domenica 28 giugno 2020

Boreali 1 - 28 giugno 2020


Gunnar Gunnarsson “Il pastore d’Islanda” Corriere della Sera Boreali 35 euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,90 euro)
[A: 31/12/2018 – I: 04/04/2019 – T: 07/04/2019] - && e ½  
[tit. or.: Advent; ling. or.: danese; pagine: 96; anno 1936]
Iniziamo con questo titolo un lungo excursus della letteratura mi verrebbe da dire scandinava, anche se, più in generale, dovrei riferirmi ai tre paesi nordici (Norvegia, Svezia e Finlandia) con l’aggiunta della mia amata Islanda, e qualche possibile puntata danese. Lungo viaggio che costeggerà i bordi delle edizioni “Iperborea”, mediate dalle scelte degli editor del Corriere della Sera. La fortuna vuole che inizi con uno scrittore assolutamente centrale per questo tipo di letteratura. Uno dei due grandi scrittori islandesi. L’altro è Halldór Laxness, premio Nobel nel 1955, grande innovatore delle tradizioni locali, ed orientato politicamente a sinistra. Qui invece parliamo di Gunnar Gunnarsson, di una quindicina di anni più anziano, il primo forse a far uscire dal limbo gli scritti islandesi, anche perché decise per tutta la prima parte della sua vita di scrivere in danese, così che i suoi scritti potessero avere maggior diffusione. Gunnar però fu a lungo tenuto anche in ombra, perché si era troppo avvicinato ai movimenti nazisti negli anni Trenta, anche se, secondo i suoi ammiratori, era solo un onesto e coerente conservatore. Qui, in questo breve scritto c’è tutta la “poetica” dell’autore. Avvenimenti minimi, riflessioni, scenari potenti come solo l’Islanda riesce a regalarci. Purtroppo, nel passaggio di anni e traduzioni, il titolo è andato ramingo. L’autore volle chiamarlo “Avvento”, e vedremo che è un titolo con un suo senso. Per non urtare la suscettibilità religiosa, poi, quando prima del ’40 venne pubblicato in Germania, si adottò il titolo “Il pastore delle alte terre”. Che in effetti, Benedikt è un pastore, e si aggira nelle alte terre islandesi, quelle del Nord per intenderci. Trasmigrato il libro in Inghilterra, cercando un nuovo collegamento tra il pastore delle anime ed il tempo dell’Avvento, venne fuori “Il Buon Pastore”, che appunto crea quel collegamento fattivo religioso con la Parabola del Vangelo di Giovanni. Infine, ora che si pubblica in Italia, si fa un mix di tutto, e si trova un titolo che alla fine non dice nulla: “Il Pastore d’Islanda”. Ma cosa dice, invece, il testo? Come si vede dalla lunghezza, più che un romanzo, è un racconto lungo. Protagonista è Benedikt, il pastore del titolo, che insieme ai suoi amici – amici, non solo meri accompagnatori o aiutanti – affronta un viaggio sui gelidi altipiani islandesi, tra le montagne, nel mese più rigido, cioè dicembre, alla ricerca delle pecore sperdute durante il rientro al pascolo dell’autunno. Benedikt non salva le pecore per denaro o per altri scopi privati: le salva per salvarle, per rendere un servigio alla sua comunità rurale. Già qui esce fuori lo spirito islandese, dell’amicizia e della natura. Già qui iniziamo a commuoverci, per il viaggio pericoloso di questo anziano, per i parametri locali. Benedikt ha 54 anni ed inizia, come da consuetudine, anno dopo anno, la domenica dell’Avvento il suo ventisettesimo viaggio per le alte terre, alla ricerca delle pecore smarrite. Viaggia, come dicevamo sopra, con due amici veramente speciali, due amici a quattro zampe. Leo, un cane da pastore, forte, intelligente, seppure caciarone a volte. E Roccia, un montone, mite e solido, come ricorda il nome, e noi lo immaginiamo coperto di pesante pelo lanoso, che avanza sprofondando nella neve senza però mai farsi abbattere. La santa trinità – così li chiamano – si mette in cammino. E come ogni cammino, seppure già noto perché percorso e ripercorso, anche in questo caso arriveranno ostacoli, problemi, piani risolutori e cambi di traiettoria. Un vero “Avvento”, insomma: un percorso di scoperta e riscoperta, insieme di riflessione, di superamento di difficoltà, di considerazioni e anche, infine, di cambiamento. Una piccola rivoluzione su e giù per le montagne, con qualche pizzico di riferimento religioso, a partire dal titolo e poi nei pensieri di Benedikt, che ci fa sapere dalla pagina di Vangelo letta alla partenza che quel giorno Gesù entrava a Gerusalemme salutato con rami di palma verdi, col sole dentro. Perché Benedikt sarà chiamato anche ad altre opere perché non si può dire di no ai suoi amici. Comunque, alla fine, come nella parabola, l’agnello perduto viene ritrovato e salvato. Ma oltre alla parabola in sé, che Gunnarsson ripropone come fosse un’antica fiaba locale, sono i paesaggi che, chi come me ama l’Islanda, non può dimenticare: le grandi descrizioni dei ghiacci. La montagna, i rifugi caldi, la solidarietà tra uomini del grande Nord, e poi le bufere di neve, la barba ghiacciata. Una sfida costante in mezzo a una natura che non è mai male, è, e basta, come sa bene Benedikt che quelle montagne le conosce, le rispetta, le ama senza mai odiarle, anche se lo mettono in pericolo. Un buon assaggio d’Islanda, anche se la troppo palese lettura biblica in controluce ne frena una lettura solo distensiva.
Tomas Tranströmer “I ricordi mi guardano” Corriere della Sera Boreali 31 euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,90 euro)
[A: 31/12/2018 – I: 07/04/2019 – T: 08/04/2019] - && e ¾
[tit. or.: Minnena ser mig; ling. or.: svedese; pagine: 77; anno 1993]
Nel mio mondo immaginato, popolato di parole, ci sono forme espressive che con maggior difficoltà riesco a fare mie. I miei assidui frequentatori sanno di certo che i racconti sono uno dei caposaldi di questa difficoltà. L’altro è la poesia, che a volte affascina per la sintesi che riesce a compiere, ma che più spesso non riesce a farmi entrare nei suoi meccanismi comunicativi. Per questo, quando nel 2011 venne dato il Nobel a Tomas Tranströmer rinunciai ad entrare nel suo mondo, sapevo che era uno sforzo troppo grande. Qui, nella seconda lettura della collana Boreali il poeta ritorna. Ed avrei fatto lo sforzo di leggere le sue liriche. Invece, doppio peccato, non ci sono poesie in questi ricordi. Anzi sono otto brevi racconti. La fortuna è che l’autore riesce, parlando di sé, a legare questi momenti progressivi della sua vita, ed a farmi dimenticare che avrei volentieri letto una sua poesia. Ma Tomas fa di più, che riesce, e ne parleremo poi, a farci vedere la nascita di una grande missione interiore. Cercando di andar per traverso, saltando la genesi, pensando all’uomo, vediamo Tranströmer che si racconta, attraverso le sue prime età. Compie prima tre, poi cinque, poi sette, poi nove anni. In questo nucleo di ricordi, ci addentriamo nella storia di Tomas e nella sua storia familiare. Una storia lunga due generazioni. Vediamo la Stoccolma degli anni Trenta (e che ne direbbe la mia amica Bergy?), l’emozione della scoperta del museo nazionale di Storia Naturale, dove le stanze avevano un odore di ossa, e dove scheletri di balena pendevano dal soffitto, così come io anni dopo ne vidi in Islanda. A nove anni si affaccia sull’orlo della guerra, con la paura di dover abbandonare la città. Il bimbo Tomas segue la guerra quasi fosse un gioco, ed ora, dopo sessanta anni, può giocare ancora con quelle frecce nere che penetrano nel territorio francese, con l’odio, mai più così forte, verso i nemici tedeschi. Il piccolo Tomas, magro e mingherlino, è ancora all’interno di un bozzolo che lo difende. Bisognerà aspettare due anni prima di veder germogliare in Tomas quello che sarà l’impegno più grande, la passione che lo guiderà verso il ricordo più caro: la lettura. A soli undici anni infatti lo scrittore, a Söder, scopre la “casa del Cittadino” utilizzata come biblioteca. Luogo che Tomas frequenterà per anni, così vicina ai bagni pubblici, con una perfetta acustica che serviva a riempire le voci di coloro che leggono. Il poeta l’ha sempre preferita alla pur meglio organizzata Biblioteca Centrale, quella all’angolo tra Odengatan e Sveavagen. Tomas seleziona letture di saggistica, storia e soprattutto geografia lasciandosi rapire dalle immagini dell’Africa su cui sogna a occhi aperti spedizioni come esploratore o come entomologo alla ricerca di nuove specie di insetti. I libri diventano il mezzo per conoscere il mondo, scoprirlo, analizzarlo, controllarlo, come fa uno scienziato con la sua materia. Il bambino e l’adolescente si formano sull’attenzione che diviene osservazione matura negli anni adulti. Nei suoi ricordi rileggiamo tutte le scoperte che lo hanno accompagnato nei passaggi iniziatici più importanti della vita, e che il poeta è riuscito a custodire dentro di sé come gli insetti che amava collezionare. Questo capitolo dedicato alla Biblioteca è cruciale nella genesi del Tranströmer attuale, dove la lettura si coniuga con lo studio del latino e quello della metrica classica al liceo, che lo avvicinarono al sublime, al distacco dal quotidiano, da cui prenderà l’avvio la sua poesia essenziale. L’atteggiamento dell’autore nei confronti del reale è quello dello scienziato dell’anima, che ripercorre le tappe della sua vita, ricostruendo con le immagini della sua memoria, un mondo perduto, ma sicuramente vivo nella poesia-prosa del suo raccontare. Uno dei momenti che più intensi, per me lettore, è la descrizione di quando il piccolo Tomas, in una calca di shopping per qualche festa, perde la mano della madre. Si trova solo, senza nessuno cui rivolgersi, un’esperienza che per Tomas rappresentava la cosa più vicina alla morte che potesse immaginarsi. Alla fine, accompagniamo Tomas fuori da questi ricordi, dentro gli anni Cinquanta, e verso tutta quella trafila di piccole espressività che lo portarono ad essere uno dei maggiori poeti viventi nei primi anni Dieci di questo secolo. Speravo qualcosa in più, ma poteva essere molto meno. Cari Nordici, vedremo come proseguirà.
“Ci si sente sempre più giovani di quanto non si è. Dentro di me porto tutti i miei volti passati come un albero i suoi cerchi. La loro somma sono ‘io’. Lo specchio vede solo il mio ultimo volto, io sento tutti i miei precedenti.” (40)
Stig Dagerman “Il viaggiatore” Corriere della Sera Boreali 29 euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,90 euro)
[A: 31/12/2018 – I: 21/04/2019 – T: 25/04/2019] - && e ¾
[tit. or.: Dikter, noveller, prosafragment; ling. or.: svedese; pagine: 134; anno 1983]
Il viaggiatore è una raccolta di racconti, saggi e poesie, pubblicati tra il 1947 e il 1955 a Stoccolma, conosciuta in lingua originale come “Dikter, noveller, prosafragment”, cioè “Poesie, racconti, frammenti di prosa”, raccolti in volume solo nel trentennale della morte di Stig. Da cui si capisce che alcuni “frammenti” erano di già postumi all’epoca della collazione. Stig è stata una meteora ma anche figura di spicco nel panorama svedese. Nasce nel ’23, vicino ad Uppsala, abbandonato subito dalla madre, lasciato dal padre ai nonni, che i soldi sono pochi. Il padre lo avvicina all’anarco-sindacalismo. I nonni gli fanno vivere un’infanzia serena. Poi, nel ’40 il nonno viene ucciso da uno squilibrato, la nonna ha un infarto e muore. Stig si trasferisce a Stoccolma, sposa una profuga tedesca e dal ’45 al ’49 ha la sua “stagione d’oro”. È un periodo particolare per la Svezia, dove in parallelo sullo schermo comincia a brillare un altro giovane, di qualche anno più anziano di Stig. Sono gli anni dei primi film di Ingmar Bergman (tra l’altro anche lui di Uppsala). Ma Ingmar ha più forza, più sostegno dalle sue donne. Stig lascia la prima moglie, sposa l’attrice Anita Bjork, ma non riesce ad uscire dalla depressione. Non riesce a scrivere, e se scrive, non riesce a farsi pubblicare. Immaginando non poter più raggiungere i fast precedenti, a 31 anni, si chiude in garage, e si suicida con il monossido di carbonio. Inciso: la moglie Anita farà molta televisione e teatro negli anni ’80 sotto la regia di Ingmar Bergman, dopo aver avuto una lunga relazione con lo scrittore Graham Greene. Venendo comunque al testo, è una raccolta-omaggio, molto disomogenea. Essendo una collazione non può avere intenti comuni, anche se c’è un filo che lega tutto l’insieme. Inquietudine, angoscia profonda, che spesso, seppur con proporzioni sempre diverse, si coagula in una tragedia. C’è la tragedia dell’automobilista che investe per sbaglio un bambino (in “Uccidere un bambino”), quella di uno studente costretto ad affrontare il mutismo di un professore che ha perso la stima per lui (in “La scacchiera da viaggio”); dalla disperazione della presa di coscienza del significato della miseria da parte di bambini poverissimi (in “L’auto di Stoccolma”), a quella di un adulterio sognato, ma non portato a termine per pavidità e ingenuità (nel racconto dal significativo titolo “Una tragedia minore”). Uno degli elementi-cifra di Stig è che molti personaggi sono giovani se non bambini. Che vanno incontro alla disperazione di conoscere l’inganno della vita, nella costante ricerca di qualcosa che è impossibile trovare. Non hanno paura della morte, perché, come volle fosse inciso sulla sua tomba, questa è la sensazione che pervade tutta l’opera e la vita di Dagerman: “Morire è viaggiare / sempre così brevemente / dal ramo di un albero / alla solida terra”. Anche se, in questa raccolta, il verso che racchiude il viaggio di Stig, è il coccodrillo postumo, che si auto-scrisse anni prima del suicidio: “Qui riposa / uno scrittore svedese / caduto per niente / sua colpa fu l’innocenza / dimenticatelo spesso”. Questi i due pallini che rimbalzano: l’innocenza e la tragedia. Innocenza come colpa, dovuta al solo fatto di essere al mondo, che parta a tutte le tragedie della vita, senza possibilità di scampo. Emblematico in questo senso è l’incipit di Una tragedia minore (che tenta anche un lontano parallelo con Tolstoj): “le grandi tragedie sono già tutte accadute da molto tempo. Possiamo leggerle nei libri o vederle a teatro. Ai nostri giorni accadono soltanto tragedie minori”. Una cupa foschia di tregenda, che non lascia spazio alla speranza. Una foschia che ricolma ogni pagina di questo florilegio. Non dà tregua. Non lascia il barcaiolo che accompagna il Lord sul lago, dove la piccola malsicura imbarcazione che annaspa nella nebbia è una magnifica preda della solitudine (in “Ho remato per un lord”). Non abbandona mai Régine, l’ebra polacca riparata in Francia, dove, in un freddo inverno parigino abbraccia con lo sguardo l’umanità deserta, in fuga dalla cortina di ferro, ma nessuno al di là di una momentanea consolazione trovata nella sua ospitalità è in grado di ricostruirsi come essere umano (in “L'inverno a Belleville”). Frammenti di sensazioni, che il contesto solleva molto sopra il testo stesso. Dagerman ha intuizioni molto in anticipo con i suoi tempi. Conditi da quella disperazione che lo porta in quel garage, il 4 novembre 1954. Lettura molto intrigante, seppur disomogenea, e minore nelle parti non prosastiche.
Dag Solstad “Timidezza e dignità” Corriere della Sera Boreali 13 euro 8,90
[A: 21/05/2018 – I: 20/05/2020 – T: 21/05/2020] - &&&&
[tit. or.: Genanse og verdighet; ling. or.: norvegese; pagine: 168; anno 1994]
Finalmente, grazie alla collana Boreali, riesco a leggere un autore norvegese che non appartiene al filone noir, che tanta gloria ha dato negli ultimi tempi alla penisola Scandinava. Veramente un romanzo interessante; stavo per dire “bello”, ma non credo sia aggettivo appropriato. Intanto mi ha dato anche agio di scoprire un autore considerato in patria tra le punte di diamante. Certo, Dag Solstad è un personaggio strano, intrinsecamente politico, per anni legato prima al Partito Comunista norvegese, per poi passare presto nelle file della frangia maoista molto in voga tra gli intellettuali locali negli anni Settanta. Poi, con le varie vicissitudini post-maoiste e post caduta del Muro di Berlino, si allontana dalla politica, ma non dalla scrittura. Produce libri dai titoli interessanti, come (anche se non so sia stato tradotto) “Tentativo di descrivere l'impenetrabile”, e come questo di cui stiamo parlando. È di certo un libro molto politico, ma anche costruito magistralmente, intorno al personaggio principale, che, partendo da un episodio marginale, costruisce una carrellata sulla sua vita, portando l’autore (e noi con lui) a riflettere sul ruolo dell’intellettuale e sulla “sconfitta” di una generazione. Consentitemi le virgolette che è un termine che non condivido in tutte le sue sfaccettature. Ma di sicuro, e questo lo condividiamo, una generazione che dovrebbe mantenere comunque una sua propria dignità, pur nelle avversità, ed una vergogna (che il traduttore italiano battezza, forse impropriamente o forse seguendo il modello inglese, timidezza) verso quanto non si è riusciti a fare. Come in molte opere di Solstad, il personaggio è un professore, Elias Rukla, che cominciamo a seguire nel corso di una lezione di letteratura norvegese per la classe dell’ultimo anno di liceo dove insegna. In questa prima parte vediamo la sconfitta interna di un insegnante che da anni tenta di far entrare nelle “zucche vuote” dei suoi studenti, le tematiche complesse (e molto interessanti) dei drammi di Ibsen. Qui, in particolare, siamo alle prese con “L’anatra selvaggia”, e Solstad, per bocca di Elias, ce ne illustra alcuni elementi che, in altri contesti, sarebbero senz’altro di interesse. Il ruolo feroce della verità, e quello consolatorio della menzogna, entrando nei temi minuti, non solo di Ibsen, ma di molta letteratura norvegese (che conosco poco) ed internazionale (di cui sarebbe bello entrare nel merito ma che vi lascio percorrere con l’autore). I tentativi di Elias (che vanno avanti da una ventina d’anni) si scontrano con l’indifferenza della classe. Come ad esempio, l’uscita degli studenti, al suono della campanella, anche se Elias non ha finito la sua lezione. Tutto ciò monta in Elias un senso di frustrazione, che si esacerba uscendo, scoprendo che piove, e non riuscendo ad aprire l’ombrello. Talmente fuori di giri da tutto l’accumulo, prende a male parole gli studenti. Da qui, allontanandosi sotto la pioggia, Elias inizia tutto un altro percorso, personale e che serve a noi lettori per svelare, momento dopo momento, chi sia Elias, che faccia lì, come ha vissuto la sua vita. Seguiamo così il giovane Elias, la sua entrata all’Università, l’incontro con quello che sarà per anni il suo grande amico e sodale, Johan. Elias il letterato e Johan il filosofo. Johan che segue lezioni su Wittgenstein, che è di poco più grande, che si laurea con una tesi sull’influenza kantiana in Marx. Seguiamo tutta l’ammirazione verso il più grande, verso tutte le giravolte politiche di quella generazione. L’impegno, le grandi idee, a volte molto, troppo grandi. Ma anche nei risvolti privati, che Johan, ovvio, è anche un “tombeur de femme”, fino a che non incappa nella più bella, quella dalla “bellezza indescrivibile”, Eva. Che Johan sposa, e con cui fa una figlia (Camilla). E via ancora, in quegli anni Settanta con una vita bohemienne quasi alla “Jules e Jim”. Fino a che Johan decide che non c’è più spazio per lottare il capitalismo dall’interno. E lui, che sempre aveva seguito le bandelle pubblicitarie ritenendole esempio della vita reale, lascia tutto e tutti, e se ne va in America. Dove, è ovvio, farà una riuscita folgorante. Mentre Elias rimane lì, a Oslo, a insegnare, e poi a prendersi cura di Eva e Camilla. Quest’ultima fino a che non è abbastanza grande da spiccare il volo da sé. Ma qui intanto si è ricongiunto il carosello schnitzelriano iniziato mentre Elias faceva colazione prima di andare a scuola. Nella casa dove vive con Eva, la cui bellezza, benché sfiorita, si intravede nelle pieghe della carne ingrossata, nelle rughe, nelle vene varicose. Perché poi Elias la sposa Eva. Ma in tutta questa dignità che porta avanti, con coerenza, anche se con rassegnazione (apparente) c’è il montare di una infelicità insopportabile. Che sbotterà con l’episodio dell’ombrello. E dato che Elias sta lì a spaccare il capello in quattro, lo vedremo macerarsi per l’impossibilità (sua interna) di ripresentarsi a scuola in un futuro. Tuttavia, la bellezza del romanzo è per il flusso che ci trasporta tra tutte le situazioni, senza lasciarci mai cadere nella noia. È nel tratteggiare queste figure di sconfitti. È nel porci domande cui non siamo qui in grado di rispondere, ma che ci ripetiamo: quanto di Elias c’è nella nostra parabola di vita? Abbiamo, personalmente, la dignità di sentirci senza rimpianti, seppur con tanti rimorsi? Finisco, consegnando Dag nello scaffale dei libri di cui tener conto, per essere anche riletti. E non è certo poco.
Tove Jansson “Il libro dell’estate” Corriere della Sera Boreali 31 euro 8,90
[A: 26/06/2018 – I: 23/05/2020 – T: 24/06/2020] - &&& -
[tit. or.: Sommarboken; ling. or.: svedese; pagine: 155; anno 1972]
Un libro mediamente interessante per la delicatezza delle descrizioni, e per molto contesto che porta sulle spalle. Legato principalmente all’autrice, essendo il nome femminile come tutti i conoscitori del finlandese. Che subito si lega alla seconda particolarità, che la Jansson è sì nata ad Helsinki, ma faceva parte della minoranza svedese ivi residente, ed ha sempre scritto, quando ha cominciato a scrivere, in svedese. Ed ha scritto, se qualcuno è un cultore della letteratura dell’infanzia, una delle saghe più note che ci vengono dai paesi scandinavi, dopo quella di Pippi Långstrump (cioè “Calzelunghe”). Infatti, dal 1945 al 1980 Tove Jansson ha scritto, tra romanzi, racconti e libri illustrati, quindici libri dedicati alla saga dei Moomin (o Mumin in italiano). Tove, in realtà, nasce proprio come pittrice, figlia di artisti, nota in patria per gli affreschi presenti ad Helsinki, e per altre realizzazioni, tra cui una pala d’altare per la chiesa di Teuva. Dopo la guerra, per risollevare gli spiriti adolescenziali, appunto, comincia a scrivere libri per giovani. Poi, dal 1970, si impegna anche in romanzi e ricordi, di cui questo è il primo. Forse non riuscitissimo, ma delicato appunto come una pittura, e con una trasposizione verso il mondo incantato delle vacanze estive che mi ha rapito e fatto cadere nei miei ricordi delle estati al mare. Certo, le isolette di fronte ad Helsinki non sono le spiaggione adriatiche della mia infanzia. Eppur tuttavia, le parole e le descrizioni, riportano alla mente paesaggi, sensazioni, momenti a volte lasciati forse troppo presto cadere in fondo alla memoria. Per questo passaggio verso il vasto pubblico, Tove si butta sulla propria infanzia, facendone un auto-ritratto che ritrae altro. L’ambiente, appunto, è un0isola del Golfo di Finlandia che si apre verso il mare aperto. Un’isola come quella dell’infanzia di Tove. Un’isola come quella che sarà il rifugio dei suoi anni migliori, finno alla sua morte, insieme all’amata Tooti. In quest’isola si aggirano i tre personaggi del romanzo: Sofia, la bimba, che nelle parole di Tove ricalca proprio sua nipote, la nonna, sembra plasmata sull’impronta di mamma Signe, e la presenza impalpabile, ma che riveste quelle estati della sicurezza matura degli uomini forti, il padre. Sono però Sofia e la nonna che animano i ventidue piccoli quadri che quasi come tessere di un mosaico ricompongono tutte le estati della giovane Sofia, come fosse una lunga e sola estate. La nonna, pur con la testa che pian pianino si evanesce, fa da mentore, contraltare e specchio alla crescita di Sofia. Insegna senza essere dottrinale. Permette, che bisogna anche fare delle esperienze. Così consente a Sofia di camminare sull’orlo del crepaccio, di fare il bagno dove non si tocca, di dormire nella casetta quasi isolata. Sofia che gioca per un’estate con Berenice dai riccioli naturali, anche se non ne sopporta le paure. Sofia che gioca con il gatto Mappe, o vorrebbe giocare. Ma tutto il mondo di Mappe è chiuso nella caccia agli animali, con cui omaggia Sofia. Che ovviamente non gradisce. Litigano, lei lo caccia, per poi accorgersi che è meglio avere qualcuno che ti tiene testa. Così come lei tiene testa a tutti gli isolani, quando non è al centro delle attenzioni, tanto da evocare una tempesta, e battibeccare con la nonna e con Dio. Fino al dolente racconto finale, “Agosto”, che per noi è l’estate piena, mentre per quelli del Nord è l’inizio della fine, quando bisogna riporre le barche, i fiori, chiudere le case, e tornare sulla terraferma in attesa che torni una nuova estate. Come detto il padre è presente ma non agisce. Sulla scena del teatrino isolano rimangono, con la forza dell’innocenza e la maturità della crescita, Sofia piccola donna che cresce, e la nonna, bambina con tanti anni sulle spalle. I loro quattro occhi, ognuno con il retroterra del poco o tanto vissuto, guardano l’isola e la natura che lì vive. Perché questa è poi l’altra protagonista del libro, l’isola. Un’isola che fa le veci della madre che Sofia non ha più (e che per consolarsi potrà dormire da sola nel letto grande). Sull’isola ci si cammina, si cercano piante, si soffre la tempesta ed il maremoto. Poi si cresce, e si va via. Tove, che nelle foto ha un’aria da eterna giovinetta, ci ritorna, perché appunto bambina dentro. Lasciandoci un giro di pagine lievi, che accarezzano il tempo che passa.
“Quando si è vecchi … ci sono tante cose che non si possono più fare…” (76)
“Ognuno deve poter sbagliare di persona … a volte ci si rende conto delle cose quando è troppo tardi e non si ha più la forza di ricominciare da capo,” (87)
“Non faceva che leggere e non gliene importava niente di come andava a finire.” (114)
Sappiamo ormai che la quarta domenica del mese è dedicata al riposo mentale, per cui non ci si aggiungono cure, felicità, o rimandi vari. Solo un bel pacchetto di libri e qualche considerazione. Che l’estate avanza, ma la quarantena non sparisce. Che si disegnano vacanze, ma non con i soliti modi usuali. Rimangono gli affetti, che difficilmente spariscono.

domenica 21 giugno 2020

Ultimi Gialli Americani - 21 giugno 2020


Ross Macdonald “Bersaglio mobile” Corriere della sera Gialli Americani 12 euro 6,90
[A: 11/09/2017 – I: 26/01/2019 – T: 26/01/2019] - && ½
[tit. or.: The Moving Target; ling. or.: inglese; pagine: 199; anno 1949]
Secondo giallo americano (come lettura che molto ho aspettato per parlarne), un po’ in calando rispetto al primo letto, anche se l’autore è un signor autore. Considerato, negli ambienti americani soprattutto, degno del terzo gradino del podio, dietro a Raymond Chandler e Dashiell Hammett. In effetti, lo scrittore americano-canadese, pur iniziando a scrivere la sua maggior serie sulla falsariga del puro hard-boiled, ben presto volgerà la penna verso una maggior caratterizzazione dei personaggi, e verso storie più sofisticate, quasi lasciando di lato la pura parte “noir”. Intanto, il suo vero nome è Kenneth Millar, che abbandonò per il sopra citato pseudonimo quando la moglie cominciò anche lei a scrivere con il suo vero nome di Margaret Millar. Secondo elemento è il “suo” detective, Lew Archer. Inizialmente forgiato quasi come un clone di Philip Marlowe (e questo si vede abbastanza con questo primo romanzo che ha, talvolta, i toni del grande detective), anche Archer si va raffinando, tanto che nel 1966, quando viene portato sullo schermo non potrà avere i connotati alla Humphrey Bogart, e sarà magistralmente interpretato da Paul Newman. Già dal nome, poi, il detective di Macdonald omaggia i suoi numi personali. Infatti, il nome, Lew, è un’abbreviazione di Lewis in omaggio a Lewis Wallace, lo scrittore autore di Ben Hur. Mentre il cognome Archer è preso pari pari da quello del socio di Sam Spade, che si chiamava Miles Archer. Questo bersaglio mobile poi è il primo libro dedicato ad Archer, come detto, così che ne ricaviamo qualche dettaglio biografico. Dovrebbe essere nato intorno al 1914, visto che ora, inizi anni ’50, è sui 35 anni. Alto 1,80, partecipa alla guerra mondiale sul fronte giapponese, poi alla fine della stessa entra nella polizia a Long Beach, a sud di Los Angeles. Ma disgustato da corruzione ed altro che non può combattere, decide poco dopo di passare al settore privato, apre la sua agenzia nel Sunset Boulevard a Beverly Hills, per passare la maggior parte delle sue inchieste tra Los Angeles ed il sud californiano, fino al Messico, eventualmente. Inizia, come molti, con i divorzi, sino a che, in questa prima inchiesta, viene ingaggiato dalla ricca signora Sampson perché trovi traccia del marito Ralph, da poco scomparso. Capiamo subito, anche se ci vorranno pagine perché venga alla luce, che si tratta di un rapimento. Intanto facciamo la conoscenza di molti personaggi. La signora Sampson, paralizzata, o forse no, in seguito ad una caduta da cavallo. Miranda, figlia di primo letto, che si adombra ad una delle svenevoli di Hammett, anche se si ferma sempre qualche passo prima. Innamorata di Alan, il pilota dell’aereo privato, ma dal padre promessa a Graves, ex procuratore distrettuale, ben noto a Lew, ed ora amministratore del patrimonio Sampson (che deriva da ben forniti pozzi di petrolio texani). Alan è innamorata di Betty, pianista presso il locale “Il Piano Scatenato” di proprietà del losco Troy. Durante le indagini, che si svolgono nella classica maniera hard-boiled, svelando pian piano una serie di attività losche, veniamo quindi a conoscere meglio le attività anche di Ralph. Oltre ai pozzi, ed alla tendenza di ubriacarsi ogni due per tre, in combutta con Troy organizza l’immigrazione clandestina di braccianti dal Messico. Utilizzando camion guidati da Eddie, il fratello della pianista Betty. Quando si acclara che Ralph è stato rapito, Lew comprende anche che il motore interno non può che essere il finto buono Alan, ultimo ad averlo visto allo scalo aeroportuale. Alan l’ha fatto rapire da Eddie, cercando di fuggire con i soldi e con Betty. Eddie ne parla anche con Tory, che si mette in mezzo solo per ricavare qualche extra, ma che vuole Ralph vivo per i suoi traffici altri. La parte finale è quella in cui si comincia anche a sparare. Graves uccide Alan che stava minacciando Lew. Ma lo fa solo per quello o anche per togliere di mezzo un rivale alle sue mire su Miranda? Nella presa dei soldi, muore Eddie, Betty è rapita da Troy che vuole Ralph. Lew salva il salvabile, ma quando arriva a Ralph anche lui è morto, seppur da poco. È stata Betty che era con Lew poco prima? Troy che si è liberato? Graves che inopinatamente compare sul luogo del delitto? Miranda che passa la notte fuori casa senza spiegazioni? Alla fine, com’è giusto, Archer metterà tutti in riga, risolvendo il romanzo con un finale un po’ buonista, ma anche discretamente agro (non direi amaro). Si capisce che Ross voglia indagare meglio sui motivi che spingono i personaggi ad agire così, come farà meglio nelle prove successive (e saranno in tutto 18). Un’ultima chicca sul cambio del nome dal libro al film. Fu Paul Newman a volerlo, in quanto era fissato che i film che gli portavano fortuna avevano il titolo iniziale con un’acca. Ecco così che nasce “Harper”, come il ben note “Hustler” (in italiano “Lo spaccone”).
George Harmon Coxe “L’occhio indiscreto” Corriere della sera Gialli Americani 21 euro 6,90
[A: 01/11/2017 – I: 24/03/2019 – T: 26/03/2019] - && -
[tit. or.: Murder with Pictures; ling. or.: inglese; pagine: 254; anno 1935]
Eccoci ad occuparci di un altro autore “classico” americano dei gialli hard-boiled. Anche se, questo suo primo scritto non è che sia molto sul pezzo del genere. Coxe è stato comunque un autore prolifico (una sessantina di romanzi) nonché sceneggiatore a Hollywood. La sua caratteristica è che la maggior parte dei suoi romanzi ha per protagonisti o Kent Murdock (come in questo) o Jack "Flash" Casey. Entrambi, oltre ad investigare, sono fotografi. Come apparirebbe anche dal titolo inglese (traducibile con “Omicidio con foto”). Mentre al solito, nelle prime uscite negli anni Cinquanta dei mitici Gialli Mondadori, si volle puntare sull’ambiguità del fotografo con una macchina per foto, indagatrice e pronta a prendere immagini “proibite”. Cosa che non avviene di certo in questo romanzo. Dove anzi il nostro Kent si deve arrabattare spesso per fare foto con quelle macchine che conosciamo bene dai film americani (quelle con una lampadona per flash). Proprio il personaggio di Kent è abbastanza particolare. Che è una persona che ha studiato ed ha dei modi comportamentali che gli consentono frequentazioni di ogni genere. Alte e basse. Che per esempio sposa una ballerina di rivista, ma da cui è più di un anno che tenta di divorziare. Che frequenta un ex-contrabbandiere ripulito e con soldi, con modi urbani (anche lui ha studiato), sodale di avvocati e politici. Seppur non avvincente, l’idea di Coxe è legare saldamente pubblico e privato. Così vediamo Hestor (ma che razza di nome è?) l’ex-moglie di Kent, frequentare Nate, il ripulito di cui poco sopra. Vediamo Mike, avvocato “feroce” di Nate, che lo fa assolvere anche in una situazione poco chiara. E vediamo Rita, la moglie di Mike, accompagnarsi con Howard, tradicchiando il marito (tra l’altro sposato controvoglia). Vediamo infine Joyce, la sorella di Howard, seguire il fratello in varie situazioni (anche pericolose) per cercare di distoglierlo dalla, secondo lei, cattiva strada, per poi finire nell’appartamento di Kent, al fine di sfuggire ad un’accusa di omicidio. Il “fatto”, così come viene ricostruito pagine e pagine dopo, dovrebbe essere il seguente. I fratelli Cusick tentano di ricattare Nate, che li incastra e li manda in galera. Quando escono vogliono fargliela pagare, ma Jim viene ucciso, Nate incolpato di omicidio e salvato dall’aggressiva difesa di Mike. Alla fine della festa per l’assoluzione, Mike viene ucciso. Dal fratello Sam che voleva vendicare la morte di Jim? Da Howard che in questo modo potrebbe avere via libera verso Rita? Da Joyce, per difendere il fratello? Da Nate perché in fondo era ricattato da Mike sotto altre vie? Da Un malavitoso che capita lì per caso, alla ricerca di una ballerina? Inciso: la ballerina viene trovata svenuta nella casa del morto e nessuno ci spiega come e perché. Coxe, ad un certo punto, cerca anche di farci balenare il sospetto che Joyce entri nella vicenda per qualche motivo appunto oscuro, ma noi non cadiamo nella trappola. Tutto il resto del romanzo serve a descrivere il “bel mondo” di Kent e Nate, che, in fondo, pur diversi e con diverso approccio, sono similari. Vengono dal basso, hanno studiato, poi si mettono a fare quello che sanno fare meglio. Foto, nel caso di Kent. Anche belle, ben riuscito, soprattutto perché ha un buon rapporto con la polizia. Soldi, nel caso di Nate, anche attraverso affari poco limpidi. Kent si infogna nella ricerca della soluzione del mistero perché Hestor non vuole dargli il divorzio se non in cambio di una montagna di soldi, c’è una grossa taglia sulla soluzione del caso che servirebbe a Kent per il divorzio, ed in fondo c’è la bella Joyce, che, bene o male, è invischiata nell’affare, e verso cui Kent comincia a sentire sentimenti non provati prima. Kent riuscirà a risolvere il caso, anche usando in modo improprio il suo flash. Non vi rivelo i dettagli del caso, né chi sia il colpevole, che è facile comprenderlo ben presto. Dico solo che Kent è un “puro” che rifiuta i soldi per onestà, trova il modo di divorziare da Hestor, e vi anticipo che sposerà Joyce. Perché poi, nell’altra ventina di romanzi, vedremo la coppia Kent e Joyce ben affiatata nella soluzione dei casi polizieschi, spesso anche aiutati da Fenner, un vero investigatore. Quasi a ripercorrere una triade che Coxe conosce bene, essendo grande amico di Earl Stanley Gardner. Parliamo ovviamente di Perry, Della e Paul Drake, per chi li ricorda. Pur gradevole a tratti, si sente l’atmosfera del 1935, e non se ne esce svecchiata. Unico altro punto a favore, l’ambientazione a Boston, anche qui, un luogo del crimine non sovente frequentato dai giallisti americani. Un piccolo neo nel finale: a pagina 15 c’è il seguente paragrafo con qualche mano di troppo. “Non appena ebbe posato il suo bicchiere vuoto, la mano sinistra di Leon lo afferrò, seguito dalla sinistra che asciugò meccanicamente il tavolo”. Guarda, guarda, il “polipo” Leon!
George Harmon Coxe “Fotografia rivelatrice” Corriere della sera Gialli Americani 24 euro 6,90
[A: 20/11/2017 – I: 07/05/2019 – T: 08/05/2019] - &&
[tit. or.: Murder for two; ling. or.: inglese; pagine: 219; anno 1943]
Come in ogni dualismo che si rispetti, visto che Coxe ha due “investigatori” come principali protagonisti delle sue storie, dopo il libro dedicato a Kent Murdock, eccoci al secondo che ha per protagonista Jack "Flash" Casey. Anche qui si inizia con un bel passaggio editoriale, che da “Omicidio per due”, l’italica fantasia si inventa questa “fotografia rivelatrice”. Saltando anche il primo titolo, con cui è apparso il testo, uscito a puntate su di una rivista americana con il titolo “Sangue sull’obiettivo”. Di certo, il “for Two” è senz’altro il più appropriato, sia perché ci saranno due omicidi, sia perché il protagonista, Casey, viene affiancato da una tirocinante che non si capisce se serve ad aiutarlo o a mettergli i bastoni tra le ruote. Casey ha avuto anche più fortuna del precedente tramato Kent, anche perché le prime uscite del nostro risalgono a racconti usciti sulla rivista “Black Mask” nel 1934. Casey è soprannominato “Flash” perché, come tutti i fotografi negli anni Trenta, scatta le foto aiutandosi con un lampo di magnesio. Foto che spesso sono l’inizio di una indagine, che Jack si picca di essere un fine investigatore dilettante. E sebbene in amicizia cameratesca con Logan, agente dell’Omicidi, spesso la polizia cerca di frenarlo con la scusa che ostacola le indagini. Casey ci viene descritto come un uomo grosso e grasso, occhi neri, capelli pepe e sale. Ma anche come un formidabile dispensatore di pugni, che tuttavia preferisce usare il meno possibile. Qui, tutto inizia non subito da una foto, ma in un giornale dove incontriamo un’amica di Jack, la giornalista d’assalto Rosalind Taylor, autrice di molte inchieste su corruzione e malaffare, dove però c’è sempre un pelo che manca per portare il caso in tribunale, o per far sì che colpevole o malversatori paghino il fio delle loro colpe. Jack fa incontrare Rosalind con John Perry, un inventore di uno speciale lubrificante, il quale accusa il suo socio di avergli rubato il brevetto. Ma quando Casey e Perry arrivano a casa della giornalista, la trovano morta. Tutti gli indizi porterebbero a Byrkman, ex-segretario di Rosalind che potrebbe aver venduto i segreti della giornalista. Elementi che si infittiscono, perché la nuova segretaria di Ros, Helen viene trovata legata e malmenata, ed accusa di essere stata colpita e segregata da due uomini. Che non ha visto in volto, ma di cui uno si è presentato in un lasso di tempo tale, che, nel frattempo, avrebbe potuto uccidere Rosalind. Casey si aggira furioso scattando foto. Karen, la giovane apprendista, gli sta intorno che sembra volerlo ostacolare, ma che ha piccole intuizioni che permettono a Casey di fare passi avanti nel mistero. E Jack aiuta il suo amico, il poliziotto Logan, nel cercare il capo della matassa. Anche perché, benché si sia trovato Byrkman, e si sia cercato di metterlo sotto protezione, anche lui viene ucciso. Con una pistola simile a quella dell’omicidio Taylor. Tutto il libro, che devo dire non è che sia riuscitissimo, ci si incarta spesso, non si capisce il ruolo di Karen. C’è forse qualcosa che non sappiamo e dovremmo sapere? L’unica nota divertente, diciamo così, è che Casey, nello smascherare alla fine chi ha fatto cosa, ci fa vedere come riesca a smontare l’alibi alla persona in questione. Un alibi così ingegnoso fino a questo momento che nessuno si era accorto che era un alibi. E tanto meno un alibi costruito ad arte. Per smontarlo, ovviamente, e questa volta è giusto, Jack usa una foto. In questo senso ci si ricollega al titolo italiano di una possibile fotografia rivelatrice. Ma io continuo a ritenere che altri titoli sarebbero stati più appropriati. Comunque, alla fine il libro è dignitoso, sebbene chiaramente datato. Certo, libri dello stesso periodo, o anche antecedenti, hanno resistito meglio nel tempo. Pensiamo al da poco tramato S. S. Van Dine (degli Anni Venti) o anche agli 83 romanzi con Perry Mason, scritti a partire dal 1933 da un gande amico dello scrittore, Erle Stanley Gardner. Comunque, più che dei suoi libri (e ricordo che su Jack “Flash” Casey ne scrisse più di venti), mi piace ricordarne, rispetto alla volubilità americana, la sua costanza amorosa. Si sposa con Elizabeth Fowler nel 1929, che rimarrà sua moglie e compagna fino alla sua morte, nel 1984. Ed in ogni caso, a Coxe viene riconosciuto un suo ruolo ed un suo spazio nella narrativa noir americano, tanto che nel 1954 viene eletto per un anno presidente del Mystery Writers of America, la maggiore associazione di scrittori di gialli americana, che ogni anno conferisce anche un piccolo premio al miglio romanzo pubblicato, premio denominato “Premio Edgar”, in onore, come si capisce, del capostipite di tutte le scritture moderne, Edgar Allan Poe.
William R. Burnett “Il boia è solo” Corriere della Sera Gialli Americani 16 euro 6,90
[A: 18/12/2017 – I: 07/06/2020 – T: 09/06/2020] - & e ¾
[tit. or.: Vanity Row; ling. or.: inglese; pagine: 268; anno 1952]
Dopo più di un anno torniamo a mettere mano al penultimo libro della serie dei Gialli Americani edita dal Corriere della Sera. Una serie filologicamente interessante, ma con pochi elementi ancora validi. Sarà che il genere “hard boiled” americano è abbastanza tramontato, magari surclassato dalla “serie Noir” francese alla Jean-Patrick Manchette. Qui, intanto, non abbiamo grandi sparatorie, anzi neanche una. Come spesso nello stile di Burnett, c’è la fotografia di una America corrotta e degradata, che preferisce a volte mettere alla gogna un innocente piuttosto che trovare colpevoli scomodi. Intanto, anche se qui non al meglio, bisogna comunque tributare un omaggio sentito all’autore, che, più che nei libri, eccelse in sceneggiature hollywoodiane di grande impatto. Sino dalla sua prima uscita, con “Piccolo Cesare”, per la regia di Mervyn LeRoy ed il debutto sullo schermo di Edward G. Robinson (era il 1931). Ci saranno poi “Scarface” nel 1932 con la regia di Howard Hughes, fino alla sceneggiatura de “La Grande Fuga” del 1964 con quella rocambolesca fuga in moto di Steve McQueen. In mezzo, uno degli altri grandi successi di sceneggiatura: “Giungla d’Asfalto” di John Huston del 1949, che oltre ad essere un altro caposaldo della denuncia contro la corruzione e la malavita va ricordato per la parte che vi recita, acclamata per la prima volta dalla critica, la giovane Marilyn Monroe. Ma è ora di tornare a questo libro, ed alla sua scarsa consistenza. Intanto, non si spiega il perché del cambio del titolo, che in inglese si riferisce ad una via piena di locali di malaffare, tra cui il famoso Cipriano’s, uno dei luoghi clou dell’immaginario della vicenda. La stradina appunto che si chiama “Vanity Row”. Da noi tutto diventa invece incentrato sul protagonista, con un tentativo di fuorviare il lettore. Ora, se un titolo dedicato ad un libro di gangster americano parla di “Boia”, lo sprovveduto lettore pensa subito alla fine che fanno (o facevano) molti omicidi americani. Mentre qui, “boia” è il soprannome del capitano Roy Hargis, uno dei detective più preparati del corpo di polizia locale. Un lupo solitario, discretamente amante delle donne vistose (come apprendiamo dalla sua entrata in scena nel secondo capitolo), contornato da elementi “border line”, anche se quasi tutti di buon livello: Boley, un autista di origine polacca, Emmett, il grasso scopritore dei più piccoli indizi che alla fine si rivolterà per gelosia al suo altrimenti benvoluto capo, e Alma, la carceriera di buon cuore. Roy è inserito nel giro di corruzione cittadino, al soldo di Chad Bayliss, inserito nell’amministrazione e grande manovratore di appalti. Il via alla vicenda viene dato dall’uccisione di Frank Hobart, avvocato e grand commis della corruzione. Chad ipotizza che sia stato fatto fuori da alcuni elementi legati alla malavita che governa la città, visto che l’amministrazione tardava a pagare il pizzo. Incarica quindi Roy di trovare un capro espiatorio, in modo che non vengano trovati o ipotizzati legami tra Frank e la malavita. Attività facilissima per Roy, visto che Frank nell’ultimo periodo si era invaghito di una bella signorina, Ilona Vance, e che Ilona è stata l’ultima persona nota ad essere vista con Frank. Fino a questo punto, il libro regge abbastanza, ma siamo solo verso pagina cento. Ecco che quando scende in campo Ilona tutto cambia. Una bellezza da mozzare il fiato (direi che sarebbe una parte a metà tra Marilyn Monroe dell’inizio e Sharon Stone di “Basic Instinct”). E che rovina tutto il resto del romanzo. Roy, come Michael Douglas, rimane affascinato e travolto da Ilona. Farà quindi di tutto per poterla scagionare, motivo per cui la maggior parte del romanzo da qui in poi è costituito da interrogatori e discussioni varie, dove ovvio che rifulge il talento da sceneggiatore di Burnett. È ovvio, da come si svolgono i fatti, che Chad e gli altri corrotti faranno di tutto perché Ilona risulti il capro espiatorio. È altrettanto ovvio che, pur con tutte le attenuanti del caso, Ilona è realmente colpevole. Dobbiamo solo seguire Roy il Boia nei suoi tentativi di ridurre le imputazioni a suo carico, magari mettendosi contro Chad, rischiando lui stesso di fare una brutta fine. Non sarà un finale consolatorio, che Burnett lascia aperte alcune strade possibili del futuro di Roy e di quello di Ilona. Ma il tutto risulta molto moscio, privo di mordente. Non c’è suspense per capire chi ha ucciso chi, non c’è suspense per sapere come i quasi buoni usciranno dalla vicenda. Insomma, il romanzo scorre via senza sussulti verso la sua poco onorevole fine. Date le premesse della vita e delle opere di Burnett mi aspettavo qualcosa di più. Anche perché, qua e là, dissemina di piccoli accenni che ci fanno capire come l’autore abbia un solido retroterra di letture (lui sostiene di essere un accanito lettore di Flaubert e di Balzac). Mettendo anche qualche commento ironico, come quello su Conrad che riporto. Però sono abbastanza deluso.
“E chi diavolo è questo Joseph Conrad?... Uno scrittore di racconti marinari” (194)
Ross Macdonald “Il delitto non invecchia” Corriere della sera Gialli Americani 8 euro 6,90
[A: 18/12/2017 – I: 12/06/2020 – T: 14/06/2020] - &&& ½
[tit. or.: The Chill; ling. or.: inglese; pagine: 313; anno 1964]
Il precedente fu uno dei primi Gialli Americani ad essere letto, questo, stesso autore e stesso protagonista, è invece l’ultimo. Così che concludiamo questa altalenante collana. Direi una buona conclusione, dove passiamo a vedere il detective Archer dal primo a questo che è l’undicesimo libro a lui dedicato dei diciotto scritti dall’autore. Oltre ad essere passati dieci libri, sono passati anche quindici anni nella scrittura. Che qui trovo, non a caso, più matura, anche più complessa, nella trama e nello svolgimento. Non mi dilungo sul personaggio Archer, di cui ho ampiamente trattato nel precedente, se non per qualche aggiornamento nei tratti distintivi, sempre più affine al film con Paul Newman, che all’iniziale Humphrey Bogart. Lew rimane solitario, anche se ha qualche aiuto da un suo amico e dalla sua donna, che gravitano in quel di Reno, e che daranno una piccola mano nello sbrogliare la matassa. Che questo gomitolone è ben complicato, con una sua trama direi quasi dal sapore ottocentesco, dati tutti i risvolti che pagina dopo pagine vengono svelati ed in qualche modo risolti. Una risoluzione che, come nelle sue pagine leggo e ritrovo in rete, non sono mai del tutto risolte nelle pieghe finali. Ma alla fine riusciamo a capire tutta la trama, chi ha fatto cosa e perché. E non è poco. Anche qui, l’inizio sembra in sordina. Un tizio chiede a Lew di ritrovargli la moglie scomparsa durante la luna di miele. Lew impiega poco tempo a ritrovare Dolly, solo che il ritrovamento e le prime indagini portano a scoperchiare molte pentole che non ci si aspettava. Allora, Dolly fugge dopo aver incontrato il padre, appena uscito di prigione dove ha scontato dieci anni per l’omicidio di secondo grado della moglie Conny. Dolly, fuggendo, si rifugia nell’Università locale, facendosi amica della tutor Helena, e trovando un lavoro part-time come autista dell’anziana signora Bradshaw. Signora che vive con Roy Bradshaw, preside della facoltà. Lew cerca di scoprire i motivi della fuga di Dolly parlando con Helena, senza successo. Anzi, con pochissimi risultati, visto che poche ore dopo, Helena viene uccisa. Non è un hard-boiled da anni Trenta, non ci sono sparatorie ed altro. Ma tra passato e presente, i morti fioccano, e si intrecciano. Già abbiamo ora Helena e dieci anni prima Conny. Dalle parole di Helena, Lew capisce che c’è un altro morto che galleggia nell’ombra: tal Luke, classificato come suicidio venti anni prima. Un delitto che venne affidato al padre di Helena, poliziotto nell’Illinois nativo. Le trame si infittiscono, che scopriamo Roy essere a suo tempo studente proprio in Illinois, nonché preso dalla più anziana Tish. Signorina molto “libera” nonché cognata del morto Luke. Lew non è affatto convinto che Luke si sia suicidato, così come non ne era convinta Helena, che pensava di averne le prove. Sarà per questo che ora muore? Ma andiamo avanti di dieci anni, dove troviamo la famiglia McGee in difficoltà. Thomas è un marito violento, Conny e Dolly si rifugiano dalla sorella di lei, Alice. Dolly, all’epoca undicenne, è disturbata, così che viene affidata allo psicologo Godwin. Ogni settimana Conny la porta a studio, dove incontra, guardate un po’, proprio Roy Bradshaw, anche lui non proprio in palla. Conny e Roy iniziano una storia d’amore, troncata dall’uccisione di Conny. Thomas viene incolpato, e per la deposizione della figlia, anche condannato. Ma ora Dolly ritratta tutto. Dagli aiutanti di Reno, Lew scopre inoltre che Roy avrebbe sposato Tish, che si era trasferito a Reno per ottenere il divorzio ed impalmare la sua nuova bella, la professoressa Laura. Facendo in modo però che a tutti sembrasse lui corteggiasse Helena. Altre indagini portano alla scoperta di un necrologio di Tish nell’Europa della Seconda Guerra Mondiale. Ma ci sono indizi che portano a dubitarne. Abbiamo così tre delitti in cui, in qualche modo, è sempre presente Roy. E forse anche Tish? Lew riuscirà come detto a trovare il capo di questa ingarbugliata matassa, che ha anche tanto altro nelle sue più di trecento pagine. Che però vi consiglio di leggere. Anche perché l’autore ha un suo tocco di “intellettualismo” che mi farebbe piacere capire come veniva recepito dai lettori all’uscita del libro. Ad esempio, ci fa sapere che un ragazzo del campus dove studia Dolly sta leggendo “Il giovane Holden” di Salinger. Mentre aspetta una persona, Lew si mette a leggere un libro di filosofia greca, discettando di Eraclito e Parmenide. Inoltre, più volte ci riporta il paradosso di Zenone su Achille e la tartaruga. Dei piccoli spunti che rendono vieppiù gradevole la lettura. Che all’inizio era anche punto-interrogativa dall’immotivato titolo italiano. Perché il delitto invecchia? È forse un modo per dare al lettore una chiave interpretativa ulteriore, quando “The Chill” originale potrebbe applicarsi a molte situazioni e personaggi: ambiente freddo, personaggi frigidi o rigidi. Insomma, la mia battaglia per i titoli è ancora in combattimento.
Siamo alla terza domenica di giugno, ed eccoci allora a parlare in allegato delle nostre pazzie.
Comunque, è anche il solstizio d’estate, cioè il giorno più lungo dell’anno, in termine di sole. Da domani, minuto dopo minuto, comincerà ad avanzare il buio. Noi non lo temiamo, noi che abbiamo il sole dentro, noi che in ogni caso siamo contenti (no, non ho detto felici). Noi che pensiamo ai nostri cari. Io che vi vedo sempre, attorno all’io scrivente, che vi riconosco e so come devo distribuire baci e abbracci.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
GIUGNO 2020
Torniamo da questo mese a piccoli rimedi, come dice l’introduzione, che abbiamo bisogno di qualche blister prima di tornare “normali”.

BLISTER D’AUTOSTIMA 1

Non bisogna mai sottovalutare gli sbalzi di pressione. Soprattutto quelli della pressione emotiva, che può andare su o giù a causa di eventi esterni o di fattori congeniti come il carattere.
La pressione emotiva bassa può causare leggeri episodi di depressione quando l’umore scende in picchiata portandosi dietro l’autostima e la capacità di reagire. I sintomi dell’autostima bassa si manifestano principalmente con la mancanza di fiducia in sé stessi e con il conseguente senso d’inadeguatezza. Una delle principali cause all’origine dei vortici di bassa autostima, che portano temporali nella nostra vita, è il divario tra l’io reale e quello ideale, ovvero tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. A questo sdoppiamento, già difficile da gestire, bisogna aggiungere la frustrazione provocata dalla difficoltà di aderire agli standard, rigidi e spesso irraggiungibili, imposti dalla famiglia e dalla società. Cercare di innalzarsi a livelli inarrivabili comporta un ulteriore abbassamento dei livelli di autostima e sviluppa un pericoloso complesso di inferiorità, spesso legato anche a difetti fisici, che provoca a sua volta la comparsa di altre patologie legate alla disperata ricerca di sicurezza. Non meno pericoloso è il rischio della pressione emotiva troppo alta che, facendo schizzare l’ego al di sopra dei livelli di guardia, comporta spesso preoccupanti episodi di mitomania. Consiglio, in ogni caso, di diffidare sempre delle persone eccessivamente sicure di sé, quelle che godono nel farsi grandi sminuendo gli altri e che garantiscono di avere in tasca la chiave del successo: le tasche si bucano e le chiavi si perdono ma, soprattutto, raramente la gente dice la verità. Al contrario i libri, proprio perché inventano storie, è raro che mentano. Suggerisco di cercare nei libri rimedi di fantasia per colmare reali insicurezze.
Se vi sentite scarafaggi depressi, esseri inetti, brutti, perdenti, insicuri e privi di qualità, in questa sezione troverete la pillola giusta per ristabilire i corretti livelli di pressione emotiva e di autostima.
Avvertenza: le cure qui segnalate sono rivolte soprattutto a pazienti affetti da bassa autostima. Chi soffre di autostima alta difficilmente crede di essere malato e ancora più difficilmente penserà di doversi curare. In ogni caso, i rimedi qui consigliati farebbero tanto bene anche a loro.
Ken Kesey “Qualcuno volò sul nido del cuculo”
Vibrante atto di denuncia dei metodi distruttivi degli istituti psichiatrici, commovente inno alla libertà e toccante dichiarazione d’amore per l’umana fragilità, “Qualcuno volò sul nido del cuculo” è un valido rimedio per recuperare l’autostima.
Quando lo spavaldo, ribelle, folle (per davvero o per finta?) Randle Patrick McMurphy irrompe con la sua travolgente simpatia in un tetro manicomio dell’Oregon, porta lo scompiglio nelle vite svuotate dei malati acuti e cronici che vegetano in una sorta di limbo, abbandonati da una società che si rifiuta di capirli e di aiutarli ma vuole solo nasconderli come si fa con la polvere sotto il tappeto. In questa «prigione» gestita dall’inquietante infermiera Ratched, imponente fisicamente ma umanamente minuscola, il cocciuto irlandese porta di contrabbando armi pericolosissime quanto utili per evadere: allegria, entusiasmo e coraggio. Coinvolgendo i pazienti in giochi, partite di basket e battute di pesca in compagnia di prostitute li riporta lentamente alla vita attraverso il divertimento, aiutandoli a rialzare i livelli della loro autostima azzerata dalla paura, dalle ferite dell’anima e dalla mancanza di comprensione. Ma pagherà un prezzo alto per il suo altruismo e per il suo sogno ribelle di libertà. Considero parte integrante della cura letteraria la visione della bellissima trasposizione cinematografica diretta da Milos Forman con Jack Nicholson nei panni di McMurphy.
Pluripremiato agli Oscar, è assolutamente all’altezza del romanzo di cui mantiene inalterati i principi attivi. Non vederlo sarebbe davvero una pazzia, non amarlo è da folli. Ma folli veri. Quando la società vi fa sentire anormali e diversi, e inibisce con continui elettroshock emotivi la vostra capacità di reazione, procuratevi “Qualcuno volò sul nido del cuculo” in versione cartacea o di celluloide.
Senza arrivare ai disturbi psichici, in un mondo distorto come quello in cui ci tocca vivere, anche la fragilità è spesso vista come una malattia. “Qualcuno volò sul nido del cuculo” è quindi un potente antibiotico capace di contrastare la velenosa paura di una società spaventata dalla debolezza e dall’inevitabile imperfezione dell’essere umano. Insieme ai personaggi del romanzo possiamo ristabilire i corretti livelli di pressione emotiva, rivendicando con forza la nostra fragilità e imparando a rispettare quella altrui. Spesso non è pazzia, è solo male di vivere. E se vi considerano pazzi perché diversi, magari un po’ svitati proprio come McMurphy, rispondete come Pirandello: «Così è, se vi pare».

Commenti

Come ripeto e sottolineo più volte un libro assolutamente da leggere. Come un film assolutamente da vedere.
Ken Kesey “Qualcuno volò sul nido del cuculo” BUR euro 9,90
[pubblicato il 13 dicembre 2015]
Anche questo è un libro che si è infilato nella mia libreria sulla scia dei grandi film che ho amato, e che il libro di cura sui libri mi ha indotto a comperare e leggere. Ora sono indeciso, tra libro e film. Il film era potente, e giganteggiava la figura di Jack Nicholson. Anche il libro è potente, ma a me rimane più impressa qui la figura di “Ramazza” Bromden, il capo indiano mezzosangue, voce narrante del libro. È lui che osserva e descrive gli avvenimenti, lui paziente della clinica psichiatrica che si finge sordo e muto per non dover interagire con le istituzioni mediche. E che osserva l’ascesa verso la serenità del suo reparto, per poi constatarne, inesorabilmente, la caduta verticale di fronte all’autorità implacabile. L’autore (“troppo giovane per essere beat, troppo vecchio per essere hippie” secondo una sua definizione) è partecipe della grande cultura americana tra la fine dei Cinquanta ed i primi Sessanta. È amico di Neal Cassady (a sua volta sodale di Jack Keruac), conosce Timothy Leary e tutti gli allucinogeni e psicotropi di quegli anni. E confeziona questo libro come protesta verso la cultura americana, come grido ed atto di ribellione. Con l’ovvio ed amaro finale. Un’anticipazione del ’68: McMurphy e Ratched l’infermiera sarebbero le due facce della stessa medaglia americana, il primo a simboleggiare lo scontro violento contro l'autorità, la seconda a rappresentare quell'autorità al potere che non si può scalzare. Storia tutta “girata” nel moderno ospedale psichiatrico, con l’indiano che tutto guarda e osserva e registra. Dove ci sono pazienti più o meno cronici, come il balbuziente ed introverso Billy Bibbit, il logorroico Harding Dale, il maniaco delle carte Cheswick Charley. E pazienti ridotti a larve da elettroshock devastanti e lobotomie sperimentali. Un’isola che potrebbe essere felice, se non fosse dominata dalla rigida caposala, Miss Ratched, che usa un pugno di ferro per affermare il suo dominio su questo mondo in rovina. È qui che arriva Randy McMurphy, che si finge pazzo per scontare un periodo di detenzione in seguito ad una condanna per gioco d’azzardo, invece di passarlo in carcere. E da subito c’è lotta dura tra i due. Randy, comunque insofferente, comunque con una vena d’alienazione, porta venti di novità. Crea un tavolo da gioco, organizza partite di basket, fomenta una ribellione per poter vedere il basket in tv. Ottiene inoltre di organizzare una gita in mare, con i pazienti meno “pericolosi”, dove si accompagna con qualche donnina, e dove scorre birra a profusione. Insomma, spinge tutti a ricercare sé stessi, invece di lasciarsi guidare acriticamente da Miss Ratched. Ed anche una seduta di elettroshock non doma il suo spirito ribelle. Che raggiunge il culmine in una notte brava, con medicine psicotrope a go-go, con altre donnine che fa entrare in ospedale, e con una di queste che seduce il poco esperto Billy. Ma l’alcol scorre a fiumi, e la mattina la caposala giunge che sono in piena baldoria, trova l’amplesso di Billy, lo ridicolizza, e questi si uccide. Randy cerca a sua volta di uccidere Miss Ratched, ma viene fermato. E lobotomizzato, riducendolo ad una larva. Allora, il capo indiano che sempre seguiamo con affetto, pietosamente lo soffoca con un cuscino, per poi fuggire in Canada, verso la libertà. Cantandosi internamente la filastrocca che da piccola gli ripeta la sua nonna indiana: “Three geese in a flock / One flew East / One flew West / And one flew over the cuckoo's nest” (“tre oche in uno stormo / una volò ad Est / una volò ad Ovest / ed una volò sul nido del cuculo”). Qui sta tutto il bello e l’atroce del libro, che monta pagina dopo pagina, che ci avvolge con questa lotta di potere che sappiamo già come andrà a finire. Perché Randy andrà sempre sul suo solco comportamentale, non accettando di scendere sul piano delle istituzioni, della caposala. E non capendo i meccanismi dell’antagonista, la ribellione sarà inevitabilmente repressa nel sangue. Ecco, il libro mette forse più su questo lato l’accento, mentre Milos Foreman nel film lo sposta più sul lato psichiatrico, quasi a voler parlare solo di sanità e pazzia e non di potere e ribellione. Manca solo, per essere nelle vette top dei miei gradimenti, una punta di consapevolezza in più. Che tuttavia possiamo scusare guardando alla data di scrittura del libro (1962). Ed al fatto di quanto consapevoli e forse non più tanto ribelli siamo noi ora. Piccolo appunto finale: si nota anche che la traduzione è datata, coeva forse al romanzo stesso, laddove, ad esempio, a pagina 19 si lascia un inutile “pallabase” rispetto all’utilizzo del più corretto “baseball”. Ce ne sono altri, di piccoli intoppi, ma il libro è comunque bello e da leggere.

Finalino

Non so dirvi nulla sull’autostima, sentimento che non è molto nelle mie corde, né in alto né in basso. Ma ripeto il finale, sottolineando che, forse, una nuova traduzione potrebbe essere interessante.


domenica 14 giugno 2020

I Duemila di Repubblica - 14 giugno 2020


Eugenio Scalfari “La ruga sulla fronte” Repubblica Duemila 20 euro 9,90
[A: 27/06/2017 – I: 14/02/2020 – T: 16/02/2020] - &&& --
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 313; anno 2010]
Eugenio Scalfari ha una sua scrittura che devo dire seguo da sempre. Sui settimanali, su Repubblica, e sui libri di economia – politica che lessi veramente tanti anni fa. Questo, invece, è il primo romanzo del grande giornalista che mi trovo sottomano. Ben congeniato, con alcuni punti mirabili, ma con una res complessiva non completamente soddisfacente. Per me la cosa migliore è stato il prologo dove Scalfari riesce a renderci il turbinio di idee e sensazioni che passano nella testa e negli occhi del “vecchio” Andrea Grammonte, che ripensa a molti passi della sua vita, mescolandoli, affastellandoli nei sensi, nella vista e nella memoria. E rende benissimo questo crepuscolo della vita che ho visto in alcune situazioni che non sto qui a ripercorrere (ma potete immaginare). Il resto, tutto il resto del romanzo è in tono minore, anche se, con indubbie capacità, l’autore ci fa ripercorrere tutta la vita di Andrea, le sue scelte personali, le sue scelte pubbliche e tutto quanto ruota intorno al mondo dei “soldi”, della politica e degli affari in una visione rapida di quasi sessanta anni di storia. Una storia seguita sempre un passo dietro al “capitano d’industria” Andrea, alle sue scelte di vita, ai suoi incontri, alle sue decisioni. Una vita da alta società, famiglia ben collocata, forse da non molto affacciata alle soglie dell’aristocrazia, ma con un sicuro impero economico alle spalle. Il padre di Andrea che fa un matrimonio chic con la francese di rango, una famiglia divisa tra il maggiore Filippo, malato, forse autistico, ma sicuramente out, ed il rampollo Andrea, cui vanno le attenzioni. Morto il padre, e relegata la madre all’estero perché “si permette” di frequentare altre persone, Andrea rimane sotto la cappa protettiva del nonno. Lì cresce, un po’ blasé, un po’ sciupatore (di femmine, di situazioni, di amicizie). Scalfari ha comunque un moto di indulgenza, che si ripercuote lungo tutto il romanzo. Sì, Andrea è un capitalista abbastanza corrotto, ma ha anche alcune sue direttrici morali. come quando decide di partire comunque in guerra, dove farà il suo, e troverà il sergente calabrese che si rivelerà una pedina importante in un momento difficile. Va con le donne, va con la puttana Cloé, che sempre lo accoglierà, e sempre sarà pronta. Poi c’è l’incontro con Laura, un alter ego femminile che sarà sempre alla sua altezza e per questo non sarà mai sua. Certo avranno storie, ma altrettanto con certezza sarà un’amicizia profonda e duratura. Laura dà il tocco di erudizione che al rampollo poco propenso alla cultura manca e non colmerà mai. Da un certo punto in poi, Andrea prende il centro della scena. Il nonno si ritira, e vediamo l’industriale gettarsi nella mischia della politica e dell’economia. Qui, purtroppo, torna la parte meno agevole degli scritti scalfariani. Lui che sa di politica e di economia, e che ben conosce gli intrecci che hanno portato alla crescita di colossi industriali come la Montedison o la Fiat, e di nodi economici, come Mediobanca sul fronte privato o IRI sul fronte pubblico, si lascia trasportare da queste sue passioni, ed ogni tanto imbastisce pagine troppo pesanti per un romanzo. Certo, a leggerne e saperne, esce fuori quanto Scalfari vorrebbe farci vedere sulle distorsioni che politica ed economia hanno portato nel tessuto pubblico italiano. Sarebbe stato meglio rimanere a seguire meglio i personaggi. Ma è un peccato che possiamo condonare. Anche perché, con un ultimo sforzo, Scalfari fa entrare sulla scena altri due elementi forti del panorama italiano di questi sessanta anni. La mafia ed il terrorismo. C’è il rapimento di Filippo, che la mafia comandata a bacchetta dal sergente calabrese di cui sopra fa rientrare senza troppi guasti. Elementi che ripropongono in filigrana rapimenti italiani e, guardando più a lungo termine, storture arcoriane ancora di là da venire. E c’è il terrorismo. O meglio, l’atmosfera delle Università dal ’68 al ’77, prima con i cortei, in cui entrano in scena i vari Capanna d’antan, e la figura del giovane Lorenzo, prima amante della Laura di cui sopra, poi sodale nel Movimento, poi in clandestinità al tempo delle Brigate Rosse. Anche qui, poco si addentra nelle motivazioni e nelle scelte di quel periodo, anche perché il discorso sarebbe lungo e poco romanzesco. Scalfari ne fa cenni, anche forse per un certo timore di andare un po’ fuori tema. Non è facile coniugare Confindustria e BR in una stessa trama seppur romanzata. Con tutto ciò il romanzo si avvia verso un mesto finale, senza vinti né vincitori, senza passioni, e forse anche senza troppe illusioni. Rimane quella ruga sulla fronte di un capitalista forse un po’ vecchia maniera. Una ruga come tratto somatico. Noi la vediamo con una ruga di pensiero, un corruccio di avere la possibilità di fare altro, e rimanerne difficoltosamente fuori. Poco si sente della presenza e dell’influenza del mondo della carta stampata, che meglio di altri lo Scalfari giornalista avrebbe potuto presentarci. Tuttavia, forse proprio per questo, lo scrittore decide di tagliare fuori il giornalista. Chiudendo un romanzo generalmente di piacevole lettura, forse con qualche lungaggine di troppo, e qualche decisione, questa sì politica, che non sempre condivido.
[A: 25/07/2017 – I: 20/02/2020 – T: 24/02/2020] - && ---
[tit. or.: A Heartbreaking Work of Staggering Genius; ling. or.: inglese; pagine: 507; anno 2000]
Questo è uno dei libri che ho sempre pensato di aver letto, fino a che non mi è capitato di controllare i miei appunti e scoprire che non è vero. Ma il titolo mi era sempre rimasto impresso, ed in effetti, molto tempo fa, avevo letto il suo secondo libro (“Conoscete la nostra velocità”) ed ho sempre confuso i due. Ora, letto a venti anni dalla sua uscita, mi ha lasciato più freddo di quanto pensassi. Una sorta di Holden non più così giovane, che parla di sé e del proprio mondo, attraversato dalla tragedia familiare della morte dei genitori. Un Holden che ha letto “Lo zen e l’arte della manutenzione della moto”, e che, apprendendo la lezione, decide di raccontarsi con lo spirito di qualche saggio alla DWF. A libro chiuso, devo dire che sono d’accordo con le considerazioni inziali che Eggers fa nella prefazione intitolato “Regole e suggerimenti per apprezzare al meglio questo libro”. La parte migliore sono i primi 3 o 4 capitoli, dove vediamo i due eroi tragici (nel senso greco del termine) del libro, lo scrittore (poco più che ventenne) ed il fratello minore Toph (di quasi dieci anni), agire in maniera eccentrica rispetto al lutto subito. Da una parte subendone il dolore, dall’altra rifiutando le responsabilità che una doppia morte ed una conseguente necessità di prendersi cura di sé stessi. Risaltano anche, seppur meglio la parte materna, i due genitori. Morti a distanza di un mese, entrambi di cancro. John il padre, che risulterà violento, alcolista e assente. Heidi la madre, ricordata in alcuni atteggiamenti pre-malattia, ma approfondita nella descrizione durante il calvario delle ultime settimane che la porteranno alla tomba. Anzi, non alla tomba, che i genitori decidono di essere cremati, cosa che provoca in Dave scompensi futuri, quando non sapendo dove siano finite le ceneri, intraprende un piccolo viaggio verso le sue radici per ritrovarle. Ma Dave risulta sempre fuori tema e fuori tempo. Come se i venti anni trascorsi siano serviti a poco. E Toph è sempre utilizzato come contraltare con una maturità di atteggiamenti e di linguaggio poco consoni alla sua reale età. Degli altri personaggi, in realtà me ne rimangono a mente pochi. O forse solo le donne che per qualche motivo ruotano intorno a Dave. La sua fidanzata storica Kristen, anche lei orfana, e che con la famiglia Eggers si trasferisce in California. Ma si capisce che il rapporto è alla fine, e lei ben presto si allontanerà, insultata ospite. La collega della rivista (rivista su cui torniamo) Shalini, presa nel momento tragico della sua entrata in coma in seguito ad una caduta. Ed alle visite ed ai discorsi che Dave le fa andandola a trovare in ospedale. E Marny, anche lei un’amica che lo segue un po’ ovunque, anche nelle sue imprese strampalate, e che piace quando rifiuta le sue avances, troppo amica per diventarne amante. Per riprendere il discorso inziale e collegarlo alla rivista, dopo il trasferimento dalla natia e fredda Illinois nella solare California (con le peripateticità nel cercare casa intorno alla baia di San Francisco), c’è tutta una parte centrale, fin quasi ai capitoli finali, che ruota intorno al tentativo di Dave e dei suoi amici di produrre e poi lanciare una rivista alternativa. Nello stile degli “outsiders” di Frisco, e dal nome accattivante e duplice “Might” (che indica sia forza che possibilità). Rivista dissacrante che seguiamo lungamente in dibattiti, uscite, pezzi di articoli, notizie sparse. Ma è una parte che risulta lunga e deleteria per il ritmo del racconto. Una parte in cui spesso perdiamo di vista Toph, e ce ne dispiace. Per poi finire nell’ultima parte con quella ricerca delle ceneri perdute dei genitori, e della probabile inutilità sia della ricerca sia dell’eventuale trovata delle ceneri stesse. Sebbene con molte parti tangenzialmente deviate, il libro in realtà è realmente un “memoir” che ripercorre la vita di Dave tra il ’92 (anno della morte dei genitori) ed il ’97. Con molti amici riportati con il loro vero nome (ad esempio, i collaboratori di “Might”) e non è un caso che su “Might” stesso sia apparso almeno un articolo di DWF (un saggio sul sesso ai tempi dell’AIDS). Ma quello che rimane, quello che mi rimane, è comunque sempre la prima parte. Quella con il dolore, ancora non sopito, della morte della madre (e lì ti seguo benissimo) e quella sulla difficoltà/impossibilità di assumersi compiti più grandi di quelli che si possono assumere a 20 anni. Come quella di crescere un fratello di quasi quindici anni più piccolo (impagabili i momenti di panico di Dave che cerca di rimorchiare ragazze, lasciando Toph solo ed immaginandosi le peggio catastrofi). Tuttavia, alla fine, il libro è immotivatamente lungo, e, ripeto e concludo, poco coinvolgente dalla metà in poi. Va bene essere ironici, ma ci vuole misura.
Javier Cercas “Anatomia di un istante” Repubblica Duemila 32 euro 9,90
[A: 11/09/2017 – I: 11/03/2020 – T: 15/03/2020] - &&& e ½
[tit. or.: Anatomia de un istante; ling. or.: spagnolo; pagine: 504; anno 2009]
Di certo il 1981 fu un vero “Annus mirabilis” (anche se forse anche uno dei tanti “Annus horribilis” come l’attuale). E prima di addentrarci in questo magistrale libro di Javier Cercas, vi ricordo che in quell’anno, a gennaio comincia l’era di Ronald Reagan, poco dopo, in Polonia viene nominato capo del governo il generale Jaruzelski, in maggio muore Bobby Sands e Giovanni Paolo II subisce il famoso attentato di Piazza San Pietro, a giugno c’è il primo caso conclamato di AIDS, e l’anno finisce con l’attentato in cui  muore il presidente egiziano Sadat. Questo, tanto per rimanere nella politica, che molto altro c’è, ma esula da questo viaggio. Un viaggio in cui il nostro brillante autore impiega 500 pagine per descrivere quanto accade in circa 30 minuti di registrazione video. Di Cercas avevo letto dieci anni fa il bellissimo “Soldati di Salamina” (che vi invito a riprendere), poi era rimasto nell’ombra e nel buio. Tanto che nella testa mi si confondeva con Javier Marias, per poi scoprire (ovvio) che sono ben diversi e ben distanti (Marias è un settantenne madrileno, Cercas un sessantenne catalano, di cultura se non di nascita). Qui, il nostro Javier (tra l’altro giornalista a “El Pais”, e si nota per i rimandi e lo spigliato scrivere) più o meno 35 anni dopo di un momento fondamentale della vita spagnola, prova a ripercorrerlo, con un tentativo di romanzo, se non con un saggio storico. Ciò gli permette di attraversare gli eventi con l’interesse di uno storico e di fare collegamenti ed ipotesi forse giusti, ma essendo non provati, con la leggerezza di un romanzo. Alla fine, per me che ben ricordo quell’anno, denso di lavoro, denso di studi, denso di altre cose che sbocceranno da lì a non molto (ma questi sono fatti personali), un tuffo in un nodo di quell’epoca che, per una serie di motivazioni, conoscevo ma non avevo mai approfondito. I fatti: il 23 febbraio 1981 alle 18:22 un comando della Guardia Civile spagnola irrompe nel Parlamento spagnolo al comando del tenente colonnello Antonio Tejero cercando di dare inizio ad un colpo di Stato, che avrebbe permesso (a grandi linee) ai militari ed alla destra di riprendere le redini del potere cinque anni dopo la morte di Francisco Franco, mentre la Spagna cercava di uscire dal “franchismo” con riforme e democrazia. Il fermo immagine, sul quale Cercas ritorna spesso, e che dilata a molto prima e poco dopo il 23 febbraio, avviene attraverso una telecamera che stava riprendendo il dibattito parlamentare per l’incarico al nuovo capo del governo spagnolo Leopoldo Calvo-Sotelo. Cercas ci mostra e noi vediamo con lui Tejero pistola in pugno nell’emiciclo, i deputati a terra, e 3 figure, in piedi che si ergono a simbolo della Spagna democratica: Adolfo Suárez, capo del Governo uscente ed artefice della transizione al dopo-Franco, il capo dell’Esercito e più alto militare in grado presente, Manuel Gutiérrez Mellado, ed il segretario del Partito Comunista Santiago Carrillo. L’abilità di Cercas come giornalista si estrinseca nello sviluppare una descrizione di questi personaggi, collegandoli alla storia spagnola, ed a tutte le altre anime che rappresentavano la reazione fascista o la resistenza democratica. Mentre di Carillo qualcosa sapevo e ricordavo, non ultimo il tentativo fatto insieme a Berlinguer di far sorgere un Eurocomunismo svincolato a Mosca, non molto avevo presente degli altri. Soprattutto della figura di Adolfo Suarez, del suo percorso da giovane imbonitore delle folle di provincia, a galoppino del franchismo, segretario del Movimento (il nome ufficiale del fascismo spagnolo), presidente della TVE (la Television de España), sodale del re Juan Carlos, nonché primo presidente della Spagna post-franchista. Una figura complessa, che assurge agli onori per cavalcare l’onda del nuovo mondo ispanico, ma che verrà travolto dagli avvenimenti più grandi di lui quando avrebbe avuto bisogno di una base politica alle sue spalle. Ma lui, un po’ come qualche leghista di casa nostra, si vantava di non leggere libri. Tuttalpiù, si faceva proiettare film in notturna nella sua residenza governativa. Cercas tenta (e noi non possiamo che dargli atto di una possibile verosimiglianza) di collegare tutti i puntini del golpe e di quanto lo aveva prodotto: malcontento generalizzato (tipo clima cileno di dieci anni prima), militari scontenti del ruolo dimensionato che stavano avendo dopo la morte di Franco, riforme “dure e pure” per riequilibrare l’economia spagnola assolutamente in dissesto, nonché il riconoscimento del Partito Comunista, uno dei più grandi affronti che si poteva fare alla destra del tempo. Ci sono tante figure descritte nel corso del libro, su cui invito a tornare, anche se qui non ho tempo o spazio per analizzarle tutte. Ma soprattutto c’è la figura del re, quel Juan Carlos I, il cui “NO”, alto e puro ai militari golpisti contribuì a mettere fine in modo tombale alla rivolta. Ci sono, ed è ovvio, tanti se e tanti ma, c’è un’analisi interessante del momento spagnolo che percorre i cinque anni di governo Suarez, ma qui stiamo parlando di un romanzo. E come romanzo, il libro tiene, almeno per la mia lettura. In particolare, per l’abilità dell’autore di non lasciar mai cadere la tensione. E per il finale, in cui introduce un parallelismo tra le vicende spagnole ed il bellissimo film di Rossellini, “Il generale Della Rovere”. Ripeto, non è un libro facile perché sommamente intriso di vita spagnola che non sempre sappiamo (e spesso non sappiamo neanche di quella italiana), ma è un bel libro. Un libro di eroi minori, che con un gesto possono rivoltare la loro vita, come il famoso Emilio Bardone del film (che non sapeva, ma ho scoperto ora, essere nato da una sceneggiatura di Indro Montanelli). Non tutto è ben calibrato, e le note, in questa edizione di Repubblica, non son ben sincronizzate con il testo, ma, e mi ripeto, è stata un’ottima lettura per il primo fine settimana di coronavirus (e qui mi fermo).
Antonio Pennacchi “Canale Mussolini” Repubblica Duemila 34 euro 9,90
[A: 11/09/2017 – I: 17/03/2020 – T: 21/03/2020] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 518; anno 2010]
Pur essendo una figura interessante e poliedrica, e pur apprezzando (alcuni) suoi scritti, Pennacchi non mi convince mai fino in fondo. Sembra sempre che voglia dire qualche cosa in più e poi si fermi, ma sollevando il baffo, con fare ironico e scanzonato. Non riuscendomi mai ad essere completamente in una situazione agiata e paritaria. Certo, il suo fasciocomunista lo trovai un libro gradevole e da leggere, mentre altri scritti vari mi hanno lasciato quanto meno freddo. Qui ritorna sul suo filone “nativo”, epopee di un mondo che ruota intorno alla pianura pontina, ritrovando un modo di scrivere ed una trama che si segue con piacere. Certo, la non velata megalomania dell’autore tende a conglobare tutto, a fare un’opera omnicomprensiva, con dentro politica, rapporti umani, sesso, religione, storia e chi più ne ha… Forse obiettivi più limitativi ne avrebbero aumentato la resa narrativa. Comunque, per non far torto a nessuno, vediamo appunto alcuni filoni maggiori del narrato. Per la parte storica, seguiamo uno spezzone della storia italiana dagli scioperi sindacalisto-socialisti dei primi anni del secolo, all’evoluzione di quei socialisti verso il social-fascismo. Attraverso la figura di Edmondo Rossoni, socialista, sindacalista, fascista, Ministro dell’Agricoltura, firmatario dell’O.d.g. Grandi che destituiva Mussolini. Rossoni è uno dei tanti personaggi veri dello scritto. Ferrarese (di quel di Tresigallo) sempre in lotta con il quasi concittadino Balbo, sodale per anni con il Duce, per poi rompere appunto verso il fatidico 25 luglio. Attraverso lui e la sua parabola personale, seguiamo appunto la storia d’Italia dal 1905 al 1945 (con accenni a quella posteriore, ma che forse sarà narrata in quel “Parte seconda” scritto pochi anni dopo). Gli scioperi, l’entrata in guerra, l’ascesa del fascismo, la bonifica dell’Agro Pontino, e cenni della Seconda Guerra Mondiale e della Resistenza. Rossoni diventa il nume tutelare della famiglia Peruzzi, la famiglia epigono al centro della storia. Che come dice Pennacchi, non ha subito, sola, tutte le vicende narrate, ma è il collasso di tutte le vicende narrate in una famiglia sola, di modo che sia più facile narrarne. Famiglia ferrarese, che segue dal basso tutta la parabola che abbiamo descritto di Rossoni. Famiglia con i soliti, per me strampalati, nomi di battesimo: Temistocle, Pericle, Iseo, Adelchi, le due gemelle Modigliana e Bissolata, zia Santapace (ovviamente nata alla fine della Prima Guerra Mondiale). Il fulcro è Pericle, il secondogenito. Fascista convinto, è lui che ottiene da Rossoni, nel ’32, il trasferimento di tutta la tribù nella bonificanda pianura pontina. Lì che vediamo gli sforzi dei cispadani (così venivano chiamati, anche se venivano da molte terre del Nord, Emilia, Veneto, Friuli ed altre) nel bonificare, nell’arare e seminare, nel costruire le nuove città. Prima i borghi, che diventeranno quelli che indichiamo con Borgo Sabotino, Borgo Grappa e altri. Poi le città vere e proprie: Littoria, Sabaudia, Aprilia e via costruendo. E ad ogni pezzo di narrazione si lega un pezzo della vita locale: le amicizie, gli ebrei-fascisti, gli agronomi truffaldini, l’amore tra Pericle ed Armida. Tante le storie, tanti gli intrecci. Che poi vanno sempre più sul personale, che seguiamo meglio Pericle e Armida. Lui poi volontario nella Seconda Guerra. Lei sempre con le sue api. Lui disperso e mai più tronato. Lei… Beh questo non ve lo dico, che segna tutta l’ultima parte del romanzo. Dove forse si scade troppo nella singola vicenda, perdendo di vista quell’aspetto globale mantenuto per un bel tratto. Perché, per me, l’interesse maggiore nell’excursus di Pennacchi è quando riporta i sentimenti della gente, le sensazioni del quotidiano, le lotte tra sezzesi e littorini, tra “cispadani” e “marocchini” (così quelli del nord chiamavano i locali), l’evoluzione mentale che portò grandi masse all’adesione al fascismo. Qui, poi, c’è la grande ed insanabile frattura tra il mio modo di vedere e quello di Pennacchi. Certo il fascismo è stato (anche) un fenomeno sociale nato dal basso, e che ha coinvolto, nella pancia, molta gente che non ci si aspettava lo facesse. Ma c’era tutta quella componente di violenza, di sopruso che non può essere sottovalutata, ignorata. Certo, il fascismo degli inizi predicava la ridistribuzione delle terre, quasi un comunismo da kolchoz o d a kibbutz. Ma se ne discostò ben presto, che gli interessi del potere presero il sopravvento. Per restare in sella bisogna venire a patto con i proprietari, ed è difficile pensare che non ce se ne accorgesse. Con la stessa filosofia di accondiscendenza, Pennacchi dipinge un Mussolini da macchietta, che guarda il culo alle signorine, e beve rosso con i mezzadri, che entra in guerra per non sfigurare, che invade l’Etiopia per sfidare Italo Balbo. Non questa parte non mi piace. Non mi piace il riduzionismo della storia ad episodi di burletta. Mi piace la storia minuta, quella del film di Scola sulla Rivoluzione Francese, ad esempio. E tutte le vicende dei contadini prima spodestati nelle loro terre da padroni dispotici, poi riscattatisi nelle nuove terre, dove con la loro volontà riescono a trovare il modo di svoltare la loro vita. Quindi bene la parte minuta, poco la parte “storica”, poco sopportabile (per me) il modo di esporre la storia, fatta da un narratore ad una persona che dovrebbe rappresentare il pubblico, l’io-lettore, ma riesce di difficile sopportabilità. Ma una lettura fattibile in questi tempi difficili.
“Ciò che distrugge l’uomo non è la disgrazia in sé, ma l’incertezza e soprattutto l’attesa della disgrazia.” (405)
Seconda trama del mese di giugno, quindi un bell’allegato malevolmente legato a sponsali, ma piacevolmente legato alla poco nota Elizabeth von Arnim.
Continuiamo ad avere orizzonti poco chiari sulla quarantena, sull’estate, sui viaggi, ed a volte sulla salute. Quindi si naviga a vista, cercando, unica risorsa, di puntare su scogli sicuri. Che ci sono, basta avere fiducia. Per questo siamo ancora qui, con le nostre trame a tenervi compagnia.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
GIUGNO 2020
Siano qui in quel di Soriano, in un piovoso giugno. Meglio pensare al sottocitato aprile.
SPOSATI, ESSERE
Elizabeth von Arnim    “Un incantevole Aprile”
Da quando essere sposati richiede una cura? Se questo è stato il vostro primo pensiero appena letto l’argomento di questa voce, passate oltre. Avete vinto alla lotteria della vita, e trovato un compagno con cui vivere senza sforzo, in modo pacifico e produttivo. Beati voi.
Se invece pensate che il matrimonio a volte si trasformi in una lotta per difendere la vostra identità a fronte di continui compromessi, che il vostro matrimonio sia ormai prigioniero della routine o che il passare degli anni in qualche modo sia servito ad allontanare voi e il vostro coniuge invece che ad avvicinarvi, lasciatevi ispirare da “Un incantevole aprile” di Elizabeth von Arnim.
Scritto addirittura negli anni Venti, e molto sottovalutato, il romanzo racconta la storia delle signore Wilkins e Arbuthnot, due donne sposate, ma stanche e sbiadite per via di un matrimonio che sembra finito, e che leggono per caso lo stesso annuncio sul «Times»: «Per chi sa apprezzare il glicine e la luce del sole, si affitta un piccolo castello medievale ammobiliato, in Italia, sulle sponde del Mediterraneo, per il mese di aprile. Domestici inclusi». Entrambe le donne ne sono attratte e nel disperato tentativo di trovare un po’ di felicità, anche se non si conoscono, decidono di imbarcarsi in questa avventura. Invitano pure un altro paio di donne, esemplari più allegri dello stesso sesso, ma anche loro con problemi relazionali - l’esageratamente decorosa signora Fisher e l’eterea, bella signora Caroline, così stufa di vedersi sbavare dietro sia gli uomini che le donne che adesso respinge chiunque con gelida determinazione.
Tra la purezza delle pareti bianche e nude di San Salvatore e dei suoi pavimenti in pietra, le donne riacquistano serenità e vigore, e cominciano lentamente a riscoprire la propria sensualità e la capacità di provare gioia. Grazie alle arance succose, ai prati coperti di fiori primaverili e al preziosissimo Domenico, il giardiniere, assistiamo a vere trasformazioni alchemiche. Volti contratti dal timore e dalla preoccupazione si distendono, cuori e anime rimasti chiusi per anni si aprono come gemme in pieno sole. L’amore torna a inondare i cuori. «A casa ero così taccagna» dice Lotty (la signora Wilkins), «sempre a misurare, sempre a contare... Restituivo a Mellersh solo l’amore che mi dava, la quantità esatta, con assoluta correttezza. Chi l’avrebbe detto. E siccome lui non mi dava niente, io facevo Io stesso, e che aridità c’era in casa! Che aridità...».
Ci si aspetta che le donne ritrovino solo se stesse, in questo splendido isolamento. E invece finiscono per... beh, diciamo solo che i mariti non vengono dimenticati e che i grandi amori si accendono di nuova passione. Se il vostro matrimonio non è quello che speravate, comprate “Un incantevole aprile”, affittate una villa in Italia e leggetelo durante il viaggio.

Bugiardino

Sono d’accordo sulla poca fattibilità di una voce dedicata al matrimonio ed alle sue conseguenze. Espurgherei la simpatica Elizabeth da questo contesto, ma non dalla lettura che ritengo interessante.  
Elizabeth Von Arnim “Un incantevole aprile” Fazi euro 15 (in realtà, scontato a 11,25 euro)
[scritto il 27 marzo 2020 e non pubblicato]
Un libro piacevolmente datato, e non a caso consigliato sia dalle libropeute per cure dedicate ai matrimoni che dai libri che ci rendono felici. E finalmente letto. Scoprendo tra l’altro un personaggio interessante, questa Mary Annette Beauchamp, nata nel 1866 in Australia, che sposa a 25 anni il conte Henning August von Arnim-Schlagenthin, figlio adottivo di Cosima Liszt (in seguito Cosima Wagner), vive con lui nella campagna tedesca, dove conosce E.M. Forster e Hugo Walpole. Poi, divorziata dal conte, sposa il duca John Francis Stanley Russell, fratello maggiore di Bertrand Russell. Unione poco felice per il carattere impossibile di lui, tanto che nel 1919 si separa da lui, conducendo una vita libera e piena di libri. Libera con molti amanti, anche più giovani come l’editore Alexander Stuart Frere Reeves (lui 28, lei 54) o coetanei, ma molto impegnati, come lo scrittore H. G. Wells. E tanti libri, almeno una trentina tra il 1898 ed il 1940. Un personaggio interessante, quindi. Tra l’altro, ovviamente usa il cognome del primo marito, ma dopo il grande successo del suo primo libro “Il giardino di Elizabeth”, inizialmente pubblicato senza nome, userà Elizabeth come nome. Infine, era anche cugina di Kathleen Mansfield. Tutto questo folto retroterra si sentirà molto nelle sue opere (che non ho letto, ma di cui ho letto). Ma anche avrà riflessi in questo gradevole libro quasi centenario. Un libro quasi impalpabile, dove succede poco e nulla, ma questo poco e nulla è reso con una dolce grazia di scrittura, ed una specie di salita per una scala a chiocciola, al fine della quale, tutti saranno cambiati. In meglio (certo, un po’ di ottimismo da fine della Prima Guerra Mondiale). Grazie alla magia del posto, un castello ligure, posto in quel di San Salvatore (esistente località tra Genova e La Spezia) che però nasconde il vero luogo dove l’autrice pensò e scrisse il libro, il castello Brown di Portofino. Nel castello di San Salvatore convergono quattro donne molto diverse: Mrs. Lotty Wilkins, sposa del distante avvocato arrivista Mr. Mellresh Wilkins, Mrs. Rose Arbuthnot, sposa di Frederik, archivista al British, più noto con il nome di Ferdinand Arundel, scrittore di libri sulle amanti reali ed imperterrito donnaiolo, Mrs. Fisher, di cui non sappiamo il nome, ma anziana e frequentatrice a suo tempo dell’aristocrazia mondana e politica inglese, e Lady Caroline Dester, giovane aristocratica stufa dell’elegante vita londinese, nonché della sua bellezza che attira troppo mosconi intorno a lei. Il motore dell’azione sono Lotty e Rose, che vedono l’annuncio del castello, decidono di regalarsi una vacanza, ma, non essendo molto abbienti, trovano le altre due signore per dividere le spese. Lotty è angustiata dalla sua difficoltà da rapportarsi al mondo fatuo del marito. Rose, invece, non accetta gli scritti del marito e si dedica ad opere di carità. Una volta lontani dalla brumosa Londra, le quattro donne, ognuna con i propri tempi, sembrano rifiorire. Anche qui il motore di tutto è Lotty, con le sue uscite sempre fuori luogo, che tuttavia smuovono le altre, le costringono a pensare, in fondo mettono anche allegria. Non solo le donne diventano più socievoli, ma accettano altri difficili passaggi. Prima l’arrivo di Mellresh, che sulla riviera ligure scopre la gioia di vivere della moglie, e ne è contagiato. Poi Frederik che dopo alcune sbandate, si raddrizza, anche perché Rose accetta le sue scritture, ed i due sembrano destinati, finalmente, a comprendersi. Infine, Mr. Briggs, il proprietario del castello che stringe una amicizia foriera di possibili futuri con l’ammorbidita Lady Caroline. Anche l’arcigna Mrs. Fisher si ammorbidirà, accettando la possibilità che, per maturare nella vita, si possa anche cambiare. Una favola, certo. Un improbabile idillio, anche. Ma la bellezza e la bravura del testo, è quella di presentare i vari caratteri delle donne, magari mutuando l’ambiente che la scrittrice ben conosceva. Non a caso, le tre giovani donne sembreranno avere futuri migliori di quelli che avevano all’inizio del libro. Mentre l’anziana signora sembra invece adombrare gli stessi pensieri dell’autrice. Che, forte di quel primo libro e del suo amore per la natura, non manca di descrivere con pennellate gradevoli, i giardini del castello e tutte le sfumature bucoliche che lo caratterizzano. Non prende molto, è vero, come tensione verso nuovi orizzonti, essendo, tuttavia, uno specchio di un certo tipo di spaccato social-culturale inglese. Amante delle belle cose, e del sole italiano. Non è un caso che da lì a trenta anni, gli inglesi andranno a colonizzare le colline toscane. Finisco ribadendo che, per l’appunto, è un libro datato, ma che rilassa la mente in tempi di tensione. E quali siano ora questi tempi ben lo sappiamo.
“Mancare a qualcuno che ha bisogno di te, per qualsiasi motivo, era comunque meglio della solitudine totale di non mancare a nessuno.” (44)
“Cosa curiosa, sentiva il desiderio di pensare, e di ciò era stupita più di chiunque altro. Mai prima d’allora aveva provato quel desiderio.” (111)
“Ripeté a sé stessa … ora mi metto a pensare, ma non è facile pensare se non lo si è mai fatto prima.” (169)
“Bisognerebbe continuare … a cambiare, per quanto vecchi si diventi.” (213)

Conclusioni

Mi ricordo molti altri libri su matrimoni ed altri disturbi correlati, come i libri di Siri Hustvedt ed altri già tramati, che questo mi sembra fuori posto. Lo vedrei meglio in un florilegio sull’amicizia e sulla fiducia in sé stessi e nella propria capacità di rendere felici i propri amici.