferimento nella natia Agrigento. Il tutto si intreccia viepiù anche con la storia dell’opificio, dove Landru e cinque meccanici devono installare nuove macchine. Che renderanno più veloce il lavoro, ma che costringeranno il direttore a qualche licenziamento. Ma prima che arrivino le macchine, i meccanici scatenano una rissa in paese. A fronte di volte e giravolte, i meccanici verranno condannati e poi licenziati. Meno il Landru, che rimane in paese a fare il galletto con le donne, a rubacchiare a destra e a manca. Ed a cercare di fuggire con il malloppo. Peccato … Ma questa parte non ve la svelo (anche se nel contesto della scrittura, risulta essere troppo velocemente descritta, quasi fosse un passaggio poco importante, mentre penso andava meglio trattata). Rimane, e percorre tutto il romanzo, l’atteggiamento del segretario del Partito e della sua legione di Fasci di combattimento. Aurelio Pasta cerca di portare avanti il vessillo fascista, ma Vitali riesce a mettergli i bastoni tra le ruote, mandando all’aria sempre i suoi piani. Che durante la rissa, invece di sedarla stava con una donnina. Poi, invece di passare sotto silenzio, denuncia i meccanici, facendo uno sgarbo ai padroni dell’opificio. Quindi interviene sbugiardando l’opificio stesso nel momento dell’installazione delle macchine. Indi vuol dare “una purga” al Landru (ai suoi occhi colpevoli di tutte le sue sfortune), ma questi scappa aiutato dall’Emilia. E poi si scopre essere un buon centravanti, così che Aurelio lo ingaggia per la partita con gli odiati vicini di Dervio. Ma sempre l’Emilia avverte Landru che dopo la partita sarà arrestato per lo scandalo dei buoni pasto. Lui ci mette una pezza, lasciando Aurelio in casini tali che verrà licenziato da segretario. E non troverà altro che mettersi a lavorare all’opificio, lasciando il bastone della vittoria allo sgusciante Pennati. Che ovviamente riuscirà a passare indenne fascismo e guerra, tanto che nel finale, salirà in comune con un fazzoletto rosso al collo. Troviamo quindi al fine quelli che erano i segni distintivi del miglior Vitali (coralità, centralità dei personaggi, umorismo), anche se (come ribadito) non ai livelli delle sue prove migliori (La figlia del podestà, ad esempio). Comunque da leggere in scioltezza e rilassamento.
Andrea Vitali “Galeotto fu il collier” Garzanti s.p. (regalo collettivo Almaviva 2013)
[A: 07/05/2013– I: 02/06/2014 – T: 05/06/2014] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 394; anno 2012]
Ed eccoci finalmente tornati al buon Vitali e ad uno degli ultimi libri ricevuti come gentile omaggio lo scorso anno, per la grande festa. E siamo anche, fortunatamente, nel lato del miglior Vitali, quello delle storie ambientate negli anni Trenta, in una provincia italiana dal fascismo tipico, quello un po’ dentro ed un po’ fuori. Quella dai tanti personaggi umani, come spesso li sa cogliere il nostro medico condotto. Quella dai tanti nomi strani che, solo per il fatto di esserci, ci riportano indietro nel tempo, molto indietro. Come dimenticare, infatti, Lidio, Anita, Olghina, Eufemia, tanto per citare i primi che vengono in mente. E come lasciare da parte alcuni dei personaggi ricorrenti delle storie di Bellano, come il maresciallo Maccadò o il brigadiere Efisio Mannu? Anche la storia è ben sorretta dalle nostre macchiette lacustri, ognuna con un suo ruolo ed un suo spazio bello e preciso. Da un lato seguiamo la travolgente storia del (forse) geometra Lidio, oppresso da una madre insopportabile, e quindi pronto a cercare fughe dal territorio casalingo, senza metterci molta testa. L’occasione iniziale la dà la visita estiva di una comitiva svizzera, dove furoreggia la bella Helga, che coinvolge Lidio in settimane di passione rovente. Tornata di là delle Alpi, il nostro pensa a come ricongiungersi con la bella. E quale colpo di fortuna, quando, messo mano ad un lavoro di ristrutturazione di una vecchia casa (lavoro accettato dalla madre sottocosto, per l’industria padronale che stava andando in crisi), trova un piccolo tesoro di monete d’oro del tre-quattrocento, probabilmente veneziane. L’idea balsa subito al nostro, dopo averne fatto constatare l’autenticità: esportarle in Svizzera di nascosto, venderle e vivere da nababbo con la bella Helga. Intanto deve por mano alla prima parte, e trovare qualche “buon contrabbandiere” (uno spallone, come si dice in gergo) disposto al trasferimento. Mentre va avanti questa parte, troviamo il muratore Campesi, che trova cinque monete sfuggite a Lidio. Una la vende e comincia a sollevarsi un po’ dalla quotidiana povertà. Ma la seconda la ingoia il figlioletto. E solo l’intervento del professor Cerruti riesce a salvarlo. Ed il professore sequestra la moneta, che, vista dalla bella moglie Olghina, si appresta a diventare il centro di un prezioso collier. Che l’Olghina è la bella del paese, insoddisfatta del professore (probabilmente impotente), passata per mesi nel letto del bancario Davanzati, che scoperto è stato presto mandato via da Bellano dal professore stesso. Ed all’Olghina il professore non nega nulla. Come nulla si riesce a negare ad Anita, la moglie del muratore, concupita dal segretario locale del fascio. Ma senza possibilità di riuscita. In questo intreccio di comparsa e scomparsa di monete d’oro, si innescano da un lato i carabinieri, con Maccadò e Mannu costretti, obtorto collo, ad indagare sulla provenienza delle stesse. Dall’altro un losco figuro, Sisinnio, (forse dell’OVRA) arrivato per sventare il contrabbando verso la Svizzera. Intanto, per sviare i sospetti della madre, Lidio accetta di fare il promesso della brutta Eufemia, nipote del professore. Tanto Lidio sa che, una volta i gioielli all’estero, lascerà tutto per una vita di Helga e champagne. Con maestria, lungo le tortuose pagine ed i contrafforti del lago di Como, Vitali ci conduce per mano alla complicazione ed allo scioglimento delle vicende. Lo spallone si avvia a portare le monete, ma, per non essere disturbato da Sisinnio, lo riempie di purganti, lasciandolo sull’orlo di una crisi dissenterica quasi mortale (chi si ricorda Triscina?). Ma una volta a Zurigo, Helga fa maramao a Lidio e si tiene le monete. Sisinnio, uscito vivo dal “cesso dolente” decide di farsi frate per penitenza, e consegna al brigadiere suo co-insulare la lista dei cattivi. Lo spallone fugge in Svizzera. Anita ed il marito muratore recuperano le tre monete rimaste, che consentiranno di mandare a scuola il figlio piccolo. Il professore costringe quindi Lidio a sposare, come promesso, la brutta Eufemia. Intanto, le rivelazioni di Sisinnio consentono di arrestare Helga e di recuperare le monete, che verranno devolute ad un convento e alla ricostruzione di edifici di pubblica utilità del comune. E Lidio, perdute le speranze di tornare da Helga, non perderà molto tempo per accorgersi che può trovare una piacevole consolazione con la disponibile Olghina. Insomma, la solita sarabanda “alla Schnitzler” delle opere migliori di Vitali, con qualche puntata critica verso malcostumi, dell’epoca certo, ma in fondo universali. E qualche bella caratterizzazione dei personaggi, anche quelli di sfondo e di contorno, che spesso le pagine migliori escono proprio dall’avvicendarsi di questi fogli di provincia. Come fossero piccole cronache uscite da una vecchia “Domenica del Corriere”. E si risale verso la parte più interessante della produzione di Vitali, come le opere sopra citate. Una lettura che starebbe bene sorseggiando the dopo un bel bagno turco.
Andrea Vitali “Dopo lunga e penosa malattia” Garzanti euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,42 euro)
[A: 12/03/2014 – I: 07/06/2014 – T: 10/06/2014] - &
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 176; anno 2008]
Credo, probabilmente, il più brutto tra i romanzi da me letti del buon dottore comasco. Come ho detto più volte, Vitali dà il meglio della sua scrittura quando ambienta le sue storie del lago di Como intorno agli anni Trenta. In quelle occasioni, riesce a trovare storie minime ma interessanti, con personaggi autentici, nomi fantasiosi ma che suonano e ci portano in riva al lago. A volte ha anche delle buone uscite quando si imbarca in storie di lungo respiro, seguendo personaggi per molto tempo e molte storie. Qui siamo, probabilmente, intorno agli anni Settanta, la storia è breve (praticamente tutta in una settimana). E non decolla mai. Sembra promettere, ha dei sussulti, ma poi si ferma. Lasciandoci anche qualche amaro in bocca, che non tutto sembra chiaro alla fine. La storia ruota intorno ad un medico condotto, il dottor Lonati, che deve certificare la morte di un suo vecchio amico, il notaio Galimberti. Già sofferente di cuore, il notaio pare soccombere ad un ennesimo attacco. Peccato che abbia i vestiti odoranti di fritto, mentre moglie e figlia giurano che non si è mosso di casa. Peccato che le pastiglie di trinitrina da prendere per gli attacchi si rivelino, dopo un’analisi nata quasi per caso, degli innocenti zuccherini. E che dire dei manifesti che escono il giorno del funerale, riportando la frase del titolo, quella lunga e penosa malattia, che invece al notaio è stata risparmiata. Il nostro dottore, per l’antica amicizia che aveva con il notaio, si fa delle domande cui non solo lui, ma neanche la moglie o la figlia del notaio pare sappiano rispondere. Lonati trova delle tracce: il farmacista gli conferma che le pasticche sono innocue, la figlia del morto gli fa avere un indirizzo di una trattoria di là dal lago dove il notaio potrebbe aver trascorso la sua ultima cena. In compagnia di chi? Indagando senza convinzione e senza un reale accanimento, Lonati mette in fila una serie di indizi. E come dicono i migliori polizieschi, un indizio è casuale, due sono un sospetto, tre una prova. Galimberti aveva forse un’amante? E forse, nella senilità dei sessantenni aveva deciso di lasciare moglie e figli per vivere una fugace giovinezza? Ma perché la moglie scompare? E perché il farmacista compare anche quando non richiesto? Lonati sembra un piccolo uomo travolto dagli avvenimenti. Ed è talmente insicuro e poco “sul pezzo”, che non si confida con l’adorata moglie, la quale, in tutti questi misteri, pensa che ci sia un amante, sì, ma del nostro dottore. Mettendo insieme la trattoria, dei numeri di telefono trovati in un telefono pubblico, la reticenza del vecchio oste, ed altre piccole casualità, Lonati si fa tutta una sua teoria. Ed arriva alla convinzione che sia proprio la moglie del notaio ad aver architettato tutto. Ci si avvia stancamente verso il settimo giorno della storia, che dovrebbe portare alla catarsi finale. Siamo in macchina verso la trattoria del peccato dove li aspetta la moglie del notaio, con la figlia Laura alla guida ed il dottore che espone tutta la sua teoria. Peccato che un personaggio (di cui non rivelo il nome) sia presente in macchina, peccato che faccia una puntura subdola al dottore, per alzargli la pressione e simulare un’altra morte da infarto. E mentre Lonati rantola, Laura spiega (ma si capisce fino ad un certo punto) la matassa aggrovigliata. L’amante del padre che è ben nota, la madre che sa, la presenza di una terza donna (forse quella che ha fatto affiggere i subdoli e fuorvianti manifesti). Insomma, un complottone per impedire al notaio (e si sa che i notai i soldi li hanno) di rovinare la famiglia per suoi piaceri personali. Mentre Lonati rantola, la moglie si macera, Laura ed il misterioso tipo si avvicinano alla trattoria, dalla nebbia del lago sbucano due luci intermittenti. E su queste luci, cala il sipario. Si salva il dottore? I cattivi pagheranno il fio? Chi è il misterioso terzo personaggio? Chi è la prima amante? E Chi è la seconda? Potrei andare avanti, e per molto con i punti interrogativi che lascia in sospeso questo romanzo. E se concordo con il giudizio di Augias che etichetta Vitali come romanziere capace di tenere in mano la penna, devo dire che, se ci si basa su questo scritto, poca strada avrebbe fatto Vitali. A parte il dottore (ma Vitali è anche lui medico condotto, ed almeno questo lo sa ben ritrarre) il resto è sfocato, banale. Non ci si aspetta che i personaggi si chiamino Carlo, Ludovico, Laura, Elsa, Claudia, Mario! Che nomi banali, rispetto ai mitici Ortelia, Olghina, Efisio, Firmato, Assunto, e tutti quei personaggi che hanno fatto viva la saga di Bellano. Speriamo in meglio dottore. E questo saltatelo pure.
Beh, visto che mi si rimprovera di essere troppo stanco in questo periodo, sottolineo che non sono stanco, oggi, che mi aspetta una settimana intensa, coronata dalla visita a Raul e Viviana (di cui non parlo), impreziosita da altre visite di contorno, aspettando un fine settimana di splendido relax (visto che non si parte per la Tunisia, e si aspetta di capire se si parte per la California). Allora, a tutti, un saluto

domenica 8 giugno 2014

Adventurland - 08 giugno 2014

Solo in pochi si ricorderanno delle vecchie serie Disney a livello “Tv del pomeriggio”. C’era Fantasyland per le storie di fantasia, e c’era Adventurland. Come qui, per le avventure. Certo diverse ed eterogenee. Ci sono quelle egiziane, ormai finite purtroppo, di Elizabeth Peters, di recente scomparsa, con un discreto livello in queste ultime uscite. Ci sono le colonie spagnole di Matilde Asensi, cominciate bene e finite molto al di sotto del godibile. E c’è la macchina avventurosa della ditta Cussler, quasi sempre avvincente, quasi sempre ben fatta, come in questa che tramo oggi. Ed allora benvenuti a tutti nel regno dell’avventura…
Elizabeth Peters “Il fulmine di Sethos” TEA euro 9
[A: 15/04/2012– I: 22/10/2013 – T: 25/10/2013] - &&&
[tit. or.: He Shall Thunder in the Sky; ling. or.: inglese; pagine: 436; anno 2000]
Questo è l’ultimo volume trovabile in Italia della fortunata serie di Amelia Peabody Emerson e delle sue avventure egiziane. Rimasto a lungo in libreria, ne ho affettato la lettura alla notizia, spiacevole, che lo scorso agosto, durante le mie vacanze marocchine, la scrittrice è venuta a mancare all’età di 86 anni. Ci sono ancora volumi inediti in Italia (ed uno l’ho comperato proprio in Tanzania durante un viaggio avventuroso). Qui, intanto, la nostra cara Elizabeth aveva tirato molte somme, facendo confluire e risolvere una lunga serie di misteri che attraversavano gli ultimi romanzi. Ed inserendo la vicenda in un contesto reale, come suo solito. Infatti, siamo ormai arrivati al 1915, e la prima Guerra Mondiale è ben scoppiata. Se ne sentono le influenze anche in Egitto, che sta sotto il protettorato britannico, mentre alle porte, dal Medio Oriente, premono i turchi, alleati dei tedeschi. Ci si aspettano grandi scontri militari, anche se in realtà saranno più nel terreno mediorientale che sul territorio egiziano (tra l’altro la Peters fa apparire in un cammeo, neanche tanto lusinghiero, quello che diventerà di lì a poco Lawrence d’Arabia). In questo contesto la famiglia Emerson al completo torna in Egitto per un altro semestre di scavi. Sono tutti presenti, il professore che conduce gli scavi a Giza, trova una statua in una tomba intonsa, e si persuade non di aver trovato qualche nuovo scavo interessante, ma che ci sia qualcuno che invii dei segnali. La nostra Amelia, che riporta i fatti, che tenta di proteggere i suoi, anche se non può stare dappertutto (intanto ha già 62 anni, secondo la cronologia dei romanzi). La bella Nefer, figlia adottata, reduce dalle sfortune di un matrimonio affrontato per ripicca (e per sbaglio), mentre continua ad amare il bel Ramses. Ed il giovane Emerson, ovviamente, ama anche lui Nefer, ma (come in tutte le situazioni “inizio novecento”) difficile è esternare sentimenti diretti. E tutto poi congiura a dividere i due giovani. La guerra, cui Ramses dà giudizi sprezzanti, non volendo partire volontario, ma dove, di nascosto, sta lavorando ai Servizi Segreti inglesi, nel tentativo (riuscito) di sventare la minaccia turca. Ma l’ostilità palese della comunità verso le posizioni della famiglia Emerson, rendono sempre più difficile la vita a Nefer. E sempre più facile a quel “demente voglioso di donne” che è il cugino Percy. Uno dei veri cattivoni della saga. Che fa finta di essere buono, ma che 1. Trama con il nemico; 2. Mette in cinta prostitute per poi lasciarle; 3. Faceva credere che la figlia illegittima fosse di Ramses; 4. È anche in combutta con qualche d’un altro. L’altro che stava mettendo quei reperti sulla strada di Amelia e Radcliffe. Ed è proprio Amelia che, collegando fatti e parole, risale all’idea, non tanto peregrina, che questo misterioso fantasma non sia altro che Sethos, il criminale che da una dozzina di libri imperversa (direttamente o in modo traverso) sulla famiglia Emerson. La “mente criminale” come la chiama Amelia, origine di mille furti e malversazioni, ma che ha sempre detto che non avrebbe torto un capello a lei ed alla sua famiglia. Nel momento cruciale, dopo che Percy riesce a sopraffare (essendo in soprannumero) Ramses, e tenta di ucciderlo, l’irruzione dell’esercito crea scompiglio. Confusione nella quale Percy cerca anche di sparare a Nefer, ma viene colpito a morte da Sethos. Il quale, a sua volta, viene colpito dai turchi che spalleggiano Percy. E morendo di fronte a tutta la famiglia Emerson capiamo finalmente il mistero. Non che non avessimo avuto indizi in tal senso, che sembra sempre la stessa storia da Sherlock Holmes in poi. Sethos non è altri che un fratello bastardo di Radcliffe, avuto dal padre con una persona diversa dalla madre. Ed allontanato ben presto dalle case paterne. Desideri di rivincita e vendetta, e quant’altro. Ma poi si innamora anche lui di Amelia, e succede quello che abbiamo visto in questi dodici romanzi. Per fortuna tutte queste parentesi aperte negli ultimi tre ora sono chiuse. E Nefer e Ramses (questo lo posso dire, che sta anche scritto su Wikipedia) convolano a giuste nozze. D’ora in poi sarà difficile che tiri le orecchie ai traduttori, che se si leggerà di Amelia sarà in inglese. Ma anche qui, sto fulmine che tuona dal cielo, perché appiccicarlo a Sethos? Tiriamo un sospiro, ed andiamo avanti, ringraziando la non più presente per quello che ha scritto e per quello che ne ho letto.
Clive & Dirk Cussler “Alba di fuoco” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 29/06/2012– I: 18/11/2013 – T: 20/11/2013] - &&&
[tit. or.: Crescent Dawn; ling. or.: inglese; pagine: 512; anno 2010]
Un corposo ma scorrevole esempio della letteratura avventurosa, dove la ditta Cussler dà dei punti a quasi tutti gli improvvisati scrittori del genere. Ormai ben conosciamo il metodo di scrittura di questa premiata ditta. In tutte o quasi le sue varianti (non a caso ho in libreria ben 38 volumi dell’ottantenne californiano): questa (inserita nel filone classico delle avventure di Dirk Pitt, giunte al 21° episodio), quelle dei NUMA files (dove agisce in prima persona Kurt Austin, sorta di alter-ego di Pitt), quelle degli OREGON files (incentrati sul capitano Juan Cabrillo), nonché le nuove serie con Isaac Bell o i coniugi Fargo. Ed abbiamo seguito l’evolversi di Pitt durante gli anni. Prima solo elemento di spicco della NUMA, di cui sale i gradini fino a diventarne, nelle ultime avventure, il direttore, al posto del capitano Sundaker, passato invece nel ruolo politico di vice-presidente degli Stati Uniti. E fino a ricongiungersi con i suoi figli perduti, i gemelli Summer e Dirk jr., che ora lo seguono nell’organizzazione e ne sono attori sempre più in prima persona. Riconosciamo anche i meccanismi classici: prologo che viene da lontano, che innesta una problematica, la quale porta dei cattivi a comportarsi tali ed i nostri, in vario modo, ad ostacolarli, e, generalmente, a riportare un discreto successo. Elementi collaterali quasi sempre presenti sono poi un cammeo di Cussler stesso che, alla moda di Hitchcock, compare in un qualche punto della storia ed una (o più) storie d’amore tra qualcuno dei nostri e qualche bellezza locale. Tutto viene rispettato, con qualche piccola variante (perché le varianti fanno si che si possano rifare cose simili senza troppe ripetizioni). I prologhi sono due, anche se poi ne scopriremo i collegamenti, e danno vita a due filoni di storia che si intrecciano per poi unificarsi nel finale. E dato che ormai Pitt è convolato a giuste nozze con la bella Loren, la storia c’è l’ha Dirk jr., ma, come quelle in giovinezza del padre, anche queste destinate a finire male. L’ambiente in cui ci si muove è il bacino del Medio Oriente (e poi ci tornerò alla fine), tra Turchia, stretta tra pulsioni laiche ed aneliti fondamentalisti, Israele e Cipro. Si comincia con una galea romana trasportante qualcosa di importante affondata da pirati nelle acque di Cipro, si prosegue con una nave inglese, l’Hampshire, che salta in aria durante la prima guerra mondiale mentre a bordo c’è il famoso Lord Kitchner. La storia poi passa ai giorni nostri dove due fratelli turchi, pronipoti dell’ultimo sultano, tentano di destabilizzare la situazione mediorientale, da un lato mettendo bombe a destra e manca, dall’altro trafugando reliquie religiose maomettane e ebraico - cattoliche. In queste ultime vesti i due cattivoni si scontrano con Dirk Pitt ad Istanbul (durante un furto nel museo del Topkapi) e con Dirk jr. in Israele, durante il furto di papiri che dovrebbero indicare la posizione della nave di cui sopra. Benché i furti riescano, i nostri Pitt continuano ad avere sospetti e premonizioni. Soprattutto il giovane, che si innamora della bella archeologa Sophie, che però muore nel tentativo riuscito di salvare Gerusalemme da uno scoppio che avrebbe fatto saltare in aria la Moschea di Al-Aqsa. Nel frattempo, la gemella Summer indaga con l’amica Joyce sulla morte di Kitchner. Qui i Cussler coniugano realtà storica con un po’ di fantasia, facendo risalire lo scoppio della nave da un tentativo di impedire al Lord inglese di rendere pubblico un papiro contenente la descrizione di cosa conteneva la nave romana affondata. Papiro avuto (invenzione) durante la (reale) permanenza di Kitchner in Palestina. Per fare il botto finale, i fratelli Celik rubano allora una nave israeliana, la imbottiscono di esplosivo e la lanciano contro il ponte di Galata ad Istanbul (e che emozione ripensarci ora dopo esserci tornati). Ma Pitt ed il suo fido aiutante Giordino faranno in modo di sventare la terribile minaccia (questa la parte avventurosa spinta tipica della scrittura della ditta). Morti i turchi cattivi, e sedati gli aneliti fondamentalisti, rimane da scoprire la nave romana ed il suo contenuto. Summer scopre il papiro del Lord, che parla di “reliquie di Gesù”, Dirk sr. scopre dove, a Cipro, è affondata la nave, e trovatala, viene affrontato dal resto della banda di Celik, che nel frattempo è stata assoldata da un miliardario israeliano anche lui cattivello. Sarà Dirk jr. a sgominarli, vendicando Sophie. Il tutto finisce con una bella mostra fittizia dove i resti del Cristo sono in realtà le ossa di Giuseppe di Arimatea, salvate dal Santo Sepolcro dalla bella figura di Sant’Elena, la madre di Costantino. Insomma, un bel mix di realtà storica, fanta-archeologia e story fiction, che si legge con gusto, magari mangiando cioccolata e bevendo un rhum, in queste sere da prodromi invernali. Un’ultima cosa: ma perché “Alba di fuoco” vi sarete domandati? E me lo sono chiesto anche io, dato che il titolo inglese parla sì di alba (“dawn”) associandola però al termine “crescent” che, come ognuno sa, indica appunto il territorio mediorientale (e quindi si poteva tradurre con alba mediorientale). Io ipotizzo che sia, nelle intenzioni degli autori, un cenno trasversale alle nascenti “primavere arabe”, legando i termini temporali di inizio (inizio giorno, inizio stagioni) al nodo centrale della vicenda legata al fondamentalismo arabo e alla sua possibile manipolazione da parte di forze ostili. Quand’è che i traduttori si daranno un po’ da fare per farsi una cultura che non sia solo marketing?
“Scorgendo un ebreo armeno in attesa ad un semaforo pedonale accanto ad un etiope dalla tunica bianca e a un palestinese con la kefiah, capì che stava calpestando una porzione di terra unica al mondo.” (311) [una delle più belle e sintetiche descrizioni di Gerusalemme!]
Matilde Asensi “La congiura di Cortés” BUR euro 8,90 (in realtà, scontato a 7,57 euro)
[A: 13/12/2013– I: 24/03/2014 – T: 26/03/2014] - &
[tit. or.: La conjura de Cortés; ling. or.: spagnolo; pagine: 395; anno 2012]
Finalmente abbiamo messo la parola fine a questa trilogia caraibica narrata dalla spagnola Asensi. Era ora. Il primo libro, “Terra Ferma” aveva qualche interesse (la novità, la donna mascherata da uomo per sopravvivere nell’ambiente dei pirati). Il secondo, “La vendetta di Siviglia” comincia a mostrare segni di resa (l’ambiguità uomo – donna annega presto, scontata è la vendetta del titolo). Questo terzo ed ultimo si trascina inanellando pagine senza una vera tensione. Facciamo un breve riepilogo: la giovane Catalina, in viaggio verso il Nuovo Mondo, si trova la nave affondata da pirati e si salva su di un’isola (novella Robinson). Quando viene ritrovata, per sopravvivere, si traveste da ragazzo, usando il nome Martin e viene adottata dal buon Esteban. Nel Nuovo Mondo, tra una lotta e l’altra, Martin - Catalina cresce, la sua fortuna prospera (anche attraverso un po’ di sana pirateria). Finché non si mette di traverso alla potente famiglia Curvo, che spadroneggia e taglieggia i locali. La sua famiglia si ribella, ma viene prima imprigionata, poi viene ucciso in carcere a Siviglia il padre. La nostra giura vendetta, ed uccide, uno dopo l’altro, i quattro fratelli e sorelle Curvo. L’ultimo in duello, che le ferisce e poi le toglie l’occhio sinistro. Qui comincia questo terzo libro, con gli ultimi due Curvo che tornano nel Nuovo Mondo per vendicarsi. Quasi ci riescono, ma lei si salva per miracolo. I Curvo fanno però prigioniero Alonso, cui la sua parte donna – Catalina sembra propendere. Comincia una nuova saga di vendetta. Aiutata dalla fortuna da lei accumulata, allestisce una nuova grande nave da battaglia, insegue i Curvo, libera Alonso che è veramente mal ridotto dalla tortura subita. Nel frattempo, abbordando una nave di passaggio, trova cinque nobili spagnoli spiantati che si recano nel Nuovo Mondo. In poche pagine risolve il mistero: hanno una mappa del tesoro di Hernan Cortés, che servirebbe ai Curvo ed ai loro accoliti per fomentare una rivolta contro il Re di Spagna. Il quale, tramite un suo messo, offre a Catalina la remissione di tutti i suoi debiti con la giustizia, ed il ripristino del suo status nobiliare, se questa lo aiuta a sedare la rivolta. Per decifrare la mappa, Catalina si rivolge ad un discendente matrilineare di Montezuma, che le indica il luogo del tesoro: Cuernavaca. Dopo qualche decina di pagine inutili, i nostri trovano il tesoro, e non soltanto. Riescono a sbaragliare ed imprigionare gli ultimi Curvo. Aiutati da un santone Maya, decifrano tutto il decifrabile. Poi, in una delle scene più cruente, Catalina finisce la sua vendetta alla maniera Maya, strappando il cuore dal petto del nemico. Fatta la vendetta, trovato il tesoro, sventato anche un tentativo del viceré di sequestrare una parte dello stesso per i suoi interessi personali, la nostra bella viene omaggiata nella capitale della Nuova Spagna, la sfolgorante città di Mexico-Tethiuacan. Dimenticavo, nel frattempo Alonso si è rimesso, ed i due si sono anche sposati. alla fine tornano nei loro possedimenti di Terra Ferma, omaggiano i di lei genitori morti entrambi (la Madre ultima per mano dell’ultimo Curvo prima che questi morisse), regalano una fortuna al traduttore delle mappe. Insomma, tutto per il meglio, e vissero felici e contenti. Spero che la Asensi ci risparmi un prossimo futuro dove magari nasceranno figli alla bella Catalina. Perché la scrittrice spagnola ha una fluente scrittura, che ho abbondantemente sottolineato ed apprezzato in scritti come “L’ultimo Catone” o “L’origine perduta”. Qui ormai si perde. Non c’è nessun soprassalto di coinvolgimento. Si legge e passa via, anche piuttosto in fretta. Anche come romanzo d’avventura è molte spanne al di sotto di Cussler, di una Peters, anche di un Wilbur Smith (pur se di questi poco ho letto). Volendo inoltre far vedere che si è documentata, inanella una decine di pagine finali con vicende degli anni intorno al 1605 – 1612, anni teatro della vicenda. Peccato che non li abbiano rivisti, dato che a pagina 3 del compendio i moriscos abbandonano la Spagna nel 1608 ed a pagina 6 gli stessi partono per l’Africa nel 1609. Una concordanza no, eh, o magari una rilettura? Niente. Da dimenticare in fretta.
Elizabeth Peters “Tomb of the Golden Bird” Robinson euro 12
[A: 08/10/2013– I: 10/05/2014 – T: 14/05/2014] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 442; anno 2006]
Come sopra detto, ecco l’ultimo capitolo della saga di Amelia Peabody. Non l’ultimo scritto dalla purtroppo scomparsa scrittrice (che scrisse un ultimo romanzo ma collocato temporalmente prima di questo), ma l’ultimo come eventi temporali dei nostri amici egittologi, e probabilmente l’ultimo che ne leggerò, essendo presenti tra il fulmine di cui sopra e questo altri 4 libri non tradotti in italiano. Ma credo che ormai sia sufficiente. E questo romanzo chiude realmente tutte le possibili parentesi aperte durante la storia. Chiudendo anche con un momento importante per la storia dell’archeologia e dell’Egitto. Siamo, infatti, nel 1922, e precisamente in quel novembre in cui Howard Carter scoprì la tomba di Tutankhamon (appunto l’uccello d’oro del titolo). Questa è la parte archeologica del racconto: la scoperta della tomba, il litigio tra Emerson e Carter, di modo che viene giustificata l’assenza dei nostri dagli scavi (non essendo personaggi storici sarebbe stata una bella forzatura), ma anche i metodi di ritrovamento, le catalogazioni, i dissidi tra cercatori privati (come erano Carter e Lord Carnavon) e le autorità, soprattutto il futuro Museo Egizio. Su questa ossatura, che procede un po’ per proprio conto, anche in tono minore, salvo qualche appunto sparso su cui torno tra poco, si innesta la vicenda del filone “giallo – avventura” che caratterizzano questi romanzi. Gli appunti riguardano solo la diatriba tra Carter e i giornalisti, dopo che Lord Carnavon vende l’esclusiva al Times, e la figura dell’uccellino che porta fortuna a Carter, ma che viene poi ucciso da un cobra (simbolo reale) quasi a prefigurare la famosa maledizione di Tutankhamon (che in realtà non esiste, visto che le persone della spedizione moriranno tutto dai quindici ai sessanta anni dopo, eccetto Lord Carnavon, morto tre mesi dopo per una puntura infetta). La storia appunto vede il ritorno di Sethos, che ormai sappiamo essere Seth il fratellastro di Emerson. Si pensava fosse morto, invece era solo ferito gravemente. E torna con una storia di complotti che lo costringono a far perdere le proprie tracce, ma solo travestendosi come aiutante di Amelia. I cattivi vogliono un codice cifrato che lui (di cui sappiamo anche essere una spia del servizio segreto britannico) ha trafugato in Siria. E per ottenerla minacciano peste e corna su tutta la famiglia Emerson. Non solo i nostri due eroi, ma il figlio Ramses che ormai ha sposato (ed era ora) la bella Nefret, ed i due nipoti, i gemelli David John e Charla. Ovviamente, per rendere più completa la possibile confusione, tornano dall’Inghilterra l’amico fidato David (ora anche parente, dopo il matrimonio con Lia, figlia del fratello di Radcliffe) accompagnato dalla figlia adottiva Sennia. E per non farci mancare nulla, arriva anche Margaret, giornalista nonché moglie di Sethos. Ci sono le usuali scene di fughe, ritrovamenti, morti accidentali (ad un cattivo scoppia una bomba mentre cerca di portarla nella Valle dei Re), viaggi tra Luxor ed il Cairo in treno (e qualcuno forse se lo ricorda…). Insomma, la nostra brava scrittrice non ci fa mancare nulla. Anche perché il periodo storico è veramente turbolento. L’Inghilterra cerca di allentare il controllo nella regione, ormai troppo oneroso, per mantenerlo solo verso l’Iraq ed il petrolio di Re Faysal. I nazionalisti egiziani, futuri Fratelli Mussulmani, cercano di convincere David ad unirsi a loro per cacciare Re Fuad I d’Egitto. I servizi segreti tessono le trame (come faceva, fa e farà in contemporanea per tutto il medio - oriente Lawrence d’Arabia). Tutta la storia vivacchia un po’, cercando di portarci a credere l’esistenza di complotti anche con la Francia, impersonata dall’esile disegnatrice Suzanne. Pur rimanendo per quasi tutto il libro un po’ sullo sfondo, la nostra Amelia è ben presente, e sarà lei, che con uno scatto finale, metterà tutti i puntini sulle “i” del romanzo. Riesce a decifrare il messaggio (per pura fortuna), lo comunica al capo di Seth che lo utilizza per debellare il complotto. Ma nel frattempo questi aveva deliberatamente messo in pericolo proprio Seth, che decide di abbandonare anche questa pericolosa strada e tornare a fare il civile nonché il marito a tempo pieno di Margaret. David non viene coinvolto dai torbidi nazionalisti, e può tornare in patria da Lia con Sennia. Ramses e Nefret, visto che hanno in cantiere un nuovo figlio, decidono di trasferirsi stabilmente nella capitale, dove i gemelli potranno andare a scuola. Soli, ma sempre più innamorati, Peabody ed Emerson rimarranno a gestire qualche scavo, viaggiare con la loro barca sul Nilo e continuare ad invecchiare. Un unico punto poco gestito dall’autrice è proprio l’età. Dal primo libro, sappiamo che Amelia è nata nel 1852, conosce e sposa Emerson nel 1884, e tre anni dopo hanno il loro unico figlio Ramses. Quindi, ora che siamo nel 1922, Amelia ha settanta anni (anagraficamente) ma si comporta ancora (socialmente ma soprattutto quando si trova sola con il marito) come una splendida cinquantenne. Ma ormai la storia è finita. Da altre fonti sappiamo che Amelia morirà quasi novantenne all’inizio della seconda guerra mondiale. Degli altri non si avrà più traccia. Rimarrà il ricordo delle capacità archeologiche di Emerson (chiamato dagli arabi “Padre delle Imprecazioni”, e si può comprenderne il motivo), del figlio Walter Ramses (soprannominato “Fratello dei Demoni” per le sue abilità nei travestimenti) e della nuora Nefret (soprannominata “Luce d’Egitto” per la sua bellezza). Come detto, Elizabeth Peters è morta lo scorso anno, quindi è una storia che ha la sua fine. Definitiva. E ne sono contento, pur nel dispiacere di non leggere più altre righe che mi riportavano ai bei panorami egiziani.
Secondo appuntamento di giugno, trovate quindi in allegato una buona medicina per consolarsi da amori predestinati (e magari finiti) e per godere di amori predestinati (e poi congiuntisi per sempre). Come spesso tra la fine di un viaggio e l’attesa di altro, ci si trova un po’ stanchi e magari ad altro pensosi. Allora chiudiamo qui.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

GIUGNO 2014
Dopo aver passato in rassegna qualche problematica giovanile (adolescenti & co in particolare), stiamo crescendo ed avvicinandoci a malesseri più generalizzati. Ed allora andiamo con i primi problemi amorosi.

AMORE PREDESTINATO

Noi, Evgenij Zamjatin
L'amante di Lady Chatterley, D. H. Lawrence
A volte è chiaro per tutti, tranne che per voi, che il vostro amore è destinato a finire. Beati nella vostra bolla d'amore, non vedete al di là della luce perlata che vi circonda. Un amore nato sotto una cattiva stella – come quelli di Tristano e Isotta, Cathy e Heathcliffe, Tess e Angel Giare – è uno spettacolo terribile. La sventurata coppia, tuttavia, non si rende conto che la loro bolla presto scoppierà. Una volta trafitta la membrana, però, anche quegli amanti si accorgeranno della loro follia; è arrivato il momento di ricorrere alla nostra cura – quando l'amore è in piena agonia.
La vostra storia potrà anche essere condannata al fallimento, mai però come quella degli sventurati protagonisti di Noi di Evgenij Zamjatin. D-503 (lui) e I-330 (lei): possono incontrarsi solo in segreto perché vivono nello Stato Unico, una società guidata dal «Benefattore» che controlla ogni aspetto della vita umana. Ognuno svolge la propria attività dietro una parete di vetro, per poter essere sempre tenuto d'occhio. D-503 e I-330 si danno appuntamento per la prima volta nell'angolo opaco di un edificio.
A poco a poco, I-330 rivela a D-503 che fa parte di un gruppo clandestino che vuole abbattere il muro che separa lo Stato Unico dal mondo esterno. Ogni tanto riusciamo a scorgere qualcuna delle persone che abitano al di là del muro, libere, coperte di peli. Il piano di fuga, alimentato dall'intensità della loro passione, ci fa sperare nel loro futuro. Zamjatin, però, scriveva ispirandosi alla sua esperienza nella Russia dell'inizio del XX secolo, un paese in cui il suo romanzo fu messo al bando per parecchi anni - e sappiamo che lo Stato Unico pullula di spie... Leggere Noi vi consolerà del fatto che non vi siete accorti in tempo dell'inizio della fine.
Anche l'amore tra Lady Chatterley e il guardiacaccia Mellors sembra destinato al fallimento. Non solo Connie è sposata - con Sir Clifford, paralitico e impotente, a cui è legata mentalmente ma non fisicamente - ma è anche un'aristocratica, mentre Mellors è un «cittadino comune», per usare un termine dell'epoca. Come per ricordare a lei (o, più probabilmente, a noi) l'abisso che li separa, Mellors ogni tanto si abbandona al suo marcato dialetto del Derbyshire. In modo molto assennato, Mellors è intimorito quando i due iniziano la loro relazione appassionata e profondamente sessuale, perché riesce a vederne tutte le complicazioni. In confronto, l'appello di Connie affinché lui non rinunci a lei sembra ingenuo, e il lettore non può non vedere che il loro legame, anche se profondo, è altrettanto precario del matrimonio di Connie, seppure in senso inverso. I due amanti sono legati fisicamente, ma non hanno nulla da dirsi.
D. H. Lawrence, tuttavia, confonde le aspettative del lettore. Connie, una volta risvegliata da Mellors, che sa arrivare alla «donna che ha dentro», inizia a considerare il legame intellettuale con Clifford come «solo tante parole» e da quel momento non ha più dubbi. Alla fine del romanzo li guardiamo aspettare – Mellors che il proprio divorzio sia finalizzato, Connie che Sir Clifford le restituisca la sua libertà. Il futuro è come sospeso davanti a loro, ancora fuori portata, ma Connie aspetta un bambino da Mellors, e dopo aver rivelato al mondo il loro amore sembra che non possano più tornare indietro.
E se c'è speranza per Lady Chatterley e Mellors, beh, forse anche voi non dovreste essere così pessimisti sul vostro amore, dopo tutto.
Bugiardino
Il libro russo è ormai sepolto nella mia giovinezza fantascientifica, lì dove si leggeva tutto solo se “para-scientifico”, “fanta-sociologico”, e compagnia bella. Quei tempi degli Asimov, dei Bradbury, ma anche dei Pohl, dei Vonnegut jr. ma anche dei Lem e dei Zamjatin. Siamo, come scrittura, sempre negli anni Venti. Ma lasciamo l’amore senza speranza dei nostri amici russi, e concentriamoci sul coevo Lawrence, che invece ho letto da poco.
David  Herbert Lawrence “L'amante di Lady Chatterley” Repubblica Novecento euro 4,90
[31 luglio 2011]
Un classicissimo finalmente letto tutto. Molto datato in alcuni punti. Ma alla fine si legge e dà alcuni spunti. Anzi, andrebbe comunque letto. Infatti, se da una parte è un libro polemico contro l’aristocrazia inglese ed il suo vuoto mondo di privilegi che stanno finendo (ma non risparmia nessuno, certo non i minatori e la classe lavoratrice in genere, ma su questo ci si ritorna), dall’altro alcune pagine “di sesso” sono poetiche e delicate. Ma come, direte, un libro che veniva censurato per la sua volgarità ed il suo esplicito parlare? Prima di tutto, sono passati novanta anni, e ben altro esplicito parlare abbiamo dovuto sorbire. Lawrence anzi è poetico con le sue infuocate scene di sesso, per poi scivolare nel climax delle chiacchiere intorno a John Thomas e Lady Jane (che non sono il nome dei due protagonisti, che si chiamano Oliver e Constance, ma …). Secondo poi, veniva censurato con la scusa del sesso, ma perché era un libro che metteva in crisi i rapporti tra le classi sociali. Come (!), una Lady che si innamora di un guardiacaccia, e per questo amore sfida il mondo immoto della caccia alla volpe e del tè delle cinque! Questo sì che non si doveva vedere. Anche perché le prime 100 pagine sono quelle che con più forza attaccano il mondo dei lord. Una per tutte, la scena degli aristocratici che parlano a ruota libera durante un dopo cena, anche di funzioni corporali, ma quando Connie interviene hanno un modo di fastidio, che mi ricorda tanto le scene nordafricane con il maschilista che rivolgendosi all’unica donna che sapeva parlare inglese (e che gli teneva testa) l’apostrofa con uno “Shut up, woman!”. Stessa sensibilità ad un secolo di distanza. Certo, Lawrence non è cattivo fino in fondo, che Oliver comunque ha fatto il soldato, sa parlare bene inglese, in un certo senso “conosce le buone maniere”. Non è soltanto un “buzzurro con il sesso caliente”. In questo contesto, un po’ cadenti tutte le lunghe pagine dedicate alle miniere, al carbone, allo sviluppo industriale, ed altro “politichese”, che, queste sì, hanno fatto il loro tempo e sono datate. Ma anche l’altro versante ha il suo interesse, i tormenti di Oliver verso l’altro sesso (e le sue pippe mentali, diciamocelo pure), la progressiva emancipazione di Constance (che intanto, benché Lady, aveva già avuto esperienze sessuali prima della Grande Guerra, ed anche questo faceva scandalo), ed i due contraltari: la finta liberale sorella Hilda, che non accetta il liberarsi della sorella, e la signora Bolton, che non vede l’ora che Constance se ne vada per trovare un suo spazio ancillo-infermiero-erotico presso il povero Clifford, paralizzato dalla vita in giù. E comunque ci vuole del coraggio a sostenere nel 1928 che anche la donna deve provare piacere nell’atto sessuale. E che quando si fa sesso, lo si fa in due ed entrambi devono partecipare, godere, comunicare. Un passo enorme all’epoca. Quindi un buon libro, con qualche punto in più per l’inquadratura storica (e quanto di auto-vissuto c’è in tutto ciò scritto dal figlio di un minatore che sposa una baronessa…), e qualche punto in meno che (e qui ritorna un altro mio pallino) Lawrence in ogni caso maschio è, e se partecipa e riesce a render vivi i problemi di Oliver verso l’altro sesso, meno mi convince quando cerca di spiegare il sentire di Constance (forse solo sulla dolcezza che in ogni caso deve esserci tra due amanti coglie un segno comune). E gli ultimi segni negativi, perché non dico dipinga un lieto fine, ma ha verso la fine un atteggiamento un po’ conciliatorio, lasciando molte cose in sospeso così che ognuno scriverà il seguito della storia, da dove lui ci lascia, secondo le proprie visioni pessimiste o ottimiste. Due annotazioni finali: l’ottimo editor, che ha giustamente messo le note con le poesie inglesi citate da Lawrence, perché ha lasciato non indicato a pag.204 l’esplicita citazione di Walt Whitman? E poi, la parte più sanguigna ma anche più tenera dell’amore tra Oliver e Connie è scritta in dialetto, e la sua traduzione in italiano risulta quanto mai “fuorviante”. Ma si sa, con Eco, tradurre è tradire… 
“Una donna vuole che tu l’apprezzi e che tu le parli … e, allo stesso tempo, che tu la ami e che tu la desideri… mi sembra che le due cose si escludano a vicenda.” (63)
“Se la civiltà vuol farci del bene, deve aiutarci a dimenticare i nostri corpi, e allora il tempo scorrerà piacevolmente.” (84)
“La solitudine andava accettata. Bisognava conviverci …e i momenti in cui il vuoto si colmava erano da apprezzare. Ma non li si poteva forzare.” (161)
“- Non potresti vivere senza lavorare? – Io? Forse sì, se intendi vivere solo della mia pensione. Sì, forse sì. Ma io devo lavorare, se no muoio. Voglio dire, ho bisogno di avere qualcosa che mi tenga occupato. E non ho il carattere giusto per un’occupazione in proprio. Deve essere un lavoro che svolgo per qualcun altro, se no, in un momento di rabbia, poteri mandare tutto all’aria nel giro di un mese.” (186)
“Quello che non sopporto è l’impudenza idiota, autoritaria di coloro che governano il mondo. Io odio l’arroganza del denaro e quella di classe. Quindi, in questo tipo di mondo, che cos’ho da offrire a una donna?” (308)
Conclusioni
Ebbene sì, come non sottolineare la predestinazione verso l’altro (ma che potevamo ritrovare per esempio anche in 1984 di Orwell, e tanti altri libri). Con due attenzioni per la somministrazione. Zamjatin è più verso l’omeopatia, dove curiamo male con male. Mentre Lawrence è sicuramente allopatico. Meglio l’inglese, anche dopo 90 anni.