domenica 30 ottobre 2016

Anche i gialli viaggiano - 30 ottobre 2013

Dall’Inghilterra a Hong Kong, passando per l’Egitto (e notiamo che comunque sono tutti paesi toccati dall’anglicizzazione) anche i nostri scrittori “gialli” viaggiano. Certo non ha bisogno di presentazioni l’esimia Rowling, che, dopo i successi potteriani, si dedica (con piacevolezza almeno all’inizio) ad una nuova storia seriale poliziottesca. Meno noti, ma interessanti per l’ambientazione, l’egiziano Mourad (che tuttavia non convince) ed il cinese Ho Kei (più interessante, anche se quel cognome sembra “quasi” inventato).
J.K. Rowling (Robert Galbraith) “Il richiamo del cuculo” Repubblica MondoNoir 1 euro 7,90
[A: 07/07/2014– I: 05/02/2016 – T: 10/02/2016] - &&& e ½   
[tit. or.: The Cuckoo’s Calling; ling. or.: inglese; pagine: 523; anno 2013]
Dopo i planetari successi della saga di Harry Potter, la scrittrice britannica (ma residente ad Edimburgo in Scozia) J.K. Rowling decide di dedicarsi ad altri progetti. Impiega cinque anni per scrollarsi di dosso il fortunato maghetto. E dopo un romanzo di fiction, decide di provare anche il genere thriller. Al fine di non inquinare giudizi e vendite, questa volta usa un nuovo pseudonimo, marcatamente maschile, Robert Galbraith (usando il nome di un giudice scozzese del 1500). L’ho letto con interesse, senza pensare agli scritti famosi della Rowling. Ed è stata una lettura piacevole, forse leggermente inquinata dalla eccessiva lunghezza dello scritto. L’autrice è presa dal trip delle parole, e spesso allunga, a volte divaga, regalandoci incisi e parentesi non sempre consoni alla trama. O forse sì, ma che io avrei tagliato per rendere il libro più agile nella lettura. Capisco anche la mania degli autori, quando sono di fronte ad un nuovo personaggio, di volercene regalare una descrizione completa. Ricordo invece che il primo libro di Harry Potter, oltre ad essere gradevole, aveva una veloce caratterizzazione dei personaggi, essendo la Rowling consapevole che parte del suo pubblico avrebbe gradito poco una lunga disamina del perché e del percome di Albus Silente o Minerva McGranitt o Severus Piton. Ma torniamo a questo di libro. Dove s’introduce il personaggio centrale, che si capisce sarà al centro anche di altre storie. Cormoran (come cormorano senza la T finale in inglese) Strike, investigatore privato, reduce dall’Afghanistan dove ha avuto un piede amputato in un’azione di guerra, per cui usa una protesi ben nascosta, con alcuni problemi relazionali sia con la ragazza con la quale si lascia sin dall’inizio, sia con la sua storia personale (è figlio illegittimo di un rockstar e di una “groupie”). Anche nell’esercito bazzica intorno ai servizi ed alle “intelligence”. Ora, da civile, continua, anche se con poco successo. Entra presto nella trama anche una simpatica per ora temporanea segretaria. Certo, un investigatore di nome Cormoran non può che avere un uccello come segretaria. Ecco quindi delinearsi il secondo personaggio della saga, l’efficiente Robin (pettirosso). E non pensiamo a Batman! La storia in cui si trova immerso Cormoran, nasce dalla morte della modella Lula, caduta dal suo attico miliardario: omicidio o suicidio? La polizia, non avendo particolari indizi, chiude il caso sulla seconda ipotesi. Mentre John, il fratellastro di Lula, non convinto, ingaggia il nostro per la ricerca della verità. Il motivo per cui viene coinvolto Cormoran è la sua frequentazione giovanile con Charlie, altro fratellastro di John, fino alla morte di questi, caduto in bicicletta da una scogliera. Abbiamo così una famiglia ben allargata: Alec, padre putativo, è morto da un po’, Lady Yvette è affetta da un cancro terminale, Tony, lo zio è uno dei maggiori avvocati di un grande studio legale, dove lavora il nipote John. Studio tenuto dal grande Cyprian, sposato con Ursula, la cui sorella Tansy è la moglie del produttore Bestigui. Non solo, è anche l’unica che, abitando al piano di sotto di Lula, sostiene che sia stata gettata dal balcone. Con questa grande famiglia, entriamo nel mondo glamour della moda e del cinema. C’è il fidanzato di Lula, il drogatello Evan. C’è un rapper americano che c’entra e non c’entra. C’è Ciara, l’amica di Lula e modella anche lei. C’è lo stilista omosessuale Guy Somé. C’è Alison, fidanzata di John e segretaria di Tony. Insomma, un bel parterre de roi. Dove, pagina dopo pagina, incominciamo a ricostruire la vita di Lula, sempre in difficoltà essendo meticcia in un ambiente di bianchi, ma salvata dalla sua fulgida bellezza. Anche lei con problemi di droga, e con la disperata ricerca delle sue origini, un modo per trovare appiglio in una realtà che macina i suoi eroi. Lentamente, ovvio date le oltre 500 pagine del libro, scopriamo nessi e connessi. Cormoran con abili mosse scopre che Tansy aveva detto la verità, scagionando il possibile Bestigui come colpevole. Che ben presto si restringe a pochi elementi: lo zio Tony, dal comportamento ambiguo, il fidanzato Evan, che va in giro con una maschera di lupo sulla faccia, e lo stesso John, dagli improbabili alibi durante gli avvenimenti mortiferi. Ad un’attenta lettura, il meccanismo giallo si svela, ma io non lo dico. Come non rivelo se, alla fine, la segretaria temporanea Robin rimarrà o meno con il nostro. La fine ha anche un discreto colpo di scena, che fa salire le quotazioni investigative di Cormoran, preludendo ad un futuro teso verso investigazioni più remunerative. Come detto una buona lettura, una buona scrittura, ed una buona resa di questo secondo (in lettura) libro della serie “Giro del Mondo in Nero” edito da Repubblica che, per ora, si mantiene su standard migliori delle altre serie dello stesso editore.
Ahmed Mourad “Polvere di diamante” Repubblica MondoNoir 12 euro 7,90
[A: 22/09/2014– I: 28/03/2016 – T: 30/03/2016] - &&---
[tit. or.: Tourab al-mass; ling. or.: arabo; pagine: 350; anno 2009]
Veramente sono rimasto un tantino deluso da questo nuovo (per me) scrittore arabo. Tra l’altro giovane (è un under 40) e nasce come fotografo, anche se di regime (era l’addetto stampa di Mubarak per le foto). Da una decina di anni scrive, ed anche se non ho letto altro di lui, non sono convinto della sua scrittura (dando per scontato che la traduzione di Barbara Teresi sia ottima e fedele). Infatti, mi sembra che abbia interpretato al contrario l’aforisma di Antoine de Saint-Exupéry ("La perfezione non si ottiene quando non c'è più nulla da aggiungere, bensì quando non c'è più nulla da togliere"). Mourad aggiunge tanto, per confezionare un libro che avrebbe bisogno invece di essere più snello. È un esempio forse del più ritrito stile arabo, che parla, comincia da lontano, ingarbuglia, e ci fa arrivare stanchi alla meta. Non apporta molto tutta la prima parte, sia sulla morte del nonno sia sulla vita del padre di Taha, il personaggio centrale del romanzo. Se ne poteva fare un ricordo quando, dopo la morte del padre, Taha scava nei suoi ricordi. Perché il centro della storia, ed il suo svolgimento, è altresì lineare: Taha scopre che il padre è una specie di vendicatore dei torti che utilizza la polvere di diamante per uccidere le persone che lui ritiene si discostino dalla retta via. È anche paralizzato, vive su di una sedia a rotelle, e dalla sua finestra scruta il mondo intorno. Da lì probabilmente vede qualcosa che non doveva, per questo un sicario prezzolato lo uccide, riducendo anche Taha in fin di vita. Il giovane si riprende, trova i diari del padre, ripercorre la vita di piccole vendette, e scopre il nascondiglio della famigerata polvere. Con la quale, un po’ semplicisticamente, uccide il sicario di cui sopra. Peccato che venga scoperto da Walid, un corrotto funzionario di polizia, che costringe Taha ad uccidere l’omosessuale Hany, convincendolo che sia il mandante della morte del padre. Quando però Taha scopre che, nel periodo incriminato, Hany non era in Egitto, troverà anche il modo di scovare il vero colpevole e di ucciderlo con lo stesso mezzo. Il tutto contornato dai problemi personali di Taha, diventato informatore farmaceutico per volere del padre, pur avendo nell’animo solo la passione per la musica in generale e per la batteria in particolare. Tanto che alla fine decide di lasciare tutto e tutti, e di andare a fare il side man a Sharm el-Sheikh. Infarcito dalla storia d’amore con la giornalista Sara, donna contraddittoria e simpatica, che gira con il velo, ma in privato beve birra e fuma spinelli. Non è un rapporto facile il loro, che Taha è bloccato dalle memorie paterne, e non è politicizzato, mentre Sara è parte attiva anche di movimenti anti-governativi. Riusciranno i due a coronare il loro (inespresso) sogno d’amore? Il tutto inframmezzato dal comportamento aberrante di Walid e della polizia egiziana, che, se ne leggiamo alla luce dell’omicidio Regeni, ne abbiamo un quadro non molto distante dalla verità. Mourad quindi infarcisce la sua opera sia di riferimenti autobiografici (Taha nasce il 14 febbraio come il nostro Ahmed, si parla di manifestazioni e di infiltrazioni, che da “vicino” di Mubarak ha sicuramente orecchiato), sia di riferimenti a momenti e situazioni egiziane, che probabilmente avrebbero avuto necessità, per essere colte dal lettore italiano medio, o di una bella post-fazione, o di esaurienti note a piè pagina. Facciamo degli esempi: a pagina 252 si cita Djamila Bouhired, che pochi ricordano essere stata una grande combattente per la liberazione dell’Algeria, condannata a morte per un attentato nel ’57, graziata dopo una campagna di stampa internazionale, e ben ricordata in uno degli episodi de “La Battaglia di Algeri” di Pontecorvo. Oppure, a pagina 274, si paragona il modo di vivere di Sara con Souad Hosny, una delle più grandi attrici arabe, protagonista di decine e decine di film negli anni Sessanta e Settanta, dove spesso faceva la parte della donna emancipata (ma che spesso non andava a finire bene). Infine, non molti, al di fuori dei circuiti gay, conoscono la storia dei 52 uomini arrestati nel 2001 a bordo della “Queen Boat”, una nave che bordeggiava il Nilo e dove furoreggiava l’amore omosessuale; anche perché i 52 uomini subirono lunghe detenzioni, soprusi e processi non certo sereni. Forse solo la citazione di “Palazzo Yacoubian” può smuovere il lettore, che ne conosce per averlo letto (è il primo e migliore libro di ‘Ala al-Aswani), qui però ne viene citato il film, che, visto che come nel libro si parla di omosessualità, venne osteggiato in Egitto e fatto uscire con la visione “Solo per Adulti”. Due ultime note di colore. La prima, riguarda la polvere di diamante, ritenuta appunto nell’antichità veleno potentissimo, ma poi riconosciuta agente di morte solo in quanto provocava inarrestabili emorragie interne, di impossibile cura. Elemento che venne studiato e descritto dal grande esperto di metallurgia del Cinquecento, il toscano Vannoccio Biringuccio. L’altra riguarda una grande festa che nel capitolo 21 si tiene all’Hotel Semiramis. Un hotel a me caro per tante ragioni: è stato il primo hotel dove ho dormito nel centro della città, nel lontano settembre 1989; è stato l’hotel cui sono sempre tornato tutte le volte che negli anni Novanta tornavo in Egitto per lavoro; è situato in una posizione fantastica, sul bordo del Nilo, a poche centinaia di metri da piazza Tahir e dal Museo Egizio, e con di fronte il mitico (per noi viaggiatori) Shepheard Hotel, dove negli anni Trenta transitavano Lawrence d’Arabia e Agatha Christie. Ma il libro di Mourad non è un libro di memorie, anche se le suscita in me. È un libro giallo, e non è un libro giallo riuscito.
Chan Ho Kei “Duplice delitto a Hong Kong” Repubblica AgendaNoir 11 euro 7,90
[A: 07/09/2015 – I: 25/04/2016 – T: 27/04/2016] - &&& +   
[tit. or.: Yiwang Xingjing: The Man who sold the World; ling. or.: cinese; pagine: 205; anno 2011]
Interessante prova, anche se non completamente riuscita. Peccato intanto che nel titolo italiano si perda l’accenno a David Bowie, che invece ha un suo ruolo nella confezione e nella soluzione della storia. Anche se la parte cinese del titolo (la seconda parte ricordo è il titolo di una canzone del Duca Bianco) non ha una traduzione semplice. Secondo quanto ho dedotto da alcuni siti specializzati contiene cenni alla polizia ed a fatti avvenuti nel passato. Che poi è il succo di questo romanzo del nativo di Hong Kong. Tengo a sottolineare questo fatto perché pare che il testo originale abbia molte inflessioni derivanti dal cantonese, piuttosto che dal cinese mandarino ufficiale. Sarebbe inoltre interessante fare un paragone tra questo noir di Hong Kong e la serie di noir ambientati a Shangai e scritti a Qiu Xialong. Essendo tutto ciò, al momento, fuori dalla mia portata, torno al libro, e ad Hong Kong. Ed anche a Bowie, che anche lui (come troppi musicisti) ci ha lasciato quest’anno. Intanto l’autore, Ho Kei, non è certo molto noto all’estero, pur avendo un buon background di sceneggiature di fumetti. Vena che, in alcuni momenti, sembra emergere anche dal racconto. Possiamo immaginarne i riquadri che riempiono le pagine di noi vecchi amanti del disegno a parole. Ed inizia anche con un po’ straniamento. Una sensazione che l’autore spinge un po’ all’eccesso: abbiamo un uomo che, per confusione mentale, stress, o altro, pensa di essere nel 2003 ed invece è nel 2009. E pensa di essere l’agente di polizia criminale Hui, che sta indagando sull’assassinio di una coppia (di cui la donna è anche incinta) nella brulicante città di Hong Kong. Facciamo subito un inciso: l’autore si sente appartenere alla città tentacolare, e riesce a farcene percepire i ritmi e le contraddizioni. Io ho visto avanzare la città inglese fino a diventare uno strano enclave multietnico in Cina. Città dove l’isola è diversa da Kowloon e dall’entroterra. Dove ci sono ville e grattacieli. Dove si vive ammassati (i poveri) e si vive in spazi immensi (i ricchi). Dove la cosa più costosa non è la casa, ma il posto auto! Bravo Chan. Hui (chiamiamolo così fino a prova contraria) si imbarca in una ricerca di capire dove sia, e si imbatte, anche nel 2009, nel mistero della morte che viene dal passato. Stanno girando un film sulla storia, e una giornalista, Sum, sta facendo interviste ai protagonisti. Hui e Sum allora incontrano May Lei, la sorella della vittima, e ripercorrono con lei la storia. Incontrano la moglie del presunto assassino, Lam, che muore solo qualche giorno dopo il feroce omicidio. Vengono a conoscenza dell’esistenza di Yim, amico di Lam, tipo violento e con qualcosa da nascondere. Hui accumula brani di notizie, e noi con lui, che l’autore ci fa fare ogni tanto dei flashback guidati, ricostruendo la storia di Hui, del suo entrare in polizia, delle prime indagini, del DPTS che lo assilla (DPTS à Disturbo Post-Traumatico da Stress), disturbo che colpisce anche Yim, e di cui, nei flashback, conosceremo i motivi (e di certo non ve li dico io, che altrimenti che vi leggete?). Tra flashback e presente scopriamo che Hui e Yim si frequentano, anzi sono amici, e … Arriviamo così al convulso (dal punto di vista della logica e dei capovolgimenti di fronte) finale. Dall’inizio, ora possiamo dirlo, non stiamo seguendo Hui, ma stiamo seguendo Yim. Che ricostruisce la storia perché il suo amico Hui gli ha trovato un posto come attore nel film che stanno girando. E dopo un colpo in testa, Yim si scorda di essere Yim e pensa di essere Hui, ricostruisce il tutto ed accusa … sé stesso dell’omicidio. Ma mentre cerca di spiegarlo a May Lei e a Sum, da foto sui giornali le donne capiscono che parlano con Yim, si spaventano e Yim viene quasi ucciso in una colluttazione. Sul letto d’ospedale, finalmente viene anche per noi lettori ricostruita la storia di Hui e di Yim, con il secondo scagionato dagli omicidi per una serie di testimonianze. Che, nel ricordo di Yim, scagionando anche Lam. Sarà la musica di Bowie che permetterà a Yim di risalire ad una ricostruzione completa della parte finale della vicenda. Che si scinderà in due gradevoli sotto-finali entrambi plausibili. Anche questi non li racconto, neanche per grandi linee. Sarebbe bene che chi non ha visitato la cittadina anglo-cinese ne legga, anche per immedesimarsi nel suo invivibile ma vissuto caos. Faccio un’ultima menzione d’onore alla casa editrice che ha portato Chan in Italia, oltre che a Repubblica che ne ha amplificato l’audience. Si tratta di “Metropoli d’Asia”, editore specializzato appunto in poco noti testi orientali. Un plauso, e la speranza che possa continuare a prosperare.
J.K. Rowling (Robert Galbraith) “Il Baco da seta” Repubblica AgendaNoir 1 euro 7,90
[A: 06/07/2015– I: 25/05/2016 – T: 31/05/2016] - && e ½  
[tit. or.: The Silkworm; ling. or.: inglese; pagine: 540; anno 2014]
Secondo appuntamento con la scrittura gialla della mammina di Harry Potter. Ed anche primo appuntamento con una nuova serie di gialli editi da Repubblica, intitolata “Agenda Noir” (e cercheremo di capirne prima o poi il motivo). Ritroviamo i personaggi seriali del primo libro, ma la (voluta) complessità non tanto della trama ma dell’idea ad essa sottesa, rende questo libro meno gradevole del primo. Non ci sono quegli scatti che potrebbero rendere più accattivanti i personaggi. Ma soprattutto c’è questa tesi che percorre tutto il libro che vuole essere un’accusa, bonaria ma tendenzialmente pungente, del mondo editoriale. Dove si discetta per le più di cinquecento pagine (anche qui siamo sul lunghetto…) su autori, su libri maledetti, su libri caustici, su parole che fanno male ed inducono a male azioni. Fortunatamente Cormoran ha avuto un buon ritorno economico dal precedente caso, tanto che si permette di ingaggiare il suo pettirosso a tempo pieno. E con Robin come assistente comincia ad indagare sulla misteriosa scomparsa dell’eccentrico scrittore Owen Quine. Caso in cui si impegna anche se ben presto capisce che la parte economica non è così rilevante come vorrebbe. Infatti, è la disperata moglie di Quine che chiede il suo aiuto, ed il suo istinto lo porta ad accettare senza pensare più (per ora) al denaro. Owen Quine, personaggio sgradevole e fuori dagli schemi, autore di testi controversi e alla ricerca di una fama che, dopo il successo del primo libro non si è ripresentata, è scomparso ed ha portato con sé un suo manoscritto che getta (getterebbe, se lo si potesse leggere) fango su parecchi personaggi del mondo editoriale di cui fa parte, un libro in cui tortura e sessualità malata tessono le fila per portare a galla i vizi e i segreti più oscuri di molti suoi colleghi. Non è un caso che il libo scomparso si intitoli “Bombyx Mori”, il nome della farfalla che, quando è allo stato larvale diventa l’ingrediente numero uno della seta, il famoso baco da seta (da cui il titolo inglese “Silkworm”). I nostri due detective scopriranno nel corso delle indagini tanti punti oscuri e tanti efferati delitti. C’è l’ex-amico di Quine, Michael Francourt, la cui prima moglie pare si sia suicidata dopo la pubblicazione di un libro apocrifamente ascritto a lei ma in realtà opera di… C’è Elizabeth, l’agente di Francourt e di Quine, un tempo anche amante del primo, ma da cui viene lasciata per una più allegra e promettente (sessualmente) signorina. Entrambi colpiti “a morte” da una frase detta da Quine ad un banchetto, dove lo scrittore in via di scomparire afferma che Michael con Elizabeth ha “il cazzo moscio”. E non vi dico il putiferio che suscita.  C’è appunto la moglie di Quine (sempre un po’ tristina e fuori luogo). C’è la ragazza Orlando, afflitta da ritardi psichici e figlia di… Ci sono gli agenti di Scotland Yard. E c’è anche il fratello di Cormoran (anzi fratellastro; cioè figlio del famoso cantante pop, ma con altra madre ed altra strada nella vita). Ovviamente Quine è morto, ed in maniera abbastanza trucida. Il libro, una volta svelati alcuni misteri, comunque corre velocemente (si fa per dire) verso il suo ragionevole epilogo, dove sempre più capiamo che Robin può diventare qualcosa di meglio di una segretaria. Ovviamente c’è anche della tensione erotica tra Cormoran e Robin (con una fenomenale battuta, quando questa lo chiama “Fulmine”, in memoria del detto inglese “Lightnig dosen’t strike twice”, e ricordandoci che, appunto, il cognome del nostro è Strike) con un finale aperto che ci lascia intravedere possibili episodi numero 3. Come ricordavo parlando del libro di Corrias, anche qui si cerca di evidenziare gli aspetti più oscuri del mondo delle lettere. Un mondo fatto di invidie e ostacoli in cui il desiderio di fama, a volte, supera quello di esprimersi attraverso la propria arte. La Rowling, quindi, dopo essersela presa con il mondo della moda nel primo libro, qui appunto passa a qualcosa a lei più vicino, quello della letteratura, degli scrittori, dei traduttori, degli agenti. Ma la scrittura non è caustica come vorrebbe, anche se, fortunatamente, il lato giallo è abbastanza ben salvaguardato. A me viene da pensare quanto sia stato più dirompente il libro di Doris Lessing “Il diario di Jane Sommers”, dove l’affermata scrittrice pubblica un libro sotto pseudonimo, per smascherare le ipocrisie appunto del mondo delle lettere. Ma tornando alla trama, e al testo, fin dall’inizio gli indizi “polizieschi” sono numerosi, presentati quasi come insignificanti dettagli: qualsiasi cosa, da una brutta tosse a un cane malandato sono appunti da prendere mentalmente! Contribuisce poi a questo, il fatto che nel romanzo di Quine, ogni persona sia mascherata dietro uno stravagante personaggio, e ogni segreto sia invece svelato in modo allegorico, e fornisca quindi ulteriori indizi. Tuttavia il gioco allegorico è troppo pesante da essere sostenuto sino in fondo. E nella parte finale, tutto si svela, anche se, contravvenendo alle regole auree del genere, Cormoran è sempre un passo avanti al lettore. E se i personaggi propri del dramma sono caricati e caricaturali, io mi attengo a quelli fissi, a Cormoran ed a Robin, che tutto sommato mi piacciono e che spero di incontrare ancora nel futuro. Insomma, un libro da ombrellone, ma non proprio da buttare via.
Chiudiamo queste note al termine di una giornata segnata, anche per noi romani, da scosse di terremoto come non si sentivano da anni. La casa tremò come ricordo tremò nel lontano terremoto irpino (anche se era un’altra casa). Spero che tutti (ed in primis i miei amici umbri) stiano bene, come indicano i messaggi ricevuti. 

sabato 22 ottobre 2016

Paganidi - 22 ottobre 2016

Non in quanto ammiratori di qualche strano idolo, ma riconoscenti estimatori dell’investigatore Bacci Pagano, dovuto alla penna di Bruno Morchio. In primis, in quanto Bacci, in dialetto locale è un diminutivo di Giovanni Battista. Secondo, perché Morchio, oltre ad essere scrittore, è anche psicologo, ed io ho un debole per questa categoria di persone. Terzo perché i primi scritti mi erano piaciuti, ed ho continuato a leggerne, anche se qua e là si scende di tono, Infine perché per colpa di una rima che per abbaglio chiamo canina, è diventato meno pagano e più umano.
Bruno Morchio “Rossoamaro” Garzanti euro 9,90
[A: 02/10/2014– I: 15/03/2016 – T: 16/03/2016] - &&&-
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 244; anno 2008]
Una prova onesta dello scrittore ligure che abbiamo ormai imparato a conoscere. Forse mi aspettavo di più sul lato investigativo, ma, al solito, Morchio a volte sembra più interessato alle atmosfere ed ai rapporti tra le persone. Non si è psicologhi per caso, credo. Inoltre, avendo voglia di tirar fuori una storia dalle proprie radici personali, innesta, sulla vicenda attuale, un romanzo costruito in flash-back e risalente agli anni della Seconda Guerra mondiale. In particolare al periodo di poco precedente la liberazione della Liguria, con tanto di nazisti e partigiani all’opera. Anche senza il mordente che attendevo, la scrittura e la resa rimane sulla sufficienza, anche se scarsa. Nel presente, Bacci si innesta sulla fine della storia precedente. Sulla ricerca cioè della fine della sua cara (o forse amata) Jasmine. Seguendo le indicazioni ricevute da un trans, Pagano ed il commissario Petrusiello mettono le mani sulla banda che traffica in prostitute. Liberandole tutte, ma non trovando tra loro Jasmine. Interrogando a destra, scavando a sinistra, con l’aiuto informatico di Essam, Bacci trova il luogo della detenzione della nigeriana. Conflitto a fuoco, altri cattivi uccisi, e Jasmine portata in coma in ospedale. Per tutto il resto del libro, si attende di sapere se uscirà dal coma ed in quali condizioni. Non riuscendo a stare ad aspettare senza far nulla, Bacci accetta allora l’incarico di Kurt, un anziano e morente tedesco, alla ricerca di un parente (fratellastro o sorellastra). Kurt nasce dalla relazione tra una donna di Genova ed un SS, che poi muore nel famoso attentato al cinema Odeon del 15 maggio del ’44. Quello in seguito al quale la ritorsione tedesca sfociò nella Strage del Turchino (analoga e forse più feroce di quella delle Fosse Ardeatine) dove, a fronte dei 5 morti tedeschi al cinema, furono fucilati, al passo del Turchino, 59 tra civili e partigiani. Qui si diparte la narrazione sul duplice binario di Morchio. Da un lato seguiamo le vicende dei primi mesi del 1944 nella Genova occupata dai nazisti, le formazioni partigiane operanti in città alla guida di Olindo. Soprattutto seguiamo la storia di Tilde, operaia e partigiana, fidanzata con “Biscia”. Per frenare l’emorragia di arresti, Olindo le chiede di entrare in contatto con il capitano Hessen, uno dei comandanti tedeschi della città. Hessen ha avuto moglie e figli morti nel bombardamento di Colonia, è disincantato, pensa che la guerra finirà presto (e male per i tedeschi). Inoltre è colpito dalla bellezza di Tilde. Tra i due ben presto si instaura un rapporto fisico forte, con tutti i distinguo del caso. Che consente a Tilde di fornire indicazioni al gruppo di Olindo. Tutte giuste, salvo la prima, quando si tratta di scoprire chi sia la delatrice. Hessen indica Iolanda, e Biscia provvede all’esecuzione. Ma non era lei, si scoprirà qualche mese dopo, lasciando una macchia indelebile nella vita futura di Tilde e di Biscia. Ovviamente Tilde rimane incinta di Hessen, e nel maggio del ’44, dopo aver fornito l’indicazione per la cattura del caporione fascista Maestri, viene spedita da Hessen sul Lago di Garda, dove partorisce Kurt, lo consegna alla sorella di Hessen e torna a Genova. Ma nel maggio Hessen è tra i morti del cinema Odeon. Comunque, Biscia torna dai monti dove ha svolte le sue azioni partigiane, sposa Tilde e qualche anno dopo (in questo un po’ impreciso Morchio) nasce una nuova vita. Quella che Kurt vuole trovare, mentendo su una favolosa eredità, ma in realtà per vendicarsi della madre che secondo lui ha venduto il padre. Il nostro Bacci allora indaga, nel presente, muovendosi tra i (pochi) sopravvissuti. C’è ancora Olindo. Ci sono altri partigiani, riuniti sotto la bandiera gloriosa dell’ANPI. Non ci sono più Tilde e Biscia, sicuramente morti. Non si sa quando, non si sa soprattutto il loro vero nome, essendo quelli i loro nomi di battaglia. Bacci trova, inaspettatamente, un muro di omertà cui fare fronte. Nessuno si sbilancia. Ricordano a pezzi, magari mentendo un pochino e nascondendo molto. Perché tutti sono convinti che il tedesco voglia altro. Solo Bacci continua imperterrito, e, tra un nome e l’altro, tra un ricordo e l’altro, ricostruisce una storia (di cui in parte noi sappiamo dai flash-back). Ma che lo porta ad una soluzione che noi attenti lettori già si capiva dove voleva andare a parare. Ma, al solito, non è questo che interessa a Morchio. Quanto capire il rapporto tra oppressi ed oppressori, capire dove porta la menzogna, dove l’amor di patria, dove l’appartenenza. Chi ha tradito chi, ci si domanda ad un certo punto. E quanto, per non essere scoperti, si può fuorviare, magari sacrificando delle vittime innocenti. Domande sempre valide, in tutte le situazioni, anche quelle non così drammatiche come una guerra di liberazione. Peccato che non compaiano altri comprimari che eravamo abituati a vedere spuntare, anche solo per un saluto. Mara, la figlia Aglaja, Gina, anche Totò. Ma qui c’è come un debito che Morchio vuole sanare, come emerge tra le righe, nei saluti finali, dove, in alcuni cammei di passaggio, l’autore confessa di aver inserito i propri genitori. D’altra parte Morchio è del 1954, ed i suoi, come i miei, cui mando un riverito omaggio, quelle battaglie le hanno fatte. Riposiamoci ora, in attesa di più leggeri scritti, con un ritorno, si spera, tutto al presente.
Bruno Morchio “Bacci Pagano cerca giustizia” Fratelli Frilli editore euro 9,90
[A: 14/03/2016– I: 19/03/2016 – T: 21/03/2016] - &&&-----
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 155; anno 2011]
Uno dei libri che, per la roulette della lettura, appena entrato è passato subito tra i leggibili, e poi tra i letti. Peccato che, tuttavia, rispetto ai romanzi, sia una raccolta di racconti. E nei racconti mi sembra che sia Morchio sia Bacci abbiano il fiato molto corto. Per essere precisi, invero, si tratta di quattro racconti brevi ed un racconto lungo, l’unico, dei cinque, che si sollevi un po’. Infatti i quattro racconti sono veloci e privi di mordente. “Bacci Pagano al Roger Café” è un divertimento al bar, pubblicato su “Il Sole 24 Ore” nel 2010, dove Bacci ed i suoi amici discettano su immigrati, moschee e rispetto del prossimo, senza nessun elemento di giallo, di poliziesco né tantomeno di interesse. Forse solo in controluce rispetto al racconto lungo, come vedremo sotto.  “Bacci Pagano sul lago” sono tre scarse pagine, pubblicate su “Cooperazione” nel 2007, dove Bacci convince un imprenditore a non perseguire la sua segretaria ex-amante: senza alcun senso. L’unico interesse è il fatto di essere il solo scritto in cui Bacci non interviene in prima persona. “Bacci Pagano al ballo a Fontanigorda” proviene da una raccolta del 2006 di scritti ambientati in Liguria. Anche qui l’intreccio è di inutile lunghezza. Un tizio paga Bacci perché impedisca alla figlia di andare a letto con un biondino che risulterebbe essere suo figlio naturale. Ovvio che è una menzogna globale, nella quale cade Bacci, ma che insieme al biondino risolve, anche se non brillantemente. Anche qui, l’interesse, o la curiosità è altrove. Nel titolo e nel luogo, che il racconto è solo un doveroso omaggio al poeta Giorgio Caproni, che scrisse la bella poesia “Ballo a Fontanigorda” nel 1936, e proprio in quel borgo, è sepolto vicino alla moglie. “Gli uccelli di Pechino” infine, è solo un omaggio all’Istituto di Cultura Italiana di Pechino, perché non c’è storia, non c’è giallo, non c’è praticamente nulla, se non alcune descrizioni pechinesi ed un timido accenno alle connivenze tra mafie italiane e mafie cinesi. Veramente poco. Talmente poco che se mi dovessi basare solo su questi quattro, i libricini scenderebbero sensibilmente verso lo zero. C’è allora il racconto lungo, un po’ più articolato, ed in linea con lo stile “paganico”. “Un ibrido d’uomo” pur non raggiungendo gli interessi che suscitano i romanzi di Morchio ha almeno un filo conduttore, un’idea ed uno sviluppo coerenti. Intanto ritorna con prepotenza il lato psicologico del nostro. Il personaggio principale, l’ibrido del titolo, è tal Mario Canepa, cinquantenne genovese in tutti i suoi aspetti (amore della città, lavoro e piccole manie). Peccato, per lui ovviamente, che sia nero di pelle, in quanto adottato quando aveva due anni dalla natia Eritrea, dal padre Ottavio importatore del locale caffè. Mario esce da una tremenda depressione, che lo ha ridotto sul lastrico, fisicamente e lavorativamente. Lasciato dalla moglie, con la figlia Rachele, bulimica ed astiosa, che non finisce mai di cercare di farlo soffrire, ed il figlio Giovanni che non vuole più avere a che fare con lui. Mario, alla disperazione, ingaggia il nostro Bacci per cercare di ritrovare il figlio. E Bacci, che non si lascia sfuggire nulla, capendo che la diaspora della famiglia Caputo ha origini antiche, cerca non tanto Giovanni ma di capire il perché della caduta di Mario. Ecco quindi il lato investigativo, dove Bacci, non vi dico come, riesce a risalire al bandolo di tutta la matassa: il perfido cugino Ottavio. Non vi narro nemmeno come ha fatto il cugino per rovinare Mario. Fatto sta che Bacci trova le prove, e le consegna alla famiglia Caputo, che ne farà quello che vuole. E capisce anche che la depressione di Mario origina dal giorno delle prime immigrazioni africane in Liguria, quando lui, nero e benestante, comincia a vedere i suoi fratelli di colore, neri e poveri. In questo si ricollega ai discorsi del primo racconto di cui sopra. Come si ricollega il rifiuto di Giovanni al fatto sia che considera il padre un perdente, sia che non accetta neanche lui il colore della sua pelle scura. Riuscirà Bacci a rappacificare la famiglia? Riuscirà Bacci a trovare la giustizia cercata? Se volete leggetene, anche se, consiglio vivamente di dedicarsi ai romanzi di Morchio, che ben altro respiro hanno sulla pagina.
Bruno Morchio “Colpi di coda” Garzanti euro 11,60 (in realtà, scontato a 6,96 euro)
[A: 12/04/2016– I: 13/04/2016 – T: 15/04/2016] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 473; anno 2010]
E vengo subito smentito, che questo romanzo di Morchio, in gran parte per l’eccessiva complessità della trama, ma anche per la tematica scelta, non fa salire l’indice di gradimento, lasciando il rimpianto dei primi libri di Bacci Pagano a rigirarsi nella memoria. Il nostro scrittore psicologo, infatti, si imbarca in una trama complessa, certamente attuale, ma con tanti di quei risvolti, che portano il romanzo verso una dimensione tra lo spionistico ed il politico, che il nostro autore maneggia meno bene delle tematiche sociali e personali con cui aveva intrecciato i suoi primi libri. L’inizio sembra quasi in linea con il Bacci che conosciamo. Vengono uccisi quattro arabi ed il nostro investigatore viene ingaggiato per tirar fuori dalle peste il nipote della sua donna di casa, la nubiana Zenab. Ma subito precipitiamo nell’intrigo internazionale. A pagare e consigliare Bacci interviene tal Ghaffar, capo di una fantomatica “Lega dei Fratelli Mussulmani”, a metà strada tra la ben nota Lega araba e sceicchi di grido alla Aga Khan. L’arabo lo mette sulle tracce di un giornalista freelance, Rodney l’irlandese, che già conosce alcuni retroscena della vicenda. E che Bacci convince a trasferirsi a Genova per proseguire le indagini. Saltano fuori ben presto altri intrecci fantomatici. Gli arabi erano scappati da una nave “fantasma” che dovrebbe trasportare armi da consegnare ad Istanbul a qualcuno, forse talebani afghani. La nave è di proprietà di un certo Mayer, faccendiere americano e noto trafficante di armi. Meyer che ha fatto una figlia con la bella Ute, sfortunata tedesca presa da ingranaggi più grandi di lei. Ovviamente, Ute e Rodney non solo si conoscono, ma sono innamorati. Intrecciando così un affare di cuore ad un ben più losco affare di armi e soldi. Ovviamente anche intervengono i servizi segreti. Per primi gli americani, dove tira le fila (anche se Morchio ce lo nasconde per molto tempo) il “pacioso” JJ. Questi aveva conosciuto Bacci quando il nostro aveva passato tre mesi da clandestino a New York. Una conoscenza che era rimasta scolpita nell’animo ingenuo dell’americano. Altro stereotipo di cui si infarcisce il racconto. Arabi buoni ed arabi malvagi. Americani ingenui ma truffaldini. Il tutto complicato dal fatto che siamo nel novembre del 2008, giorni in cui l’America si avvia ad una svolta, eleggendo Obama come primo presidente nero della sua storia. Con poca fantasia, Morchio immagina quindi che i malavitosi che circondavano l’ambiente Bush operino per mettere delle zeppe alla futura amministrazione Obama. Rodney riesce a convincere il nipote fuggiasco a rilasciare interviste esplosive, che mettono in difficoltà la nave che si aggira in avaria per il Mediterraneo. Nave su cui, per complicare il tutto, è segregata la figlia di Ute. Avete visto le complicazioni che sta imbastendo il nostro scrittore? Ormai non si tratta di parlare di sentimenti, di rapporti, di umanità che si aggira per i carruggi. Siamo alla politica internazionale. Dove intervengono, in modo com’è giusto da comica finale, anche i Servizi Segreti italiani. Dove c’è un procuratore della Repubblica, la dottoressa Crovetto, che dietro le rivelazioni di Bacci e Randolph, cerca di fare pulizia. Ma i capi della dottoressa, nonché quelli di Totò, il commissario amico di Bacci, intervengono per mettere a tutto un freno, che l’Italia (altro luogo comune ovvio) è succube della politica americana. Randolph, con le sue conoscenze e le sue trame, spande le sue interviste sui media internazionali. Tuttavia Meyer ha la sua arma segreta: la figlia di Ute. Attraverso la quale ricatta Ute, costringe Randolph ad uscire allo scoperto, ed a rimanerci, dentro un sacco in fondo al mare. Non poteva mancare la minaccia alla famiglia di Bacci, per cui il nostro spedisce in America, sotto la protezione di JJ, la figlia Aglaja e la sua ex-moglie. Si avvia una trattativa internazionale per fermare le armi, ridare i soldi a Meyer, liberare Ute e la figlia. Capiamo che JJ è più coinvolto di quanto sembra, anche se mantiene un fondo di lealtà con Bacci, per quegli ingenui trascorsi di trenta anni prima. In una scena madre, una volta saputa la morte di Randolph, Bacci provoca Meyer e con uno stratagemma, lo uccide. Ute ritrova la figlia. JJ fa in modo che nella barca di Meyer si ritrovino i passaporti degli arabi uccisi. Il nipote di Zenab può tornare a Genova. Così come a Genova tornano Aglaja e la madre. Abbiamo però perso per strada l’umanità di Bacci. Certo deve ancora riprendersi dalle rivelazioni dell’ultimo romanzo, quel “Rossoamaro” dove ritrovò le tracce della giovinezza dei suoi genitori, con una serie di rivelazioni che non ha digerito e non digerisce. Qui si aggira, non trova nessuna signorina che lo consola (e siamo solidali con lui), né alcuna donna che suscita in lui sentimenti per cui vale la pena vivere. Bacci si trascina. Così come questa vicenda piena di ovviomi e banalità. Arabi = terroristi (almeno molti). Arabi non terroristi = traffichini. Americani o al servizio della CIA o malviventi internazionali ben protetti. Servizi Segreti scalcinati. E ne potete trovare altri a iosa. Morchio capiamo la volontà di rendere le vicende aderenti alla realtà che viviamo quotidianamente. Ma non è questo il luogo dove fare politica internazionale. Non è con una vicenda così scontata che si scoprono altarini e connivenze. Tutto rimane senza mordente e senza coinvolgimento. Un’occasione gestita male, purtroppo.
“Non si dovrebbero lasciar passare gli anni senza cercare le persone che sono state importanti per noi.” (77)
Bruno Morchio “Lo spaventapasseri” Garzanti euro 9,90
[A: 07/05/2015– I: 16/04/2016 – T: 18/04/2016] - &&&-- 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 239; anno 2013]
Risaliamo pian pianino, ma si rimane ancora ben lontani dai primi scritti del nostro amico genovese. E non è certo un caso che sia passato del tempo dallo scritto precedente. Certo, Morchio ha scritto altro, che non prevede l’intervento del nostro Bacci, ma sento come se avesse voluto prendere un po’ di spazio fra sé ed il suo personaggio. Aveva fatto un salto nel passato, rinvangando episodio d’infanzie (che credo abbiano anche risvolti personali, come accenna nei ringraziamenti, sebbene Bruno sia del ’54). Aveva cercato di fare un giallo spionistico internazionale, mettendo in mezzo arabi ed americani. Senza molto successo, secondo me. Ora si ritorna nei carruggi di Genova, nei soliti personaggi tra via del Campo e la notte. Si ritorna anche all’altro momento “epico” di Bacci, la giovinezza, gli anni ’70, la rivoluzione, il terrorismo. Sappiamo dei suoi cinque anni di carcere per motivi di certo incauti. Qui vengono fuori i vinti ed i vittoriosi dell’epoca, qui viene soprattutto fuori Cesare, il suo grande sodale di quegli anni, avvocato e paladino ambientalista. Cesare il cui padre aveva difeso con un certo successo Bacci, facendogli avere il minimo della pena. Cesare da cui si era allontanato il giorno dopo la scarcerazione. Dopo una notte brava, di alcool e spinelli, e forse altro (ma non per Bacci), e dalla quale il nostro si era dipartito per un lungo giro negli spazi aperti del mondo, di certo necessari dopo cinque anni di spazi ristretti. Ora che siamo in clima elettorale, Cesare si presenta da outsider, ma di possibile successo, alle elezioni per il Senato. Ma riceve minacce telefoniche oscure, e chiede subito aiuto al fiuto ed alle conoscenze di Bacci Pagano, l’investigatore dei carruggi. La vicenda, come capiamo be presto, e come indica il titolo, è ben più complessa di semplici telefonate minatorie. Cesare è sposata con Katia, altra compagna d’epoca, non a caso chiamata a suo tempo “Katia la Pasionaria”. Si circonda di persone motivate per la sua campagna, ed in particolare di Lou, di otto anni (credo) più giovane di loro, che scopriamo essere sorella di una tale Amalia, morta proprio il giorno della liberazione di Bacci. Amalia che a quel tempo era segretamente fidanzata con Cesare, e della cui morte nessuna ha trovato il colpevole. Ronza intorno, infine, anche Gianni, architetto, capomastro, impegnato in mille faccende redditizie, ma sempre ai limiti della legge. Gianni che era il terzo di quella famosa cena. Gianni che Cesare ha sempre difeso in accuse minori, ma che dall’avvocato fu mollato quando il crollo di una casa ipotizza non solo incuria, ma connivenza con strascichi mafiosi. Ovviamente Bacci è preso da Lou, anche se lei sembra più che altro dedicata al proprio piacere che alla costruzione di un rapporto. Ma Bacci, soprattutto, scopre molti altarini. Le reali collusioni con la mafia, che sbandiera ad una cena elettorale, e viene ben pestato da due loschi figuri. Capisce subito, e ci fa capire, che è proprio Gianni che sta dietro alle telefonate. Ma si domanda, e ci domandiamo, bastano due telefonate minatorie a spaventare qualcuno con lo spauracchio dell’intervento mafioso? O la Mafia, quella con la M maiuscola, ha ben altri sistemi? Ed allora perché quelle telefonate? Sarà una canzone di Bennato tratta dall’album “Sono solo canzonette” che ronza in testa a Bacci, che la figlia Aglaja ci rivela in tutti i suoi versi, che è ben nota da Lou, amante delle canzoni d’epoca, che veniva suonata nel locale cui Bacci, Cesare e Gianni festeggiavano trenta anni prima. Non vi dico certo il finale, anche se Katia è partita per la Patagonia, e Lou rivela a Bacci che… Morchio cerca anche qui di fare qualche accenno di discorso politico. Cosa succede ai compagni degli anni ’70 ora che sono passati quarant’anni? Ideali contro pragmatismo. Perché gente come Gianni ha fatto soldi, gente come Cesare ha fatto carriera e gente come Bacci si accontenta di vivere il proprio piccolo? L’unico dubbio, nel finale, è una conclusione stile Igor Attila del penultimo libro di Foschi. Messaggio criptico che qualcuno vorrà decriptare, spero. Per ora abbiamo fatto una scorpacciata delle avventure di Bacci, con ben otto libri (sette romanzi ed uno di racconti), che hanno saturato la mia voglia di tornare a girare per Genova. Cercheremo altro nel prossimo futuro. Anche se Bacci mi rimane simpatico (e rimpiango non restino sulla scena più spesso Aglaja, Mara, Gina, e le altre donne del nostro).
“La verità non può essere tagliata e servita a fette come una patéca [cocomero in genovese], a seconda delle convenienze.” (198)
Chiamasi rima canina un tentativo poetico in cui si forza la costruzione di una assonanza piuttosto che il compimento di una frase. Intanto non avventurandoci oltre in giro per la terra, mi avvio ad un week-end basco (ma senza Vasco). Ed anticipo la domenica con il sabato.

domenica 16 ottobre 2016

Junior per un senior - 16 ottobre 2016

Questa volta, pur rimanendo nell’ambito delle collane di Repubblica, ci dedichiamo ad alcune pubblicazioni del breve ciclo “Noir Junior”. Dove cominciamo un po’ zoppicando, pur apprezzando il primo scritto di quello che diventerà un mago di best-seller. Poi saliamo con alcuni autori italiani dalla penna facile e dal bell’intreccio, nonché con il recupero di quel detective Blomqvist della mamma di Pippi Calzelunghe.
Ken Follett “Il mistero degli studi Kellerman” Repubblica Noir Junior 2 euro 6,90
[A: 27/07/2015– I: 11/11/2015 – T: 13/11/2015] - &&
[tit. or.: The Secret of Kellerman’s Studio; ling. or.: inglese; pagine: 120; anno 1976]
Prima lettura di questa “veloce” collana di Repubblica dedicata ai gialli per un pubblico adolescente (direi under 15). Lettura dedicata ad un grande della letteratura mystery o d’azione, qui al suo secondo lavoro, pubblicato a 27 anni, e con lo pseudonimo di Martin Martinsen, non avendo avuto ancora modo di “sfondare” verso il grande pubblico, cosa che succederà solo due anni dopo con “La cruna dell’ago”. Considerata un’opera minore nella produzione di Follett, ha tuttavia alcuni elementi della sua produzione futura che non sono male. Come non lo è se letta con gli occhi del pubblico cui è diretta. Atteggiamento che ho cercato di assumere nella lettura. Tuttavia, pur nella ricerca di elementi positivi, il risultato trovo sia inferiore alle attese. La trama, come si addice ad un “libro per ragazzi”, è molto lineare. Nei sobborghi occidentali di Londra, a Hincley, vive Mich, ragazzo povero e collezionista di articoli di giornali riguardanti una banda di ladri, che da qualche tempo, compie rapine in tutto il paese. Mich abita con la madre in un palazzo da cui li vogliono sfrattare. Casualmente incontra un ragazzo di nome Izzy, ragazzo "ricco" con un padre che lavora nel campo dello spettacolo e diventano amici per la pelle. Un giorno vogliono esplorare dei vecchi studi cinematografici, nei quali aveva lavorato il padre di Izzy, gli studi Kellerman. Durante la visita, i due ragazzi scoprono che gli studi sono il luogo dove una banda di ladri nasconde la refurtiva che un furgone, ogni venerdì sera, trasporta fuori città. Con l'aiuto dei ragazzi la polizia arresta i ladri recuperando la refurtiva. Il dipartimento di Hincley assegna la ricompensa ai due giovani. Gli studi vengono riaperti, dato che il capo della banda li aveva chiusi dicendo che non erano più a norma di legge e aveva dato lo sfratto a chi abitava nelle case intorno, compresa quella di Mich, per costruire un albergo. Con l'arresto del boss, Mich e sua madre possono riavere la loro casa e pagare tasse e debiti arretrati. Il padre di Izzy torna a lavorare negli studi Kellerman. Seppur lineare, il libro mette in evidenza alcuni tratti del Follett maturo, soprattutto la caratterizzazione dei personaggi di contorno. In pochi tratti, oltre a Mich e Izzy, sono ben descritti almeno una decina di comprimari. Sempre per il carattere adolescenziale del libro, non possiamo che aspettarci il lieto fine, anche se questo avviene in maniera un po’ affrettata, lasciando poco spazio ad una reale comprensione degli ultimi avvenimenti, come ci si aspetterebbe per una “spy-story”. L'estate, l'amicizia, i giri in bici, i problemi dei grandi, che sono di riflesso anche i problemi dei ragazzi, la voglia di curiosare dove non si dovrebbe con quella sensazione sottile di essere in procinto di scoprire qualcosa, per diventare di conseguenza eroi. E tutto questo, in questo libro, è sommato al gradevole "trucco" di non far comprendere ai protagonisti quello che subito è chiaro a chi legge. Ho letto molto della successiva produzione di Follett, in particolare quello che ritengo per me il suo miglior libro, “I pilastri della terra”. Tuttavia anche in questa escursione giovanile apprezziamo il piglio sicuro della sua scrittura, riuscendo ad imbastire, in poche pagine, una storia accattivante, piena di quei particolari che apprezzavo nelle mie letture giovanili, e che lasciano un gusto piacevole anche in questa lettura matura. Vedremo che ne sarà degli altri libri della serie.
Mikaël Ollivier “Fratelli di sangue” Repubblica Noir Junior 8 euro 6,90
[A: 07/09/2015 – I: 24/04/2016 – T: 24/04/2016] - &&
[tit. or.: Frères de Sang; ling. or.: francese; pagine: 124; anno 2003]
Seconda lettura dei Noir Junior, e seconda delusione. Forse leggermente mitigata dalla mia non conoscenza dell’autore. Per cui non mi aspettavo cose strabilianti. Ed infatti non le ho avute. Infatti, nella prima lettura ho affrontato Ken Follett, di cui conosco bene libri e scrittura. Per cui si poteva parlare del libro, della sua resa e dello stile. Qui, invece, entriamo in pieno nello stile di scrittura dedicato ad una giovane fascia d’età, senza nessun preconcetto su come possa scrivere d’altro il francese Ollivier. Devo dire che, anche se sono ben lontano da quella fascia di lettori, non mi è piaciuto l’approccio che l’autore dà al romanzo (direi romanzo breve più che racconto). C’è da un lato una sorta di accondiscendenza verso il giovane lettore: sei giovane, non sei abituato a leggere, magari uso un linguaggio più semplice. Dall’altro, c’è l’affrontare una problematica che tende “alla King”, cioè cerca effetti e vuole costruire situazioni che non dico mettano paura, ma inquietino leggermente chi affronta con leggerezza la lettura. Ad esempio, l’attacco dove il protagonista (il libro è in soggettiva) dice che si sta rimettendo da una vicenda che lo ha duramente provato, nel fisico e nel morale. Motivo per cui, il giovin lettore per tutto il tempo sta sul chi vive, aspettando qualche possibile catastrofe. Ma allo stesso tempo, il fatto che Martin ne parli, significa che, in qualche modo, la situazione è stata risolta. Il nodo misterioso che si pone al centro della storia è l’ingarbugliata trama che avvince la famiglia Lemeunier, composta appunto da Martin, studente liceale, da Brice, suo fratello diciannovenne iscritto ad una scuola di cinema, e dai loro genitori Pierre, neurochirurgo, e Nadège, pubblicitaria. Durante una normale cena, irrompe la polizia che arresta Brice, accusandolo di cinque delitti. Cinque persone che Brice aveva incrociato nella sua vita. Cinque persone che, in qualche modo, gli avevano fatto del male: una ragazza che lo aveva deriso in pubblico, un professore che lo tartassava, una seconda ragazza di cui era innamorato e che lo ha lasciato per un altro, quest’altro con cui lei se n’è andata, uno dei registi della scuola di cinema che aveva parlato in termini molto negativi della prima prova di regia di Brice. Ovviamente Brice dice di essere innocente. Ovviamente Martin è dalla sua parte. Ovviamente tutti gli indizi sono contro il fratello, tanto che anche i genitori vacillano. Ovviamente c’è un ispettore che indaga, mantenendosi neutrale, ma seguendo da vicino cosa sta elucubrando Martin. A questo punto il lettore smaliziato comincia a fare delle ipotesi: a) Brice è un fine mentitore ed è lui l’assassino (questo pur plausibile scenario va contro il discorso giovanile dell’amore fraterno); b) Martin è l’assassino geloso dei successi del fratello (molto probabile, in linea con una tradizione orrorifera da King alla Christie, poco consolatoria per il lettore); c) c’è un altro fratello nascosto (soluzione trasversale che mette in salvo i fratelli ma inguaia la famiglia). Tutte e tre le ipotesi poi sarebbero in linea con il titolo del libro. Dato che uno dei corpi è stato sepolto in giardino, Martin si persuade che ci deve essere un complice tra i giardinieri. Scopre ben presto che uno dei quattro è introvabile. Senza dire nulla alla polizia scopre l’esistenza della madre del giardiniere, rinchiusa in un ospedale psichiatrico. E scopre altresì questo fantomatico Loïc, dropout allo sbando che vive in una roulotte in un campo abbandonato. Perché, dimenticavo, siamo nella provincia francese, e la casa di Martin è in un circondario tipo Olgiata, con controlli di entrate e uscite. Il finale è convulso, noi siamo ancora combattuti tra quali delle tre soluzioni sia possibile, anche se la comparsa di Loïc ci indirizza verso uno dei più probabili scenari. Che, nonostante gli sforzi di Martin, sarà l’ispettore a risolvere. Ma continua a non essere un libro “junior”, che abbiamo: padre fedifrago e mentitore, amante del padre impazzita, figlio naturale fuori di testa, figli legittimi traumatizzati e angosciati da incubi per il resto della loro vita. E uno dei tre quanto meno all’ergastolo. Purtroppo una vicenda così intricata, non è sorretta da una scrittura adeguata, né per un pubblico adulto né per uno adolescente. Troppo semplicistica per gli uni, troppi inutilmente ansiogena per gli altri. Insomma, una collana che dopo le due prime letture non si presenta certo al meglio.
Alessandro Gatti & Pierdomenico Baccalario “Non si uccide un grande mago” Repubblica Noir Junior 9 euro 6,90
[A: 14/09/2015 – I: 28/04/2016 – T: 28/04/2016] - &&& +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 154; anno 2009]
Questa terza lettura di Noir Junior comincia a risollevare le sorti della serie, e ne sono contento: è migliore delle precedenti, più fresca, e, non guasta certo, italiana. I due autori, quarantenni piemontesi, sono specializzati in letteratura per ragazzi, avendo scritto un’ottantina di libri a testa, di cui una ventina in collaborazione. Si nota la mano, la spigliatezza e l’allegria che tali scritture devono portare con sé per essere ben accettati dal pubblico giovanile. In particolare hanno scritto 7 romanzi per un ciclo denominato “I gialli di vicolo Voltaire”, di cui questo è il secondo episodio. L’impianto ricalca alla lontana “Il club dei Vedovi Neri” di asimoviana memoria, un circolo di appassionati che si dedica alla risoluzione di misteri. Ovviamente, nel tono giovanile della scrittura. L’ambientazione è parigina, appunto in rue Voltaire, dove viveva il grande detective Gustave Darbon, che, morto, lascia la sua casa agli appassionati del mistero. Casualmente, molti inquilini dello stabile si appassionano ai misteri, accomunati dall’amore per il grande scrittore King Ellerton. In primo piano i due “ragazzini”, i fratelli Gaillard, Annette e Fabrice detto Fabò; e poi Lalou, sedicenne del Mali mago del computer, Janvier, avvocato in pensione, Bardouchon junior, il giovane fondatore del club, sua madre, fornitrice di pettegolezzi e meravigliose torte, e Victor, il postino dall’oscuro passato. Durante questo secondo episodio, per necessità di trama, viene cooptata anche Valentine, la madre dei due ragazzi. Dato che, oltre che madre, è sposa di Jean-Paul, commissario di polizia. Ovvio che se serve risolvere un mistero bisogna essere vicini alla fonte. Inoltre il commissario ha un maldestro aiutante, Pasquiat, utile per reperire informazioni altrimenti inarrivabili. Intanto, trovo ottima la descrizione ambientale, sia di Parigi che dei movimenti del club per la città. Non sarà sempre reale, ma è di sicuro quanto un giovane lettore si aspetta leggendo della città della Torre Eiffel. Il mistero questa volta nasce dal tentativo di uccidere il più grande mago vivente, il grande Offenbach. Tentativo avvenuto durante la riunione annuale dei maghi all’Hotel Étoile. Un po’ alticcio, dopo aver litigato a lungo con il suo rivale, il Sensazionale Renard, Offenbach esce in strada, dove viene colpito alla testa da un grande vaso d’alabastro, lasciandolo in fin di vita. I nostri appassionati giallisti di vicolo Voltaire sono subito presi dal mistero, anche perché Lalou era un fanatico del mago, alcuni anni prima. I sette si attivano, ma soprattutto Victor e Janvier. Anche perché Victor conosce il cuoco dell’albergo, e tramite lui i nostri vengono a sapere della lite, della scomparsa di un portafoglio, nonché della sparizione di un cameriere. Lalou prova ricerche al computer, senza venirne fuori. Sarà ancora Victor, tramite il cuoco, che porta Annette e Fabò alla scoperta della scomparsa anche di un vecchio frac, appartenente al cameriere. Qui interviene Janvier, che, tramite i suoi contatti nel mondo giudiziario, ricostruisce la storia del cameriere. Appena uscito dopo quindici anni di prigione per un furto in una gioielleria di cui si professa innocente, ma dove viene incastrato dalla testimonianza della dodicenne Isabelle. Annette e Fabò, complici i documenti sbadatamente lasciati in giro da Pasquiat, risalgono anche all’indirizzo dove l’ex-carcerato si recò quella sera. Vestito del frac, suo unico indumento in quanto mimo di strada, ed avendo solo quello o la divisa da cameriere. Lì i nostri incontrano una signora non ancora trentenne con ecchimosi sul viso. Pensano che sia Isabelle, ma questa dice che Valentine da alcuni anni si è trasferita in Australia, vendendo a lui e a suo marito la casa. Marito anch’esso nel frattempo scomparso. A questo punto la trama è ben svelata, il mistero abbondantemente risolto, salvo alcuni particolari che lascio ai miei curiosi lettori. Ritorno solo sull’allegria che sprizza dalle pagine: le torte della signora Bardouchon, le crêpes del Petit Canard (rigidamente al cioccolato), la simpatia di mamma Valentine (che porta i nostri allo spettacolo di Renard e poi all’ospedale da Offenbach), la tristezza del declino del mago per una delusione amorosa, la verve di Lalou per far tornare il sorriso al mago (ed a noi). Insomma, una confezione ben fatta, con quel tanto di mistero che si segue con piacere, con quei tocchi di vita reale che non guastano (delusioni amorose, false testimonianze, galeotti redenti). Forse carente solo nelle scoperte finali per la soluzione dell’enigma, ma è un peccato decisamente veniale.
“Non ho il televisore e amo rilassarmi leggendo un libro con la musica in sottofondo.” (88)
Astrid Lindgren “Kalle Blomqvist, il grande detective” Repubblica Noir Junior 3
[A: 03/08/2015 – I: 01/05/2016 – T: 03/05/2016] - &&& e ½    
[tit. or.: Mästerdetektiven Blomqvist; ling. or.: svedese; pagine: 172; anno 1946]
Come ha detto ultimamente il grande critico Harold Bloom, tutti gli scrittori degni di questo nome sono morti. Ed eccoci qui, ad un nuovo capitolo del Noir Junior, ha onorare la memoria di una grandissima scrittrice per i giovani. Certo, Astrid è meglio ed universalmente nota per Pippi Calzelunghe (dall’originale Pippi Långstrump), ma tanti sono i suoi contributi a questa parte di letteratura che, quanto meno, può servire ad avvicinare giovani (e meno giovani) al grande mondo della parola scritta. Tra le tante serie scritte dalla simpatica svedese (morta nel 2002 a soli cinque anni dal festeggiamento del suo centenario), una, corta ma di molta presa in Svezia ed all’estero, è questa dedicata al giovane Kalle Blomqvist, alla sua passione per l’attività di detective, ed ai suoi giovani amici Anders ed Eva-Lotta. Personaggio a me caro per motivi extra giovanile, quando ricordo di aver scoperto l’omaggio che il compianto Stieg Larsson faceva alla Lindgren, chiamando il personaggio centrale della sua trilogia Michael Blomqvist, per pochi intimi Kalle (soprannome da lui sempre odiato), ed assonando Lizabeth Salander con Lotta Lisander. Qui invece Kalle è il centro ed il fulcro della storia. Un dodicenne curioso, innamorato delle grandi storie di investigazione, che cerca misteri anche nella piccola cittadina di provincia dove vive, anche se non è lontana da un qualche grande centro. Qui Kalle, oltre a sognare i grandi misteri, come tutti i ragazzini della sua età, essendo per di più estate, si inventa giochi con i suoi coetanei. In particolare con il figlio del calzolaio Anders e la figlia del fornaio Eva-Lotta, costruisce la banda della Rosa Bianca, in lotta con gli acerrimi nemici della Rosa Rossa (Sixten, Jan e Benka). La tranquilla andatura estiva, tra giochi, lotte e ciambelline, viene interrotta da due avvenimenti: l’arrivo di Einar, zio di Lotta, e la decisione della Rosa Bianca di allestire un circo per passare il tempo. La parte giovanile della scrittura si dedica abbastanza all’inventiva dei ragazzi, ma ben presto siamo tutti risucchiati da Kalle. Primo perché tutti quanto vanno a visitare la rocca della cittadina, dove entrano quando zio Einar apre la porta con un grimaldello. Poi dai sospetti di Kalle (perché una persona per bene possiede un grimaldello?), che nottetempo prende le impronte di Einar e le invia alla polizia. Infine, per l’arrivo di due loschi figuri in città, che sembrano dare la caccia propria ad Einar. Kalle non si confida con la Rosa Bianca e comincia a seguire di nascosto Einar. Gli ruba anche il grimaldello, e quando legge sul giornale locale di un furto di gioielli, si persuade che Einar è coinvolto. Allora, con Anders e Lotta rivolta tutta la rocca, fino a trovare i gioielli famosi ed a portarli in salvo nella loro tana. Vorrebbero andare alla polizia, ma l’agente loro amico è fuori. Sfortunatamente rimandano, ma sono travolti dagli avvenimenti. I loschi figuri scovano Einar, i nostri assistono allo scambio di accuse tra i tre, e capiscono che sono tutti coinvolti. I cattivi sequestrano Einar, ma non trovano i gioielli (fortunatamente spostati da Kalle). Ma quando Kalle ed i suoi liberano Einar, i tre cattivi si fanno dire il nuovo nascondiglio, ed a loro volta rinchiudono i nostri nella rocca. Ci si avvia al convulso finale, sempre giocato sul filo della suspense di buona fattura (per non allarmare i piccoli). Kalle trova un secondo passaggio per uscire dalla rocca, i nostri vengono allora ritrovati dai poliziotti, messi sulle loro tracce da quelle impronte inviate da Kalle, e tutti insieme inscenano una grande cora in auto per rincorrere i banditi in fuga. Ovviamente saranno presi, ovviamente i ragazzi faranno una bella figura, ovviamente su tutti, gli allori andranno al Grande Maestro degli Investigatori, il nostro Kalle. Per essere uno scritto che ha ben settanta anni si porta bene, non ha sbavature, si legge gradevolmente. Pieno anche di piccoli consigli ai giovani, magari ingenui oggi, ma che sarebbero sempre ben accetti se fossero seguiti. Tipo “l’onestà viene sempre ripagata” o “non si guadagna niente a contravvenire alla legge”. Frasi che stamperei a caratteri cubitali sulla fronte del 95% delle persone pubbliche presenti in Italia. E non pensate che queste di Astrid siano parole gettate al vento. Il protestantesimo scandinavo, unito ad un sano buonsenso, per anni ha fatto rigare dritto una società, che poteva avere mille magagne di diverso tipo, ma che ho sempre visto e conosciuto per il rispetto reciproco presente in ogni azione. Tanto che a volte ce n’è forse troppo, rasentando una sorta di isolazionismo o individualismo, ai limiti dell’autismo conviviale. Fatto sta che prenderei questo romanzo breve e lo porterei ad esempio ed analisi per una scrittura divertente, non banale, a volte anche utile.
Irene Adler (Alessandro Gatti) “Il trio della dama nera” Repubblica Noir Junior 5 euro 6,90
[A: 14/09/2015 – I: 30/05/2016 – T: 01/06/2016] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 204; anno 2011]
Alessandro Gatti è molto attivo nel campo dell’editoria giovanile, come ho già detto. Parallelamente ai “Gialli di Vicolo Voltaire” ha sviluppato questa serie, detta del trio, o dei tre amici. Utilizzando come pseudonimo il nome di Irene Adler, la bella del racconto di Conan Doyle “Uno scandalo in Boemia”. Dove, per i non aficionados del detective di Baker Street, si scopre che è l’unica donna ad aver battuto il nostro Holmes. Data la sua forte presenza, Irene scatenò una ridda di episodi apocrifi, il migliore dei quali è nella biografia fantastica di Holmes scritta da William Baring-Gould, ove si narra che i due ad un certo punto diventano amanti, e dalla loro unione sarebbe nato un figlio, che, crescendo, avrebbe seguito le orme paterne con il nome di … Nero Wolfe. Stupendo. Qui, Gatti invece si inventa una possibile conoscenza giovanile tra Irene e Sherlock, che, per accidenti del caso, si incontrano in quel di Saint-Malo dove sono in vacanza. E dove si unisce a loro per completare il trio un giovane francese, di poco più grande (un paio d’anni, forse), tale Arsène Lupin. Gatti ha prodotto ben 14 libri di questa serie che viene etichettata dalla casa editrice Piemme presso cui sono usciti come “Sherlock, Lupin e io” visto appunto che viene adottato il punto di vista di Irene come autrice dello scritto. È un racconto “juvenilistico”, e ben da leggere per giovani e giovanette under 15, tuttavia, plauso all’autore, non indulge in (troppi) errori storici, ed è filologicamente corretto nell’impostazione dei due personaggi maggiori. Irene, nel libro di Doyle, si dice essere nata nel 1858. Qui, si presenta come dodicenne, e l’azione si svolge nel 1870, con Sherlock un po’ più grande (anche se, dovrebbe aver ben 4 anni più di Irene). Meno accurata l’introduzione di Lupin, che, secondo Leblanc dovrebbe avere i natali sono nel ... 1874, differenza di età ribadita da Maurice Leblanc nel racconto “A.L. contro Herlock Sholmes”, dove un trentenne Arsène incontra un quasi sessantenne Sherlock. Ma questa licenza poetica gliela concediamo. Come concediamo ad Irene, e ad Alessandro Gatti con lei, alcuni giudizi avventati su disparati elementi pseudo-storici, come il biasimo per la “scadente letteratura” di Robert Louis Stevenson (che tuttavia scrisse il suo primo romanzo solo nel 1883). Certo l’intreccio non è dei più lineari, anche se ci regala qualche piccolo momento di interesse. C’è un morto che compare sulla spiaggia di Saint-Malo dove i nostri tre si trovano casualmente. Ci sono gli approcci di amicizia, e le già marcate scontrosità di Sherlock. Le entrate ed uscite di scena di Arsène, con i suoi travestimenti. Compare anche un furto di una bella collana ad un’aristocratica signora in vacanza. I nostri tre mini-detective cominciano allora ad indagare, a girare di notte (nonostante la giovane età), a farsi cerchie di amicizie tra le persone perbene (direttori di albergo, ufficiali postali, irreprensibili ispettori di polizia). Arrivando ben presto sulle tracce di un misterioso personaggio che pare cambiare frequentemente di nome e d’aspetto, ma non di (cattive) frequentazioni. Sarà sempre Irene a tirare le file (anche se le intuizioni saranno di Sherlock, e le scoperte di Lupin). Il misterioso personaggio era ricattato da una banda di farabutti capeggiata da un italianissimo Salvatore, e coperta da alcuni funzionari di polizia di dubbia rispettabilità. Tramite una lettera perduta nell’ufficio postale, si scopre la vera identità del personaggio. Una piccola tacca del crimine, dedito soprattutto al raggiro di belle signore, magari mature. Cui faceva subire piccoli furti, per ripianare i suoi debiti al gioco. Per sua sfortuna, effettua lo stesso trucchetto in quel di Saint-Malo a tre amiche, che, confrontatesi, scoprono le sue malefatte. Lo affrontano, quando lui ha già riciclato la refurtiva per ripagare Salvatore, e lui incidentalmente muore. Sherlock lo capisce dal maldestro tentativo di sbarazzarsi del cadavere in mare senza tener conto delle maree, e dal fatto che le tre giocavano con sua madre a … bridge (anche qui con una piccola imprecisione, che il bridge a quattro comincia ad essere giocato solo nel 1873). Ma le loro indagini permettono al buon ispettore di sgominare la banda di italiani e di eliminare i poliziotti corrotti. Non sappiamo, Irene non ce lo vuole dire, che fine faranno le tre signore coinvolte nell’incidente. Sappiamo solo che in questo primo volume vengono poste le basi della loro futura amicizia. Con quella bella frase finale, che vale a memento loro, dei giovani, ed anche di noi “diversamente giovani”, “sapevamo ormai tutto degli avvenimenti di cui eravamo stati testimoni; ma avevamo anche la certezza di non sapere ancora niente di noi”. Insomma, un’utile lettura giovanile, una divertente e rilassante lettura adulta.
Finalmente dopo ben 5 mesi, riusciamo a pubblicare almeno tre trame in questo complesso mese di ottobre. E come i miei vecchi lettori, la terza trama porta con sé i nuovi allegati, non quelli per curare, ma quelli per essere felici. Dato però che siamo alle prime trame di felicità, ci troviamo ancora invischiati nelle terapie d’amore, con una piccola disamina di uno dei primi libri di Elena Ferrante (che io continuo a non voler sapere chi sia).
Spezziamo intanto una lancia in favore del vostro senior, che, come ho letto in una bella t-shirt in un negozio del centro, “Io non invecchio, divento vintage”. Quindi vintage con l’anima junior per apprezzare libri giovanili. Per festeggiare in settimana un nuovo compleanno della mia signora madre. Per aspettare, senza ansia, nuovi viaggi. 

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

OTTOBRE 2016
Fin da maggio vi avevo avvertito che, per essere felici, la nostra simpatica Giulia Fiore affrontava, e ben a lungo, tutti possibili “mal d’amore”, e le loro rispettive terapie.

TERAPIE D’AMORE (III)

I GIORNI DELL'ABBANDONO di ELENA FERRANTE (2002)

Pillole di trama       
Olga è una donna appagata: è sposata, ha due figli, un lavoro e anche un cane. Ma quando suo marito, di punto in bianco e senza alcun preavviso, la lascia dopo averle confessato che sta vivendo un «improvviso vuoto di senso», il suo mondo va in frantumi. Lei stessa va in frantumi, anche perché scopre che il «vuoto» del marito è più pieno di quanto lui abbia confessato, dato che è stato già abbondantemente riempito da una ragazza. Per Olga inizia un doloroso percorso che dall’autodistruzione la porterà alla ricostruzione di un io più forte.
Supposta-saggezza
Gli uomini, soprattutto dopo una certa età, diventano imprevedibili e sorprendenti. Ma non nel senso che improvvisamente si presentano con mazzi di fiori, propongono weekend romantici o prendono spontaneamente l’iniziativa di lavare i piatti, almeno per una sera. Generalmente la sorpresa imprevedibile si rivela l’inaspettato annuncio di essere in crisi e di avere bisogno di una “pausa di riflessione”. Ora, quando si dice di aver bisogno di una pausa di riflessione, tutti, uomini e donne, in realtà hanno già riflettuto e preso una decisione. Solo che nel caso degli uomini, il novantanove per cento delle volte vuol dire che hanno un’amante con cui sono riusciti a colmare con piena soddisfazione «quell’improvviso vuoto di senso» proclamato dal marito di Olga. Il primo istinto sarebbe quello di rispondere che il vuoto ce lo hanno nel cervello e che la pausa di riflessione non gli servirebbe a niente perché non hanno l’equipaggiamento per riflettere. La lettura de “I giorni dell’abbandono” consente di seguire un percorso diverso, meno istintivo e più costruttivo. Si tratta di una sorta di discesa negli inferi della psiche della protagonista che, tra i fantasmi di un passato sepolto e i lampi di una quotidianità che sembra improvvisamente estranea, mette in moto un processo di autoconsapevolezza lento, doloroso ma indispensabile. Così, dopo una fase iniziale in cui si lascia andare all’autocommiserazione (comprensibile) della propria condizione, esacerbata e rancorosa verso il mondo intero, incurante di se stessa e intenzionata a sbattere in faccia a tutti il suo dolore per farsi compatire (come il ruolo della moglie abbandonata richiede), Olga comincia a srotolare quel gomitolo di rabbia che le si è annodato intorno al cuore e, ritrovando il bandolo della matassa, riesce a dare un nuovo e più compiuto significato alla sua vita, scoprendo che quella vissuta e considerata piena era solo “riempita” da una serenità di facciata che nascondeva silenziose voragini. Dopo ogni fine ci può essere sempre un nuovo inizio, dice la Ferrante, soprattutto se la fine è un abbandono che a rigor di logica, dovrebbe implicare un “ritrovarsi”. Basta provare a camminare con «il passo tranquillo di chi crede di sapere dove andare e perché».
Posologia
Particolarmente consigliato alle donne mature (ma in forma preventiva anche alle giovani lettrici), “I giorni dell’abbandono” è un integratore a base di collagene indicato per ricostruire i tessuti connettivi frantumati dalla fine di un matrimonio. Il collagene è la colla del corpo, ciò che ne tiene insieme i tessuti e che, contribuendo alla rigenerazione di cartilagini e legamenti, garantisce resistenza ed elasticità. Dal momento che la naturale produzione di questa proteina diminuisce con l’avanzare degli anni, eventi traumatici come una rottura sentimentale in età matura possono rendere necessaria un’integrazione per ricostruire tessuti e ridare vigore alle articolazioni (perché rialzarsi dopo una caduta o un crollo è faticoso sempre, ma superata una certa età notoriamente le ginocchia cominciano a scricchiolare). Il difficile cammino di Olga aiuta a rincollare con pazienza i pezzi di quel vaso rotto che è la propria vita, magari scoprendo che superati i giorni dell’abbandono, si è trasformata da un vasetto di Ikea carino, pratico ma uguale a milioni di altri, in un prezioso, unico e raffinato Gallé (tra i meriti del collagene c’è anche quello di ringiovanire la pelle ovvero nascondere le crepe del vaso e le rughe del viso).
“I giorni dell’abbandono” è anche un’ottima fonte di vitamina D, benefica per il cervello e il cuore ma fondamentale soprattutto per mantenere le ossa in salute. Rafforzando il principio attivo che, dopo un primo momento di lecito abbandono alla disperazione, bisogna superare frustrazione, delusione e rancore il romanzo provoca un irrobustimento delle ossa utile a sopportare meglio il peso della consapevolezza che liberarsi dal dolore è impossibile, perché continua a restare silenzioso in un angolo del nostro cuore in compagnia dell’amore perduto, perché la coppia è un miscuglio complicato e schiumoso e “sebbene la relazione si sfrangi e poi cessi, essa continua ad agire per vie segrete, non muore, non vuole morire».
La sincerità a tratti crudele, lo stile possente e la forza espressiva di Elena Ferrante possono rendere la cura piuttosto forte ed emotivamente intensa. Nella maggioranza dei casi, però, è stato riscontrato il recupero di un inaspettato vigore utile per affrontare la vita che è «un sussulto di gioia, una fitta di dolore, un piacere intenso, vene che pulsano sotto la pelle, non c’è nient’altro di vero da raccontare».
Effetti collaterali
Il lettore deve essere pronto a lasciarsi coinvolgere dalle inquietudini, dalle ansie e dalle paure di Olga, per elaborare tutto insieme a lei. Il processo può essere faticoso all’inizio ma una volta intrapreso sarà difficile interromperlo.
La presenza di lacrime e rabbia provocate dal tradimento e dall’abbandono potrebbe essere male assorbita dall’organismo. In questo caso si consiglia di rimediare con un trattamento più leggero: “Affari di cuore” di Nora Ephron. Se, come dice Tolstoj nel celebre incipit di Anna Karenina «Tutte le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo», è altrettanto vero che ogni scrittore racconta l’infelicità a modo suo. Elena Ferrante lo fa con toni drammatici e viscerali, Nora Ephron sceglie quelli comici e divertiti. Sta al lettore stabilire l’approccio terapeutico più consono al suo stato d’animo.
Consigli
Se la cura a base di Elena Ferrante si rivela efficace, suggerisco di continuare con gli altri due romanzi che compongono l’ideale trilogia Cronache del mal d’amore: “L'amore molesto” e “La figlia oscura”, particolarmente indicati nel trattamento dei rapporti complessi tra madri e figlie. Nella sezione dedicata alle cure intensive, trovate la corposa quadrilogia de “L’amica geniale”.
Terapia cinematografica sostitutiva
Non è facile portare sullo schermo la potenza verbale di Elena Ferrante e il groviglio di sentimenti che animano i personaggi dei suoi romanzi. Il film di Roberto Faenza è aiutato dall’interpretazione sofferta di Margherita Buy e dalla bravura Luca Zingaretti, che è riuscito a evitare la trappola del “marito cattivo” che avrebbe svilito la complessità del rapporto di coppia.

Commenti

Poiché degli altri libri citati nello scritto o non ne ho letti, o fanno aperte di prossimi scritti, mi dedico a questo che è il motivo conduttore della puntata. Un libro che, come dico più avanti, mi ha preso nella lettura, pur lasciando qualche perplessità.
Elena Ferrante “I giorni dell’abbandono” E/O euro 9,50
[pubblicato il 29 novembre 2015]
È il secondo libro della misteriosa Ferrante che leggo, e devo dire che mi ha lasciato un misto di attrazione e di distacco. Indubbie l’abilità di scrivere, di presentare situazioni anche molto complicate. Tuttavia ogni tanto non riesco ad entrare nella sua scrittura “al femminile”, cosa che invece, generalmente, mi riesce con altre scrittrici. Ad esempio, mi viene in mente, su argomento analogo, il libro di Siri Hustvedt “L’estate senza uomini”. C’è invece qualcosa nella Ferrante che ad un certo punto mi blocca. Non che non si riesca a leggerne, ma che frena l’empatia che generalmente si scatena tra lettore e pagina scritta (non che ci si debba immedesimare per forza in qualche personaggio, ma leggendo nasce, quasi sempre, un moto di benevolenza per la pagina scritta). Ora qui, l’argomento è duro, e trattato con altrettanta durezza. Una coppia, sposata da, credo, 15 anni, con due bambini, Gianni di 8 anni e Ilaria di 5, si sfascia, per colpa di lui. Che, ad un certo punto, abbandona Olga e famiglia. Assistiamo allora per ¾ del libro alla discesa di Olga nelle peggiori paure e verso momenti che girano intorno a baratri da cui non ci si risolleva più. L’autrice riesce, con questa sua scrittura forte, a farci sentire il dolore e la pazzia che si vanno annidando nel corpo e nella mente di Olga. E ad ogni pagina c’è un passo in più verso l’inferno. Olga non capisce i motivi di Mario, non trova (o non è capace di trovare) alleati o sodali nella cerchia delle sue amicizie. È estate, e riesce sempre con più difficoltà a gestire i figli. E quasi per nulla a gestire il cane Otto, che era stato voluto da Mario, ma che ora rimane a lei. E fa azioni spaventosamente avventate. Urla, dice parole oscene. Scopre che Mario sta con una ragazzotta di una quindicina di anni più giovane (mentre loro erano coetanei, avviati verso la quarantina). Questa è la scoperta che rischia di farla andare fuori di testa. Pensa di potersi rivalere sul mite vicino di casa, il violoncellista Carrano. Fallendo anche lì, ma con concorso di colpa. Si scorda il mangiare sul fuoco. Si scorda di andare a prendere i figli. Cambia la serratura alla porta di casa, e spesso non si ricorda come si apra. Fino al momento culmine, del libro e della pazzia, laddove tutto può andare verso il tragico o risalire non dico alla normalità, ma quanto meno a livelli di accettabili compromessi. Ci sono formiche in casa, e Olga spruzza l’insetticida. Poi vaga in pensieri dedicati alla sua vita con Mario, senza concludere gran che. Contemporaneamente, Gianni ha un attacco di febbre e vomito, Ilaria lo “cura” con monete fresche sulla fronte (le solite idee pazze dei bimbi), Olga vorrebbe uscire ma la chiave si blocca e la porta non si apre. Panico! E poi Otto si sente anche lui male, anche lui vomita, e Olga trova l’insetticida mangiato dal povero cane. Ancora più panico, si urla dalle finestre, il telefono non funziona (il cellulare perché scaraventato giorni prima contro il muro, il fisso, non avendolo pagato, è stato sospeso). Come chiamare il veterinario? Come chiamare un medico? Come comperare la Tachipirina per il malato? Come chiamare anche il povero Carrano, per essere aiutate? Parlo al femminile che le uniche persone ancora vigili sono proprio Olga ed Ilaria. Quando si arriva a questo punto, o ci si salva o si muore. Fortunatamente, ma un po’ casualmente nella scrittura, Olga si salva. Non si salva il povero Otto, che muore avvelenato dall’insetticida. Si salvano (almeno parzialmente) i figli: di sicuro dalla febbre, ed in parte dalle “pazzie” materne. Un po’ perché ricominciano le scuole, un po’ perché cominciano a frequentare il padre. Che all’inizio sembra contento, poi capisce che anche quello è un onere. E come tutte le persone che scelgono le vie più facili, anche se meno intelligenti, comincia a manifestare segni di indolenza. Olga, invece, alleggerita da questi pesi di cui si era auto caricata, ricomincia a vedere la luce. Accetta il suo ruolo di “abbandonata”, non pensa più al suicidio, e più distesa con i figli, si dispiace (ma in fondo è sollevata) della morte di Otto, e comincia a frequentare, con molta leggerezza il musicista del piano di sotto. Ripeto, la scrittura della Ferrante, in molti punti, quasi mi respinge, non riesco ad entrarci bene. Al solito, penso sia il problema di punti di vista maschili-femminili, dove non è facile scambiarsi la testa. Non capendo la fuga verso il fondo della pazzia, mi risulta altrettanto semplicistica la risalita verso la “normalità”. Comunque un forte libro sulla fine dell’amore tra due persone supposte mature. Dove, e non è un caso, chi fa la figura dell’imbecille è il maschio che si perde dietro a giovani gonnelle. E sono d’accordo con la scrittrice. Quindi, donne, leggetene e discutiamone.
“[Quanto della natura di Mario] covava nei bambini. Quanto di lui sarei stata costretta per sempre ad amare senza nemmeno rendermene conto, solo per via del fatto che amavo loro?” (184)

Finalino

Ribadisco il sentimento di gradevolezza che dona la scrittura di Grazia Fiore, che, mantenendosi leggero, ci fornisce spunti di riflessione e di divertimento. Anche se, come in questo caso, l’argomento è bello pesante. Ma la Ferrante mi sembra una persona all’altezza di affrontarlo. 

domenica 9 ottobre 2016

Rima caput mundi - 09 ottobre 2016

Come diceva Tito Livio, Roma capitale del mondo conosciuto. Ed ecco allora un quartetto dedicato a quella Roma, con altri quattro libri della bolognese Danila. Dove i romanzi, con il loro respiro più ampio ci riescono a dare degli sguardi interessanti e storicamente (quasi) esatti, mentre i racconti fuggono via, senza lasciare segni particolari.
Danila Comastri Montanari “Parce sepulto” Mondadori euro 9,90 (in realtà, scontato a 7,45 euro)
[A: 28/11/2014– I: 27/02/2016 – T: 29/02/2016] - &&&---
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 237; anno 1996]
Uno dei dati positivi della scrittura di Danila è la stretta consequenzialità dei tempi delle azioni. Non si salta di tempi (ed ovviamente di luoghi), almeno per ora. Dopo che nella storia precedente, con l’appendice, eravamo arrivati all’estate del 45 d.C., ecco che questa nuova avventura si colloca nel novembre dello stesso anno. Con la consueta appendice che si posiziona subito dopo, durante l’inverno. In questo quinto episodio, poi, si va precisando la natura libertina del nostro Publio Aurelio Stazio, sempre presente sin dall’inizio, ma che qui comincia ad assumere connotati più precisi, dove il magistrato e senatore romano non si perita di portare nell’alcova le donne che riesce a incuriosire per la sua intelligenza (sempre) e per le sue ricchezze (spesso). L’altro punto di forza è la ricostruzione di un aspetto della vita dell’antica Roma. Qui, Danila ci spiega e fa partecipi del sistema di apprendimento dell’epoca (non direi del sistema scolastico, che forse è maggiormente complesso). Chi voleva apprendere a leggere e scrivere (“e sa legger di greco e di latino” come diceva Carducci) aveva due grandi strade davanti, a seconda anche della ricchezza della famiglia. Prendere in casa dei precettori (i ricchi) o affidarsi a delle “scholae” dove liberti e schiavi s’industriavano ad insegnare le materie di base. Notiamo anche che, nelle prime classi soprattutto, non c’era preclusione anche ad ammettere le bambine. In quest’ambiente si va consumando un nuovo dramma. Nella scuola del retore Arriano c’è una grande confusione: il retore s’è indebitato con l’usuraio Elio Corvino, e per sdebitarsi gli ha dato in moglie una delle sue figlie gemelle. L’altra cerca di studiare, poi si fidanza con il rampante Ottavio, che non disdegna, per far carriera, le attenzioni da “amasio” di Arriano. Scalzando dal ruolo direttivo della scuola il mite Panezio. Arriano non era nuovo ad amori “juvenilis”, tanto da subire anni prima causa da un giovane della gente Elia originario di Numana (nome antico di Ancona). Giovane che sparisce, ma un suo fratello si installa nella coorte di Corvino. In tutto questo intreccio di amori, soldi e gelosie, la gemella promessa sposa viene trovata morta. Collasso naturale nelle terme? Delitto? Girano lettere minatorie, e Aurelio, sollecitato dall’amica Pomponia, non si può esimere dall’indagare. Spinto anche dall’avvenenza della giovane sposa di Corvino, nonché dal suo astio verso l’usuraio, e dalla ancor piacente ex-maestra delle due ragazze, la matematica Giunia Irenea (laude alle donne coi numeri). Tra l’altro Arriano si apprestava ad adottare Ottavio, non avendo figli maschi cui lasciare il patrimonio. Seguiamo Aurelio nella sua inchiesta e nelle sue scorribande, dove si imbatte più volte in uno dei culti molto in voga in Roma ai tempi, quelli di Cibele. Di cui fa una interessante e corretta analisi a pagina 133 (dove l’autrice contraddice la disamina storica fatta da Tito Livio nei suoi “Annales”). Tra corse in lettiga, lezioni al giovane e promettente Manlio, ed altre amenità di contorno, fin da subito noi ed Aurelio nutriamo dei dubbi su chi sia Lucilla e chi sia Camilla. Dubbi che neanche portandosela nel suo cubicolo (per fare indovinate cosa…) Aurelio fuga. Visto poi che si sta prodigando verso il sesso debole, ha anche una breve storia con Irenea (che però alla fine preferisce far sodalizio con il maestro di scuola). Dopo che ci imbattiamo anche in alcuni accenni sui riti funebri dell’epoca, finalmente i nodi si sciolgono, e, come in un giallo di buona fattura, scopriamo tutti i come ed i perché. Quindi le avventure continuano nell’appendice (“Una perla per Publio Aurelio Stazio”) che come detto si svolge poco dopo il romanzo, con il nostro Aurelio che, per ritemprarsi delle conquiste femminili, va a riposarsi nella sua villa di Pithecusa (l’odierna isola di Ischia). Qui si imbatte nella strana storia di sei giovani (Melissa, Zena, Pilade, Attilio, Leucio e Cirno) che trovano una perla gigante, nascondendola proprio nelle rocce intorno alla villa di Aurelio. Dopo la morte di Leucio e Cirno, e la storia di Melissa, Aurelio imbastisce un grande banchetto dove invita anche Pilade (fuggito da Ischia poco dopo il ritrovamento), Attilio (prima in sollazzo con Melissa, ora attratto da Zena e dalla flotta del di lei padre) e Zena (che vuole Attilio per risollevare le sorti della flotta paterna, ormai alla bancarotta). In poche righe, utilizzando un sotterfugio sulla provenienza irpina di una certa droga, risolve il problema. Ed ovviamente si porta nel talamo la simpatica Melissa. Continuiamo a seguire gli scritti della storica Danila, sperando che continui ad illuminarci in vicende storiche romane. Come anche le citazioni, dove, seppur questo “lasciate stare i morti” non è calzantissimo, non posso che sottolineare la correttezza della citazione virgiliana che tutti riportano errata, mentre la nostra, giustamente, la iscrive come “audentes fortuna iuvat”. Anche se la trama generale dei suoi gialli non è proprio delle più avvincenti, continuo a seguirne gli scritti.
“Ho rinunciato a vivere in prima persona, per farlo attraverso i libri: così vedevo la realtà mediata dalla letteratura, e le passioni mi apparivano lontane e rassicuranti … non avvertivo emozioni, le leggevo” (89)
Danila Comastri Montanari “Spes ultima dea” Mondadori euro 9,90 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 28/11/2014 – I: 03/03/2016 – T: 06/03/2016] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 262; anno 1999]
Nuovo episodio delle storie romane di Danila, e nuovo plauso ai racconti che imbastisce la storica bolognese. Ribadisco anche qui la correttezza filologica delle sue ambientazioni ed il piacere di scoprire aspetti della vita della Roma antica. Non posso non di meno sottolineare che le parti investigative non sono sempre all’altezza, anche se in questo episodio la trama ha alcuni spunti da non sottovalutare. In questa storia, intanto, l’idea della scrittrice è di esplorare e farci vedere come si succedevano e quali erano i poteri in gioco nell’alternanza delle cariche. Ricordo inoltre, che le storie procedono linearmente, così che questa si sviluppa nel giugno del 46 d.C., dandoci anche modo di valutare con piacere il calendario romano come si sviluppa a poco meno di cento anni dalla riforma di Giulio Cesare. Ogni capitolo, qui ed in tutte le storie, prevede l’indicazione del giorno di svolgimento. Apprendiamo così che i romani facevano ruotare tutto intorno a tre “dies” particolari: le calende, le none e le idi. I giorni quindi venivano indicati come giorni mancanti a questi tre giorni (terzo giorno prima delle calende di giugno piuttosto che quarto giorno prima delle idi). Le calende erano il primo giorno del mese, le none il quinto o il settimo, le idi il tredicesimo o il quindicesimo (secondo la lunghezza del mese). Confrontando poi pagina 58 e pagina 62 apprezziamo la filologia della conta. C’è il terzo giorno prima delle calende di giugno, ed il giorno dopo è la vigilia delle calende. I romani contavano “giorni pieni”, per cui si conta il primo e l’ultimo giorno della stringa. Quindi non esisteva, nel computo un “secondo giorno prima di”. Secondo elemento, quella della vita pubblica. L’imperatore Claudio aveva ridato potere al Senato, e di conseguenza ai reggenti il potere civile e militare in sua vece, i consoli (sempre due per mitigarne le mire reciproche). Così vediamo, nelle more del racconto, come si faccia “lobby” per aver il titolo di console, come si debba ripagare chi favorisce l’elezione, ed altri nefasti atteggiamenti che ritroviamo, con immutata rapacità, anche ai giorni nostri. Fortuna vuole che il console sia in carica un solo anno, e non possa essere rieletto per almeno altri dieci. In questo scenario ben delineato, s‘intreccia la vicenda del libro, fornendoci anche alcuni ragguagli della gioventù del nostro Aurelio, quando giovane tribuno viene mandato da Seiano, il console che agiva in nome dell’imperatore Tiberio, nella selva teutonica, per portare ordini all’Undicesima Legione. Legione comandata da Quinto Valerio Cepione e da sua moglie Vera Claudina. Siamo nel 26 d.C. (anno in cui Tiberio inviò come prefetto in Giudea tal Ponzio Pilato), i germani sbaragliano il campo romano, dove Cepione è ucciso da una freccia, e Vera muore alla testa delle truppe. Si salva Aurelio, che torna a Roma a fare la vita che conosciamo da questi scritti. Saltiamo venti anni, ed arriviamo al mortale intreccio che si dipana nell’estate del 46. Dove viene ucciso Antonio, sodale di Aurelio tanto da vestirsi come lui ed essere ucciso, sembra, per questo. Ma Antonio ha una vita, seppur gaudente, incasinata. Ha un fratellastro, Tucullo, orafo e fortunato, una moglie, Balbina, che preferisce Tucullo a lui. Anche perché Antonio è impotente. Ma si adopera per ricattare a destra e a manca, sia con l’aiuto di Valeria, figlia del Cepione morto di cui sopra, sia con quello dell’etera Glafira. Il tutto complicato da Paolo Metronio (il console di cui sopra) che usa la moglie Citrulla per mettere in difficoltà sia Aurelio che Marco Valerio, fratello della Valeria di cui sopra, e dagli incendi che mettono in difficoltà i poveri dei quartieri degradati, costringendoli a lasciare le case e rifugiarsi oltre Tevere. Sia da Marco Valerio stesso che accusa Aurelio di aver sedotto la madre Vera venti anni prima. Un diabolico intreccio, dove si uniscono onori militari e poteri forti che tentano di stravolgere la vita della nostra città. Aurelio, sempre con l’aiuto del fido Castore, usando i pettegolezzi dell’amica Pomponia, ed il suo acume investigativo, riesce a risalire la china di un imbroglio durato appunto più di venti anni. Smaschera non solo i colpevoli, ma riesce a non infangare nomi illustri, elemento che l’imperatore Claudio terrà in conto. Investendo in finale di libro il nostro gaudente epicureo del titolo di console (seppur solo per un mese). Avendo già elencato tutti i lati positivi, chiudo qui, in attesa di nuove avventure.
“Odiava essere interrotto nei momenti di grande intimità, vale a dire quando era con una donna o con un libro.” (156)
Danila Comastri Montanari “Scelera” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 8,40 euro)
[A: 13/07/2015 – I: 06/03/2016 – T: 09/03/2016] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 244; anno 2000]
Dopo tanti plausi all’opera della scrittrice bolognese, eccoci al primo volume che non raggiunge livelli di sufficienza. Non che non abbia le solite caratteristiche di accuratezza, ma è spezzettato in quanto, come ci preannuncia il titolo latino, si parla di delitti (da “scelus, sceleris, …” della 3^ declinazione). Come avete capito, pur raccordati in unità di spazio e di luogo, abbiamo 3 racconti e mezzo, non un romanzo completo. Purtroppo, le ricostruzioni e le indagini di Aurelio, nel breve spazio di un racconto, non riescono ad avere quel respiro calmo e ponderato di un romanzo intero. L’unica nota veramente positiva è, al solito, il luogo (degno di quel mezzo libro in più), perché siamo nell’estate del 46, e quindi, come tutte le estati del nostro senatore, ci troviamo negli ozi di Baia. E spaziamo tra le ville di Baia, il caos di Pozzuoli, le bellezze di Capo Miseno, nonché le ostriche, allora abbondanti, del lago di Lucrino. Oltre alla “forma racconto”, altro punto invece che mi ha poco coinvolto è stato il mancato disvelare di altri momenti della vita romana. Qui abbiamo storie che si svolgono durante un banchetto e che mettono in luce alcuni aspetti della vita amorosa del tempo. Abbiamo storie che si svolgono alle terme, ed anche qui un po’ di sesso ed un po’ di corruzione. Storie che coinvolgono giovani, giovanette e soldi (motore di quasi tutte le storie del mondo). L’unico elemento per così dire nuovo, oltre alla ribadita multi-sessualità dell’epoca, è l’idea che una donna possa iscriversi nel registro delle “lupae” per poter sfuggire ai controlli sulla propria vita (ricordo che “lupa” era sinonimo di donna che si vende per denaro, e che se una donna libera, di qualsiasi età, aveva un rapporto consenziente con una persona che non fosse il marito, lei era adultera ed il tipo passibile di un processo per stupro). Nella prima storia si parla di sesso, con tal Aulo ucciso ed evirato in una stanzetta del suo bel palazzo in Baia. Subito sospette sono la moglie, una lupa nonché suonatrice di strumenti musicali e la sua protettrice (della lupa, non del morto). Ovviamente, visto che ci sono di mezzi i soldi dell’eredità non possiamo dimenticare anche Sesto, il fratello di Aulo. Tuttavia, il capitoletto si intitola alle Parche, che si sa sono tre, una per la nascita, una per la vita ed una per la morte. Ruoli che ben si adattano alle tre signore di cui sopra. Aggravato dal fatto di aver scoperto un luogo segreto da dove vedere gli amplessi amorosi di Aulo. Era la moglie gelosa dell’amante? Era la tenutaria che essendo anche “tribas” (sinonimo di lesbica per i romani) era gelosa dell’amante di Aulo? Era l’amante a seguito di richieste poche ortodosse di Aulo? O, fuori dai giochi, il fratello Sesto per questioni di soldi e carriera? Nella seconda storia abbiamo un capopopolo ucciso alle terme sotto gli occhi del nostro Aurelio. Un tribuno cui i non aristocratici davano il loro appoggio, e che i sodali di Aurelio, senatori e pretori, non vedono di buon occhio. Soprattutto il latifondista Cassio Albo, afflitto tuttavia da un figlio soprannominato “porcellino”, e pensate un po’ perché. Certo con Aurelio capiamo meglio il meccanismo delle terme, soprattutto quelle nuove del delitto, dove, prime nella storia, veniva fornito un servizio di custodia dei beni per chi si andava, nudo, a fare saune ed altre attività. Aurelio si mette subito in contrasto con Cassio, ovvio mandante dell’omicidio, mettendolo da parte attraverso ricatti al suo porcellino. Ma chi è l’esecutore? Lavinia la guardarobiera? Stephanon il promesso di Lavinia, troppo indulgente verso gli amori mono-sex? Pullo liberto di Cassio, le cui sorelle erano ancora schiave? Fufidio il sodale del morto, stanco delle sue lotte “sindacali”? Il terzo è invece subito “scoperto” dall’infausta quarta di copertina, dove si parla di pedofilia. Ora, scompare la quattordicenne figlia dell’ammiraglio della flotta Lampronio. E già pensiamo di sapere come possa finire. Si ritrova il corpo di Faustina, una ragazza con tre dita del piede amputate. Poi si ritrova anche il corpo della scomparsa Lelia, con la stessa amputazione. La nostra Danila la mena di qua e di là, ma già pensiamo come possa finire la storia. O Lampronio, in un impeto di amori giovanili (e sappiamo che era dedito a fanciulle non ancora in fiore) va al di là del lecito con Faustina (o con Lelia), le uccide e Lelia (o Faustina) vede tutto e deve subire la stessa sorte. O c’è una vendetta che viene da lontano, qualche parente di una giovane con cui si trastullava Lampronio anni prima, mettendola incinta e facendola morire di parto (che aveva solo dodici anni). Il mezzo racconto è invece incentrato su un gioco matematico che avrebbe fatto sorridere il mio amico Ennio se glielo avessi proposto. L’anziano Perpenna muore ucciso da uno dei suoi nipoti, che il padre, per mancanza di fantasia, aveva chiamato Primo, Secondo, e così via sino all’ultimo nato Decimo. Perpenna, prima di morire lascia su una tavoletta i seguenti numeri:

VI
VIII
X
XX
IV
III
IV
V
?
VIII

Tutti pensano che la soluzione dell’enigma (che indica chiaramente l’assassino) sia “10”, ed accusano Decimo. Si vede facilmente che non lo è. Ed ho capito anch’io la soluzione, visto che siamo in ogni caso a Roma, dove ovviamente si parla latino. Capite bene, una serie di storie slegate, poco spazio per imbastire trame che si complichino durante lo svolgimento. Un po’ di indulgenza verso gli amori muliebri di Aurelio. Questa la sintesi estrema di un libro di passaggio, cioè poco riuscito. Ma si sa, chi scrive può avere dei passaggi a vuoto. Prima o poi ne parlerò, sull’onda di qualche libro che si legge ora.
Danila Comastri Montanari “Gallia est” Mondadori euro 9,90 (in realtà, scontato a 7,43 euro)
[A: 18/03/2015 – I: 03/04/2016 – T: 06/04/2016] - &&& 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 272; anno 2001]
Fortunatamente torniamo ad un romanzo completo e non a dei racconti, ed il tono sale subito. Certo non si allontana da una più che onorevole sufficienza, che, soprattutto verso la fine, c’è un po’ di confusione in tutti i sottofinali che la nostra scrittrice imbastisce. Ma la storia nel complesso regge. Come regge, molto bene, anzi è uno dei punti di forza, l’ambientazione. Siamo infatti di nuovo lontano da Roma. Ma non nei blandi rifugi campani, bensì nella nostra Provenza, all’epoca chiamata Gallia Narbonese. Non è quindi un caso che nel titolo si richiami l’inizio del “De Bello Gallico” di Cesare (“Gallia est omnis divisa in partes tres”). Tra l’altro la Gallia Narbonese, già romana ben prima di Cesare, era dai romani chiamata “Provincia Nostra” o semplicemente “Provincia” che ben presto diventerà, come si vede facilmente, “Provenza”. Unico punto di raccordo da tenere a mente con il precedente, è la sempre coerente successione temporale: dopo l’estate delle morti a Baia, ora siamo nell’autunno del 46. Periodo in cui l’imperatore Claudio si appresta a far entrare in Senato anche uomini provenienti dalle province. L’anno successivo infatti, ammetterà al Senato propri i Galli Comati (il nome deriva dai lunghi capelli che portavano appunto i Narbonesi). Ma Claudio vuole far passare la legge allargando la base di consenso, e quindi spedisce suoi emissari in Gallia. Uno di questi è proprio il nostro Aurelio. Che se da una parte dovrà trovare il modo di fare il politico, dall’altra, al solito, verrà invischiato in una vicenda di morti da sgarbugliare. Danila è abile nel tessere la sua trama da storica romana, senza commettere errori, non solo, ma trasportandoci e facendoci vivere la romanità lontana da Roma. In quei posti (a me cari per i pittori che vi vissero più di 1800 anni dopo, da Van Gogh a Cézanne, tanto per essere chiari) che risuonano con i loro nomi evocativi: Lugdunum, Arausio, Avenio, Nemasus, Glanum, Aquae Sextiae ed Arelate. Cioè, per chi non fosse avvezzo al latino, Lione, Orange, Avignone, Nimes, Saint-Rémy-de-Provence, Aix-en-Provence e Arles. Tra queste città, ma soprattutto ad Arelate, si svolge la storia, ed anche la Storia. Quella che vede i romani doc contrapporsi ai “nuovi ricchi”, con gli scontri tra Galli inurbati con la toga e Galli rispettosi delle tradizioni con le “bracae” (i calzoni, cioè, che lì l’inverno fa freddo), con le corse che vedevano gli aurighi delle diverse fazioni dannarsi per portare i ludi dalla propria parte politica, con gli amministratori che (ma che strano…) depredavano i poveri, arricchendosi alle spalle dello Stato. Un ultimo tocco di Storia, lo abbiamo anche con l’accenno di un giovane che parte per diventare segretario di un signore comasco, scrittore di grande avvenire. Il comasco non è altri che Plinio Cecilio Secondo, all’epoca ventiquattrenne, ma da noi conosciuto con il nome di Plinio il Vecchio. Con un piccolo dubbio, perché a me risulta che proprio nel 46, Plinio entra nell’esercito come ufficiale di cavalleria e partecipa alla conquista di una remota regione germanica al confine con l’attuale Belgio. Ma torniamo alla storia, quella minuta, dove vediamo morire, strangolato e poi bruciato, Irzio, uno dei capi dei conservatori ma in procinto di cambiare casacca per sostenere Claudio. Delitto politico o no? Irzio stava per divorziare da Elvia Valentina, figlia sciacquetta di Elio Valente, il più romano dei Galli. Tanto che era anche dedito ad usura e lenocinio, ed altre turpitudini. In contrasto con Artige, tanto che del delitto ne viene accusato il figlio di questi, Romolo. Ed è proprio dallo scontro delle due famiglie, i Valente e gli Artige, che si ciba il romanzo. Condito dal peperoncino sia degli incontri amorosi di Aurelio che dalle furberie del suo segretario Castore. Aurelio si fa irretire da Varinia, nuora di Artige, ma anche da Valentina, che usa le sue doti femminili anche per coprire il debole fratello Lucio. Castore non si perita poi di travestirsi da druido per seminare un po’ di panico tra le varie fazioni, ma anche per fare collette tutte a suo beneficio. Non è un caso che l’imperatore, sempre l’anno seguente, metterà al bando anche la casta dei Druidi. Vi lascio la voglia di scoprire tutti gli intrighi che insorgono: Romolo che fugge a Glanum dalla bella Artemisia, che si fa arrestare da Aurelio, che mentre si trova in prigione vengono uccisi, strangolati, e poi sottomessi ai supplizi druidici dell’acqua e dell’impiccagione, sia Scauro, un agricoltore che forse sa qualcosa, sia lo stesso Valente. Aurelio troverà il bandolo della matassa ricorrendo ad uno stratagemma quando si accorge che nella famiglia di Artige, sia la moglie Eufemia sia lo stesso Romolo, sono affetti da un difetto della vista. Sono daltonici, anche se Dalton battezzerà questo difetto solo nel 1794. Fatto sta che hanno difficoltà con il verde (difetto ora chiamato “deuteranopia”) tanto che il capostipite di lato materno era un druido di nome Voconzio Occhiogrigio. Ma tanti sono gli intrecci nel finale. Si scopre che Irzio, una quarantina di anni prima, aveva avuto una figlia fuori dal matrimonio, che Eufemia vuole più bene a Romolo che alla sua stessa vita, che Lucio è un po’ effeminato, che il barbiere di Aurelio è un po’ gay, e tanti altri intrecci, che mi hanno fatto dire appunto all’inizio, che ci si perde un po’ in tutti questi finali. Resta il piacere di una piccola immersione nel mondo romano, piacevole appunto, anche perché, sempre, ben documentata. E voi sapete quanto io sia pignolo!
“Anche le menzogne più sfacciate, se ripetute centinaia di volte da chi ha i mezzi per farsi sentire, si trasformano fatalmente in verità nelle orecchie poco avvedute. Così, gli inquisitori finiscono per diventare inquisiti e gli innocenti colpevoli…” (195)
Siamo alla seconda domenica del mese, quindi, come ormai sapete, vi trovate tra capo e collo anche un bell’allegato, dedicato alla fatica di alzarsi il lunedì mattina, ed all’aiuto che ci può dare in questo sforzo inane … Virginia Woolf.
Ed intanto continuiamo a progredire in questo ottobre pieno di feste, compleanni, impegni e pensamenti, in attesa di ricapitolare i fili dei nostri discorsi. Quindi leggendo e girando, camminando e sudando, vi saluto.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

OTTOBRE 2016
Un augurio di benessere a tutti i miei amici che, lavorando ahi loro, hanno sempre problemi a carburare il lunedì mattina. Seguiamo i consigli delle nostre amiche, ma ricordate, tutto dipende da voi, e non dai fiori che non comprerete.

LUNEDÌ MATTINA, MALESSERE DEL

Virginia Woolf     “La signora Dalloway”
Se pensare al lunedì mattina vi fa sentire condannati, se quando vi svegliate avete il peso di una montagna che preme sul petto, tiratevi su con la prima pagina (o anche le prime due, o tre, se poi non riuscite a smettere) de “La signora Dalloway”. Con questo capolavoro, infatti, Virginia Woolf inventò un nuovo modo di scrivere per catturare i pensieri in continuo mutamento e la vitalità che scorre nelle vene di una donna mentre vive, momento per momento, una giornata di giugno nella Londra che ama, dopo la fine della guerra. Si tratta, in realtà, non di un lunedì ma di un mercoledì, e la signora Dalloway sta organizzando una festa per la sera.
Decide di andare lei stessa a comprare i fiori. Fate attenzione, scansafatiche del lunedì. Anche voi potreste assumervi la responsabilità di fare qualcosa - qualcosa di piacevole, qualcosa di sensuale - che normalmente lascereste a qualcun altro. Questo pensiero vi aiuterà a scendere dal letto. Mentre finite la colazione, godetevi l’esuberanza della signora Dalloway - Clarissa - e i suoi pensieri cristallini («Che allodola! Che tuffo!») e seguite la lunga e tortuosa riflessione che segue, curvandosi nel tempo, raccogliendo suoni e rumori: «Perché così le era sempre sembrato quando, facendo cigolare i cardini, come adesso, aveva spalancato la porta-finestra per lanciarsi all’aria aperta, a Bourton». Che frase! Non udite anche voi quel cigolio, non sentite le porte che cedono alla vostra spinta, non gustate quell’aria fresca e pulita?
Dopo, accogliete dentro di voi attraverso gli occhi e la mente l’amore e il desiderio per la vita di Clarissa. Immaginatevi nel suo corpo ben proporzionato, simile a quello di un uccello, leggero, elastico, dal portamento eretto mentre, ferma sul ciglio del marciapiede, si prepara ad attraversare la strada. Notate il «silenzio particolare», la «pausa indescrivibile» che fa ogni cosa prima dei rintocchi del Big Ben. Siate consapevoli, come lei, della presenza della morte - del fatto che tutte queste persone che vanno di qua e di là un giorno saranno solo ossa e polvere - e portate con voi questa consapevolezza durante la giornata. Lasciate che vi aiuti a sfruttarlo al meglio, il vostro lunedì.
Poi (facendo attenzione, prima, a guardare a destra e a sinistra - non vogliamo che sia l’ultimo dei vostri lunedì e a questo punto, speriamo, non lo vorrete nemmeno voi) attraversate. E … perché no? Andate a comprare dei fiori.

Bugiardino

Non ho mai amato particolarmente la signora Woolf né il suo gruppo di intellettuali londinesi. Comunque ebbi tempo (se guardate bene ben 7 anni fa) di leggerne in lingua, e devo dire che l’inglese rotondo, forbito, che ti accarezza parola dopo parola, è una bella sensazione di lettura. Purtroppo non confortata dal risultato testuale che, come leggerete qui sotto, non mi ha particolarmente coinvolto.
Virginia Woolf “La signora Dalloway in Bond Street e altre storie” Repubblica Short Stories euro 4,50
[trama pubblicata il 1 marzo 2009]
Che dire? Si sa che nella scrittura della Woolf in pratica non succede niente. Così è in “Miss Dalloway in Bond Street” e “The Lady in the Looking-glass”, forse un po’ meno in “The Duchess and the Jeweler”. Si sta lì a seguire i pensieri avanzare sulla carta, a vedere le frasi formarsi con la casualità del pensiero. Quanto lavoro dietro a ciò, quanta bravura. Ma poi, poi mi rimane poco. La passeggiata della signora Dalloway, con i pensieri tra la da poco finita guerra, i passanti, il vigile, la commessa. Il gioielliere che cerca (trova?) il modo per far fare uno scatto di qualità alla sua vita (ma se per lui la qualità è il denaro, quale sarà lo scatto agognato?). Forse solo quelle lettere sul canterano, che aspettano il ritorno della vecchia signora che le leggerà, e che la casa spera siano racconti di viaggio, ma forse son solo conti e fatture. Tristi fotografie di un mondo triste. Apprezzo fino all’ultima riga il suo inglese, e l’ho letto e riletto perché scorre, significa, si sente vivo. Ma non c’è la cupa angoscia di “Una gita al faro” o di altre prove dove la lunghezza non serviva per allungare il brodo (ah ah) ma per arrivare a quella misura di equilibrio, per far uscire dalla pagina il sentimento, così come traspare dalle cose e dai pensieri, senza l’intervento diretto dell’autore deus ex-machina. Insomma, qui ritorna il mio dilemma sulla difficoltà (assolutamente personale) di star dietro alla dimensione racconto. Ed al mio ritorno, appena si può, alla lettura almeno del romanzo breve, se non al tomo indigeribile. Interlocutorio.

Conclusioni

Non sono così propenso ad indicare Virginia come rimedio ad una letargia latente. Il mio consiglio, più che di lettura, è di vita. Basta avere, il lunedì mattina, una signora Elisabetta che viene a rivoltarvi casa, ed una palestra vicina che accoglie le vostre fatiche. Vedrete come cambia la settimana (e forse la vita?).