domenica 27 dicembre 2020

Gialli per Capodanno - 27 dicembre 2020

Finiamo questo anno abbastanza faticoso rimanendo sul filone del mistero o del poliziesco: chissà se troveremo anche l’assassino con la corona (battuta virale, spero mi scuserete). Qui abbiamo allora due buoni thriller americani, uno moderno con il mio amato ex poliziotto Bosch, l’altro, datato e scritto da una delle donne pioniere del genere. Seguiti, in calando, da una vecchia puntata delle storie svedesi di Nasser, solo ora pubblicata in Italia, e da un vecchio romanzo del fantascientifico polacco Lem.

Michael Connelly “Il passaggio” Pickwick euro 10,90

[A: 22/01/2018 – I: 16/07/2020 – T: 18/07/2020] - &&& +

[tit. or.: The Crossing; ling. or.: inglese; pagine: 355; anno 2015]

Siamo al ventinovesimo libro del grande autore di thriller californiano, ed al ventunesimo in cui il protagonista è l’amato ormai ex poliziotto Hieronymus (Harry) Bosch. Sulle sue origini e sul corso delle sue vicende non torno più di tanto, che penso di avervi stufato abbastanza. Che è uno dei personaggi che mi sono molto cari, e che ancora non mi ha deluso, come altri. Certo, ha i suoi alti e bassi. Ma rimane con una sua dirittura interna invidiabile, e con un immutato amore per il jazz che non può che tenerci a lui legati.

Intanto devo dire che, benché abbia una solida base di thriller, ben congeniata e che tiene avvinti, il nodo centrale del libro sta tutto lì nel titolo. Anche se il passaggio italiano, rende meno del “crossing” originario, quello che sta nel cuore del libro, è appunto il passaggio di Harry dal lato della polizia a quello della difesa in tribunale, al seguito del simpatico, ingegnoso, ed anche un po’ troppo scaltro fratellastro Mickey Haller. O, più che passaggio, come dice l’inglese “attraversamento”, quello di un confine. Quello tra la ricerca del colpevole e la librazione di un innocente.

Finalmente, allora, esce allo scoperto la duplicità dell’esistenza dei due fratellastri, già insita nella loro creazione. Due elementi vicini seppur disgiunti. L’uno, Harry, che ha dedicato tutte le sue energie alla ricerca del colpevole di ogni determinato crimine. L’altro, Mickey, che impiega la stessa energia per dimostrare l’innocenza del suo assistito (essendo lui avvocato), non essendo poi interessato a sapere chi sia il colpevole né tanto interessato a consegnarlo alla giustizia.

Sappiamo dall’ultima vicenda che Harry era stato messo in difficoltà, avendo agito ai limiti della legge, ma di sicuro con poco rispetto dell’ordine costituito. Onde evitare ulteriori problemi, chiede il pensionamento (anticipato seppur di poco), e si mette ad aspettare di avere il dovuto dal suo ex-dipartimento. Harry conosce tutti i lati positivi, ma anche, seppur con dolore, anche tutti i lati negativi del LAPD (il Los Angeles Police Department). Per cui è abbastanza facile per Mickey coinvolgerlo nella difesa di un nero accusato di una efferata uccisione di una donna bianca. Anche se Mickey è un po’ lo sparring partner, che alla fine userà quanto trovato per raggiungere il suo scopo, quello che al solito è al centro è Harry. Che prima di attraversare il guado, cerca di capire il contorno degli avvenimenti.

C’è una donna morta senza alcun apparente motivo, e c’è un nero incolpato del delitto attraverso le prove del DNA. Ma il contesto è strano. Il nero, Foster, sembra avere un alibi: al momento del delitto era con un uomo, un trans. Che ovviamente pochi giorni dopo muore. Tutte queste coincidenze negative allarmano Harry, che si accorge delle negligenze di chi segue le indagini e si butta su due elementi poco valutati dalla LAPD. L’assenza di un orologio di marca e la possibilità che nel DNA ci siano tracce di preservativo. La traccia migliore è l’orologio, dove seguendone i passi a ritroso, Harry scopre che era stato dato a due poliziotti corrotti da un dottore da loro incastrato con dei filmini pornografici. Ovvio che il dottore morirà. I due lo rivendono ad un negozio di gioielleria gestito da due immigrati vietnamiti, che lo rivendono ad un vicesceriffo che lo regala alla moglie. Anche i vietnamiti muoiono. La moglie ne rovina il vetro, e nella riparazione scopre che è rubato. Prima che ne possa parlare al marito poliziotto, anche lei muore. Lei che è poi il motore primo della vicenda di cui sopra.

Harry raccoglie tutte le prove, pur essendo minacciato ad ogni passo dai suoi ex-colleghi. Essendo poi questo come detto il filo rosso della vicenda. Harry è un poliziotto onesto, ma sa che ne esistono di corrotti. E che a volte lo spirito di corpo è più forte della verità. Harry non ha interesse nel dimostrare l’innocenza di Foster, ma ha interesse a trovare chi ha ucciso la donna, e tutte le altre persone.

Per ora basta così, che ci sono tanti piccoli colpi di scena, agganci con altri romanzi di Connelly, insomma tutto il mondo costruito dal bravo autore californiano. Un thriller che si snoda sulla lama del rasoio, rischiando ad ogni passo di finire in una strada senza ritorno. Ma l’autore è un maestro nel non perdere la rotta, a farci vedere i problemi e le soluzioni, ed a farci riflettere sul ruolo antagonista e solidale dei fratellastri Bosch e Halley.

Finiamo come promesso con il jazz. Dove abbiamo un bellissimo accenno ad una delle più belle ballate di John Coltrane, quella dedicata alla moglie Naima. C’è un ringraziamento a “The Majesty of the Blues” di Wynton Marsalis (che serve a risolvere un momento difficile) e un passaggio sul sassofonista Kamasi Washington, uno dell’ultima generazione che non conoscevo e che mi sembra interessante.

Mary Roberts Rinehart “La scala a chiocciola” TEA euro 10

[A: 09/03/2018 – I: 30/08/2020 – T: 31/08/2020] - &&& --

[tit. or.: The Circular Staircase; ling. or.: inglese; pagine: 274; anno 1908]

Circa tre anni fa lessi il primo romanzo di Mary Roberts Rinehart, dove riportai parte della biografia della scrittrice ed alcune notizie sul suo essere uno dei pionieri del genere. Ne riprendo alcuni temi per chi lo avesse scordato.

Mary viene considerata l’Agatha Christie americana, per l’andamento colloquiale dei suoi romanzi. Anche se comincia a scrivere una quindicina di anni prima. Ha anche due caratteristiche peculiari, nell’ambito poliziesco. La seconda, interessante ma meno “fondante”, è che per prima utilizzò un maggiordomo come assassino. Da quel suo tardo romanzo, venne poi la frase fatta “il colpevole è il maggiordomo”.

La seconda, iniziata con il primo romanzo “L’uomo nella cuccetta 10”, ma sviluppata ed approfondita in questo (che non a caso viene considerato il suo romanzo fondamentale) è il modo di scrivere etichettato in inglese HIBK (“Had I but Known”) dato che spesso il narratore delle vicende usa l’intercalare “se lo avessi saputo…”.

Frase che la signorina Rachel Innes, narratrice della storia, ripete spesso (soprattutto nei primi capitoli). Introducendo così l’affastellarsi di vicende, prese singolarmente poco spiegabili, ma che alla fine, magari con qualche zoppia, vengono tutte acclarate. Meno il mistero del titolo italiano, dove la chiocciola delle scale (come nel film di Siodmak del ’46, che però è tratto da un romanzo diverso) è detta “spiral”, mentre questa è solo una scala circolare, che porta dal piano terra (in particolare, dalla stanza del biliardo) al primo piano, dove sono collocate la maggior parte delle stanze da letto.

Rachel, zitella attempata ma non tanto, decide infatti di affittare la casa dei signori Armstrong, temporaneamente in California. Una magione su due piani, con 22 stanze e 5 bagni (waw!). Dal primo giorno, rumori sinistri si sentono nottetempo. Spesso provenienti dalle parti della scala incriminata. Poiché nessuno, e tantomeno Rachel, crede ai fantasmi, qualcosa di misterioso accompagna l’esistenza della casa. Scopriamo qualche dettaglio all’arrivo dei due nipoti di Rachel, Hansley e Gertrude. Lui è innamorato di Louise Armstrong, figlia di Paul il proprietario della casa. Lei invece lo è di Jack Bailey, cassiere della Traders Bank, la banca gestita da Paul. Nelle vicinanze, si aggira anche l’altro figlio di Paul, Arnold, scapestrato, donnaiolo e senza quattrini.

Proseguono i rumori, e le vicende notturne, fino al primo morto: Arnold. Dopo di che si scoprono altri altarini (la Rinehart è specializzata nel mescolare man mano le carte ed inzeppare di morti le storie). La Bank degli Armstrong fallisce per un ammanco di cassa. Ne viene incolpato Bailey, che Gertrude difende a tutto spiano. Arriva la notizia della morte di Paul in California. Ma i rumori e le incursioni notturne continuano, come se qualcuno cercasse delle stanze segrete nella villa. Si inserisce la vicenda di un giovane Leonard, non si capisce figlio di chi. Compare una donna sfregiata. Ma soprattutto compare un tal dottor Walker, che è convinto di poter sposare Louise.

Muore il giardiniere. Muore una governante, dopo che confessa alcuni misfatti (non vi dico quali), ma soprattutto che Leonard è figlio illegittimo di Arnold e di sua figlia. Si hanno notizie contrastanti se Paul sia morto davvero, o se forse la morte sia un tentativo di fuggire con le casse della Banca.

In tutto ciò, la nostra arzilla Rachel si muove a suo agio, coprendo fatti dolosi che potrebbero servire a velocizzare le indagini. Ma anche indagando per suo conto, scoprendo alcuni lati oscuri che non vi narro. Ed inscenando un finale in cui, di nuovo, è protagonista la scala, e la scoperta, reale, di un nascondiglio segreto.

La nostra brava scrittrice riesce a non perdere il filo sino alla fine, riesce a spiegare tutto ed anche di più. Poi, come in tutti i bei finali vittoriani, ci saranno anche giuste nozze fra le giuste persone. I buoni, che noi capiamo fin dall’inizio chi sono, rimangono buoni sino alla fine, ed avranno il loro giusto premio.

Certo quell’HIBK imperversa per tutto il romanzo, a volte rompendo un po’ il ritmo, quando un capitolo (anzi più di uno) inizia con Rachel che dice “ah, se lo avessi saputo…”, “ah, se avessi pensato…”, “ah, se avessi detto (o fatto) …”. Anche l’atmosfera risente de più di cento anni trascorsi dalla scrittura. Tuttavia, non è troppo stancante, e rimane una pietra angolare delle successive costruzioni di storie “soft poliziesche”. Unico neo, i misteri svelati sono un po’ troppo complicati per noi lettori moderni. Ma va bene anche così!

Håkan Nesser “Il commissario cade in trappola” TEA euro 12

[A: 09/03/2018 – I: 07/09/2020 – T: 08/09/2020] - &&&---

[tit. or.: Borkmanns punktet; ling. or.: svedese; pagine: 292; anno 1994]

Ecco che dopo ben tre anni troniamo a leggere qualcosa di uno dei maestri del giallo svedese. Un libro sostanzialmente discreto che porta con sé, purtroppo, due grossi punti negativi (che tuttavia non dipendono né dall’autore né dalla scrittura). Evidenziati entrambi nella terza riga di cui al titolo. Un libro del 1994 che solo dopo venticinque anni circa viene tradotto in italiano. Un libro che ha al centro il personaggio principe di Nesser, il commissario Van Veeteren (familiarmente e per brevità, VV), e che sarebbe la seconda delle sue avventure. Ora noi abbiamo letto già l’ultimo e decimo romanzo della serie, quindi è solo per dovere filologico che ci si appresta a colmare questo buco cronologico.

Il secondo punto è, al solito, il titolo. Non si capisce perché il commissario debba cadere in trappola (e se leggerete il libro, vedrete come VV in trappola di certo non cade). Mentre il titolo fa riferimento ad un pensiero di un anziano superiore di VV, Borkmann appunto, il quale sosteneva l’interessante teoria che riporto in coda su come, quando e dove un’indagine raggiunge il suo punto di svolta (il punto di Borkmann, per l’appunto).

Quindi, mettendo nel cassetto tutto quanto sappiamo VV abbia fatto dopo (e soprattutto quando va in pensione ed apre una libreria: VV sei il mio mito!), vediamo allora di seguire la storia ed il modo di Nesser di raccontarla. La storia dura in verità un mese, dal 31 agosto al 1° ottobre. VV è chiamato ad aiutare il commissariato di Kaalbringen, dove sono avvenuti due omicidi con i morti con la testa quasi staccata dal corpo. Tanto che la polizia ed i media cominciano a parlare dell’assassino come de “il Tagliateste”.

La squadra locale è capeggiata dal commissario Bausen, che ad ottobre andrà in pensione, e composta da Beate Moerk, un’ispettrice dai capelli rossi, volitiva, ed intuitiva, e da Kropke che, se l’azione fosse una decina di anni dopo, sarebbe un fissato dei computer, mentre all’epoca può solo usare lucidi e piantine. In aiuto a VV poi, ad un certo punto arriva anche l’ispettore Munster, che abbiamo seguito a lungo nei capitoli successivi, tanto che, alla pensione di VV, sarà lui a prendere il comando della stazione di polizia di Maardam, la fittizia località sede delle avventure dei nostri da me lette.

Il mistero delle morti è ben fitto, che i due decapitati non sembrano, nonostante tutti gli sforzi dei poliziotti, avere nulla in comune. Né frequentazioni, né amicizie, né altro. La trama si infittisce quando viene trovato il terzo morto, che oltre ad essere decapitato, ha anche la mannaia infilzata nel costato. Come a significare che i morti sono finiti, e che il killer sparirà nell’ombra.

Mentre avanzano le indagini, Nesser sviluppa la sua capacità di presentarci il contorno, come si muovono i vari personaggi. Le lunghe chiacchierate tra Bausen e VV, condite da vino ed interminabili partite a scacchi. Il rapporto tra Munster e la moglie, prima in crisi, poi risollevato, anche perché il nostro non cede alla carne e si astiene da un rapporto che sarebbe stato preoccupante con Beate. La nostra ispettrice è la più interessante, capace di guizzi di ingegno e di collegamenti audaci. Lei che dedica il suo tempo lavorativo ed il suo tempo libero alle indagini.

Ci sono pezzi di puzzle che si incastrano pian piano. Il primo morto era uno spacciatore. Il secondo frequentava con assiduità donnine di facili costumi. Il terzo, ora medico apprezzato, era stato abbastanza scapestrato in gioventù, rimessosi in sesto dopo una lunga cura disintossicante. Nesser cerca anche di prenderci in giro, che ogni tanto compare il Tagliateste, che si rivolge ad una non precisata Britte. Nome che compare nella nipote psicolabile di un medico amico del terzo morto.

Ma è tutto fumo negli occhi. Solo Beate non si farà sorprendere, e da un rapporto arrivato da un commissariato del Nord, relativo ad una rissa di una decina di anni prima, ha la sua bizzarra intuizione. Che però porterà il Tagliateste a rapirla. Ucciderà anche lei? O il nostro VV, raggiunto il punto di Borkmann, con il ragionamento arriverà alla stessa conclusione che io avevo ipotizzato fin dalla metà del libro. Una situazione che mi ha riportato ad un film in bianco e nero che mi terrorizzò quando avevo dieci anni.

Quindi, dimentichiamoci un po’ il giallo, e godiamo il movimento delle rotelle di VV, purtroppo accompagnate, come dicevo anche altrove, da l’immancabile stuzzicadenti.

Comunque, Nesser riesce sempre a tenermi attaccato alla pagina, ed a farmi viaggiare verso la sua Svezia.

“In ogni indagine … esiste un limite oltre il quale non ci servono altre informazioni, e possiamo risolvere il caso solo con il ragionamento. Un buon investigatore dovrebbe sforzarsi di capire quando si trova a questo punto o quando lo ha già superato … Questa capacità … distingueva il buon detective da quello incapace.” (214)

Stanisław Lem “Febbre da fieno” Voland s.p. (prestito di Fako)

[A: 18/09/2020 – I: 23/09/2020 – T: 24/09/2020] - &&

[tit. or.: Katar; ling. or.: polacco; pagine: 201; anno 1975]

Prima di cominciare per la prima volta devo avvertire che, per completezza di critica e di analisi, in questa trama rivelo un po’ più del consentito. Ma a me serve per far comprendere il mio ragionamento.

Quanti anni che non torno alla lettura di questo che fu un autore molto presente nella mia giovinezza, in quanto scriveva di fantascienza (di cui ero ossessionato) ed in quanto polacco, quindi sodale nella patria del mio amico Giuzzo. Ecco, quindi, che grazie al mio amico Fako (o’ prestatore) mi vedo da lui costretto a leggerne, che mi pressano costanti richieste.

Intanto faccio una piccola premessa personale che Lem nacque pochi giorni dopo il mio amato zio Nino (su cui si tornerà prima o poi), in un giorno palindromo 12/9/1921.

Ciò detto, contrariamente alla lettura corrente del testo, ho collocato il testo tra i “Mistery” e non tra gli scritti di fantascienza. Alcuni critici sostengono esserci elementi fantascientifici, che io non trovo. A meno che non voler trattare come fantascienza il fatto che il protagonista sia un ex-astronauta, messo in riserva in quanto sofferente di allergie. O meglio di rinite allergica, volgarmente chiamata in italiano “Febbre da fieno”, da cui il titolo italiano. In originale, il polacco “Katar” in realtà significa solo “rinite”.

Se poi vogliamo aggettivare la definizione, potremo chiamarlo “mistery filosofico”, laddove non possiamo negare che Lem, da uomo assai colto come era, sfrutta lo scrivere per stendere pensieri filosofici, spesso legati anche alla critica della società. Sia essa il mondo occidentale, sia quello che si viveva al di là della “cortina di ferro”. Leggete “Solaris” o “Vuoto assoluto” (quest’ultimo viene spesso messo tra i saggi, ma in realtà è una sublime, pur se non sempre riuscita, costruzione alla Borges).

Spesso, infatti, Lem fa incursioni in scienze varie, per creare intrecci e modalità di vita. Incursioni sovente derivate dall’applicazione del calcolo delle probabilità alla vita umana. O, come in questo caso, secondo quanto sostiene anche il curatore e traduttore Lorenzo Pompeo, utilizzando schemi derivanti dalla filosofia di Popper. Magari cercando di banalizzarli (nel senso etimologico).

Qui sembra prendere di mira le affermazioni sulla conoscenza scientifica della filosofia della scienza di Popper. Il grande filosofo, infatti, sosteneva che "il progresso della conoscenza consiste principalmente nella modificazione delle nostre conoscenze precedenti". Vedremo quindi come le varie ipotesi che il protagonista elabora, partono dal punto di arrivo della conoscenza precedente, quando a questa si aggiungono nuovi elementi, anteriormente ignoti. Ma ribadendo fortemente il paragone delle teorie scientifiche come edifici costruiti su palafitte, innalzatesi sopra una palude. Quando ci si arresta ad una teoria, non è perché si sia trovato un terreno solido, ma perché si ritiene che i sostegni disponibili siano abbastanza stabili, almeno per il momento, per reggere la struttura.

Il romanzo si articola intorno alla ricerca della soluzione di una serie di morti misteriose che sembrano avere dei denominatori in comune. Il nostro eroe astronauta viene ingaggiato in quanto resistente nel fisico e nella psicologia, e con almeno un elemento in comune con i morti: soffre anche lui di allergie. Tutte le vittime erano straniere, viaggiavano da sole, non parlavano bene l'italiano, erano sulla cinquantina, soffrivano di allergie. Erano venuti a Napoli per beneficiare degli effetti terapeutici delle acque ricche di zolfo e avevano cambiato completamente il loro comportamento prima della loro morte. Dopo una serie di peripezie (tra cui un inutile assalto terroristico a Fiumicino), il nostro astronauta (canadese, tanto che parla correntemente francese, così che si ambienterà il finale a Parigi) arriverà alla soluzione.

Collegando elementi casuali ed agnizioni scientifiche varie, si scopre che un antiallergico (tutti i morti erano allergici) ed una lozione per capelli (tutti avendone pochi in testa) catalizzati dalla metabolizzazione di mandorle producono una droga tipo “bomba N” che induce il soggetto a comportamenti incontrollati, dove, se non fermati dall’esterno, si va verso una morte violenta.

Quindi le morti a catena avvengono casualmente. Qui, mi spiace ma il mio senso delle probabilità si rivolta: non solo è improbabile (raro ma non escludibile) la mescola degli ingredienti psicotropi, ma che ne vengano colpite persone a poca distanza l’una dall’altra mostra quella casualità che studiavamo in fisica, per quantificare se fosse possibile che tutti i piatti di un tavolo facessero un salto verso l’alto dovuto al contemporaneo balzo aereo di tutti gli elettroni.

Quindi, finisco, non mi è particolarmente piaciuto. Ho gradito solo i piccoli microracconti delle varie storie delle persone che vanno verso le loro morti inspiegate. Il resto merita altre letture.

“La vecchiaia … consiste nell’aver ottenuto un’esperienza che non si può più utilizzare. … Tra i settant’anni e i novanta c’è una differenza enorme.” (118)

Siamo alla quarta trama di dicembre, per cui niente aggiunte, né allegati. Siamo anche, e con piacere, all’ultima trama dell’anno. È la numero 46 su 52 settimane, e questo vi basti per capire quanto poco ci si è allontanati dal tavolo dello studio: due settimane a gennaio per l’ultimo (per ora) viaggio indiano, due settimane agostane alle Eolie e due settimane d’ottobre in Polonia.

Ma come diceva Dalla, l’anno vecchio è finito, e sebbene ancora qualcosa non va, ci stiamo attrezzando perché vada tutto in una diversa direzione. Dove, e questo non facciamo che ripeterlo all’infinto, o ci si arriva remando tutti insieme nella stessa direzione o ci si perderà per sempre. Poiché poi io sono sempre il solito ottimista, non faccio che anticipare un grande abbraccio non virtuale a tutti.

domenica 20 dicembre 2020

Gialli per Natale - 20 dicembre 2020

 Una settimana rilassante, in attesa delle chiusure natalizie, cui dovremo dedicarci a mettere un po’ d’ordine nelle nostre librerie. Qualche giallo d’annata (dagli anni Venti ai Cinquanta) ed una puntata in Islanda, che sempre ci resta nel cuore. Qualche lettura forse un po’ filologica e datata (le ultime due in particolare). Ma nel complesso una settimana di godibile relax.

Edgar Lustgarten “Signori della corte …” TEA euro 10

[A: 22/02/2018 – I: 30/07/2020 – T: 31/07/2020] - &&& e ¾

[tit. or.: A Case to Answer; ling. or.: inglese; pagine: 252; anno 1947]

Eccoci tornati alla grande fucina “mystery” delle edizioni TEA, questa volta facendo un altro salto all’indietro per tirar fuori dalla memoria un autore, ora sconosciuto, ma all’epoca ben saldo nelle top ten dei gialli. In particolare, dei gialli da dibattimento, quelli poi divenuti classici con Perry Mason e compagnia. Anche se qui, all’inglese, ci si ferma su due punti: il delitto ed il dibattimento in aula.

Tanto che gli editori italiani hanno pensato di utilizzare nel titolo il classico incipit dei processi in Inghilterra: “Signori della corte…”. Mentre l’autore aveva ben pensato di indirizzare il lettore verso una domanda cui bisognava dare una risposta. Cioè, gli elementi indiziari sarebbero stati sufficienti a pronunciare una condanna di colpevolezza dell’imputato?

Ma prima facciamo un passo indietro, parlando di questo autore praticamente ignoto in Italia. Lustgarten, tanto per iniziare, è un toro (3 maggio) e questo già ce lo mette in buona luce. Nasce avvocato, per poi dedicarsi a commentare, su carta, in radio e poi anche in televisione, omicidi e misteri dell’Inghilterra pre e post Seconda guerra mondiale. Ha anche un discreto successo, tanto che un suo discorso di commento ad un processo venne anche campionato ed inserito in una hit australiani degli anni ’80. Fino ad essere imitato nel grande spettacolo del ’75, il “Rocky Horror Picture Show”.

Questo romanzo, cui ora torniamo, è secondo me giustamente indicato come una pietra miliare del “legal thriller” ante-litteram. Tutto il libro si snoda intorno al processo, per rispondere alla domanda di cui sopra.

C’è una prostituta barbaramente assassinata. E c’è una sola persona che può essere incriminata. Si tratta di Arthur, trentenne sposato con due figlie, che da qualche mese, incontrando Kate, la donnina di facili costumi, ha un cambiamento radicale nel suo sentire. Certo, non pensa di mollare famiglia e lavoro, ma si sente che ha un grosso debole per Kate. Vorrebbe che smettesse il lavoro poco edificante, dicendole di volerla mantenere. Vorrebbe che smettesse di bere, riuscendo solo in parte a frenarla. Le fa scenate continue, con alterchi vistosi nel pub che frequentano. La sera del delitto si aggira agitato nel loro pub, litigando con tutti. Poi va a casa di Kate, stranamente non riesce ad entrare dalla porta che dovrebbe essere sempre aperta. Si fa aiutare dalla vicina che non ha problemi, e trovano Kate squartata in casa.

Facile accusarlo, difficile provare il delitto. Ci sono prove indiziarie. Arthur potrebbe aver ucciso Kate tra le sei e le sette, ma lui dice che si trovava in un altro pub, dove però nessuno sembra averlo visto. Sul corpo ci sono colpi e colpi di un coltellino di proprietà di Arthur, che lui dice aver regalato a Kate, ma nessuno lo sa. La porta si apre sempre al primo colpo, ma la vicina dice che ogni tanto, ogni tre o quattro mesi, inspiegabilmente si blocca. C’è quindi una feroce battaglia a colpi di arringhe e di interrogatori che si svolge nell’aula del tribunale, tra l’accusa portata avanti da uno svogliato ma capace Sir Charles, e la difesa, accurata ma un po’ triste dell’avvocato Bedrick.

Lustgarten, ogni tanto, si assenta dall’aula, ci porta in giro, a conoscere la moglie di Arthur, il padre di Kate ed altri personaggi minori. Ci presenta anche due persone che potrebbero essere fondamentali nel processo: un avventore del pub che riconosce Arthur nelle foto dei giornali, ed un’amica di Kate che ha visto il coltellino nella borsa della morta. Ma i due hanno problemi di varia natura con la giustizia, e non si fanno avanti.

Si rimane così alla battaglia sulle arringhe finali, e su quella domanda riportata in alto. Come risponderanno i giurati? E la risposta, quella che sia, sarà definitiva? Il finale è, insieme alle arringhe, uno dei pezzi forti del romanzo. Che di certo risente dell’età, in fondo son passati più di settanta anni, e di qualche lentezza cui non siamo abituati. Scritto ora, gli avvocati sarebbero di certo più rampanti, i dialoghi più tesi. Ma il nostro riesce a creare bene l’atmosfera tribunalesca londinese. Caratterizza in modo egregio i due avvocati. E, ripeto, ci sforna un finale degno di nota.

Una buona lettura, un po’ più che soltanto filologica.

Arnaldur Indriðason “Un delitto da dimenticare” TEA euro 11

[A: 22/02/2018 – I: 08/08/2020 – T: 10/08/2020] - &&& +

[tit. or.: Kamp Knox; ling. or.: islandese; pagine: 314; anno 2015]

Eccoci tornati al mio primo amore islandese, dopo un paio d’anni che covava sotto la cenere. Comperato in un giorno eponimo (il compleanno del mio amico Luciano), e letto nell’unico, per ora, momento di relax eoliano di quest’anno discretamente complicato. Non solo, ma letto anche a ruota di un altro libro islandese, l’ottimo romanzo di Stéfansson con quel titolo vagamente montaliano. Una bella immersione in una terra che mi ha fatto innamorare a prima vista (anche se confesso di averla visitata solo nei mesi estivi, considerati bene o male caldi, quindi non saprei dirvi le mie possibili impressioni invernali).

Ma veniamo al commissario Erlendur, il protagonista che mi ha fatto conoscere ed amare Indriðason. Sono contento che lui ritorni in prima persona, che le sue storie risultano più interessanti. Anche se, come in questo caso, facciamo dei piccoli salti temporali all’indietro. Visto che gran parte della vicenda principale si svolge nella base americana di Keflavik, ben prima che venisse smantellata nel 2006, e che tutta la zona venisse dedicata al nuovo aeroporto internazionale. Anzi, facendo dei calcoli su quanto si dice e quanto si collega, direi che siamo intorno al 1980 (o poco prima).

Come sovente decide, il nostro autore ci presenta più casi durante uno stesso romanzo, anche se qui rimangono soltanto due indagini a focalizzare la nostra attenzione.

La prima e principale indagine ruota attorno al corpo di un uomo islandese, ritrovato in un lago, la futura Laguna Blu, in una condizione che fa pensare ad una vertiginosa caduta su una superficie dura. Il problema è che l’uomo, Kristvin, lavorava all’allora base americana installata vicino alla Laguna. E che la Laguna è piatta. Erlendur ormai lavora in pianta stabile nella Polizia, come aiuto di Marion (che abbiamo conosciuto nei due romanzi precedenti). Ma i nostri avranno del bello e del buono a lavorare a questo enigma. Che le autorità militari rifiutano di collaborare. Salvo la bella Caroline. Che si trova solidale nell’emarginazione in quanto donna di colore in un ambiente bianco e razzista.

Ma l’omicidio, la cui soluzione comunque è interessante, serve ad Arnaldur per la denuncia di due problemi. La prima riguarda la presenza militare americana in Islanda. Arnaldur, attraverso Erlendur, si dimostra ferocemente antimilitarista. Ed ha anche aggio di stigmatizzare la presenza americana nella vicina Groenlandia, con il sospetto di una installazione, nascosta e proibita, di armamenti nucleari. Il secondo problema è il razzismo, verso Caroline, in prima battuta. Ma anche degli americani verso gli islandesi in genere, che loro, la razza eletta, considerano degli zoticoni, dalla lingua impossibile, desiderosi dei prodotti americani ma ostili agli americani stessi. Come possono i super militari americani comprendere una nazione senza esercito, dove neanche la polizia è armata?

Tornando all’omicidio, comunque, perché Kristvin, questo lavoratore islandese, è stato assassinato? Era troppo curioso e ha visto quello che non avrebbe dovuto vedere mentre lavorava in un hangar, dove sono immagazzinati aerei cargo americani? O è più prosaicamente una semplice storia di adulterio su uno sfondo di violenza domestica? Avrete modo di scoprirlo leggendolo.

E leggendo vi appassionerete come me alla seconda indagine, dove Erlendur cerca di trovar traccia di un “cold case”: la scomparsa di Dagbjört, una giovane ragazza, che non è mai arrivata a scuola nel lontano 1953 (un anno che mi ricorda qualcosa). Tutte le tracce della scomparsa a poco a poco svaniscono, i personaggi muoiono. Solo Erlendur non si arrende mai. Trova casualmente un brano di un diario della giovane, e da lì ricostruisce passo dopo passo tutta la vicenda, svelandocene i tristi retroscena finali. C’è anche un tentativo, neanche troppo velato, di collegare le due storie. Che Dagbjört pare frequentasse una persona che dormiva nelle caserme dell'esercito americano, che all’epoca formavano una sorta di baraccopoli, chiamata Kamp Knox. Case fatiscenti, senza acqua corrente, umide. Gli abitanti potevano essere solo potenziali delinquenti, che la buona società di Reykjavik, stigmatizzava. Altro bel razzismo.

Ritengo non tanto velato il doppio collegamento, dato che il titolo originale del romanzo è proprio “Kamp Knox”.

Al solito, quello che più mi affascina poi è l’atmosfera islandese dura e pura che si respira in ogni pagina. Panorami mozzafiato, freddo, lunghi inverni, rocce spruzzate di neve, mare che si frange sulle scogliere, il rumore delle onde, i tramonti fantastici. In più qui, Arnaldur unisce anche un po’ di musica, che non fa mai male. Dal blues americano che piaceva a Dagbjört, alle canzoni islandesi degli anni ’60, magari riprese da Björk (se riuscite, provate a sentire “Gling Gló”).

Stiamo risalendo, Arnaldur.

J. J. Connington “Il caso con nove soluzioni” TEA euro 10

[A: 09/03/2018 – I: 19/08/2020 – T: 20/08/2020] - && e ¾

[tit. or.: The Case with Nine Solutions; ling. or.: inglese; pagine: 266; anno 1928]

Eccoci ad un nuovo giallo filologicamente interessante, visto anche che si avvia ai cento anni della scrittura. Con anche un autore interessante, che il nome su riportato è uno pseudonimo di un illustre chimico di inizio secolo scorso, Alfred Walter Stewart, docente in quel di Glasgow ed “inventore” del termine “isobaro” per indicare i nucleidi di egual peso contrapposti agli “isotopo”, nucleidi di egual massa.

Abbastanza saturo (mi scuso il termine) di chimica ed accademia varia, decide di dedicare parte del suo tempo libero ad imbastire trame gialle. Spesso, com’è ovvio, intrecciate con elementi derivanti dal suo lavoro. Altrettanto spesso, poi, legati a qualche personaggio seriale. Come il suo più famoso: il capo della polizia sir Clinton Driffield, che compare in numerosi romanzi, ed anche in questo, considerato un classico esempio del genere.

Devo dire che, pur avendo alcuni elementi interessanti, risente molto della lontana scrittura, per alcune situazioni, per alcuni termini, e per altre se vogliamo minuzie, ma che ne rivelano l’età. Come ad esempio la ioscina, un alcaloide che gioca un piccolo ruolo nella trama, e che siamo invece adusi a sentirlo nominare come “scopolamina”, sostanza che ricordo a volte usata da Diabolik nei suoi scopi criminali.

C’è comunque da rilevare che l’inizio è sorprendentemente moderno. In base ad una serie di telefonate, un dottore invece di andare a trovare una paziente affetta da scarlattina, entra in una casa vicina e scopre un morto con due fori di pallottola nel petto. Chiama la polizia, che si presenta appunto con sir Clinton, insieme vanno nella casa della paziente (unica nelle vicinanze con telefono) e scoprono la seconda domestica morta strangolata. Infine, il giorno seguente, in base ad una segnalazione anonima, sir Clinton si reca in un villino dove scopre una donna morta, colpita post mortem da una pallottola.

Le tre morti sono discretamente collegate: l’uomo e la donna si frequentavano abitualmente, la domestica era al servizio della donna. La donna poi è sposata ad un chimico che gestisce un laboratorio, dove l’uomo pare essersi innamorato di una ricercatrice, e dove la seconda ricercatrice era stata fidanzata con il morto, che l’aveva lasciata pensando di far colpo sulla morta. Intorno c’è anche l’aiuto del marito della morta, che tre anni prima sembrava aver un debole per lei, per poi evitare sempre di frequentarla, e c’è il padre del morto, arrogante e molto ma molto antipatico.

Lasciando da parte la domestica, che si capisce sia stata uccisa perché qualcuno voleva recuperare degli effetti della morta, sir Clinton ci delizia con i suoi ragionamenti, che ci portano diritti al titolo del romanzo. Poiché ci sono tre possibilità di morte: incidente, suicidio e omicidio. E ci sono due morti, il calcolo combinatorio ci fa subito edotti che sono possibili 9 combinazioni di tre elementi in due posti (dati dalla formula tre al quadrato). L’idea dell’autore, aiutato sia dall’ispettore a capo delle indagini, ma soprattutto da sir Clinton, è di analizzare le varie “soluzioni”, eliminarle quelle improbabili o impossibili, ed arrivare ad isolarne una, che sarà “LA” soluzione del caso.

È ovvio che dopo la partenza “moderna”, molto romanzo è lento e dedicato a queste discussioni, anche se ci sono movimenti, agnizioni, scoperte e finalini. Però tutto è molto datato, poco altrettanto valido tuttora. Tant’è che, personalmente, avevo puntato il dito sul colpevole sin prima di pagina 50 (è una pagina casuale, per dire molto presto, non cercate interpretazioni occulte).

La seconda “modernità” del romanzo, che insieme alla prima ne fa quasi raggiungere la sufficienza, è la chiusa. Per tutto il romanzo, sir Clinton dice di pensare questo o quello, fa una cosa e poi un’altra, lasciando sempre sconcertato il suo ispettore. Sir Clinton dice anche di sapere perché lo fa. Ebbene, l’ultimo capitolo, dopo che tutto si è risolto, l’autore lo dedica alle riflessioni ed ai pensieri di sir Clinton durante le varie fasi dell’indagine. In effetti, io e Clinton abbiamo ragionato in parallelo, e ne sono contento. Ma mi rendo anche conto, che se gli stessi ragionamenti fossero stati inseriti in corso di romanzo, il romanzo stesso sarebbe caduto in basso nelle pur piccole tensioni che provoca.

Quindi, un buon elemento storico, qualche passo interessante, una costruzione dignitosa, per una collana sempre interessante.

“Spòsati in fretta e pèntiti con comodo.” (166)

Guy Cullingford “Il morto che non riposa” TEA euro 10

[A: 09/03/2018 – I: 24/08/2020 – T: 25/08/2020] - && e ½ 

[tit. or.: Post Mortem; ling. or.: inglese; pagine: 267; anno 1953]

Continuo nell’infornata di MysteryTea entrati in massa nelle mie librerie due anni e mezzo fa. E sebbene questo sia stato scritto in un anno eponimo, anche lui non arriva che a due e mezzo.

Intanto, risolviamo il primo mistero. Guy Cullingford non esiste, ma è lo pseudonimo di Constance Lindsay Taylor, una scrittrice e poetessa inglese, che come molte autrici del suo tempo decide di nascondersi dietro un nome maschile. Comunque, Constance conferma la tendenza alla longevità delle scrittrici di gialli, essendo morta nel 2000 a 97 anni.

Il secondo mistero, ormai endemico nelle mie trame, è lo stravolgimento del titolo. Perché il morto dovrebbe o non dovrebbe riposare? Quando tutta la trama, ed anche gli unici momenti di godibilità, arrivano proprio dal fatto che sia tutto collegato al “post” della morte.

In realtà, il 90% della bellezza e della novità del testo è proprio data dal fatto che il detective che indaga sulla morte di Gilbert Worth sia … lo stesso Gilbert, a mo’ di fantasma. Certo, per noi scettici, il fatto che sia il fantasma a reggere tutto il libro, risulta alquanto problematico. E tutto sommato, il tentativo nell’epilogo di mischiare le acque è anch’esso da sottolineare per la sua novità. Poiché (forse) i fantasmi sono tutti da dimostrare, l’autrice fornisce due possibili soluzioni, entrambe con delle possibilità reali.

Altro punto poco a favore del testo, è il fatto che in realtà l’investigazione, la trama gialla, è ridotta praticamente a zero. Dopo la morte, Gilbert comincia a cercare di capire chi sia l’autore del “misfatto” (omicidio o suicidio), ma quello che fa non è altro che aggirarsi tra le mura di casa, ascoltare i possibili colpevoli parlare, annotarne le frasi, ed arrivare ad un finale, che sembra quanto mai semplice, immaginabile, insomma, assolutamente poco “giallo”. Certo, quel secondo finale tenta di mescolare le carte, e pare riuscirci, ma poi cade nel dover razionalizzare tutto.

Peccato perché, emula di Agatha Christie con le sue scritture “particolari”, l’idea che il morto sia l’investigatore che cerca di capire come sia morto, è intrigante. Dopo due tentativi falliti di attentare alla sua vita, Gilbert si addormenta nel suo studio, e si risveglia … morto. Ma è stato qualcuno ad ucciderlo o, come crede la polizia, è stato un suicidio?

Facciamo finta di credere ai fantasmi, e quindi seguiamo la trama nel suo svolgersi. Ci sono tanti possibili colpevoli se, come Gilbert sostiene, si tratta di un omicidio. Gilbert ha sempre trattato molto male i suoi tre figli. Sono forse stati loro, in combutta, o uno di loro, esasperato nella mancanza di rispetto del genitore teutonico? Julien che il padre non vuole faccia lo scrittore? Robert che il padre non vuole faccia il prete? Juliet che contesta al padre le continue “scappatelle”? Potrebbe essere stata la sua segretaria – amante, per cercare di migliorare la sua posizione, magari convolando con uno dei figli? La moglie, che Gilbert mette alla berlina in uno suo libro (ritenuto forse il migliore della sua produzione), e che dopo anni e anni di accumulo di rancore, sbotta e spara? Qualcuno del personale domestico? Il vicino militare, che da anni fa la corte silenziosa alla moglie di Gilbert? Il suo avvocato? Il suo editore?

La piccola abilità dell’autrice è nel far girare la trottola delle possibilità tra tutti i possibili esecutori. Ma è una trottola che gira piano, che ad ogni sospetto si capisce subito che sia poca la possibilità che sia realmente il colpevole. Meno due persone: il (o la) possibile omicida e Gilbert stesso che, nonostante tutto, potrebbe essersi suicidato.

Tuttavia, Gilbert non fa che ascoltare e riportare, con il risultato che quello che scopre, più che l’andamento del crimine, è una serie di “verità” sulla sua persona, dove, colloquio dopo colloquio, risulta sempre più antipatico a tutti.

Certo, risente molto della mia età, e se pur qualche passaggio descrittivo degli ambienti inglesi degli anni Cinquanta può suscitare un minimo di interesse, il contenuto investigativo, ripeto, è praticamente inesistente.

Potete anche esimervi dal leggerlo.

“È pigro e sudicio, ed è un vero e proprio bolscevico. … [Veramente] ora li chiamiamo comunisti. … è la stessa cosa … sono bolscevichi nell’anima.” (178) [stupendo passaggio]

Terza trame di dicembre, e quindi eccovi un libro leggero che insieme a Julia Roberts ci si aspetta porti di nuovo su qualche aereo.

Allora, saremo chiusi. Natale con i tuoi, nel senso più stretto del termine. Natale nel pensiero, però, anche a tutti quelli che compongono le nostre costellazioni di vita. Pensieri reali, abbracci virtuali.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

DICEMBRE 2020

Rimaniamo sui malanni stagionali, proponendo una lettura solare, estiva, e soprattutto stimolante verso i viaggi che si tornerà a praticare.

MALANNI DI STAGIONE 2

Elizabeth Gilbert “Mangia, prega, ama” (2006)

Pillole di trama

Il titolo originale del romanzo ne spiega anche la trama: “Eat, Pray, Love. One woman's search for everything across Italy, India and Indonesia”, ovvero il viaggio di una donna alla ricerca di tutto (cioè sé stessa) tra l’Italia, l’India e l’Indonesia.

Supposta-saggezza

Elizabeth ha tutto per sentirsi realizzata: è giovane, ha un marito, una bella casa e una carriera avviata come giornalista. Eppure, è infelice e, dopo ripetuti pianti in bagno e preghiere disperate, decide di separarsi. Inizia una nuova relazione ma le cose non migliorano. Comincia a pensare che il problema deve essere alla radice, ovvero proprio in lei. Invece di cedere alla depressione, decide di prendersi un anno sabbatico per viaggiare alia ricerca di risposte. La prima tappa è l’Italia, dove scopre il piacere: tra bellezze artistiche e nuovi amici, il cibo si rivela la migliore terapia per imparare a godersi la vita addentandola con gusto, arrotolandola come spaghetti al pomodoro, assaporandola come un gelato o un caffè bollente e facendola filare come la mozzarella sulla pizza. In India, invece, si dedica alla spiritualità meditando e digiunando in un Ashram (digiuna anche perché in Italia a forza di godere e di dolce far niente, ha messo su parecchi chili) mentre a Bali trova l’equilibrio tra piacere e spirito, anima e corpo, aprendosi alla vita e abbandonandosi all’amore. Qui Liz guarisce dalla sua tristezza, finalmente consapevole che se si è in grado di sorridere, anche la vita ti sorride. E magari anche un uomo ti sorride, se sei fortunata come lei. Scoprendosi cambiata, sicura e soddisfatta di sé, Elizabeth è ora capace di condividere l’amore con un’altra persona perché non si può stare bene in due se non si sta bene con sé stessi.

Attraverso un diario che è una confessione, l’autrice racconta la sua personale esperienza di anima inquieta alla ricerca di un po’ di pace. Il lettore la segue in ogni tappa di questo suo viaggio (anche spirituale) in cui ogni anima inquieta non può che sentirsi coinvolta. “Mangia prega ama”: nel titolo è contenuta la ricetta della felicità. Basterebbe questo per stare bene. Il problema è che prima bisogna imparare a mangiare, pregare e amare. E imparare a farlo bene.

Posologia

Se soffrite di improvvise e ingiustificate crisi di pianto, se la vostra vita sembra perfetta ma vi sentite comunque infelici e insoddisfatti, se è fallita l’ennesima relazione (e sì che credevate fosse quella giusta), se sentite il bisogno di dare una svolta definitiva ma vi manca il coraggio di ricominciare da capo o se avete paura di stare soli con voi stessi, in tutti questi casi la somministrazione di “Mangia prega ama” si rivela più che opportuna. Il libro è una sorta di percorso curativo dell’anima, un viaggio terapeutico articolato in tre tappe per guarire dall’insoddisfazione e reintegrare la quota fisiologica di piacere, devozione ed equilibrio.

Anche se la vostra vita è praticamente un disastro, siete single, disoccupati e vi sentite orribili, il romanzo è un’iniezione di sicurezza in quanto dimostra che non sempre una vita perfetta, con tutte le caselle riempite, comporta la felicità, come l’autrice ha provato sulla propria pelle. In caso di confusione o episodi di labirintite esistenziale, questa consapevolezza facilita il recupero dell’equilibrio necessario a tenere in bilico le proprie e le altrui emozioni (la stabilità non è una condizione oggettiva ma una sensazione determinata dall’equilibrio). Liberare la mente dal pensiero malato che la perfezione sia sinonimo di felicità è una grande conquista per la salute.

Si consiglia l’assunzione del romanzo autobiografico di Elizabeth Gilbert in primavera-estate, quando corpo e spirito sono maggiormente predisposti al cambiamento e si può contare sull’intraprendenza necessaria per cominciare qualsiasi viaggio, anche spirituale. “Mangia prega ama” è indicato per uscire dall’inverno del proprio scontento e, complice l’aumento delle ore di luce, illuminarsi nel tentativo di ritrovare sé stessi.

Effetti collaterali

È stato documentato che alcuni lettori, dopo aver seguito il romanzo alla lettera, si sono ritrovati con qualche chilo in più. La parte godereccia in Italia è un’istigazione a delinquere a tavola. In alcuni casi, più rari, i lettori hanno anche manifestato il desiderio impellente di precipitarsi nella prima agenzia di viaggi a portata di mano per organizzare una vacanza in India e a Bali.

Consigli

Se volete sapere quanto la cura “Mangia prega ama” sia efficace a lungo termine, potete leggere il romanzo in cui l’autrice racconta la sua vita dopo il viaggio. Inedito in Italia, basta il titolo per capire come si è evoluta la situazione: “Committed: A Skeptic Makes Peace With Marriage”. Che tradotto letteralmente vuol dire: «Impegnata: una scettica fa pace con il matrimonio». Che tradotto ancora vuol dire che alla fine del viaggio Elizabeth, oltre ad aver trovato l’amore, ha fatto anche pace con il matrimonio. Che abbia trovato pace anche la sua inquietudine?

Terapia cinematografica sostitutiva

Ambientato tra l’Italia, l’India e l’Indonesia, in costante equilibrio tra ironia e saggezza, amore e spirito, era praticamente scontato il passaggio di “Mangia prega ama” dalla pagina al grande schermo. Ci ha pensato Ryan Murphy scegliendo come protagonista Julia Roberts. L’attrice ha un sorriso contagioso che sintetizza bene la riscoperta della gioia di vivere della protagonista. Solo che il sorriso delia Roberts è, paradossalmente, l’unico elemento serio che il regista e gli sceneggiatori hanno colto dello spirito del libro. La tristezza, la solitudine e la complessità del viaggio diventano nel film un tour più spiritoso (a tratti piagnucoloso) che spirituale. Può risultare particolarmente urticante la parte ambientata in Italia per la sua natura stereotipata e pure un po’ datata: praticamente sembra che da noi si mangi, si gesticoli, si amoreggi e si viva come negli anni Cinquanta, e ci si dedichi esclusivamente al “dolce far niente”. Purtroppo, siamo un po’ più complessi di così. Le cose si fanno più lacrimose in India ma decisamente più intriganti a Bali. Quindi tenete duro fino all’arrivo dell’amore che ha il fascino non convenzionale di Javier Bardem. Questo per dirvi che prega che ti riprega, almeno il film ci dà la speranza (o l’illusione) che l’uomo dei sogni arriva e potrebbe essere anche piuttosto affascinante. (Detto fra noi, conviene pregare anche di non dover arrivare fino in Indonesia per trovarlo). Se è l’uomo dei sogni che cercate, continuando a sfruttare il principio attivo di Julia Roberts e del suo contagioso sorriso, può essere salutare una cura a base di “Pretty Woman”. E, mi raccomando, continuate a pregare che vi capiti la stessa fortuna di quella «granculo di Cenerentola», tanto per citare il film.

Avvertenza: se la cura indica la strada per trovare un equilibrio, non necessariamente assicura che alla fine del viaggio ci sia l’amore ad aspettarci. Se ciò non si verificasse, non resta che mangiare e pregare. Mangiare per colmare il vuoto d’affetto e pregare per trovare finalmente l’altra metà della mela (tanto per rimanere in tema). Oppure potreste colmare eventuali vuoti emotivi ricorrendo a un rimedio letterario che si dimostra efficace sulla metà della popolazione femminile mondiale: i romanzi rosa. Particolarmente indicati durante il periodo estivo, quando il bisogno di evasione è maggiormente pronunciato, lo stress lavorativo si fa più opprimente e il sogno di un principe azzurro rischia di diventare l’incubo delle notti afose in letti solitari, i romanzi di Anna Premoli consentono una scorpacciata di romanticismo utile a contrastare apnee notturne e palpitazioni diurne. “Ti prego lasciati odiare”, “Come inciampare nel principe azzurro”, “Finché amore non ci separi”, “Tutti i difetti che amo di te”, “Un giorno perfetto per innamorarsi” garantiscono una copertura totale e prolungata a base di litigi amorosi e principi azzurri che si nascondono sotto le mentite spoglie di uomini che apparentemente suscitano solo antipatia. Oltre ad allentare le tensioni e migliorare l’attività del cuore, la lettura della Premoli giova alla salute degli occhi: qualche pagina al bisogno consente di migliorare la qualità della vista, favorendo il fisiologico passaggio da una visuale dominata dal colore nero a una, più romantica e positiva, in rosa.

Commenti

Letto quasi due anni fa, ma ancora attuale per l’anima serena che emana. Non un titolo imperdibile, ma, come dico nel testo, un buon libro d viaggio.

Elizabeth Gilbert “Eat, Pray, Love – One Woman’s Search for Everything across Italy, India and Indonesia” Penguin euro 10

[pubblicato il 14 aprile 2019]

Non so a che titolo l’ottima Giulia Fiore lo consiglia, ma sicuro che può essere un libro che rende non dico più felici, ma forse più sereni, soprattutto se preso per il suo giusto verso. Io ne avevo già visto la versione cinematografica, uscita una decina di anni fa, perché interpretata dall’ottima Julia Roberts. Un film non eccelso, ma lo ricordavo godibile.

Per questo, al termine di un viaggio asiatico, in cui sono riuscito molto a rilassarmi, aspettando una coincidenza a Seoul, e non avendo trovato niente che mi convincesse su Giappone o Corea, ho pensato che come “libro da viaggio” questo potesse essere un buon surrogato. Si svolge per 2/3 in Asia, e ricordavo che, almeno nel film, c’erano alcuni momenti di riflessione personale della protagonista che potevano valer la pena.

La lettura si è poi persa in alcuni meandri di aspettative di altro. Ora ne riprendiamo le fila, prima di tutto scordandoci completamente il film, e dedicando i nostri piccoli neuroni al testo. Anche all’autrice, direi, che quest’anno ne fa cinquanta, e quindi all’epoca della scrittura era una 37enne già dedita a belle scritture. Questo libro tripartito narra poi, in maniera poco velata, ma con qualche nascondino qua e là, le vicissitudini dell’autrice stesse. Giornalista, sposata, nel 2002 attraversa un difficile divorzio, ha una relazione con un suo coetaneo americano, con cui si prende e si lascia continuamente. Fino a che, sull’onda di un consiglio ricevuto da un uomo di medicina indonesiano, e seguendo i dettami del suo Guru spirituale indiano, decide di dedicare un anno della sua vita alla ricerca di qualcosa. Di sé stessa, forse, di tutto, anche, o come dice lei stessa, di Dio, anche se usa questo termine in termine più generali. Oserei trasformarlo in una deità di riferimento.

Quando deve organizzare questo viaggio, decide di dividerlo in tre parti, ognuna di 4 mesi. La prima alla ricerca del piacere. La seconda alla ricerca della devozione. La terza alla ricerca di un bilanciamento tra le prime due. Le sue riflessioni (e le indicazioni sopraesposte) la portano ad individuare tre paesi per queste tre esperienze. Tutti e tre, stranamente (vorrà dire qualcosa a qualcuno), iniziando con la lettera “I”: Italia, India e Indonesia. La scrittura scorre veloce, le sensazioni si accumulano, anche se il coinvolgimento emotivo non è grandissimo.

Alla fine, per me lettore un po’ sempre disincantato, anche un andamento sbilanciato. Molto poco coinvolgente il piacere italiano. Alcune punte di interesse nella devozione indiana. Meglio il finale bilanciato, più prospettico, più sereno forse. Qualcuno, che vuole molto bene all’autrice, dirà che il finale bilanciato è merito dello sbilanciamento delle prime parti. Può essere. Tuttavia, il piacere, in Italia, per la scrittrice, oltre al fatto che fin da quando era in America aveva interesse alla cultura ed alla lingua italiana, dicevo questo piacere si riversa tutto sul cibo. Devo senz’altro convenire che il cibo italiano è di gran lunga più piacevole di molte cose che avvengono in giro per il mondo. Ma lo stare a Roma, il girare alcune città (piacevole la puntata napoletana su cui torno), poteva essere condito da ben altro sugo.

Certo, Elizabeth dice che, proprio perché uscente da un matrimonio e da una relazione faticose non cerca uno sfogo sessuale, anche se si sente una tensione verso. Le cose migliori sono per me l’attacco, che commento sotto. E la visita alla pizzeria di Michele a Napoli, quella che fa solo Pizza Margherita, e che, nonostante o proprio per questo, è uno dei locali più affollati di tutta Napoli. Un piccolo accenno di ricordi personali: Elizabeth incontra il suo mentore di italiano in un Internet Point vicino al cinema Barberini. Confermo, in quegli anni, lì ce n’era uno, con le pareti arancioni, dove sono andato anch’io a volte.

I quattro mesi indiani servono a farci entrare nel mondo dello Yoga duro e puro. Quattro mesi di ashram, di meditazioni, di sanscrito. Quattro mesi di polvere, di parole, di silenzi. Questa doveva forse essere la parte che andava in profondità verso la ricerca di “altro”, della deità di qui sopra, forse. Riesce a farci capire che pensando e ripensando, riesce a staccarsi dalle pene americane. Ma non riesce a comunicarcelo. Come al solito, non bastano le parole soltanto per dire e per dare. In Italia la descrizione del cibo non dava il piacere di mangiarlo. In India la descrizione della devozione non ci dà gli strumenti per capire il percorso della scrittrice.

Come dicevo, si va meglio in Indonesia. Anzi, per la precisione a Bali. Dove incontra finalmente solo persone solari: Ketut, il suo uomo di medicina, Wayan, la sua sorella spirituale, e Felipe, che riuscirà a bucare la corazza di Elizabeth, riportandola sulla terra. Sempre con la capacità (si intuisce nelle pieghe dei discorsi) di continuare a meditare, a pensare, a riflettere, su sé stessa, sugli altri, e sul rapporto tra queste due entità e tra questi e il mondo. Mentre le prime due parti passano con qualche accenno, qui, anche se più condensati, ci sono molti avvenimenti. Che non descrivo, in cui non entro, che vi lascio leggere (o vedere nel film, se preferite). Comunque, la parte indiana avrebbe dovuto dare una svolta al testo, invece a me è più piaciuta la parte balinese, soprattutto per quei pochi, ma non banali, ragionamenti sull’amore. A cui bisogna aprire il cuore ma soprattutto la mente.

In fondo, alla fine, è più quello che mi dà l’idea del libro che il libro stesso. Per finire alcune altre chicche, oltre quella sopra riportata su via Barberini. Spesso Elizabeth ed i suoi amici italiani si salutano con questo giochetto molto english: “See you later, alligator!” cui si risponde “In a while, crocodile!”. Una piccola imprecisione ci sarebbe a pagina 45: a piazza del Popolo si correva a cavallo nel Medioevo; quello che cita l’autrice sono le corse dei carri, che invece si svolgevano a Piazza Navona. Altro punto, forse un po’ di parte: a pagina 47 viene citato come il miglior gelato quello di “San Crispino”. Forse la nostra autrice dovrebbe anche provare cioccolato e pistacchio di via dei Gracchi! Ovvio che la parte “romana” mi ha divertito, pur se nel complesso, come detto, ha una sufficienza molto, molto risicata.

“I wish Giovanni would kiss me.” [si capisce anche se non la traduco, e quanto ho aspettato che qualche donna me lo dicesse!] (7)

“I thought of how many people have had siblings or friends or children or lovers disappear from their lives before precious words of clemency or absolution could be passed along.” [Ho pensato a quante persone hanno avuto fratelli o amici o figli o amanti che sparivano dalle loro vite prima che preziose parole di clemenza o di assoluzione potessero essere scambiate] (247)

“I like that he’s traveled through over fifty countries in his life, and that he sees the world as a small and managed place.” [Sono contenta che abbia viaggiato in oltre cinquanta paesi nella sua vita e che consideri il mondo un posto piccolo e gestibile] [mia nota: io ho viaggiato in più di ottanta paesi…] (367)

Finalino

Anche per questa lettura da caldo estivo, ripeto quanto detto per quella primaverile: forse non renderà più felici, ma di certo alleggerisce qualche fardello che portiamo sulle spalle.


domenica 13 dicembre 2020

Boreali 2 - 13 dicembre 2020

 Eccoci alla seconda tornata delle letterature del Nord. Ci sono tre svedesi, un norvegese ed un islandese (ma mancano i liocorni). Tutte letture di alta qualità, con l’islandese Stefansson un filo prima degli altri. Ma devo dire tutti libri che meritano di essere letti.

Lars Gustafsson “Morte di un apicultore” Corriere Boreali 14 euro 8,90

[A: 12/06/2018 – I: 15/07/2020 – T: 16/07/2020] - &&&&--

[tit. or.: En biodlares död; ling. or.: svedese; pagine: 184; anno 1978]

Si può voler bene ad un libro che ti fa venire il mal di pancia mentre lo leggi? A me questo è successo con la lettura di questo che viene considerato un classico della letteratura svedese moderna.

Quindi iniziamo tributando i dovuti omaggi al Corriere per questa collana, ad Iperborea che ha introdotto Gustafsson in Italia ed a Carmen Giorgetti Cima per la traduzione e la postfazione.

Lars (che i nordici spesso preferiscono chiamarsi l’un l’altro con il nome, ed il grande svedese, tra l’altro, era anche lui un toro) ha attraversato e brillato nel panorama letterario scandinavo per oltre quaranta anni (e purtroppo ci ha lasciato cinque anni fa). È entrato anche nell’orbita del Premio Nobel, senza vincerlo. Ha scritto tanto, spesso in modo sperimentale. Quasi sempre con delle idee in testa.

Questo libro, il suo più noto, ed anche più amato, nasce ad esempio come capitolo finale di un insieme di cinque romanzi, cui l’autore dà il titolo complessivo di “Crepe nel muro”. Romanzi, come ci dice la traduttrice, che vogliono evidenziare le crepe nei muri delle istituzioni, delle ideologie, dell’animo umano. Romanzi dove il protagonista si chiama sempre Lars, come a sottolineare una presenza dell’autore dentro e fuori il testo.

Qui, Lars è al capitolo finale anche della sua esistenza. Maestro elementare, trovatosi in sovrannumero per il diminuire della natalità, decide di ritirarsi nel paese natio, di fare l’apicultore, anche a seguito della delusione successiva al divorzio dalla moglie. È giovane, sui quarant’anni come lo scrittore, ma sente dei dolori strani nel corpo. Dopo molti tentennamenti decide di fare delle analisi per capire la natura del male. Ma quando arriva il referto, sceglie di non leggerlo, di bruciarlo, di continuare la sua vita tra la speranza illusoria che sia un problema di calcoli renali e la certezza, intima e non provata, che sia un tumore. Nel suo buon rifugio, confida i suoi pensieri ad una serie di taccuini, ritrovati da un suo sodale dopo la morte di Lars. E ordinati in qualche maniera per evidenziare, doppiare, riproporre momenti salienti per lo scrivente.

Ricordiamo che è un testo del ’78, e che questo modo di scrivere e di proporre la scrittura era assolutamente non usuale al tempo. Così che l’avanzare nel tempo del Lars apicultore è scandito dalla scrittura del Lars autore. Vediamo con lui adombrarsi i suoi momenti salienti. L’infanzia, soprattutto, cui rimane legato, e che ora ritorna prepotentemente come momento fondante della sua vita. Come momenti di serenità, ma anche come momenti dove mise paletti della sua vita. Il matrimonio nato quasi per stanchezza e per stanchezza finito. La nascita di un amore esterno ed estraneo, che non porta fino in fondo, né nell’amore, né nel matrimonio. E la fine del matrimonio, e la fine del lavoro precedente. Il mondo attuale, popolato di campagne e di api. E poi tante parole e tanti pensieri sul dolore e sulla malattia. Soprattutto nell’accezione della comunicabilità.

È possibile descrivere il dolore, il proprio dolore? E dopo averlo descritto, è anche possibile comunicarlo, farlo comprendere? Ed allargando l’orizzonte, Lars si pone quindi il problema se sia altresì comunicabile la propria vita interiore. Certo, possiamo esternare i nostri pensieri. E purtuttavia mi domando se questa esternazione riesca a fare sentire all’altro il nostro sentire. Qualcuno, in saggi ed interviste, scomoda Wittgenstein, Nietzsche, Borges, Kundera, financo Camus. Io non arrivo a tanto.

A me arriva da un lato il Lars del testo che mi comunica la sensazione di essere un abitante di un universo in cui non si sentiva di casa. Dall’altro, una sensazione di grande solitudine, che Lars vive in modo grandioso, personale, crogiolandosi e comunicandoci i suoi ricordi. Quelli che si stratificano nel cervello, a volte addolcendosi con il passare degli anni, tramutandosi anche in piacevoli momenti, pure se all’epoca erano momenti dolorosi. Ma il bello, ed il cattivo ed il personale del romanzo continua per me ad essere questo senso della malattia, del modo di affrontarla, del modo di morire, lasciandoci, anche nell’ultimo istante, quel messaggio: “si può sempre sperare”.

Insomma, per me, un libro che mi ha colpito nel profondo, mi ha fatto pensare, mi ha fatto ragionare, mi ha colpito nel cuore, nel cervello, nella pancia. Che ho amato perché mi ha fatto stare male.

“Le persone destinate a diventare importanti nella nostra vita le incontriamo non una, ma almeno venti volte prima che incominciamo a prendere l’indicazione sul serio.” (45)

“Tutto finisce per avere il significato che noi stessi gli diamo.” (95)

“Io sono un corpo. Soltanto un corpo. Tutto quello che si deve fare, che si può fare, dev’essere fatto dentro questo corpo.” (117)

“Perché proprio io? … Perché proprio io questa sofferenza? … Perché …” (169)

Johan Harstad “Che ne è stato di te, Buzz Aldrin?” Corriere Boreali 17 euro 8,90

[A: 18/06/2018 – I: 22/07/2020 – T: 24/07/2020] - &&& e ¾ 

[tit. or.: Buzz Aldrin, hvor ble det av deg I alt mylderet?; ling. or.: norvegese; pagine: 391; anno 2005]

Una nuova lettura di un libro della collana boreale del Corriere, che mantiene l’alto standard dell’ultima lettura. Ora passiamo ad una lettura norvegese, lontana anni luce dai gialli scandinavi, e con grande giubilo. Un bel libro ed un autore interessante, ovviamente a me fino ad ora ignoto. Autore giovane, poco più che quarantenne, non molto prolifico (credo una dozzina di titoli tra romanzi e teatro), molto legato alla generazione di scrittori rock scandinavi. Non rock nel senso della scrittura, ma per il costante accenno, la costante presenza della musica nelle loro opere. Qui, ad esempio, oltre a diverse citazioni, un ruolo di sottofondo costante e piacevole (tanto che i quattro capitoli hanno il titolo dei loro album) è la musica del gruppo pop svedese “The Cardigans”, con la bellissima voce di Nina Persson (di cui nessuno può dimenticare gli stupendi occhi blu).

Ma torniamo, o meglio, iniziamo a dedicarci al testo.

Il romanzo gira intorno alla figura di Mattias, nato il giorno dello sbarco sulla luna. Avvenimento che condiziona tutta la sua vita, che lui, pur avendo delle capacità e delle particolarità, non vuole apparire, non vuole stare sulla scena. Vuole essere il numero due, come il suo grande idolo, Edwin Eugene “Buzz” Aldrin, il secondo uomo sbarcato sulla Luna, che ha seguito le orme di Neil Armstrong, e poi è scomparso nella folla (come dice più esattamente il titolo originale).

Seguiamo tutta l’evoluzione del trentenne Mattias (il racconto, infatti, si svolge dall’aprile del ’99 all’ottobre del 2000), scoprendone a poco a poco tutta la complessità. Che all’inizio pare appunto solo una persona che non vuole apparire, che coltiva il suo orto (fa il giardiniere), ha un rapporto dal liceo con l’estroversa Halle, e sta lì, a fare il pubblico. Solo a 17 anni mise la testa fuori dal guscio, cantando ad una festa con una voce definita “stupenda e cristallina”. Cosa che gli fece conquistare Halle, poi più niente. Ma ora Halle lo lascia e lui cade in pezzi, cerca aiuto dal suo amico Jǿrn che lo porta con sé alle isole Fær Øer. E lì si perde, e si ritrova solo ed ubriaco senza sapere cosa sia successo.

Nell’isola viene aiutato dallo psichiatra Havestein, che lo cura, lo porta nella sua comunità dove vivono alcuni disadattati. Palli e Anna che passano senza lasciare troppa traccia. E Sofia che si fa chiamare Ennenne, cioè NN, senza nome. È lei la patita dei Cardigans, che faranno da colonna sonora di tutta la seconda parte del libro (la gita alle Fær Øer avviene a pagina 100). È lei che ogni tanto riesce a penetrare nella corazza di Mattias, anche se poi si metterà con un disadattato che arriva dal mare, un americano di nome Carl. È lei che sarà la chiave di volta della decisione finale dei disadattati. Che Mattias, lasciato solo per qualche giorno, scopre anche il disadattamento dello psichiatra, che da venti anni legge una guida dei Caraibi, aggiornandola, e tenendola a mo’ di Bibbia. E quando tutto precipita, e scopriamo anche il disagio di Carl, ex-fotografo degli orrori balcanici, e scopriamo anche qualche altra magagna nell’infanzia di Mattias, sarà verso i Caraibi che i nostri metteranno in mare la barca che insieme hanno costruito. Mattias intanto riesce a dimenticare Halle, ad avere un rapporto foriero di novità con Eiđdis, e quando si sta partendo, deve al fine decidere: uscire o meno dall’orto?

Con una prosa spigliata, con passaggi agili tra diversi registri, Harstad scava nei personaggi, riuscendo a fare dei buchi anche nella pelle di noi lettori. Non solo per fare del male, ma per instillare, goccia a goccia, anche della speranza. Anche se la nostra natura isolata ed isolante ci porta lontano dagli altri, ci sarà sempre qualcuno per cui saremo importanti. Per cui abbiamo una valenza diversa. Perché la ruota del mondo vicino a noi, senza di noi, non può funzionare, girerà a vuoto. Un libro che sembra inneggiare ad accontentarsi, mentre è un canto per spronarci ad essere noi stessi, senza paura. Un inno a non vergognarsi. Un inno a vivere sempre la propria vita, magari a volte scappando, se serve. Ed avendo il coraggio di rimanere, quando serve. Ricordandoci sempre che c'è e ci sarà sempre qualcuno che ha bisogno di noi e che ci ama così, per quello che siamo.

Un inciso finale su di un errore di calcolo misterioso presente a pagina 236. Mattias dice che a Capodanno del 2000 compie 10756 giorni. Ora, data la nascita allo sbarco lunare, il calcolo esatto sarebbe di 11121, con una differenza di 365 giorni, cioè un anno. Mistero.

PS: io quando scrivo queste note ho 24551 giorni…

“Non tutti vogliono dirigere un'azienda. … Qualcuno non vuole andare in TV, alla radio, sui giornali. Qualcuno vuole vedere il film, non esserlo. Qualcuno vuole fare il pubblico. … Non perché è costretto, ma perché lo vuole.” (19)

“Ero la cosa peggiore che si possa immaginare. Ero normale.” (26)

“Più amici metti insieme, più saranno i funerali a cui finirai per dover andare.” (74)

“Stai cercando te stesso? Pensa se quello che trovi non ti piace, e devi viverci per il resto della vita.” (144)

“La salvezza possono ancora essere gli altri (Maria Valeria D’Avino).” (391)

Jón Kalman Stefánsson “Luce d’estate ed è subito notte” Corriere Boreali 1 euro 8,90

[A: 27/02/2018 – I: 05/08/2020 – T: 08/08/2020] - &&&&

[tit. or.: Summarljós, og svo kemur nóttin; ling. or.: islandese; pagine: 268; anno 2005]

Era il primo libro della collana uscita da Iperborea e confluita nelle uscite del Corriere “La grande letteratura del Nord”, indicata brevemente con “Boreali”. Devo subito dire che mantiene, ed alla grande, le premesse di una buona letteratura. E di una buona letteratura islandese. Un paese cui fin dall’inizio delle mie frequentazioni ho affermato con forza la mia ammirazione. Un paese necessariamente slow, piccolo com’è, con tante minuzie che ognuno si industria a fare mille cose.

Come il nostro Jón, che prima di dedicarsi alla scrittura a tempo pieno, ha fatto l’impiegato in un macello e nell’industria ittica, il muratore, il bibliotecario e l’ufficiale di polizia aeroportuale. Intanto scriveva poesie, che ritiene un modo musicale alternativo di esprimersi. Poi fa uscire questo splendido romanzo, ed è subito amore per la parola.

Dico subito che non è un romanzo di cui si possa definire una trama. Se lo avessi letto prima, avrei detto che “Olive Kitteridge” di Elizabeth Strout ne copiava l’idea di fondo. Se fossi più colto, come dicono amici in rete, ha un rimando a libri come “Winesburg, Ohio” di Sherwood Anderson. Perché, in realtà, sono una serie di racconti, concatenati dai personaggi di questa ignota ma comune città islandese. Personaggi che entrano ed escono, a volte sono centrali, a volte marginali. Per poi essere presi dall’autore onnisciente, commentati e portati alle loro giuste dimensioni. Un romanzo, quindi, che più che altro indica una direzione, una strada da percorrere, una mera da traguardare, per cavalcare fino in fondo i nostri sogni, quelli che ci rendono temerari e chi danno la voglia di vivere. E che in realtà si costruisce intorno ad un’unica domanda posta da una moribonda: «Per quale motivo viviamo; si può rispondere a domande del genere?».

Piccole frasi che entrano nel cuore e non escono più. Come quelle che riporto perché mi hanno colpito dentro. Come questa che mi rimane ma che non vi dico a che punto esce fuori: "Due sono le cose che faccio - respirare e pensare a te".

In questo sperduto paesino islandese, i giorni, le settimane, i mesi e gli anni si susseguono. Un tipo posto islandese dove viene buio presto e l'inverno tutto avvolge nella sua luce mancante. Come dice bene il titolo, come vidi io in un bellissimo giugno di qualche anno fa: una luce d’estate, che tutto permea, che non fa dormire per giorni e giorni. Che poi scompare, per lasciare spazio alla subitanea notte. Appunto montaliano e poetico nel mio immaginario: ed è subito sera o è subito notte. Un paese che si era raccolto intorno alla sua unica industria, il Maglificio. Ma che sembra non avere più storia né futuro da quando il Maglificio ha chiuso e di lavoro sembra non essercene più. Eppure, ogni abitante ha la sua storia, intensa, allegra, triste, d’amore, d’amicizia, forse con qualche punta di insoddisfazione. Ma tutte le storie, tutti gli abitanti hanno la giusta dignità di essere ascoltati e seguiti. La storia di Agústa che lavora all'ufficio postale e che si diverte a leggere le cartoline di tutti, per esempio. La storia del vecchio proprietario del maglificio, che ha speso tutti i suoi risparmi in libri in latino che gli permettono di studiare e osservare meglio le stelle, e quella di Hannes e di suo figlio Jonas, felice solo con un pennello in mano. Quella d'amore, tra Mathias ed Elisabeth e tra Benedikt e la donna dalla valigia marrone, o quella del tradimento tra Asdis e Kajartan. C’è l’avvocato che basa il suo mondo sul calcolo, ma si arrende nello scoprire di non poter contare i pesci del mare. C’è chi ritorna al villaggio dopo anni di vagabondaggio per il mondo alla ricerca di qualcosa di più grande della ragazza che aveva lasciato. E invece la sua anima gemella era proprio lì accanto a lui. C’è chi si lascia sedurre dal vulcanico rissaiolo e decide di sposarlo, mettendo da parte le proprie aspirazioni da geologa.

Tanti sono gli spunti. Tanta la bellezza di una prosa lieve, e che però non ti lascia mai. Che ti culla, che ti fa pensare. Un libro veramente interessante. Un autore che forse sarebbe altrettanto interessante leggere ancora. Perché siamo sempre lì, di fronte a cose grandi, ma soprattutto piccole, a domandarci se questo sia il mondo (ed il modo) in cui sia giusto vivere.

Una curiosità finale: a pagina 222 i protagonisti del brano bevono “il vino rosso di Foggia”. Capirei se fosse “un vino”, ma qual è “il vino” in questione?

“Il vecchio medico … non ci poté fare nulla, aveva un tumore al colon … contro la morte non sei nessuno, la luce del mondo si spense, … perse la moglie, il figlio … la madre, e noi la cosa più fine che i nostri occhi avessero mai visto.” (50)

“Chi piange a un funerale, piange … la propria morte …, perché tutto muore e alla fine non resta niente.” (58)

“Cosa saranno mai le storie, se non solo delle storie, un passatempo, certo a volte ti smuovono qualcosa dentro … ma nessuna ha la forza di mutare le leggi della vita e della morte.” (89)

“Parliamo, scriviamo, raccontiamo di piccole e grandi cose per cercare di capire, di arrivare a qualcosa … la ricerca stessa è lo scopo, il risultato ce ne priverebbe. E ovviamente è la ricerca che ci insegna le parole per descrivere lo splendore delle stelle, il silenzio dei pesci, il sorriso e lo sconforto, la fine del mondo e la luce dell’estate. Abbiamo un compito, a parte baciare labbra; sai per caso come si dice «ti desidero» in latino? E come si dice in islandese?” (151)

“Il tempo passa e noi diventiamo vecchi, o come recita la poesia, i giorni vengono, i giorni vanno e poi moriamo.” (255)

Per Olov Enquist “Il medico di corte” Corriere Boreali 9 euro 8,90

[A: 07/05/2018 – I: 27/08/2020 – T: 28/08/2020] - &&&+

[tit. or.: Livläkarens besök; ling. or.: svedese; pagine: 355; anno 1999]

Quando comprai il libro, Per Olov era ancora vivo. Ora che ne leggo, devo purtroppo constatare la sua dipartita, or son quattro mesi. Comunque, ho un buon ricordo della mia altra lettura del maestro svedese, “La partenza dei musicanti”, letto tanto tempo fa ma che lasciò un buon ricordo della scrittura del maestro. Parola non abusata, che sicuramente Enquist sa tornire la frase e la storia. Riuscendo anche qui a ricreare un mondo, ed a dare, anche se forse poteva spingere di più, un affresco di un momento storico della Scandinavia. In particolare, quando ancora erano tutti regni interconnessi, il re di Danimarca era anche re di Svezia (o di Norvegia o di Islanda o di tutto il cucuzzaro).

Come molti, di fronte ad un romanzo storico, mi aspettavo un intervento dei reali in prima persona, o del medico che narrava. Ma mi ero scordato le capacità dell’autore, per cui dopo poche pagine mi sono trovato con lui, a Copenaghen, a seguire i personaggi e gli intrighi di corte intorno ad un regno di re in re sempre più debole.

Nella fattispecie, con questo Cristiano VII, Enquist ci porta nella seconda metà del XVIII secolo. Ed in particolare con un’azione che si condensa in sei anni: dal 1766 al 1772. Cristiano ha 17 anni, la madre morta, il padre re ubriacone e puttaniere. Lui affidato ad un precettore che non si accorge delle sue fragilità, dei suoi squilibri, gli impone un’educazione rigida, tanto che il povero giovane pensa di essere un attore in una grande pièce teatrale. Una sensazione che gli rimarrà per tutta la vita, per cui sarà sempre in balia di qualcuno più forte di lui. Gli viene imposta una moglie, la quindicenne principessa inglese Carolina Matilde. Con cui avrà un unico rapporto, generando il principe ereditario Federico (questi i due nomi dei re danesi, alternati, uno Cristiano, l’altro Federico).

Morto il padre, nel ’66 diviene re, dovrebbe guidare lui una nazione allo sbando. Gli viene in soccorso l’affiancamento di un medico, che capisce i suoi problemi, ma che, soprattutto, imbevuto del nascente illuminismo francese, pensa di poter volgere il potere che man mano acquista verso il benessere della nazione. Questa diviene quindi la storia di Johann Friedrich Struensee. Sfruttando l’assenza mentale del re, il medico di corte assume sempre più poteri, promulga più di seicento leggi, per abbassare le tasse ai meno abbienti, abolire la schiavitù, sollevare il ruolo della donna. Peccato che, seppur le idee siano buone, il medico rimane nel recinto reale, non vede i potenziali guasti di leggi intempestive nella forma. Per poi cadere nella più facile delle derive, quando si innamora, ricambiato, della regina Carolina Matilde. Tanto da farci anche una figlia. Ma l’illuminismo del medico si scontra con le resistenze della corte, con il plenipotenziario Guldberg, con le idee conservatrici della regina vedova Giuliana Maria di Brunswick-Lüneburg, seconda moglie del precedente re. I due organizzano un contro-colpo di stato, imponendo il divorzio e l’esilio a Carolina, e condannando a morte Struensee, che viene decapitato e poi squartato.

Nonostante la morte, ed il tentativo di farne dimenticare le opere e le idee, saranno proprio queste invece che fermenteranno nel popolo e ne conquisteranno l’animo. Anche attraverso il corpo che la figlia del medico, poi riconosciuta dal re, diventerà uno dei centri della vita politica illuminata dei paesi scandinavi. Se avete voglia, ci sono bei sunti biografici in rete.

Ma torniamo alla prosa di Enquist, che ha, come visto in altra prova, un talento innato di narrare al lettore una “storia distillata della Storia” (parole del commentatore Baricco). A questo punto io rimando sempre al capolavoro di Scola sulla Rivoluzione francese.

Il suo stile, a volte narrativo, ed a volte discorsivo, porta agevolmente noi lettori a spasso per un mondo corrotto ma in evoluzione. È forse un caso che siamo in Danimarca, patria di Amleto? Enquist non ci lascia né ci perde di vista. Né tanto meno perde di vista il punto d’arrivo finale, portandoci a riflettere su uno dei tanti punti nodali dell’evoluzione storica che ha portato, che ci ha portato al mondo di oggi.

Forse si poteva entrare meglio nella tipologia delle riforme pensate ed imposte da Struensee. Mentre rimane un po’ fredda la parte semi-finale della “forzata” conversione verso la Chiesa riformata del medico morituro.

Rimane tuttavia, un bel libro da leggere, ed un po’ da riflettere.

“Non è questione di anni … Certi vivono cent’anni e non hanno visto niente.” (165)

Jonas Hassen Khemiri “Tutto quello che non ricordo” Corriere Boreali 10 euro 8,90

[A: 07/05/2018 – I: 08/09/2020 – T: 09/09/2020] - &&& e ½ 

[tit. or.: Allt jag inte minns; ling. or.: svedese; pagine: 324; anno 2015]

Continuano a tenere un alto profilo le uscite di questa collana dedicata alla letteratura del Nord Europa. Sarà anche la consulenza diretta di quella che credo sia la miglior casa editrice italiana specializzata in scritture scandinave, cioè “Iperborea”. Che anche qui, mantiene come io mi aspetto sempre, il titolo originale.

Anche con autori non facili e di rottura, come questo Khemiri, dove il cognome indica subito che non è sia proprio uno svedese doc. Certo, non è della prima generazione, ma della seconda; è nato in Svezia, ovvio con la pelle scura; ma parla (e molto bene) lo svedese, sia aulico che gergale. Tant’è che il suo primo romanzo è proprio nello svedese “basso” delle periferie, raccontando episodi di emarginazione. Temi che ha continuato a riproporre nella decennale carriera teatrale. Ed anche qui, sebbene problemi e discorsi siano altri, c’è sempre l’idea di guardare questi neri che parlano svedese e che vogliono vivere una vita normale, a prescindere dal colore della pelle.

Tuttavia, non è un romanzo sull’emarginazione, ma sull’amore, sull’amicizia e sulla difficoltà di conoscere l’altro. La struttura del romanzo risente molto dell’esperienza teatrale, che è un continuo dialogo tra qualcuno e l’autore (che poi nell’ultimo capitolo compare anche in prima persona). L’idea di Khemiri è di ricostruire la personalità, la vita, il modo di essere e di pensare di Samuel, un ragazzo meno che trentenne, che si schianta con la macchina contro un albero. Incidente o suicidio? Per sciogliere il dubbio l’autore decide di intervistare tutte le persone che sono entrate in contatto con Samuel nella sua breve vita.

In particolare, si focalizza su tre personaggi: la Pantera, Laide e Vanand. Quest’ultimo, in realtà, diventa il basso continuo della storia. Che sono sue le parole che si alternano alle altre voci. Cioè, lo scritto fa parlare una persona, e poi Vanand. Un’altra e poi Vanand. In modo che le parole di questo che sembra essere l’amico più vicino di Samuel risultino da contraltare alle parole degli altri. Anche se, e lo capiamo presto, Vanand non è affidabile. È sempre vissuto ai margini della legge, anche oltre, tant’è che l’intervista si svolge in un carcere. Non solo, seppur attirato quasi omosessualmente da Samuel, e sebbene abbiano a lungo vissuto insieme, mai sono andati operativamente oltre le soglie dell’amicizia. Anche se, soprattutto da parte di Vanand, sembra esserci il desiderio. Che Samuel lo fa sentire bene, che Samuel non lo prende in giro, ascolta quello che dice con partecipazione. Anche perché Samuel ascolta tutti con partecipazione. Ma non sa cosa vuole essere o fare nella vita.

Anche la sua grande amica, l’artista estemporanea che si fa chiamare Pantera ne tratteggia il modo di essere come una persona pronta a tutte le esperienze (una che vuole farle tutte per capire quale sia la sua vita), ma che pare agisca poco in prima persona.

Diverso è il rapporto con Laide, ragazza più grande di Samuel, con la quale si istaura un rapporto di grande amore. Le descrizioni dei loro momenti sono forse le migliori parole che Khemiri ci propone per descrivere un rapporto nato da un colpo di fulmine, cresciuto improvvisamente, e poi, questo sì con mistero, deflagrato.

Ci sono elementi di contorno, il lavoro di Samuel per l’immigrazione, Laide che conosce molte lingue e si industria a trovare permessi di soggiorno per gli immigrati, la nonna di Samuel (toccanti le righe in cui si capisce l’Alzheimer della vecchia), la casa che brucia, la Pantera a Berlino, il taccheggio di Vanand. E tante piccole azioni, attività, modi di vita che si affastellano nelle dichiarazioni contrapposte, anche a volte opposte, delle persone che conoscevano Samuel.

Non vi dico come Khemiri scioglierà il dilemma posto sopra sulla fine di Samuel, ma capiamo che c’è anche qualche altra cosa, qualche altro dramma che si mescola. E che in fondo, poi, più che per la fine di Samuel, ci mettiamo a pensare che sia la descrizione della fine di una generazione di persone che non riescono a vedere quale possa essere il loro futuro.

Emblematico, ad esempio, è l’atteggiamento di Samuel, che non sapendo come intavolare un colloquio con una persona sconosciuta, si prepara elenchi di domande, come se partecipasse ad un colloquio aziendale. Laide ne è prima conquistata, per la spontaneità e l’innocenza di Samuel (soprattutto quando continua a chiedere a tutti di definire cosa sia l’amore), ma poi capisce che c’è anche altro, quando Samuel ricomincia con le stesse domande ad un'altra persona.

C’è modo di far durare l’amore? Cos’è l’amicizia? In che modo il sociale modifica la nostra vita? Parliamo di Samuel o di altro?

Alla fine, pur con dei limiti di coinvolgimento, è un bel romanzo, che scorre agevolmente tra le strade di una Stoccolma che anche io conosco, e che mi aspetto di rivedere prima o poi.

“I periodi che ci sembrano lunghi quando li viviamo diventano brevi nel ricordo, e viceversa.” (190)

Seconda trama, e per chiudere l’anno un suggerimento di letture che dovrebbe far nascere qualche sorriso sulle nostre facce stanche.

Mi ripeto che auguro a tutti un Natale più spirituale che colmo di shopping, forse al momento non tanto indicati. Avremo tempo, ne sono sicuro, di regali, di viaggi, e di abbracci reali. Purtroppo, per ora continuiamo con quelli virtuali.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

DICEMBRE 2020

Sono contento di poter chiudere quest’anno con un richiamo a qualcosa che ci possa far sorridere.

UMORISMO, MANCANZA DI

Come a volte succede, un suggerimento senza commenti

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER TRENTENNI

Giovanni Boccaccio    “Il Decamerone”

Italo Calvino             “Le cosmicomiche”

Giulio Cesare Croce   “Le avventure di Bertoldo”

Nora Ephron            “Affari di cuore”

Théophile Gautier      “Capitan Fracassa”

Giovanni Guareschi   “Mondo piccolo: Don Camillo”

Victor Hugo              “L’uomo che ride”

Anita Loos               “I signori preferiscono le bionde”

François Rabelais      Gargantua e Pantagruele ”

P. G. Wodehouse      “La gioia è col mattino”

Bugiardino

Devo dire che qualcosa ho letto, ma questa lista porta ad altri umorismi, forse di quando era più sul versante del precedente allegato di cure. Ho letto Calvino quando ancora stavo con i miei, poco dopo essermi innamorato de “I nostri antenati”. Ho letto brani di Boccaccio, Croce e Rabelais, e da qualche parte ho sia Gautier che Hugo. Di Wodehouse ho letto molto di Jeeves, ma questo no. Per quanto riguarda Guareschi ho visto molti film con Fernandel e Gino Cervi. E di Loos ricordo il formidabile film con Marilyn Monroe e Jane Russell. Allora, di letture e trame non rimane altro che Nora Ephron.

Nora Ephron “Affari di cuore” Corriere della Sera 19 euro 7,90

[tramato il 22 gennaio 2017]

Nora è stata (purtroppo è morta di leucemia 4 anni fa a 71 anni) una donna di lettere che in una delle sue incarnazioni, quella di sceneggiatrice, ho venerato per l’arguzia e la comicità che sapeva infondere alle sue trame. Non c’è bisogno certo di ricordare che il suo più grande successo fu “Harry ti presento Sally” (“When Harry Met Sally”). Ma prima di questo picco, sceneggiò nel 1986 il film “Heartburn” con Meryl Streep e Jack Nicholson, a partire proprio da questo saggio – romanzo – nonsocomeclassificarlo, che scrisse nel 1983.

Perché questa è in realtà una “novel”, una novella, un ricordo autobiografico traslato, punteggiato di momenti di vita, ed infarcito, giustamente visto che siamo nel lato “Storie di cucina”, con qualche ricetta. Intanto, il titolo, che in realtà “Heartburn” sta ad indicare in inglese “bruciori di stomaco” o, meglio “indigestione”. Ed anche se si parla, se ne è il filo conduttore, la storia di vita e d’amore della stessa Nora, è per l’indigestione, per la pesantezza di stomaco che le viene dalla difficoltà di vita con il suo secondo marito, che nasce il libro, che nasce la storia.

Un romanzo ricco di spunti divertenti, a metà strada tra romanzo di vita e libro gastronomico. La narratrice, Rachel Samsat (Nora) è un’esperta di cibo e nel libro sono presenti ricette (quindici per l’esattezza) a metà strada tra la tradizione americana e quella ebraica (dal cheesecake ai russli). Ma tutto questo cibo, anche tutta questa dolcezza non fa diminuire il dolore di una donna incinta al settimo mese che scopre il tradimento del marito.

Rachel è sposata con Mark Feldman (Carl Bernstein nella realtà, uno dei due giornalisti che condusse l'inchiesta che svelò i retroscena dello scandalo Watergate, spingendo il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon a rassegnare le dimissioni). Rachel, newyorchese, si è trasferita a Washington per sostenere la carriera del marito. Hanno una figlia e Rachel è incinta del loro secondo figlio. La capacità narrativa di Nora ci fa viaggiare all’interno di questa coppia intellettuale della middle class americana, con tutte le sue nevrosi e tutti i suoi tormenti.

Infarcita di aneddoti che ce la rendono cara e divertente. Mark che si tormenta perché non trova i calzini. Rachel che, per superare i suoi momenti di crisi, affronta una terapia di gruppo. Contrappuntando la narrazione con quelle ricette buttate lì come se niente fosse, un po’ per prendersi in giro (come dovrebbe scrivere un libro di ricette) un po’ per prendere ogni tanto le distanze dai dolori quotidiani. Fatto sta che Rachel scopre la tresca di Mark con Thelma Rice (in realtà, Margaret Jay figlia dell'ex primo ministro britannico James Callaghan). Facendo scattare i suoi primi veleni (Rachel va dicendo in giro che Thelma è affetta da malattie veneree).

Punto nodale della trama è il furto di un prezioso anello di Rachel al termine di una seduta della terapia di gruppo. Il ladro viene preso, l’anello restituito, ma ha le pietre allentate. Rachel lo porta al gioielliere di famiglia dove scopre che mentre lei era in ospedale per il parto Mark aveva comperato una costosa collana per Thelma. Allora lei, nascostamente, vende l’anello e con i soldi si può permettere di tornare a New York e riprendere la sua vita come prima del tradimento.

Ma il bello non ci sarebbe se non arrivassimo alla scena madre, al modo per Rachel di capire e di far capire che il matrimonio è finito. Sono ad una cena da amici e Rachel ha portato una torta di lime fatta da lei. Si spettegola su matrimoni e coppie in crisi e Rachel capisce che Mark l’ha tradita anche prima di Thelma e che lo farà ancora. Non riesce a convivere con l’idea di stare con Mark sapendo di non essere rispettata. Se lui non la ama, lei deve prendere la torta e gettargliela in faccia. Lo farà? Chi ha visto il film lo sa.

E noi sappiamo che ammiriamo Rachel-Nora perché saprà ricostruirsi una vita a partire da queste ceneri. Tanto che cinque anni dopo finalmente troverà il partner definitivo in Nicholas Pileggi, che sarà con lei fino alla fine. Il libro l’ho trovato discretamente divertente, anche se nessuna delle ricette mi ha veramente incuriosito. Mi ha anche dato un nuovo pilastro alla costruzione della visione femminile sul tema dell’infedeltà, costruzione che poggia sulle altre gambe con Siri Hustvedt (“L’estate senza uomini”) e Elena Ferrante (“I giorni dell’abbandono”). Forse questo, oltre la simpatia per l’autrice, l’ha fatto lievitare un po’ sopra quella sufficienza che da solo forse non avrebbe raggiunto.

Conclusioni

Sulle scelte non obietto gran che (anche se a me Boccaccio e Croce non fanno ridere e per Rabelais ho una risata “intellettuale”). Ma penso che si sarebbe dovuto scavare più sul lato Ephron, magari mettendoci un Piccolo italiano.