mercoledì 24 dicembre 2008

Il cerchio si chiude

E si finisce dove si è cominciato. Ho, infatti, iniziato l’anno ad Istanbul e scrivo quest’ultima trama del 2008 sulla Turchia. E su scrittori che ne parlano. Due, poi, sono anche turchi, ed anche nelle differenze si sente la loro patria. L’americano è solo (ma è importante) innamorato dell’atmosfera turca. Forse un po’ ne risente. Ma andiamo con ordine. Cominciamo con
Jason Goodwin “L’albero dei giannizzeri” Einaudi euro 12,50 (in realtà, scontato 8,75)
Nel complesso pensavo meglio, anche se il finale è interessante. Buon quadro di Istanbul degli anni ’30 del 1800. Bello l’inquadramento storico, che rimanda a periodi turbinosi di cui qui in Occidente non molto si conosce. 1830, complotto a Istanbul. Una serie di omicidi costringe Yashim ad abbandonare le amate letture, l'adorata cucina ed a tornare detective. Nelle sue investigazioni frequenta ambasciate e diplomatici, si reca da guide e corporazioni, coltiva l'ambiente dei danzatori eunuchi, gruppo di magnifici travestiti. Le sue indagini sembrano condurre ai Giannizzeri, il potente corpo d'élite ottomano, per secoli considerata la fanteria più efficiente e feroce del mondo. Nel frattempo una serie di incendi minaccia la città, e poiché i Giannizzeri sono anche i pompieri della capitale tutto sembra preparare il loro minaccioso ritorno... Quindi un plauso per il plot e l’ambientazione. Interessante anche la figura dell’eunuco detective, anche se cenni di sfuggita fanno presagire l’intenzione di sequel o prequel. Purtroppo ad un certo punto si perde la fila degli omicidi, anche perché a volte la narrazione si fa filmica, andando su e giù nel filo dello scorrere del tempo, per mostrare avvenimenti contemporanei ma che si svolgono in diversi punti della città. Comunque quello che più ho apprezzato è la presenza di Istanbul, dei suoi odori e sapori, da Agya Sofia alla Moschea Blu, dal Gran Bazar alla collina di Pera. Ci si torna?
Come detto questo è l’unico non turco. In fatti, Jason Goodwin nasce in Inghilterra nel 1964. Rimane stregato da Istanbul mentre studiava storia bizantina all'università di Cambridge. Dopo il successo del suo libro A Time for Tea: Travels Through China and India in Search of Tea, ha intrapreso un pellegrinaggio di sei mesi in Europa orientale, raggiungendo Istanbul per la prima volta. Il viaggio è stato raccontato in On Foot to the Golden Horn: A Walk to Istanbul. Ha inoltre scritto Lords of the Horizons: A History of the Ottoman Empire. Dopo I saggi, decide di dedicarsi al romanzo cominciando la saga del detective eunuco Yashim. Attualmente vive nel Sussex con la moglie e i suoi quattro figli.
Veniamo ora ai locali, con un autore di cui da non molto ho già scritto.
Orhan Pamuk “Il mio nome è rosso” Einaudi s.p. (regalo)
Questo suo libro, in vero, non mi è piaciuto. Scritto bene, ma che fatica!! E che mondo non tanto lontano quanto poco visibile. La vicenda sembra partire a forte andatura. Istanbul, 1591. Nella Turchia divisa fra il fermento innovativo arrivato dall’Occidente, cui sembra sensibile il sultano Murad III, e l’integralismo religioso radicato e sempre molto forte, che si evidenzia specie nelle sue forme più estreme, si inserisce una vicenda gialla: il ritrovamento di un cadavere. Parte un’indagine affidata a Nero che si intreccia di rosa, poiché da sempre lui è innamorato di Shekurè. Che poi è il nome della madre di Pamuk, che chiude il libro chiede a suo figlio Orhan di narrare storie. Ma lo scopo del romanzo non è attirare il lettore con una storia (che almeno fosse avvincente ma non lo è). Neanche in questa polifonia che intreccia passati e presenti. Infatti, il tema centrale attorno a cui verte non solo l’omicidio, ma tutta la vicenda narrata, è la disputa sull’opportunità di rappresentare o meno la figura umana, per non recare offesa ad Allah. Quindi (e forse qui stanno le ragioni del Nobel) nel cercare di capire se esiste una possibile convivenza tra oriente e Occidente… Ma poi…. Prima di commentare ho anche riletto quanto avevo scritto in nota al Castello Bianco. Confermo: grande scrittore, colto, ultra-cross-referenziante, ma … che palle. Sa tutte sulle miniature, ed io no. E cita e ri-cita i libri dei grandi miniaturisti arabi (“Il libro dell’anima” di Ibn Qayyim Al-Jawziyya, “Il libro dei Re” di Furdusi, “La storia di Hüsrev e Shirin di Nizami, “La storia” di Tall Hasan, “Il libro delle vittorie” dedicato a Solimano il Magnifico, e tanti altri ancora). Ma non cita mai i precedenti europei (vogliamo ricordare l’ornatissimo Codice esposto ad Urbino?). E nel 1600, in Occidente forse più che di miniatura si parlava di pittura, di quella vera. Finisco restando come detto perplesso.
“se dentro di te, inciso sul cuore, vive il volto della persona amata, il mondo è ancora la tua casa”
“l’amore è la capacità di rendere visibile l’invisibile”
“cerchi ciò che desideri con il cuore, invece dovresti decidere con la testa”
La biografia l’ho pubblicata il 03/08/2007, ma se si vuole si può approfondire su http://it.wikipedia.org/wiki/Orhan_Pamuk
Finisco con quello che in realtà più mi è piaciuto.
Elif Shafak “La bastarda di Istanbul” Rizzoli euro 6,90 (in realtà, scontato euro 5,42)
Dopo averlo letto si capisce l’ostracismo che ha avuto in patria. Infatti, si parla, bene o male, del genocidio armeno. Con parole che rivelano tutta la difficoltà ed il dramma di ripercorrere quegli anni buoi. La storia si attorciglia un po’, andando quasi per gradi, non trovando un suo centro, ma ri-centrandosi di volta in volta, concentrandosi sui vari personaggi che entrano ed escono. Belle rimangono le immagini di Istanbul, del ponte di Galata, del Gran Bazar, dei piccoli bar decentrati, fin a quel miracolo del caffè Kundera. Tutto si intreccia, perché tutto è poi intrecciato: i turchi e gli armeni hanno più legami che divisioni (ma a quando un libro senza pudore anche sui curdi?). Qui c’è la storia di Asya, la bastarda del titolo, di cui non si conosce il padre, di Zeliha, la madre, delle zie, della nonna, e di Amy la cugina americana, e dello zio che, come tutti i maschi della famiglia, dovrebbe essere di svelta morte. Si intrecciano le storie dei Tchakhmakhchian e dei Kazanci. Fino allo scioglimento finale, con qualche sorpresa annunciata ma soprattutto con la zia Banu che decide (visto che lei è la veggente) di sopportare il peso della conoscenza, e di arrivare sino alla fine. Forse il finale è un po’ meno deciso di quanto ci si poteva aspettare. Ma il tutto scorre bene insieme, e, come detto, restituisce un’immagine della Turchia di com’è ora, con i suoi odori, i suoi sapori e le sue contraddizioni. Un bel tè caldo in un bar di Ortakoy.
“la stragrande maggioranza delle persone non pensa e quelli che pensano non diventeranno mai la stragrande maggioranza (dal Manifesto Nichilista di Asya Kazanci)”
Elif Şafak o Shafak è una scrittrice turca, anche se è nata a Strasburgo nel 1971 e molto ha vissuto all’estero. Tant’è che spesso scrive anche in inglese. Per notizie più approfondite http://it.wikipedia.org/wiki/Elif_Shafak.
Sarebbe tempo di bilanci, ma forse non ne ho tanta voglia. Tanto si è letto quest’anno (secondo le statistiche di aNobii sono sui 170 libri) e tanto si avrebbe voglia di leggere.
Forse bisognerà trovare dei modi di condividere di più. Non so.
Ora vorrei salutare tutti unendomi all’augurio di Roberta (eccovi un sorriso) coinvolgendovi nei bei momenti che sto attraversando. E allora anche un po’ di serenità a tutti.
Buona DUEMILAENOVE (umido e venAle)!
Giovanni

domenica 21 dicembre 2008

Ed ecco le short stories

Finalmente giunge l’ora di parlare dell’interessante, almeno all’inizio, collana proposta da Repubblica. Racconti, mediamente brevi, con testo inglese a fronte ed un ricco corredo di note al testo, non tanto per spiegarne passi, quanto per spiegarne la traduzione. In questo, un’opera veramente meritoria, ricca di spunti per chi, come me ad esempio, conosce un’inglese d’uso ma a volte poco sa dei meandri della lingua e delle sue potenzialità.

Poiché sono brevi, in queste note ne tratto a mezze dozzine, sia per non tediare troppo, sia per non dilungarmi oltremodo; in fatti, la collana, all’inizio prevista sulla quindicina di titolo, si sta man mano dilatando, e, da un certo punto di vista, perdendo di mordente, tanto che credo la lascerò presto.

Per ora veniamo ai primi titoli che ho letto, equamente ripartiti: due uomini, due donne e due gay.  

Martin Amis “Passaggi di carriera” Repubblica Short Stories euro 4,50

È la prima storia che ho letto di questa collana. Non so ancora le altre, questa ha sicuramente dell’interesse. In poche pagine rovescia il mondo letterario, mettendo in prima linea fantomatici scrittori di poesie (i cui titoli sono presi dalle opere dei maggiori poeti anglo-sassoni, creando un discreto effetto comico) che con le loro opere guadagnano milioni. Ed in seconda fila la vita stentata dei poveri sceneggiatori di film, soprattutto di B-movie, che devono fare la gavetta per vedere pubblicate le loro opere. Tra l’altro con citazioni trasversali legate alle opere di fantascienza in cui il padre Kingsley si cimentò. Per arrivare ad una morale: comunque lo si rivolti, il potere è cattivo, e porta a corrompere qualsiasi cosa. Interessanti, come detto, anche le note al testo, che delucidano su alcuni problemi di traduzione e su una serie di modalità discorsive usate nel testo inglese, che vengono senz’altro a mancare nella pur bella traduzione. Un po’ faticoso, ma mi ha soddisfatto – stimolato.

A parte la citazione del padre summenzionato, e ricordare che Martin è nato il 25 agosto del 1949 a Oxford, per il resto rimando a http://it.wikipedia.org/wiki/Martin_Amis.

Il secondo, è un grande tra gli americani, anche se a me poco familiare.

Truman Capote “Il Giorno del Ringraziamento” Repubblica Short Stories euro 4,50

Confesso, infatti, che è il primo scritto di Truman Capote che leggo. Mi ha sempre innervosito quella sua aria da gay superiore agli altri (innervosito dalla parte snob, non dalla parte gay). Quindi, tralasciando il fatto che per me Colazione da Tiffany è sempre e soltanto Audery Hepburn, diciamo che questa prova di scrittura è decisamente convincente. A meno che… A meno che non si comincia a riflettere del suo rapporto con Harper Lee, di cui per caso ho letto (e scritto) da poco “Il buio oltre la siepe”. E questo racconto le è dedicato. Nell’impianto, nelle descrizioni, in alcuni personaggi questo Giorno riecheggia grandemente il libro della Lee. La parabola poi è oltremodo chiara. Siamo nel Sud, e si parla di “altro”. Vuoi esso negro (nella Lee) vuoi esso povero (qui). Si parla dell’agnizione che pian piano si fa verso lo stato di ribellione indotto dalla povertà. Si parla del giovane Buddy, del compagno di scuola "cattivo", della tenera Sook, forse un po’ fuori di testa, ma così da potersi avvicinare ai bambini ed alle loro sensibilità (che sono propri dei bambini e non degli adulti che interpretano i bisogni dei bambini). E si parla di un giorno di festa nella solitaria e sconfinata campagna dell'Alabama. Qualcosa si scriverà sul suo inglese, ricco di richiami. Certo siamo sempre nel Sud, e c’è sempre il grande Faulkner da qualche parte.

Di Truman tanto si scrive in giro, qui ricordo solo che era una bilancia e che Capote era il nome del patrigno (il suo era Truman Steckfus Persons). Anche qui, rimando a http://it.wikipedia.org/wiki/Truman_Capote.

Torniamo al continente, ed ad un’autrice di cui già parlai non bene.

Antonia S. Byatt “Zucchero” Repubblica Short Stories euro 4,50

Ulteriore riprova che a me, per ora, la Byatt non mi coinvolge. Il tema è ricco, mi tocca, ma non il suo girovagare tra le parole, facendo vedere che lei è una che sa, ma con il tono di chi lo vuole mostrare. Chi sa riesce a far trapelare la sua “sapienza” senza ad ogni passo dire “vedi, conosco anche questo”. Un lungo giro intorno per parlare della morte del padre. Perché la Byatt capisce che, morendo, egli porterà con sé molte storie di famiglia, storie che hanno dato forma ad altre storie, e sono state raccontate in molte versioni, più o meno attendibili e veritiere. Se il padre, uomo di legge, onesto e autoironico, rappresenta nell'equilibrio famigliare la trasparenza e l'integrità intellettuale, è soprattutto la figura materna a incarnare l'inattendibilità del racconto e la tendenza a ricamare intorno alle storie. Ma forse, più che della morte del padre, quindi si parla delle origini familiari. Del perché il padre, perché la madre, la zia, i fratelli e sorelle, e via discorrendo. E perché io-narrante. Ripeto, mi sfastidia il fatto di dover fare vedere quanto sono colto, e l’utilizzo di un inglese anche qui alto, da studio.

Non torno invece sulla Byatt, di cui ho scritto il 26/06/2007.

Ripassiamo l’oceano e troviamo un altro gay.

David Leavitt “Ballo di famiglia” Repubblica Short Stories euro 4,50

Solito “pamphlettino” del solito Leavitt, uno che si crede ma non è Hemingway. Raccontino, dove succedono stati d’animo, e momenti pesanti raccontati con la finta leggerezza di chi parla d’altro. Si vede che mi piace poco? È la storia di tutta quella serie di minimalisti, epigoni minori di Cheever, che stravedono nel far andare avanti per pagine una sensazione, fatta quasi di niente. La madre americana e i suoi problemi (e sempre primo l’alcool), la figlia grassa, l’amico gay, il padre che sceglie un’altra, più giovane e più bella. Tutto che forse sta per accadere, che potrebbe. Ma che non accade durante il racconto. Forse dopo, a pagine chiuse, succederà. Ma ci vorrà altra tempra per poterne narrare. Dopo questi racconti, rivado sempre al film “America” di Altman. E rimango a pensare. Il racconto era il primo della sua prima raccolta dallo stesso titolo. Uno stile inglese di mezzo, anzi meglio ancora, uno stile americano moderno di mezzo, non troppo volgarizzato. Forse per questo, sembra anche qui scivolare sulle parole, piuttosto che usarle per incidere.

David Leavitt nasce a Pittsburgh il 23 giugno 1961 e vive a lungo in Italia di cui scrive a lungo. Per il resto, potete leggere su http://it.wikipedia.org/wiki/David_Leavitt.

Finalmente un grande, in assoluto, una scrittura da meditare.

William Faulkner “Fumo” Repubblica Short Stories euro 4,50

Bellissimo, il Sud di 60 anni fa come il West di 150, da dare schiaffi sonori a Cormac. Ed in una lingua usata con una ricchezza da studio. Ho poi scoperto, andando in giro su Internet, che questo fa parte di una raccolta di “scritti polizieschi” di Faulkner, basati sulla figura dell’avvocato che qui risolve il giallo, con un’abile manovra (che non svelo). Ma quello che viene ben descritto è il Sud degli Stati Uniti. Un Sud così detto di frontiera, con i pascoli, le terre, i buoni ed i cattivi. Con la storia del padre che non vuole lasciare le terre ai figli e che qualcuno (fortunatamente) uccide. Alla fine si saprà tutto, chi come e perché. Ma quello che ho scoperto con piacere è sia l’andamento del racconto (solo alla metà ci si accorge che l’io-narrante è uno dei giurati del processo), sia la lingua, fine di una ricchezza che (a me povero anglo-ignorante) è sembrata magica. Sarà da riprendere qualche altra volta.

Anche qui, un’altra bilancia, anch’essa di settembre, premio Nobel e grande scrittore, di cui, più esaurientemente, si legge in http://it.wikipedia.org/wiki/William_Faulkner.

Ed infine un’altra donna.

Joyce Carol Oates “Riccioli rossi” Repubblica Short Stories euro 4,50

Un’altra autrice che non conoscevo. Mi piace. Mi piace il modo di usare la lingua, qui utilmente bassa e dura, come dura è la vita della provincia americana. E dure sono le scelte della protagonista tredicenne tra la lealtà alla famiglia e la denuncia del fratello forse assassino. Ma quello che esce fuori benissimo è il rapporto con il padre. Anche qui, come con la Byatt, con un padre morente. Qui, però, siamo sulla vita reale, dove gli odi e i rancori si portano appresso, fin oltre la tomba. Qui non c’è perdono salvifico. C’è solo il rimpianto di cosa poteva essere stato e non lo è. Anche se tutti hanno seguito la propria coscienza. A volte però se ognuno segue la propria e non si apre alle ragioni dell’altro, si rischia di creare soltanto dolore. Racconto cupo, quindi. Ma che apre alla lettura di altre opere dell’autrice.

Joyce Carol Oates di giugno come Leavitt, anche se un Gemelli. Leggere meglio su http://it.wikipedia.org/wiki/Joyce_Carol_Oates

Spero che questo breve viaggio in lingua vi abbia interessato. Ora si va a preparare bagagli, Natale, pranzi e cene (ma non dimentichiamo le bilance).

Buona settimana

Giovanni

mercoledì 17 dicembre 2008

Intermezzo di rabbia

Rabbia nella scrittura, rabbia della scrittura, rabbia per chi scrive ed a successo (invidia?). Questo secondo intermezzo è pieno di rabbia. Cominciando da quella del cinese Ma Jian che cerca di scrivere del e sul Tibet, e per questo viene bandito (o meglio preferisce auto-esiliarsi) dalla patria natia.

Sto parlando di

Ma Jian “Tira fuori la lingua” Feltrinelli euro 9

Un libro agile, breve, interessante. Direi “per acculturarsi” vedendo narrare di una cultura tibetana non idealizzata, ma dipinta come è, dura, crudele, a volte disumana. Cinque racconti che mostrano come la povertà e la repressione politica abbiano annientato quella che un tempo era considerata una cultura ricca e brillante. Uno scrittore cinese con alle spalle un matrimonio fallito parte per il Tibet. Durante i suoi vagabondaggi assiste alla sepoltura celeste di una ragazza morta di parto, divide la tenda con un nomade diretto a una montagna sacra a chiedere perdono per aver avuto rapporti sessuali con la figlia, incontra un orafo che tiene appeso alla parete di una caverna il corpo della sua amante incartapecorito dal vento, ascolta la storia di una giovane lama morta durante un rito di iniziazione. Il confine tra realtà e finzione narrativa si assottiglia fino a immergere il protagonista in un mondo così diverso da tormentarlo anche in sogno. Detto del bene, parliamo del male. O meglio di cosa mi lascia perplesso. Non è la prima volta che leggo scrittori cinesi, ed in generale asiatici (la Yoshimoto è un caso a parte). E sempre rimango sospeso. C’è sempre qualcosa, una sensazione, una nota di altro che non mi arriva fino in fondo. Credo che la permeabilità della vita cinese, dove tutto è al contatto con tutto e poco si riesce a scindere, renda difficile entrare a fondo nel tessuto narrativo. Così mi accontento di squarci, decenti, ben tradotti, ma sempre limitati.

Forse comunque mi sfugge qualcosa (dal libro o dalla psicologia cinese), tanto che mi piace citare la motivazione della messa al bando del libro di Ma Jian, e motivo per cui preferì fuggire in Occidente:

Tira fuori la lingua è un libro volgare e osceno che diffama l’immagine dei nostri compatrioti tibetani. Ma Jian non è in grado di descrivere i grandi passi avanti compiuti dal popolo tibetano nella realizzazione di un Tibet socialista unito e prospero. Il ritratto del Tibet che esce da quest’opera sudicia e ignobile non ha nulla a che vedere con la realtà, e altro non è che il prodotto dell’immaginazione dell’autore e del suo desiderio ossessivo di sesso e soldi… A nessuno deve essere permesso leggere questo libro. Tutte le copie devono essere confiscate e distrutte immediatamente.”

Ma Jian è nato a Qingdao il 18 agosto del 1953 (pochi giorni dopo Nanni Moretti). Ha lasciato Pechino per Hong Kong nel 1987, poco prima che le sue opere fossero bandite in Cina. Dopo la restituzione dell’isola alla Repubblica Popolare Cinese, l’autore si è trasferito in Europa, prima in Germania e poi a Londra dove vive tuttora, con la sua traduttrice Flora Drew. In Italia, Neri Pozza ha pubblicato Polvere rossa nel 2002. Il suo ultimo libro Beijing Coma (2008) racconta la rivolta di Piazza Tienanmen dal punto di vista di uno studente rimasto in coma dopo le proteste. Il coma come metafora della capacità di ricordare e dell’incapacità di agire.

Rabbia nella scrittura, di quel fenomeno americano di cui da poco ho letto e tramato sul primo libro, ed ora passo al secondo, quello che mi fa sentire l’America vera del profondo, non quella troppo da cartolina di New York o San Francisco.

Cormac McCarthy “Meridiano di sangue” Einaudi euro 11,50 (in realtà, scontato 9,25)

È il secondo che leggo, ma devo dire ancora non so fino a che punto mi piace. Da una parte passa da una prosa all’altra come nei due esempi che riporto (a parte di capire il primo cui la metà delle parole mi sfuggono, come ‘ipomea’ o ‘calderugia’). Dall’altra, proprio questo contrasto disegna un’epopea di mondi lontani (il West selvaggio americano del 1850) che forse solo così si può rendere.

“Passarono attraverso un prato montano col suo tappeto di fiori di campo, acri di calderugia dorata e di zinnia e di genziana viola e viticci ritorti di ipomea blu, e una vasta pianura colma di piccoli fiori variegati che si protendeva come percalle stampata verso i lontani bordi dentellati del prato coperti da una foschia azzurra e le catene adamantine che sorgevano dal nulla come dorsi di mostri marini in un’alba devoniana.”

“La donna alzò la testa e lo guardò… Glanton indicò qualcosa con la sinistra e lei si voltò seguendo la mano e allora lui le appoggiò la pistola alla testa e sparò. … Un buco grande quanto un pugno si spalancò sull’altro lato della testa della donna vomitando un grande schizzo rosso, e lei crollò in avanti e giacque nel proprio sangue, irrimediabilmente morta.”

Siamo al confine tra Stati Uniti e Messico nel 1850, una banda di cacciatori di scalpi lascia dietro di sé una scia di sangue, sullo sfondo di una natura grandiosa e impassibile. Li comanda il corpulento giudice Holden: un predicatore e filosofo dei deserti che trascina con sé una corte di spostati, mezzosangue e reietti armati fino ai denti, in una spirale di ferocia e morte. Con loro c'è anche un ragazzo quattordicenne: sarà quella la sua iniziazione alle spietate leggi del West, tra agguati, lunghe marce, bivacchi desolati, notti di bagordi. È il mistero del Male e della violenza la grande ossessione di McCarthy, che fa lievitare le sue storie d'orrore ad altezze epiche. Tuttavia mi manca qualcosa. Alla fine, sembra che voglia fare “il prezioso” senza portare a termine le cose iniziate. O facendo finta, beh, ora andate avanti voi. Quei due muoiono o sono gay? Ed il ragazzo, carico d’anni e di sventura, dove finirà? Bacerà anche lui la sua petrosa Itaca? Non sono di quelli che vogliono tutto spiegato, ma tutto in ombra a far finta di “quanto sono intelligente”, a volta mi stufa. Si parla di Faulkner, ma dopo averne letto un racconto credo che ci sia della distanza da colmare.

Non trono sulla biografia, che ho pubblicato il 18/05/2008.

E per finire rabbia verso l’autrice di questo best-seller, forse troppo furbetto. Che poi mi è piaciuto, anche se non così come speravo. Ma ne ho visto troppo scoperte alcune “furbate” per farlo passare senza dolore.

Muriel Barbery “L’eleganza del riccio” E/O euro 18 (prestito di Benedetta)

Fenomeno del 2006 in Francia, opera seconda della Barbery (ed ora è uscita anche l’opera prima). Mi incuriosiva il successo, ma devo dire che, seppur non mi ha deluso, qualche interrogativo me lo lascia. Dalla sua guardiola di Rue de Grenelle 7, assiste allo scorrere della lussuosa vacuità della vita la portinaia Renée, che appare in tutto e per tutto conforme all'idea stessa della portinaia: grassa, sciatta, scorbutica e teledipendente. Niente di strano, dunque. Tranne il fatto che, all'insaputa di tutti, Renée è una coltissima autodidatta che adora l'arte, la filosofia, la musica, la cultura giapponese. Cita Marx, Proust, Kant... dal punto di vista intellettuale è in grado di farsi beffe dei suoi ricchi e boriosi padroni. Ma tutti nel palazzo ignorano le sue raffinate conoscenze, che lei si cura di tenere rigorosamente nascoste. Poi c'è Paloma, la figlia di un ministro ottuso; dodicenne geniale, brillante e fin troppo lucida che, stanca di vivere, ha deciso di farla finita (il 16 giugno, giorno del suo tredicesimo compleanno). Fino ad allora continuerà a fingere di essere una ragazzina mediocre e imbevuta di sottocultura adolescenziale come tutte le altre, segretamente osservando con sguardo critico e severo l'ambiente che la circonda. E si va avanti così per pagine e pagine, citando, rinviando, ma in sostanza rimandando ad una cattiva metafora (uscire dal proprio gregge provoca disastri). Forse è un po’ snob, del tipo, vedete quanto sono brava nel dire cose forti con leggerezza. Comunque qualche corda me la tocca (come non voler bene a chi ama Blade Runner?) ma così, con un sorriso a fior di labbra, senza la grassa risata del discoprimento. La fine poi è tutta da discutere. Ah, per finire, la ragazzina mi sembra poi difficilmente sostenibile nella realtà. Leggere per rimanere aggiornati. E poi discuterne.

Muriel Barbery nasce in Marocco, a Casablanca, nel 1969. Studia all’École normale supérieure, ed ha insegnato allo IUFM de Saint-Lô. Scrive il suo primo romanzo nel 2000 “Une gourmandisse”, dove si narra di un critico gastronomico alla ricerca di nuovi sapori. Buon successo e traduzioni in 12 paesi. Ma la sorpresa editoriale si ha nel 2006 con “L'Élégance du hérisson” che in meno di un anno vende 600 000 copie in Francia ed è al primo posto delle vendite per 30 settimane. Con i soldi guadagnati, decide di andare a scoprire il Giappone, dove ora vive.

Ed allora, siamo ad una settimana dal Natale, saremo tutti più buoni? Spero di no. Speriamo di essere solo più noi stessi. Intanto penso alle novità che sto “rimuginando” per il nuovo anno.

Buona fine settimana

Giovanni

domenica 14 dicembre 2008

Dell’Islam occidentale

Veniamo a riprendere, ora che si completa la trilogia, dei libri scritti da autori arabi o arabofoni che per vicende varie, da anni sono in Occidente. Per lavoro, per fuga, per scelta (obbligata o meno). Cominciamo con quello che a me è più caro. L’unico che mi rimanda il senso del luogo.

Sélim Nassib “L’amante palestinese” E/O 8,50 (in realtà, scontato 6,80)

Qui si narra dell’amore (romanzato?) della giovane Golda Meir. Non so se e quanto sia vero, ma Sélim riesce a piazzare alcune frecce al suo arco, sia nella descrizione delle prime immigrazioni ebree in Palestina negli anni ’20, sia con la descrizione dell’atteggiamento ondivago degli arabi di fronte ad una vicenda che hanno capito quando ormai era troppo tardi. Nel 1928, il Libano è sotto mandato francese e la Palestina sotto mandato britannico. Ma gli inglesi promettono una nazione agli ebrei in Palestina. È soltanto una striscia di terra e da sempre un terreno di confronto tra le varie Comunità, culture, utopie, passioni… Si passa da un mondo all'altro: da un Kibbutz agricolo con le sue norme rigorose per il benessere collettivo, al salone d'onore di un ippodromo dove si costeggiano il mondo degli affari e della politica. E l'amore in tutto ciò? Golda Meir figura politica di sinistra e del sionismo, ha dovuto nascondere per tutta la sua vita il suo amante palestinese, Albert Pharaon banchiere, discendente di una ricca famiglia libanese. Si ameranno fino a farsi male ed a doversi in ogni caso lasciare. Nassib mescola la storia, la biografia, e la leggenda in questo racconto appassionante “di un avvenimento impossibile.„ O no? Al solito, inoltre, anche vivendo in Francia, Nassib riesce a presentare con estrema accuratezza l’essere arabo. Ora come allora. Non è un caso che mette in bocca al libanese Albert le parole di mutua convivenza che tutti avrebbero auspicato, ma che… Bisognerebbe primo o poi andare oltre le parole, e, come direbbero Terzani o Gesualdi, fare un passo indietro. Speriamo.

“ciò che hai dentro è più forte di te … È ora che tu decida cosa vuoi fare della tua vita”

Ho parlato di Nassib il 22 marzo di quest’anno. Per chi vuole approfondire, può fare un salto su http://it.wikipedia.org/wiki/Sélim_Nassib.

Con il secondo autore, torniamo invece in Afghanistan.

Khaled Hosseini “Mille splendidi soli” Piemme s.p. (regalato)

Meglio del primo, di cui parlai (e male) più di un anno fa. Anche se rimane la sensazione: questo è l’Afghanistan visto da dove? Da un’America lontana? O… Storia di donne raccontata da un uomo (e questo spesso lascia limiti irrisolti), parla di Miriam e di Laila. La prima, figlia bastarda di un ricco uomo di Herat, sarà la prima sposa di un afghano di Kabul che per avere figli poi sposerà Laila, nata insieme alla rivoluzione dei talebani del 1978. E quello che poteva diventare un conflitto diventa un rapporto vero, che le renderà sorelle e che alla fine cambierà il corso delle loro vite e di quelle dei loro discendenti. Esce con forza l’amore per la famiglia che porta a fare gesti inauditi. Ma esce anche tutto l’orrore di anni e anni di repressione ed oscurantismo. Ripeto, si legge, commuove (tanti i tasti di facile sommovimento interiore), ma non entra nel problema. Descrizione esterna, esteriore, di chi, ben o male a 15 anni se ne va in California.

Non avendone scritto allora, vi parlo di Khaled Hosseini che nasce a Kabul il 4 marzo 1965 (22 anni dopo Lucio Dalla). Dal 1980 vive negli Stati Uniti ed è l'autore del libro campione di vendite, Il cacciatore di aquiloni, edizioni Piemme (2004). Nel 2007, ha pubblicato questo nuovo libro che, solo in Italia, ha venduto più di un milione di copie. Hosseini è ultimo di cinque fratelli. Suo padre era un diplomatico in servizio presso il Ministero degli Esteri afghano e sua madre insegnava persiano e storia in un liceo femminile di Kabul. Nel 1970 il Ministero degli Esteri mandò la sua famiglia a Teheran, in Iran, dove il padre lavorò presso l'ambasciata dell'Afghanistan. Nel 1973 tornarono a Kabul. Nel luglio 1973, nella stessa notte in cui nacque il fratello più piccolo di Hosseini, il re afghano, Zahir Shah, fu spodestato in un colpo di stato dal cugino, Mohammed Daoud Khan. Nel 1976 il Ministero trasferì ancora una volta la famiglia Hosseini, questa volta a Parigi. Nel 1980 sarebbero dovuti tornare a Kabul, ma nel frattempo (1979) in Afghanistan il potere era nelle mani di un'amministrazione filo-comunista, appoggiata dall'Armata Rossa. Temendo l'impatto della guerra sovietica in Afghanistan, la famiglia Hosseini chiese e ottenne l'asilo politico negli Stati Uniti e, nel settembre 1980, si trasferirono a San José, in California. Dato che avevano lasciato tutte le loro proprietà in Afghanistan, per un breve periodo vissero di sussidi statali, fino a che il padre riuscì a risollevare le sorti della famiglia intraprendendo numerosi lavori. In California, Hosseini si laurea in medicina ed inizia la professione medica. Solo dopo i 40 anni, decide di ripensare alla sua terra natale e comincia a scrivere.

Finiamo con l’unica donna, anch’essa ormai da anni in Francia, e con il libro che mi ha più deluso, forse perché mi aspettavo appunto qualcosa di arabo, ma che mi rimanda una foto di quel mondo visto ormai dal di fuori.

Salwa Al-Neimi “La prova del miele” Feltrinelli euro 10 (in realtà 7,50 euro, sconto Feltrinelli +)

Infatti, la prima domanda è: se non vivesse a Parigi, avrebbe scritto allo stesso modo? È vero che il libro è uscito in Libano, ma in realtà, mi ha un po’ deluso – e forse annoiato. Voleva suscitare scandalo? No, perché in fondo sono solo parole. Non c’è storia, non si segue un filone. Si parla degli antichi libri arabi come summe di erotismo volto al bene dell’individuo, a farlo star meglio, e cose analoghe. E si accenna per via alle modalità non liberali cui il sesso viene visto e vissuto nei paesi arabi. Interessante il mini-racconto della donna che divorzia dal marito perché lo trova in flagrante adulterio. E ne sopporta le conseguenze, quasi che fosse meglio subire e perdonare. Ma poi tutta la libertà di cui gode la narratrice è messa lì, un po’ per “èpater le bourgeois”, per fare scandalo. Sono parole, non c’è l’intreccio che porta a capire, man mano che si snoda come la componente sessuale sia vissuta dalla protagonista. Lo dice lei, libertà vo cercando. E uomini e situazioni. Ed il sesso con il Pensatore, vero o inventato che sia. Calcando un po’ la mano, in alcuni punti, ma, ripeto, solo per spaventare i benpensanti, non perché sia utile alla trama, al suo svolgersi, a dipanare i motivi e le ragioni. Utili mi rimangono le citazioni degli autori da ricercare (da Muhammad bin Zakarya ad Ibn al-Azraq, via via sino alle storie di Hubà la Medinese). Ma mi aspettavo di più e meglio. Come romanzo non sostiene l’intreccio e finisce accumulando parole ma non emozioni. Come saggio dice dei nomi, ma li butta lì, un po’ spendendo la propria cultura, piuttosto che condividendola.

“le risposte, come le storie, arrivano da sole, con i loro tempi”

“tutti abbiamo un Pensatore … che ci aspetta in qualche angolo del mondo per rivelarci come siamo, per farci scoprire le nostre capacità”

“lo scandalo sta nel fare qualcosa o nel rendere pubblico ciò che si fa?”

“io non son bella, sono viva”

Poche le notizie sull’autrice. Salwa al-Neimi è nata a Damasco. Dopo aver conseguito la laurea in Letteratura araba presso l’università della capitale siriana, a metà degli anni settanta si è trasferita a Parigi, dove vive tuttora, per studiare teatro alla Sorbona. Oggi, oltre a dedicarsi alla creazione letteraria, lavora come giornalista e responsabile ufficio stampa. Tra i lavori pubblicati, ricordiamo una raccolta di racconti e vari volumi di poesia.

Tra dieci giorni si parte ancora una volta per i paesi arabi. Vedremo confronti tra realtà e fantasia.

Buona settimana a tutti

Giovanni

venerdì 12 dicembre 2008

Intermezzo di qualità

Come primo intermezzo nello scadenzarsi di questo strano dicembre, vi porto tre chicche, certo di diverso tono e gradimento, ma che riportano il livello delle letture ad un buono standard di qualità. Tra un argentino che scrive di sport ed una franco-algerina che parla dell’amore, inserisco un italiano di scarsa fortuna ma di spessore (peccato sia morto troppo presto).

Cominciamo da oltre oceano

Martin Kohan “Fuori i secondi” Einaudi euro 12,50 (in realtà, scontato 10 euro)

Uno scrittore argentino che scrive bene, arrotonda le storie per farle intersecare. Certo, quando si parla di Buenos Aires, la mia mente vaga tra un Borges inarrivabile ed un Osvaldo Soriano straripante di invenzioni. Kohan si colloca qui un po’ sul versante Soriano, anche se il tentativo di mescolare tutti gli ingredienti, rende il piatto un po’ simile a quelle insalate di riso dove qualcuno per forza vuole mettere anche i wurstel. Lo spunto è molto interessante: nel 1973, nella città argentina di Trelew, sperduto sito lontano da Baires, il giornale locale compie cinquant'anni. Per celebrare l'evento ogni responsabile del giornale deve scegliere un fatto di cronaca avvenuto nel settembre 1923 da inserire in un supplemento speciale. Il giornalista sportivo non ci pensa un attimo: il "furto" di una legittima vittoria sarà il suo argomento, un combattimento storico di boxe, Dempsey contro Firpo. Anche il responsabile della cultura non esita: sempre nel settembre 1923 Richard Strauss aveva diretto a Buenos Aires i Wiener Philarmoniker eseguendo, tra l'altro, la Prima di Mahler. Fra questi due avvenimenti se ne insinua uno minore, misterioso e passato sotto silenzio all'epoca: uno dei musicisti dell'orchestra viene trovato impiccato in una camera del migliore hotel di Buenos Aires. Kohan mescola il tutto, entrando ed uscendo dal tempo. Parlando del ’23, del ’73 ma anche dei tempi nostri. Qualcosa alla fine rimane nell’ombra. Troppi gli ingredienti usati (e vorrei sapere che fine fa Quelita la figlia dei Ledesma). Devo dire però che sicuramente mi ha incuriosito, tanto che vi metto anche il link alla pagina che narra del combattimento di boxe http://en.wikipedia.org/wiki/Jack_Dempsey_vs._Luis_Ángel_Firpo. A, per concludere, a me la boxe non è che piace tanto.

Martín Kohan è nato a Buenos Aires in gennaio 1967. Insegna Teoria Letteraria all'Università di Buenos Aires ed all'Università della Patagonia. Ha pubblicato tre saggi Imágenes de vida, relatos de muerte. Eva Perón, cuerpo y política (Immagini di vita, storie di decessi. Eva Perón, corpo e politica) (1998; in collaborazione con Paola Courtois Rocca), Zona urbana. Ensayo de lectura sobre Walter Benjamin  (zona urbana. Saggio di lettura su Walter Benjamin) (2004) e Narrar a San Martín  (Raccontare a San Martín) (2005); due libri di racconti, Muero contento (Muoio contento) (1994) ed Una pena extraordinaria  (Una pena straordinaria) (1998); e sei romanzi, La pérdida de Laura  (La perdita di Laura) (1993), El informe  (La relazione) (1997), Los cautivos  (I prigionieri) (2000), Dos veces junio (Due volte giugno) (2002), Segundos afuera (Fuori i secondi) (2005) e Museo de la Revolución  (Museo della rivoluzione) (2006).

Veniamo al libro della vita del buon professore napoletano.

Enzo Striano “Il resto di niente” Mondadori euro 8,40 (in realtà, scontato 5,86)

Non bellissimo, ma mi è piaciuto. Riesce a dare un quadro di circa 50 anni di Napoli dal 1750 al 1800 con una scorrevolezza che non ti abbandona per tutte le 400 pagine. Anche se a volte va avanti un po’ a bozzetti, a piccoli quadri come un pittore che cerca di fissare sulla tela non solo immagini, ma anche odori e rumori. In un certo senso, quello che risalta di meno è il corale di fondo, la nascita e la crescita degli intellettuali napoletani di grande ingegno che, pur nello svolgersi del quotidiano, alla fine riescono a trovare la fiamma dell’ideale. Rivolgendosi alla Francia dei Robespierre, ma rimanendo deluso (e non poteva essere altro) dalla Francia di Napoleone. In tutto ciò, la figura, in primo piano, di donna, prima che di intellettuale di Leonor (simpatica eponima) che dubita, ragiona, cresce, cerca, ed alla fine trova il suo spazio fino a rivendicarne tutta la forza rivoluzionaria. E’ una donna che, sfidando quelle che erano cose vietate al “sesso debole”, ama la cultura, che la guida durante la sua vita, infatti, legge libri, scrive poesie e diviene una delle prime giornaliste d’Europa, dirigendo il “Monitore napolitano”, con il quale cerca di avvicinare il popolo alle sue idee repubblicane, e la politica, di cui ama discutere con i suoi amici. Lei, alla fine, unica donna che troverà il suo spazio nella rivoluzione maschile. Nel bene e nel tragico epilogo, quando dopo aver fatto tanto, come dice nel titolo, non rimane che il resto di niente. Il punto sotto l’eccellenza è per non aver saputo mostrare il coro della nascita. Un po’ come se si dovesse sapere chi erano i Filangieri, i Cuoco, i Pagano, i Serra. Mentre ben riusciti sono i cambi di lingua, che varia a seconda dei personaggi, dalla lingua colta di corte, alla bassa parlata dei lazzari. Comunque grande alla fine, rendo omaggio allo scomparso autore di questo libro uscito con fatica 25 anni fa, ma che rimane fresco e vivo.

“Quando una persona non ha scopo per vivere, spegne lentamente la fiamma dell’animo”


E per finire un colpo d’ala.

Brigitte Giraud “L’amore è sopravvalutato” Guanda 10 (in realtà, scontato 8 euro)

Bello, straziante, lacerante. Un libricino di 11 racconti, tutti sul tema dell’abbandono. E la Giraud riesce con pochi tratti a presentarne tutti gli aspetti salienti. Il dolore, la paura, a volte la stanchezza. Saltando dagli occhi di lei a quello di, eventuali, figli. Una donna non sa come dire al proprio uomo che ha smesso di amarlo senza una ragione, tanto che ormai anche la sua semplice presenza le risulta molesta; una mamma, all'improvviso e inspiegabilmente, abbandona il marito e, con lui, la figlia, lasciando dietro di sé un annichilito senso di solitudine e smarrimento; una ragazza si illude di poter ricominciare ad amare soltanto perché ne ha una voglia infinita e impacciata. La fine di un amore è sempre straziante, si ripassano i cosa poteva essere, i perché è stato. Cosa ho detto, cosa hai fatto. E via facendoci del male. Anche se a volte questo male serve per poter rinascer, per poterne uscire. I primi sono i migliori, verso la fine affiora qualche stanchezza (un po’ “inutile” il racconto sulla vedovanza). Non conosco l’autrice, l’ho presa un po’ a scatola chiusa perché mi piaceva il titolo. Mi aspettavo una storia d’amore. Ma quello che ho trovato mi è piaciuto, forse perché inaspettato. E finiamo pensando che l’amore non sia sopravvalutato, va soltanto alimentato, giorno per giorno. Mi viene sempre in mente, quando ci giro intorno, quel brano della Serrano dove la nonna consiglia alla nipote di trovare l’amore in una persona con cui è piacevole parlare. Perché finiti i furori, le cose da fare, rimane sempre la parola per potersi scambiare qualcosa.

Brigitte Giraud è nata in Algeria nel 1960 a Sidi-Bel-Abbés. Giornalista, libraia, traduttrice, ora è incaricata della programmazione del Festival del Libro di Bron (Rodano). Vive a Lione. Ha scritto romanzi e libri di poesie pubblicati in Francia "La Chambre des parents" (Prix Littéraire des étudiants), "Nico", "Marée noire",  "À présent" e "J'apprends".

Buona settimana a tutti.

Giovanni

domenica 7 dicembre 2008

Italiani più o meno noti

Si sta avvicinando la fine dell’anno, dove, viaggio permettendo, più difficile sarà scrivere queste note. E d’altra parte, per un accumulo di lettura, molto in arretrato sono rimasto (ed anche per aver saltato, giustificato, qualche domenica). Motivo per cui, in questo mese di dicembre cercherò di far uscire delle trame anche il giovedì (o il mercoledì, vediamo un po’). Intanto questa settimana torniamo a parlare di libri italiani. Due autori li abbiamo già incontrati, ed una è una new entry, anche se il suo libro mi è piaciuto di meno (e vedrete perché). Anche se devo dire la scelta complessiva rivela perplessità: nessuno dei tre l’ho trovato da cinque stelle.

Cominciamo dallo scrittore cantautore.

Roberto Vecchioni “Il libraio di Selinunte” Einaudi 7 (gratis Feltrinelli +)

Idealmente si collega all’altro libro di Vecchioni che ho letto, basato molto sul fascino che esercitano le parole. Anche qui c’è un outsider, uno fuori dal mondo, o che il mondo non vuole. Brutto, ma non sporco. Forse cattivo, ma non importa. L’importante è che è un libraio, di tipo un po’ particolare, uno che non vende i libri, ma organizza serate per leggerli (questa mi sembra un’idea meravigliosa). Grazie a questi, Nicolino, l’io-narrante, scoprirà di sentirsi attratto dalla bellezza che possono suscitare i libri nell'animo umano e non potrà più farne a meno. In fondo Vecchioni cerca di imbastire un apologo più che una favola. Però quando ti prende il vezzo di scrivere, qualcuno cerca di mostrarsi più bravo, più capace con le parole, facendo modo di dire e poi nascondere. Belle le citazioni, con in fondo il grande Pessoa che si erge su tutti. Ma nell’ansia di voler dimostrare l’importanza di leggere e della parola scritta, l’autore perde se stesso ed il lettore in un tuffo nel mare, nel bellissimo mare siculo di fronte a Selinunte, da cui sarà difficile risalire a riveder le stelle. È importante considerare le parole non come segni scritti, ma soprattutto come cose capaci di animarsi, di creare gioia, soddisfazione, malinconia e tristezza. Veloce, di scorrevole lettura, ma alla fine perplesso.

Non torno sulla biografia, pubblicata il 02/02/2008.

Passiamo alla prima delle due donne.

Rosa Matteucci “Lourdes” Adelphi euro 9

Avevo letto con piacere ed anche ridacchiando l’ultima fatica della Matteucci (“Cuore di mamma”). Ho voluto provare a leggere questa opera prima, che anche premi aveva avuto. In realtà, si fanno delle risatine (anche se non crasse), si ammira l’arguzia nel descrivere la cattiveria di vecchi e malati (veri o finti), ma si aspetta sempre che succeda qualcosa. E, purtroppo, non succede. La giovane Maria si accinge a compiere il pellegrinaggio di Lourdes con uno scopo segreto e bruciante: rendere al mittente il pesante fardello di dolore che si porta dietro da quando suo padre è morto in un incidente automobilistico. Scaraventata suo malgrado sul palcoscenico delle celebrazioni religiose, Maria si accanisce con goffe manovre nel tentativo di espugnare la grotta di Massabielle, da cui viene costantemente respinta, mentre sempre più incombenti si fanno alcune comparse demoniache - come la Michelina e la Nazzarena, cugine diabetiche di Montecastrilli, la stridula Samantha con il th, la terrifica Liona - o angeliche, come il bellissimo Gonzalo Gómez y Morena, barelliere della Vergine della Macarena di Siviglia. E poi alla fine qualcosa succede, il solito travolgimento, che ho trovato anche nell’altro libero della Matteucci. Ma qui è talmente criptico che non l’ho ancora capito. Mi aspettavo di meglio. Non so se leggerò il suo secondo libro (che cito sotto), anche se il titolo mi incuriosisce assai.

Amplio la bio pubblicata, perché ora se ne trovano di notizie. Rosa Matteucci nasce nel 1960 a Orvieto, è scrittrice, attrice e viaggiatrice, con un trascorso da apprendista monaca buddista in Nepal. Ha trascorso un’infanzia agiata e ricca, soppiantata da un periodo in cui ha conosciuto la miseria e ha combattuto per superare il problema della dislessia, aiutata da una madre colta e amante della letteratura. Si è laureata in Scienze Politiche all’Università La Sapienza di Roma, con una tesi sul Diritto costituzionale e ha lavorato presso il Quirinale. Come attrice ha partecipato ai film Mi piace lavorare – Mobbing di Francesca Comencini (2004) e La tigre e la neve di Roberto Benigni (2005). Il suo romanzo d'esordio è Lourdes (1998), vincitore nel 1999 del Premio Bagutta nella sezione Opera Prima, e del Premio Grinzane Cavour nella sezione Giovane Autore Esordiente. Nel 2003 pubblica “Libera la Karenina che è in te”. Nel 2007 esce “Cuore di mamma”, vincitore del Premio Grinzane Cavour nella sezione Narrativa Italiana. Nel 2008 Rizzoli pubblica “India per signorine”, un romanzo sulla sua esperienza indiana.

E terminiamo con la new entry

Milena Magnani “Il circo capovolto” Feltrinelli euro 12,50 (in realtà, scontato 10 euro)

Non conoscevo l’autrice, e pensavo che fosse esordiente. Errore. Il libro direi metà e metà. Un po’ prende (ma solo verso la fine) ed un po’ lascia. La storia si svolge centralmente in un campo rom all’estremo confine di una città. Si intravedono fabbriche in disarmo, tangenziali, supermercati. In una parola degrado. Quando arriva l’ungherese Branko, l’accoglienza è fredda: deve restare ai margini fangosi del campo. Eppure a sera gli si fanno intorno i bambini, incuriositi dal suo grosso baule. Vogliono conoscere la sua storia. Ogni sera, fuori dal suo rifugio di lamiere, Branko ne racconta un pezzo. Una storia di circo e di guerra, di acrobati e campi di sterminio. Branko è l’inconsapevole discendente di una dinastia di circensi. Il nonno, tradito da quello che credeva essere un amico nell’Ungheria della Seconda guerra mondiale, ha perso la vita insieme a tutta la sua famiglia in un campo di prigionia. Collegando la morte dei saltimbanchi ad Auschwitz con l’emarginazione attuale, la Magnani ci fa fare un tuffo in questo mondo vicino a noi eppur così lontano. Per fortuna che ci sono i bambini che, con tutta l’innocenza, ma anche la maturità di chi vede molto, prenderanno in mano la fiaccola della speranza. Quella che il circo ci portava nei ricordi dell’infanzia. Non ho apprezzato, anche se ne capisco il motivo, l’utilizzo di una lingua infarcita di “gitanismi” che fanno calare nella realtà descritta, ma che (a me) sono incomprensibili. Una scrittrice da rivedere in altre opere.

“quando si ascolta una favola, non ci si deve chiedere mai se la vicenda di cui si parla è vera o falsa. Una favola, l’unica cosa che chiede, è di poter rimanere nel cuore di chi ascolta”

Milena Magnani è nata a Bologna nel 1964. Nel1993 ha esordito con il romanzo “L’albero senza radici” (Nuova Eri) e nel 1996 ha scritto “Delle volte il vento”, pubblicato da Vallecchi. Ha scritto racconti per riviste e curato drammaturgie per il teatro. Laureata in scienze politiche e sociali, da vent’anni è impegnata nel settore dell’educazione e dell’accoglienza. 

In fine, come ogni inizio mese, ecco l’elenco delle letture settembrine.

 
















































































































#


Autore


Titolo


Editore


Euro


1


Martin Kohan


Fuori i secondi


Einaudi


12,50


2


Muriel Barbery


L’eleganza del riccio


E/O


18


3


Martin Amis


Passaggi di carriera


Repubblica Short Stories


4,50


4


Cormac McCarthy


Meridiano di sangue


Einaudi


11,50


5


Ma Jian


Tira fuori la lingua


Feltrinelli


9


6


Lorenzo Licalzi


Apposta per te


Corti di Carta


3,50


7


Stefano Zecchi


Maria. Una storia italiana d’altri tempi


Corti di Carta


3,50


8


Roberto Alajmo


1982 Memorie di un giovane vecchio


Laterza


9


9


Banana Yoshimoto


Chie-chan e io


Feltrinelli


s.p.


10


Marco Vichi & Leonardo Gori


Bloody Mary


Verdenero


10


11


Maurizio de Giovanni


La condanna del sangue


Fandango


12,50


12


Francesco Berto


Tutti pazzi per Gödel


Laterza


s.p.


13


Truman Capote


Il Giorno del Ringraziamento


Repubblica Short Stories


4,50


14


Francesco Guccini & Loriano Macchiavelli


Tango e gli altri


Mondadori


9


Le stelle preannunciano grandi sommovimenti nelle prossime settimane. Staremo a vedere. Per ora buona settimana a tutti.

Giovanni

domenica 30 novembre 2008

Tra corti e lunghi


Continuiamo a girovagare tra i Corti del Corriere, anche se ci aggiungo una trametta di un libro, né accio né baccio, ma che, in un momento di amnesia, mi ero scordato di tramare quando lo lessi in maggio.

Ma cominciamo con i Corti, di quelli buoni, solidi e robusti. Prima un autore nuovo, che in genere scrive di saggi.

Gian Antonio Stella “Carmine Pascià (che nacque buttero e morì beduino)” Corti di Carta euro 3,50

Prima lettura di scritti di Stella, di cui sapevo scrittore”politico”. Questo è un racconto, un racconto interessante, anche se non privo di spunti di attualità, benché si parli della guerra libica or son 100 anni. Prima constatazione è che il livello dei corti torna dignitoso. Dal che si deduce che queste collane cominciano bene e finiscono in calando (come le short di Repubblica). Passando al contesto, Stella riesce a tratteggiare la vita di un campagnolo nato più o meno con i miei nonni. Raccontando la vita di Carmine Iorio (questo nome lo conosco) con accenni e rimandi (questi tratti dalla sua esperienza di saggista) delinea anche un’immagine dell’Italia di inizio secolo. L’emigrazione verso l’America, la naia forzata per i poveri, la vita insensata del militare in guerra in una terra per lui aliena (anche se poi Carmine è molto più vicino ai beduini che ai sergenti ed ai capitani). E di come si ritrova quasi senza volerlo ad essere disertore e ad apprezzare l’umanità del popolo del deserto, le sue bellezze (anche muliebri). Probabilmente, la vicenda di Carmine è forse anche più complessa di quanto esca fuori dalle pagine. Il fatto di finire luogotenente di Omar el-Mutktah non deve essere soltanto casualità come sembra. Ma a me è piaciuto il descrivere i luoghi (in fondo tutta la vicenda si svolge in Libia, tra Bengasi, l’oasi di Cufra e gli altri luoghi del nostro deserto peregrinare), ed il ribadire l’atrocità di una guerra forse tra le più inutili che si è combattuto. Quella per avere un “posto al sole”!! Comunque, pur se dolente, sorseggiare the caldo al tramontare del sole dietro le dune, riscalda il cuore e fa meditare.

Gian Antonio Stella nasce ad Asolo (che mi collega già al deserto, in quanto, per me, vicino a Cino Boccazzi) il 15 marzo del 1953. Quindi, è più vecchio di me, e questo mi da speranza che anch’io riuscirò a scrivere di tante cose. Ed è nato pochi giorni dopo la morte di Stalin. Il resto della bio, si può utilmente leggere in http://it.wikipedia.org/wiki/Gian_Antonio_Stella.

Del secondo già si lesse per un VerdeNero, ora si legge un Corto, prima o poi si leggerà di normale.

Piero Colaprico “Scala C” Corti di Carta euro 3,50

La lettura di questo (che era uno dei primi) riconcilia con i Corti, le cui ultime uscite mi avevano un po’ deluso. Quando c’è la mano si vede. E continua il mio accostamento a Colaprico ed al commissario Binda. Ancora non siamo ai romanzi, ma questo racconto ha tutti gli elementi a posto. Forse un po’ faticoso l’inizio, ma se ne capisce il senso alla fine. Intanto, la parte centrale, pur nella brevità, presenta tutte le caratteristiche del giallo di razza. Un morto, forse due. Ambiente della Milano degradata. Forze dell’ordine buone e cattive così come sono buoni e cattivi tutti gli uomini, forse a prescindere dal proprio lavoro (Pasolini insegna…). Il Commissario ne esce con tutta la sua umanità, e devo dire sagacia (non mi azzardo a parlare di saggezza). Tutti gli elementi sono collocati in modo visibile anche per noi lettori, che insieme a Binda possiamo, volendo, trovare la soluzione. E non è poco di questi tempi in cui l’autore si arroga il diritto di fare e di disfare a suo piacimento le trame e le soluzioni. Con quel tratto di umanità che ci fa sperare che i giovani, nostri figli e/o nipoti, possano avere un mondo migliore. Se non lavoriamo per farlo. Insomma una lettura che mi ha preso, e che mi fa ripetere la voglia di approfondire l’autore ed i suoi personaggi.

La bio l’ho pubblicata il 15/06/2008 e non ci si torna su.

Ed infine il corto-lungo (e non stiamo parlando di bridge). Parliamo di un autore scorrevole che ha dedicato i suoi scritti a ricostruire nella fantasia le vicende pubbliche e private della città di Bellano, sul lago di Como.

Andrea Vitali “La figlia del podestà” SuperPocket euro 5,90 (in realtà, scontato 4,72 €)

Rimanda che ti rimanda, alla fine mi stavo scordando di averlo letto e magari (come mi è successo) lo ri-compravo. Volevo leggere qualcosa di questo scrittore assurto ai clamori della cronaca letteraria per le migliaia di copie di libri venduti aggirantesi intorno alla saga della commedia umana dei paesini comaschi, e di Bellano in particolare. Ed a scorrere, il testo scorre. Scrittura senza sussulti, vicenda ben congeniate dove si intrecciano amori nuovi e rancori vecchi. Speranze nel futuro, in quel 1931 che vedeva iniziare a volare i primi aeroplani di linea (anzi i primi idrovolanti). Insomma, senza neanche una salita che è una. Tutto ha inizio con i mutamenti che coinvolgono Renata, la figlia ventenne del podestà Meccia. La ragazza sta cambiando, questo è evidente, ma in che modo e perché? Ha forse trovato l’amore? E se sì, in chi ha trovato l’amore “questa benedetta ragazza, cocciuta come il nonno”? La storia della bella Renata volge pian piano verso il suo giusto epilogo, coadiuvata dalla bellissima caratterizzazione della zia Rosina (forse la meglio riuscita del lotto). Ma alla fine rimane un po’ poco. Forse qualche ora tranquilla a scacciare i pensieri cattivi.

“è l’amore che fa la differenza”

Meno intenso è il corto, forse non è della dimensione della sua scrittura.

Andrea Vitali “Pianoforte vendesi” Corti di Carta euro 3,50

Questo invece è uno dei corti minori. La penna è sempre di Vitali, quindi non è che si possa andare molto lontano da Bellano. Anzi, sempre qui siamo, a seguire da una parte la storia di un ladruncolo dalle mille risorse venuto in paese per la festa grande, dove si spera fare buoni colpi. Dall’altra propria la storia grande, il giorno in cui Bellano celebra i Re Magi e dove, secondo gli anziani, i morti tornano a fare pace con i vivi e fanno festa anche loro. In base a cabale note solo a Vitali, siamo nel 1966. Intorno a questi due poli, i soliti caratteri della cittadina comasca, i buoni, i cattivi (che, come dice la canzone, poi cattivi non sono mai), e gli altri. Però il tutto un po’ depresso dalla scarsa lunghezza del testo che non permette a Vitali di intrecciare storie di più ampio respiro. Un bel compito in classe. Ma nella parte bassa del gradimento dei Corti.

Dopo che si è detto che Vitali nasce il 5 febbraio del 1956 (stesso segno di Emilio e Rosa) si rimanda alla bio su http://it.wikipedia.org/wiki/Andrea_Vitali.

Direi che questa è una settimana veramente cruciale. La Mauritania attende al varco di essere visitata. E la Slovenia ci preoccupa. Aspettiamo gli eventi. Buona settimana a tutti

Giovanni

domenica 23 novembre 2008

Di nuovo sui corti

In una settimana di giri, partenza, arrivederci e viaggi, torno a parlare dei Corti del Corriere, riprendendo quelli tra i primi usciti, che mi sembrano più carini, ed alcuni di autori a me nuovi. Cercando di essere anch’io corto, vado a trattarli in ordine di gradimento. Inoltre, ho notato che le bio che tiravo fuori anche con fatica, ormai si trovano (in buona parte) su Wikipedia. Motivo per cui, invece di inutili ripetizioni, se sono presenti, rimando direttamente lì.

Cominciamo quindi con l’autore di cui (insieme alla Grafton ed al suo alfabeto) più è presente nella mia biblioteca.

Carlo Lucarelli “Ferengi” Corti di Carta euro 3,50

Questo secondo corto di carta del Corriere, sembra una premessa o una conseguenza del suo libro sull’Eritrea (“L’ottava vibrazione”), o comunque a lui molto legato. Non so il rapporto temporale, ma sembra una “prova di scrittura”. A me, comunque, non è risultata sgradita. Certo, utilizza alcuni suoi meccanismi (entrare ed uscire dal racconto, dare soluzioni per poi spiegare che la verità è altra, fino alla casualità che incastra i veri colpevoli), ma a me Lucarelli piaceva sin dall’inizio, con i primi titoli pubblicati negli anni novanta sulle collane Hobby&Work. Anche qui, poi c’è un punto di “piacere” in più: l’ambientazione Etiopico - eritrea (ed il cammeo di Rimbaud). Ferengi, è un termine di derivazione araba, nient’altro che il nome, attribuito da Aster - la protagonista femminile – al protagonista maschile. “Il Ferengi” è un vecchio barone, grande d’età e incapace di svolgere da solo le normali attività quotidiane; Aster è una persona del luogo in cui si svolgono i fatti (Massaua - Eritrea - colonia italiana nel ‘900) che si prende cura di lui (una badante ante litteram). Subisce violenze, umiliazioni, fino a quando una notte… avviene qualcosa… La storia però non è così lineare, ma è ben costruita da Lucarelli utilizzando la finzione di sfogliare vecchie foto. Infine, banalità ma importante per me, Lucarelli è uno dei due soli autori gialli di cui ho un libro autografato (chi indovina l’altro?)

Questo è il primo Lucarelli che recensisco, dato che quasi tutta la sua produzione l’ho letta prima del 2006. Ricordo solo che è nato a Parma, il 26 ottobre del 1960 (uno scorpione che non ha visto Berruti), e rimando per la bio a http://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Lucarelli.

Come secondo, un napoletano (sembra quasi che voglia andare a spasso per la penisola.)

Diego De Silva “Le donne più belle si vedono negli aeroporti” Corti di Carta euro 3,50

Non conoscevo De Silva, ma sembra piacevole la scrittura. Mi fa arrabbiare invece lo scippo delle idee sulle canzoni anni ’70. Da approfondire il discorso sullo psicologo. Un racconto che esce facile dalla penna, passando dal lettino dello psicanalista (dell’io-narrante un po’ depresso) all’abbordaggio della bella dama ed al lasciarsi (e qui si sa bene il perché). Credo sia il caso di approfondire questo autore, che fonti mi dicono scorrevole. Ed il meccanismo narrativo, pur nella brevità funziona. Vari piani di scrittura, per narrare il momento di un incontro e di un abbandono. Piacevole. Ripeto, comunque, che tutta la parte sui testi delle canzoni anni settanta mi è stata scippata alla grande. Ma ci rifaremo prima o poi.

De Silva nasce appunto a Napoli nel 1964, e per la bio rimando a http://it.wikipedia.org/wiki/Diego_De_Silva.

Torniamo ora al Nord, con una prova riuscita a metà.

Stefano Zecchi “Maria. Una storia italiana d’altri tempi” Corti di Carta euro 3,50

Un racconto decente che meritava una migliore “forma”. La storia intriga. Ha un bell’inizio “C’era una volta, non molti anni fa, una ragazza che credeva nell’amor di patria. Un amore vago che giocava con i sogni, rischioso quando si avventurava tra le pieghe della Storia, tragico se la piccola vita di ognuno di noi appare poca cosa di fronte al destino di un popolo.” Ed una densa prosecuzione: Maria è una favola triste e crudele, una storia di altri tempi vera e dura come la guerra che descrive. Con questo racconto si attraversa la Storia per ricostruire le vicende di Maria Pasquinelli, che inizia sul finire del 1941 e termina nel 1947 a Pola, una città di confine divisa tra due nazioni nell’indifferenza della comunità internazionale appena uscita da una lunga e dolorosa guerra mondiale. La storia di una donna diviene così emblematica delle realtà di quelli anni; ma, allo stesso tempo, è intensa e commovente come gli ideali della sua protagonista. Purtroppo il modo di narrare di Zecchi, non intriga altrettanto. È didascalico, con il tono del professore che recita la sua lezione. Maria meritava un’altra partecipazione. Anche se di merito il tirar fuori storie dure, dimenticate, ignorate. Un Corto minore per stile, ma sempre di buon livello.

Stefano Zecchi (Venezia, 18 febbraio 1945) è un acquario, e su Wiki c’è molto scarno. Diciamo in più che, laureatosi con Enzo Paci discutendo una tesi sul pensiero di Husserl, dopo un periodo di specializzazione presso l'Archivio Husserl di Lovanio e in alcune università tedesche, ha insegnato presso le università di Verona e Padova, ed ora è professore ordinario di Estetica presso l’Università degli Studi di Milano. È stato assessore alla cultura di Milano dal 2005 al 2006. Ha acquistato notorietà televisiva, purtroppo, grazie alle sue numerose apparizioni al Maurizio Costanzo Show.

E finiamo di nuovo a Napoli, con quello che meno mi è piaciuto.

Luciano De Crescenzo “Monnezza e libertà” Corti di Carta euro 3,50

A me ormai ha un po’ stancato il suo stile finto svagato, finto sapiente, da settimana enigmistica. Ed anche il tema viene trattato con un’ironia che direi quasi berlusconiana. Fa piacere ritrovare i due eponimi di De Crescenzo, il professor Bellavista con la sua napoletanità ed il dottor Cazzaniga con la sua milanesità (in fondo due anime dello stesso autore). Ma poi è un esercizio di stile, scritto un po’ con la mano sbagliata. Si qualche accenno ecologico - ambientale al riciclaggio, ma più che altro sviolinature sulla “monnezza”. E quando si tratta di affondare (monnezza = camorra) si sorvola con ironia. Distanti anni luce dalla Gomorra di Saviano anche solo come intenzione. E distanti dalle opere sul riciclaggio propugnate dalla collana VerdeNero. Restano due o tre battute ed un po’ del sole di Napoli. Che speriamo torni a brillare di ben altra luce. Una sola frase

“guaglio’, colle femmene ce vole ‘o tiempo”

L’ottantenne De Crescenzo, nato nell’agosto del 1928 a Napoli è veramente ben noto, motivo per cui pienamente rimando a http://it.wikipedia.org/wiki/Luciano_De_Crescenzo.

Una settimana “corta”, quindi, veloce perché veloce si avvicina il Natale.

Buona settimana a tutti

Giovanni