domenica 27 luglio 2014

Scerbyana 1 - 27 luglio 2014

Visto che pochi sono i lettori rimasti a leggere queste righe (sperando che molti siano vacanzieri e riprendano a discettarne dopo la pausa estiva), e che quindi anche le provocazioni dell’ultima trama non hanno suscitato molta eco, dedichiamo l’ultima trama di luglio ad una scrittura non impegnativa, ma sicuramente di buona fattura. Dedicata a quattro romanzi di Giorgio Scerbanenco, di cui nella prima trama indico le linee descrittive della persona e dell’opera. Anche a distanza di anni, la sua scrittura rimane feconda e di pronta presa, le sue atmosfere interessanti. Insomma, è lui, il padre del noir italiano, e si sente. Ma è anche, e mi fa piacere leggerne, un bravo utilizzatore della parola scritta. Uno scrittore completo, anche se, per sua natura, legato molto alla vita “così come si svolge sotto i nostri occhi”.
Giorgio Scerbanenco “Al mare con la ragazza” Corriere della Sera 6 euro 6,90
[A: 04/01/2014 – I: 19/02/2014 – T: 21/02/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 158; anno 1950]
Meritoria e discretamente ben confezionata opera del Corriere della Sera: ripubblicare molti dei romanzi e dei racconti del grande Scerbanenco. Per chi non ne fosse a conoscenza, Scerby (come lo chiamo affettuosamente) è il grande padre del giallo italiano. Pur essendo, in realtà, di origine ucraina (nato a Kiev nel 1911 da madre italiana e padre Ščerbanenko) si trasferisce presto (negli anni ’20) in Italia, dove fa mille mestieri, prima di intraprendere, anche se con alterne fortune, il mestiere di scrittore intorno alla metà degli anni ’30 (e lui ne aveva poco più di 25 all’epoca). Prolifico un po’ alla Simenon, scrive di tutto, prima di trovare la sua strada nel giallo. Anche qui, con eclettismo puro, che passa di racconto in romanzo, arrivando solo alla metà degli anni ’60 ad avere un personaggio fisso e centrale: Duca Lamberti, di cui ho parlato in altre occasioni. Fatto sì, che tutta la produzione noir italiana gli deve molto, e non a caso, a lui è intitolato il più prestigioso premio per scrittori di genere. Dopo alcune uscite (già presenti nella mia libreria), questo è il primo “nuovo” che incontro, anche se, come dice l’anno di scrittura, è ben datato. Ma è di una potenza espressiva forte ed immutata nel tempo. Anche se la storia, come molte delle piccole trame di Scerby, non è di molto complicata. E se vogliamo, non è neanche un giallo classico, non dobbiamo scervellarci a capire chi muore, chi uccide, e via sparacchiando. No, è tutta atmosfera, è tutta Milano, quella degradata delle periferie, quella cantata dal primo Gaber (ricordate il Giambellino?), quella che ritornerà negli anni ’90 con la Quarto Oggiaro di Biondillo. In questa periferia senza speranza, nascono e si danno mutuo soccorso Duilio e Simona. Li vediamo bambini, guardare una grande pozzanghera pensando che sia il mare. Mare che continuano a non vedere anche crescendo. Studi interrotti, ricerca di piccoli lavoretti per aiutare le famiglie. Con i loro abitini miseri, con le loro faccine pulite, ma che si vanno scurendo, con i capelli a banana di Duilio. E con sempre quel sogno nel cassetto, quello di vedere il mare. In questo degrado senza speranza, ad aiutarli verso il basso, il falso amico Innocenzo, che gli presta una stanzetta dove consumano, e che gli organizza il colpaccio. Una rapina ad un garagista, di semplice fattura e grande resa. Sembra andare tutto bene, ma come montano in macchina per scappare, la macchina si spegne, fatica a partire, e quando parte, il garagista li insegue, spara, ed ovviamente uccide Simona. Da qui tutta una seconda parte dove Duilio va sprofondando verso tutti i suoi abissi, che senza Simona la vita non ha più senso. Su questa si innesta una seconda trama di personaggi questa volta borghesi. Ernesto ed Edoarda  (detta Arda) trentenni che non riescono ad amarsi per la presenza ingombrante della sorella di lui. Arda, in questa calda estate milanese, prende la macchina e va verso Venezia. Duilio arriva al mare e ne parla al fantasma di Simona (che lui ha nascosto nel bagagliaio). Peccato che lasci la macchina aperta, e gliela rubano. Il ladro si accorge della morta e la lascia per strada. I carabinieri la trovano e cominciano la caccia all’uomo. Intanto Duilio disperato è raccolto per strada da Arda, che viene toccata dal personaggio. Che lo porta dal suo amico avvocato a Trieste. Dove la raggiunge Ernesto, che ha rotto con la sorella. I due aiutano Duilio, lo nascondono per un po’. E Duilio, anche se sempre ottuso dentro, a poco a poco capisce che non c’è più speranza per lui. Prende le lamette da barba di Ernesto, e torna verso il mare, dove vuole tagliarsi le vene. Ma lì trova una bimba sperduta, che guarda caso si chiama Simona, lui la salva, la porta dai carabinieri, e finalmente confessa le sue malefatte. Arda ed Ernesto capiscono che Duilio ha trovato la sua via, e finalmente riescono a confessarsi il loro amore. E Duilio si avvia verso il carcere, con le lamette in tasca. Come finirà? Questo è l’unico mistero che lascio ai miei amici lettori. Quello che ribadisco, è la capacità di Scerby di presentare in poche righe la disperazione di Duilio, l’innocenza di Simona, la sbandata morale di Arda, il rigore di Ernesto. C’è tutto un mondo, una vita dietro le scarne descrizioni del nostro. Non è, e mi dispiace, un capolavoro, non raggiunge vette espressive somme, ma è un esempio di scrittura da prendere, sottolineare (e perché no, far leggere ai nostri amici, vero Luciana?).
Giorgio Scerbanenco “Ladro contro assassino” Corriere della Sera 7 euro 6,90
[A: 04/01/2014 – I: 22/02/2014 – T: 23/02/2014] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 132; anno 1971]
Seconda lettura delle uscite antologiche di Scerby presso il Corriere. Ancora più scarno, ma ancora più diritto allo scopo. E questa volta c’è anche un po’ di giallo e non solo d’atmosfera. Intanto è uno dei primi libri pubblicati postumi, che Scerby muore nel ’69 a soli 58 anni. Inoltre, benché al solito come in quasi tutti i suoi scritti, c’è un’atmosfera milanocentrica, qui ci si muove anche un po’ per l’Italia. Come detto, la trama in sé e scarna e diretta. Abbiamo la storia di Mario, borsaiolo di piccolo cabotaggio, appena uscito di prigione per piccoli borseggi. Ha una storia con Carolina, un’assistente sociale che anche quando scopre l’attività di Mario, continua ad amarlo. E gli chiede di fare una gita ad Orvieto dove sognava di andare da sempre. I due passano una bella giornata, poi Mario si allontana per prendere qualcosa al bar, e quando torna trova Carolina nell’auto morta. Spaventato dalle grida di tre capelloni e dall’arrivo dei carabinieri, invece di spiegarsi, scappa. E qui comincia la seconda parte: braccato, aiutato da una compagna di (mala-)vita, sfugge alla cattura, rifugiandosi sul Trasimeno. Ma è tormentato dalla morte dell’amata e dalla necessità di capire il perché. Dopo mille tentennamenti, decide di tornare a Milano, e dalla madre di Carolina (l’unica che lo crede innocente) si fa dare l’elenco delle persone che avevano relazioni con la figlia. Mentre torna nel rifugio, è però intercettato dai capelloni (e non dalla polizia). Qui c’è la parte più “ridicola” del romanzo, che Scerby inscena qualche passo di contestazione che non è nelle sue corde e che, appunto, suona ridicolo. Ma gli anarchici, dopo una specie di processo interno, decidono di credere in Mario e di aiutarlo. Ne curano un travestimento da capellone, lo ricongiungono con Giovanna, ed i due cominciano a battere i diciotto nomi della lista della madre. Senza cavare un ragno dal buco. Ma i cerchi vanno stringendosi. Giovanna è intercettata dalla polizia. Mario scappa di nuovo dai capelloni, che lo mettono in contatto con un avvocato. Insomma, pensieri, crisi, rimuginamenti vari. Mario capisce che non ce la farà mai. Ed anche se tutte le prove sono contro di lui, pensa di costituirsi. Ma prima vuole rivedere i luoghi dell’infanzia di Carolina. Tra inseguimenti veri e falsi, depistaggi ed altro, alla fine arriva nella campagna toscana, dove… La parte finale è un piccolo crescendo di sensazioni e di agnizioni, non bellissime dal punto di vista stilistico (tanto che alla fine il romanzo non avrà i massimi voti da me), ma di un bel ritmo. E con un bel finale. Alla fine ci sono molti stereotipi delle epopee di Scerby: i ladri sono ladri, e difficilmente diventano assassini, i poliziotti, spesso, sono più canaglie dei ladri “onesti” (e quando il poliziotto prende a schiaffi Giovanna per farla confessare, ci sentiamo montare la collera), i capelloni e gli anarchici sono un po’ delle macchiette, parlando con frasi fatte, ma quando Scerby li depura dalle sovrastrutture ideologiche (e si sa dalla sua storia che non è mai stato tenero verso il comunismo), e ne tira fuori i lati umani, risultano comunque credibili. L’autore ha inoltre una capacità filmica di passare da un’inquadratura ad un’altra, nel corso dello stesso capitolo, utilizzando quasi delle dissolvenze di scrittura, che tendono a far crescere le tensioni del racconto. A volte, mentre si sta svolgendo una scena forse interessante per la comprensione degli avvenimenti, passa a parlare di un diverso protagonista che avevamo lasciato qualche pagina prima da qualche altra parte. Ma la sua capacità, poi, è quella di ricongiungere il tutto, e di spiegarlo. Forse anche troppo didascalicamente. Eppur tuttavia a me piace questo modo di narrare. E trovo le sue storie sempre interessanti: getta sempre e comunque uno sguardo verso gli emarginati, e lo fa, comunque, con occhio asciutto. Non si perde in inutili lagnanze, come quando Mario confessa di aver cercato lavoro “onesto”, ma che oramai sa fare solo il ladro. O quando tratteggia la figura del ladro “pensionato”. Quindi, ripeto, da leggere e meditare, con alti e bassi. Ma d’altronde, chi non ce l’ha?
“C’è sempre una barcata di gente che cerca di spiegarci chi siamo – perché loro lo sanno e noi no -, che cosa dovremmo fare – perché noi ovviamente non lo sappiamo – e perché sbagliamo tutto nella vita, mentre invece, se seguissimo i loro consigli, saremmo tanto felici e a posto.” (10)
Giorgio Scerbanenco “Dove il sole non sorge mai” Corriere della Sera 9 euro 6,90
[A: 21/01/2014 – I: 12/04/2014 – T: 14/04/2014] - &&& 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 194; anno 1975]
Terza lettura, sempre meno gialla, forse un poco thriller. Comunque d’ambiente, come potremmo dire ora. E di quelli a metà. Cioè, parte del romanzo (buona parte) è in ambienti degradati e mal frequentati (tuta la prima parte si svolge in una specie di riformatorio). E parte in ambienti tra il normale e l’altolocato, che sempre è un pallino di Scerby. Così la protagonista è una contessina, i co-sparring partner una famiglia di editori, la fata turchina una principessa. Un solo appunto, direi editoriale. Il racconto è un lungo, ininterrotto capitolo. La storia, invece, si spezzetta ogni tanto. Non so se abbia senso iniziare un nuovo capitolo ai cambi di scena (potrebbe essere dannoso per la tensione, o la configurazione di co-temporalità di alcuni avvenimenti), ma almeno una riga bianca che permetta di uscire dall’apnea, riprendere fiato, e seguitare a leggere. La storia segue abbastanza linearmente (almeno per 2/3) le vicende della sedicenne contessina Emanuela. Morti i genitori friulani, viene affidata alla nonna genovese. Che tuttavia è una specie di maitresse, dalla cui casa Emanuela fugge, e cerca di ritrovare Tonio Karr, il rampollo dell’omonima casa editrice con cui stava per avere un “filarino”. Pensa di trovarlo a Milano, ma Tonio (la famiglia ha molte case) si trova a Roma. Cerca di andare a Roma ed accetta un passaggio da tre amici di una conoscente milanese. Peccato che i tre abbiano appena fatto una rapina, ovviamente vengono fermati ad un posto di blocco vicino a Roma, fuggono, la macchina si ribalta, lei, contusa, si avvia a piedi a Roma e trova Tonio e family. Intanto i tre vengono arrestati, e si cerca il quarto componente della banda, una biondina. Tonio pensa che sia lei, ed ha parole dure. Lei è orgogliosa e se ne va. Arrestata immediatamente, non ha una parola in sua difesa, e viene mandata in riformatorio a Milano. Qui c’è la parte migliore e non thriller della vicenda. La descrizione della Casa di Correzione, con la direttrice, il capo dei secondini (donna quasi nazi), la principessa che svolge un lavoro umanitario e si prende a cuore Emanuela. Ma anche le altre detenute, la capo stanza, dura, spia, ma fragile dentro, l’altra subito amica. Emanuela prova essa stessa a far la dura, ma non ci riesce. Anche perché non vuol dire i motivi della sua fuga da Genova. E quando la principessa le offre un sollievo attraverso una visita medica, non trova di meglio che fuggire dall’ospedale. Infatti, l’unico pensiero che ha maturato è di ritrovare Tonio e spiegare a lui i suoi motivi. Intanto il belloccio ventenne è in vacanza a Sirmione con la sua nuova bella, che però si accorge che lui pensa all’altra e lo manda a ramengo. Tonio torna a Roma, convince la madre ad ingaggiare un grosso avvocato e si reca con lui a Milano per parlare con Emanuela. Lì scopre che la contessina è fuggita. Da questo punto, comincia ad ammirare la capacità di intreccio di Scerby, che riesce a far andare male tutto quello che può andare male. Emanuela, infatti, utilizzando il vecchio autista del padre va a Roma, dove arriva alle quattro del mattino, e telefonando a casa Karr, una domestica infastidita le dice che la famiglia sta a Francoforte. Tonio e l’avvocato chiamano da Milano avvertendo la madre della fuga di Emanuela. La madre cerca di avvertire Francoforte ma la contessina ha già chiamato. E si dispera. Qui entra in scena il buon autista, che la convince ad un ultimo tentativo. Si recano a casa Karr, parlano con la madre, e sembra che l’orizzonte si spiani, e si mettono in attesa di Tonio. Ma Tonio e l’avvocato, a pochi chilometri da Roma hanno un incidente, serio ma non grave, e vengono trasportati in ospedale a Monterotondo. I Karr e la contessina prendono la macchina e corrono in ospedale, ma prima di arrivare vengono fermati dai Carabinieri che stanno effettuando una battuta di caccia alla ricerca di un assalitore di giovani donne. Ovviamente, Emanuela non ha i documenti e viene arrestata. E riportata in riformatorio, messa anche in cella di rigore per la fuga. Fortunatamente, mentre l’avvocato tenta in tutti i modi di trovare delle scappatoie, a Genova … Vi lascio sospesi sul finale di storia. Immaginatelo come volete, non è la parte più importante. I fulcri sono due: la parte che si svolge negli Istituti di correzione, con la descrizione delle piccole meschinerie quotidiane, e la parte di accelerazione degli avvenimenti, quando ogni due pagine c’è un accadimento nuovo che mette in pericolo quanto di buono stava avvenendo fino ad allora. Non è il meglio di Scerby, quello duro e senza speranza, quella del Duca Lamberti o dei ragazzi del massacro. Ma molto coinvolgente leggerlo. Una domanda soltanto: la vicenda si svolge nel 1969, e molti avvenimenti sono legati al telefono. Se rispondono, se la tele sezione prende, se Tonio è lì o altrove. Mi chiedo appunto, cosa sarebbe della stessa storia, ora nel mondo interconnesso dei cellulari? Bella sfida per chi la sa risolvere.
Giorgio Scerbanenco “Europa molto amore” Corriere della Sera 10 euro 6,90
[A: 01/02/2014 – I: 26/04/2014 – T: 28/04/2014] - &&& 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 195; anno 1961-66]
Direi un onesto e tipico prodotto della scrittura di Scerby. Intanto sveliamo il  mistero delle due date: la prima si riferisce all’inizio della pubblicazione del romanzo a puntate su Annabella e la seconda sulla prima uscita in volume. E questo fatto spiega due elementi un po’ negativi del libro: l’andamento un po’ lento (si dovevano comunque presentare un certo numero di puntate, mentre la trama poteva essere accorciata) e la sensazione di avere, oltre al giallo, una mini guida europea dei primi anni ’60. Tra l’altro, cominciato a scrivere durante la costruzione del Muro di Berlino, ci dà anche un’immagine interessante delle divisioni sul suolo tedesco all’epoca. La storia segue le avventure che rischiano di degenerare di due giovani poco più che ventenni, la tedesca Barbara e l’italiana Ornella. Barbara, trovandosi in vacanza da Ornella a Milano, decide con lei di tornare a Berlino. Per questo, su consiglio di un fantomatico vicino di casa, Karl, decide di accettare il passaggio di uno strano tipo, il conte Paul. Questi si rivela un farabutto (come lo è anche Karl), che cerca di portarle a Parigi, per farle prostituire, rubando loro il passaporto. Con un colpo di borsetta, tanto forte quanto sfortunato, Barbara uccide il conte. E qui cominciano le disavventure, scandite dalle puntate del mensile, in modo ogni volta di spingere all’acquisto successivo. Riescono ad andare a Lione, rifugiandosi da un amico di Barbara, André, innamorato di lei. Peccato che nel frattempo André sia diventato un poliziotto. Mentre sono con lui, cercando di farsi aiutare senza farsi sgamare, la polizia trova il morto, tra l’altro con l’auto imbottita di droga, e dirama una ricerca su tutto il territorio delle due. Arrivata la richiesta a Lione, André si fa raccontare tutta la storia (quella di cui sopra), e invece di far costituire le due, preso dall’amore, fabbrica loro dei salvacondotti falsi per la Germania. Peccato che non glielo dice, e mentre lui è all’opera, le due scappano con il treno. André, beccato subito dai superiori, viene immediatamente degradato e mandato lontano da Lione. Le nostre eroine cercano di capire come attraversare la frontiera tra Francia e Germania senza passaporti (siamo ancora molto lontani da Schengen), ed hanno la sfortuna di trovare sul treno il cattivo Karl. Lui cercherà di vendicarsi delle malefatte subite dal conte, riuscendo a passare via terra il confine (come gli spalloni italo – svizzeri). In Germania si procurano una Mercedes, ma per arrivare a Berlino devono attraversare il settore russo della DDR. Karl cerca di turlupinarle, ma sono loro ad avere la meglio, ad abbandonarlo in mezzo alla via, solo e senza passaporto. Vengono anche fermate dai russi, ma non sono russi qualsiasi. Qui si rivela un po’ dell’origine del nostro. Che fa del colonnello russo, non un russo ma un ucraino (Scerby era nato a Kiev), inquadrato a forza, ma gentile come tutti gli ucraini. Il colonnello le porta a Berlino. Loro vanno a casa di Barbara, ma anche lì l’Interpol ne trova le tracce. Scappano allora in un albergo, dove lavora Berto, un calabrese immigrato che un paio di anni prima si era innamorato di Ornella (immagino che i fautori del lieto fine, già stiano pensando a come potrà proseguire). Continuano i colpi di scena dettati dal ritmo delle pubblicazioni: dopo alcuni giorni di quiete, la polizia fa un controllo a sorpresa nell’albergo. Barbara e Ornella riescono a fuggire, mentre Berto viene sorpreso nella falsificazione dei documenti di residenza e, dopo due mesi di carcere preventivo, verrà espulso dalla Germania. Le nostre due eroine non hanno di meglio che chiedere aiuto al colonnello. Che intanto viene richiamato verso Mosca (dove sarà ucciso, come molti ucraini), ma prima riesce a fornire due passaporti sovietici alle nostre e a farle imbarcare su di un aereo per la Svizzera. Qui abbiamo la terza tappa “turistica” dell’autore, dove a Zurigo le nostre intrepide vengono fermate, si trovano loro dollari (che avevano avuto in regalo dal colonnello) e si pensa siano spie sovietiche. Loro confessano quindi una parte delle loro disavventure, senza però svelare tutti i misteri. Mentre stanno per essere rimandate in Russia, arrivano dalla Francia André ed il suo capo. E sarà lui, che riuscirà a vincere la corazza di Barbara, a farle confessare tutto il loro percorso, anche perché si è scoperto che il conte Paul era veramente un farabutto e che la morte era per legittima difesa. Le nostre dovranno essere imprigionate a Lione, ma solo per pochi mesi, che saranno liberate, e sulla porta del carcere troveranno … A voi la risposta: i buonisti diranno che troveranno André e Berto; i catastrofisti, che ci sarà Karl e la sua banda. Per ora leggetelo, fatevi prendere dai ritmi di Scerby, e gustate le atmosfere d’epoca che ci presenta. In fondo, è un buon prodotto. E Scerbanenco un grande autore di gialli, di neri, di polizieschi e di atmosfere.
Mi sembra un buon viatico per una calda estate, aver messo quattro facili romanzi da ombrellone (facili ma non semplicisti). Continuando nella trafila di questa estate un po’ anomala, dove continuo ad aiutare (con piacere) amici ad organizzare i loro viaggi, mentre io ho solo il Nord della Francia che mi aspetta (anche se mi aspetta con ansia e voglia di riposo). Ed ancora nulla si prospetta nell’orizzonte dell’ultimo quadrimestre.

sabato 19 luglio 2014

Misticanza - 19 luglio 2014

A parte l’intermezzo “nero” della settimana scorsa (dove però vi invito a leggere l’intervento di Sepúlveda su Repubblica del 18 luglio), ecco la quarta puntata dell’insalata mista, utile e fresca nel caldo estivo (e con un giorno di anticipo che ci riposiamo anche noi scrittori). Dopo aver passato il mondo anglo-sassone, i crucchi, i popoli dello yogurt, eccoci finalmente con quattro autori italici. Con un inizio fulminante, il bellissimo libro non romanzo di Piccolo, letto prima che diventasse bandiera dello Strega, ed il sempre interessante Licalzi, non tanto per il libro ma per l’idea che sta alla base dello scritto. Piccola caduta nel “moccismo” giovanile con il comunque ben scritto D’Avenia, per poi risalire con l’interessante opera prima di Fabio  Bartolomei.
Francesco Piccolo “Il desiderio di essere come tutti” Einaudi s.p. (Regalo di Alessandra che in realtà mi aveva regalato il libro di Otto)
[A: 25/12/2013– I: 21/01/2014 – T: 25/01/2014] - &&&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 264; anno 2013]
Non ho ancora capito, o non ancora deciso, che cosa sia questo volume. Un romanzo? Ne ha l’andatura, ma racconta fatti senza “romanzarli”. Un saggio? Ne ha talvolta la scrittura, ma non l’impostazione generale. Se fossi francese, lo chiamerei “memoir” (e non autobiografia, che non stiamo affrontando tutta la vita dello scrittore, solo alcuni passi). Piccolo ci parla di sé, di alcuni suoi momenti, talvolta decisamente privati. E ci parla del mondo intorno a lui. E siccome lui è qui, nel mio stesso mondo, allo stesso modo, parla del mio mondo. Certo, c’è una leggera sfasatura temporale, che una decina d’anni ci dividono. Ma so di cosa parla, e lui capirebbe se ne parlassi io. Piccolo ferma nel corso del tempo alcuni suoi momenti topici, sempre sia personali che pubblici, e ne fa le pietre miliari del suo diventare. Nel desiderio di essere come tutti (omologato) si instaura la necessità di essere se stessi. E quali sono questi passi, questi momenti? C’è la Reggia di Caserta, incombente nell’infanzia e presente nella maturità, soprattutto la fontana di Diana e Atteone. C’è il 74’ minuto della partita tra le due Germanie ai mondiali del 1974. C’è il rapimento di Moro. C’è la morte di Berlinguer. C’è Chesaramai, la sua donna, sposa, madre di suo figlio “la sdrammatrizzatrice dell’umanità”. Piccolo fa questo suo viaggio di memoria partendo dalla coscienza di “esserci”, quando a nove anni (vi tralascio il come) si trova solo nella Reggia della natia Caserta. Vicino a quella fontana di Diana e Atteone, dove io sempre mi domando ma che colpa ha il povero Atteone? Non fa avances a Diana, non è un “pervertito”, passa incautamente di là e vede la dea “come l’ha fatta la mamma”. E per questo viene prima trasformato in cervo e poi ucciso? Crudeltà dei greci… Ma torniamo a Francesco, che dopo quel momento di maturazione (ed io salto di palo in frasca) sempre a quella fontana si ritrova, durante un discorso del famigerato SB, che da lì incita a procreare. Si sa che il rapporto tra Piccolo e Silvio non è proprio d’amore (non a caso, è lo sceneggiatore de “Il Caimano” di Moretti), ma quella frase, ed una discussione con Bolzoni e D’Avanzo (prima della prematura scomparsa del giornalista) fa riflettere sul fatto che bisognava (e bisogna) attaccare i comportamenti di SB per quello che portano di male alla vita pubblica (in termini di possibili ricatti istituzionali, ad esempio), e non per un moralistico giudizio sulla vita privata. SB può scopare come e quanto vuole, se fosse un manager privato. Non può farlo, se diventa un personaggio pubblico. Non può fare le corna durante le foto. Non può telefonare mentre c’è una conferenza. Non può dire frasi sconvenienti ad un ministro donna di un altro paese. Ma qui mi fermo che l’etica mi impone di tornare al libro. Ad esempio al minuto della partita di calcio tra Germania Ovest e Germania Est (l’unica disputata a livello ufficiale) dove la seconda e derelitta, con un tiraccio di Sparwasser, batteva inopinatamente i cugini dell’Ovest, che tuttavia avrebbero poi vinto il mondiale. E Piccolo capisce l’essere verso le minoranze, verso i tartassati, un elemento del proprio essere (come quando mi innamorai delle capacità difensive di Bruno Garzena? Forse, e vediamo chi se lo ricorda…). Ma ancor più perché il padre tifava Ovest, e quindi, come non contrapporsi. Dalla contrapposizione verso la famiglia all’omologazione verso l’esterno. E come pur tuttavia non pensare di approfondire un discorso fondante come il rapimento Moro, elemento di svolta di molte generazioni. Certo per Piccolo molto come elemento d’amore della bella Elena (lasciata per un San Valentino incompreso), ed io ne ricordo il mio vissuto d’angoscia (durante tutto il periodo “Moro” era caporal maggior dell’esercito di leva…). E bella, coinvolgente, e da discutere, anche tutta la vicenda Berlinguer. Berlinguer l’uomo, come diceva la Ginzburg, di cui ci ricorderemo sempre (come narrava il Benigni di “Berlinguer ti voglio bene”). Dagli articoli di Rinascita dell’ottobre del ’73 dopo l’assassinio di Allende, alle convergenze con Moro, al tentativo di compromesso storico, all’allontanamento dalle illusioni di potere, verso quell’alternanza democratica (che forse prefigura il bipartitismo imperfetto) che mai si potrà realizzare in un paese come l’Italia. Con quelle pagine che ancora mi bruciano nella memoria dei fischi al congresso di Verona. Con l’odiosa faccia di Craxi che incombe per dieci anni sulla scena politica (e pensare che negli anni ’70 ne pensavo con condiscendenza). Tutta questa parte, sebbene molto politica, e molto di parte (d’altra parte, bisogna pure schierarsi, anche se si vuole essere come tutti) è molto da leggere e da commentare. Possiamo non condividerla, ma non ignorarla. Poi Piccolo ci ammalia con altre sirene, come il bellissimo racconto di Carver o il film “La Terrazza” di Scola (se ne dovrebbe riparlare) o quel monumento dell’etica e della casualità che fu “La promessa” di Dürrenmatt (e come mai è l’unico libro che non compare nella bibliografia?). Alla fine, riporto tutte a due delle frasi che riporto. Quella bellissima di un articolo di Rosellina Balbi sull’eguaglianza, e la riflessione, di Piccolo ma che faccio mia, sull’etica dei principî e della responsabilità. Pur con tutti i suoi prevedibili alti e bassi, uno dei libri più intensi che abbia letto negli ultimi tempi. Parziale, da discutere, ma sempre e per questo, bello e da condividere.
“Ma non è che sono comunista perché il comunismo non c’è?” (40)
“Si può essere felici, mentre gli altri sono infelici?” (90)
“Rosellina Balbi: Personalmente, sono ancora e sempre del parere che la distinzione da fare sia quella tra l’eguaglianza e il diritto all’eguaglianza. La prima non esiste (per fortuna): ciascuno di noi deve fare la sua corsa e arrivare dove potrà, saprà e vorrà. Altra cosa è la parità delle condizioni di partenza: è questo che la sinistra deve ottenere, così come deve continuare a battersi perché la innegabile diversità tra gli uomini non diventi pretesto per la discriminazione e il sopruso dei forti nei confronti dei deboli.” (147)
“Ho capito che piegarsi era infinitamente più virtuoso e utile che non piegarsi. Ho capito che la testardaggine di non tradire se stessi (l’etica dei principî) era in contraddizione con la necessità di non tradire milioni di persone (l’etica della responsabilità).” (185)
“La sostanza della sua reazione, per ogni evento privato o pubblico, è sempre stata, fin dal primo momento, e continua a essere: ci vogliamo rovinare la giornata per questo?” (188)
“Se come si è, e come si dovrebbe essere, non riescono a coincidere, allora la sincerità è più fruttuosa del senso di giustizia.” (226)
Lorenzo Licalzi “Un lungo fortissimo abbraccio” BUR euro 9,90
[A: 15/04/2013– I: 28/02/2014 – T: 04/03/2014] - &&&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 229; anno 2011]
È sempre con piacere che leggo qualcosa dello psicologo ligure in veste di scrittore. Da quando mi affascinò con quel tatuaggio a punto interrogativo (nel suo primo romanzo “Io no”). Certo, in genere i suoi romanzi e racconti hanno punte di ironia, talvolta di comicità, che in questo abbraccio mi sono mancate. Anche perché, la storia in sé, lineare e semplice, si racconta in poche righe. Ma non è la storia, quello che mi ha legato a questo libro. È l’idea, forse la domanda filosofica e psicologica che sottende. Per questo, anche, alla fine ha un buon giudizio, pur non eccellendo sul piano del testo. E certo, anche il finale su cui torneremo in finale (mi si perdoni la ridondanza) ha un suo fascino, almeno per me. Ma veniamo alla storia. In un prossimo futuro, le conoscenze scientifiche avanzanti permettono di tentare, anche se in via sperimentale, un trapianto impensato: il trapianto del cervello da un corpo umano in decadenza ad un donatore compatibile. In quello stesso futuro, la vita si allunga comunque sempre più, così che persone a 70, 75 anni sono ancora nel fiore dell’attività lavorativa (e cerebrale). Una malattia si diffonde inopinatamente, che, in quei corpi sani, fa decadere il resto del corpo, conducendo il malcapitato in breve alla morte. David, il nostro protagonista, si trova in questa condizione, amato dalla sua settantenne compagna di una vita, ma in pericolo di morte. Si sottopone quindi al trattamento sperimentale, anche perché altri e ben noti personaggi stanno vivendo parallele angosce, e si vuol tentare una via d’uscita (per loro, ovviamente). Il corpo su cui innestare il suo cervello sarà quello di un giovane di 25 anni, ucciso il giorno delle nozze con la sua bella Blanca, in una rissa, mentre tentava di salvarla. Qui c’è il corpo della storia: dov’è l’individuo? Nel cervello? Nel corpo? L’unione dei due? Il nostro eroe attraversa grosse crisi personali: c’è la moglie, che lui ama con la testa, ma che ha difficoltà nel riconoscerlo nel nuovo corpo; c’è il se stesso interiore, combattuto tra le nuove possibilità e i pensieri di un anziano; c’è Blanca che ritrova il corpo che amava e verso cui il suo corpo prova attrazione. Combattuto tra questi dilemmi che lo tirano da molte parti, la crisi scoppia quando la moglie lo trova nel letto con Blanca. Anche lui è interdetto dalla sensazione di piacere fisico e di disagio mentale. Fuggirà da tutto e da tutti, per cercare di capire il nuovo se stesso. Salto a piè pari tutte le parti intermedie (tra cui la moglie che comincia a comprendere il nuovo, Blanca incinta del corpo del suo amato, ed altre minuzie) per arrivare alla fine. Dopo una serie di giri per il mondo, il protagonista si rifugia in Islanda, e davanti ad un baratro deve decidere se la sua nuova vita ha un senso e tornare alla civiltà o se quest’avventura non può portare nulla di buono alla civiltà e gettarsi nel vuoto. Ovviamente non vi dirò la scelta di David. E vi invito a scoprire il sottile meccanismo psicologico che il nostro psicologo mette in atto nel suo finale, quello di cui accennavo all’inizio e che fa salire le quotazioni del testo. Rimane, anche dopo la lettura, la lunga domanda sulla relazione corpo – mente. Non posso che ricordare qui quel bellissimo seminario fine di un lungo lavoro psicologico e di attenzione, tenuto da Luciano Marchino coadiuvato dalla mia carissima Maria Luisa “Il Corpo non Mente”, dove si giocava proprio su questa dualità, dell’espressione corporea del se, e di tutto il percorso che, partendo dalla nostra mente cosciente, ci consente di utilizzare il corpo e la mente. Qui, rimescolando le carte, si torna alla domanda primitiva. Qui, staccando corpo e mente, ci si interroga sulle loro relazioni. E sul quesito finale: io sono questo corpo che voi vedete E questa mente che non vedete. Ma quando riconoscete il mio corpo (per la postura, per l’odore, per tutto ciò che di inespresso può esprimere), riconoscete anche il mio io pensante ed agente? Ed il mio cervello che fa muovere un meccanismo che non sono io, è esso stesso riconoscibile? Si può andare avanti e discutere. Si può tornare al libro. Oppure, perché no, si può leggere il libro, e poi discuterne. Molto stimolante.
“Il nostro era un abbraccio perfetto, sincronico, completo. Tra due corpi abituati a stringersi. E a farlo con intimità. … A far l’amore o baciarsi ci si riesce sempre, e ci si riesce bene, talvolta anche se ci si odia, ma addormentarsi abbracciati così, come lo eravamo noi, non si può, perché l’abbraccio è il metro più esatto dell’intesa, perché l’abbraccio non perdona.” (192)
Alessandro D’Avenia “Bianca come il latte, rossa come il sangue” Mondadori euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[A: 15/04/2013– I: 15/04/2014 – T: 18/04/2014] - && e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 254; anno 2010]
Ero curioso di questo nuovo scrittore italiano, e benché il suo libro abbia stazionato più di un anno sui miei scaffali, non sono dispiaciuto della tarda lettura. Un simpatico professore under quaranta, siciliano, che ha avuto come mentore don Puglisi (omaggio alla memoria). Certo la scrittura, a volte, risente di un “moccismo” prima maniera. Ma non è proprio alienamente falsa. D’Avenia parla del mondo che ben conosce, parla di giovani (un po’ come ne parla la Mastrocola da Torino). Sedicenni in crescita e tempeste ormonali, spesso di fronte a problemi più grandi di loro. Sempre in un conflitto di incomprensione con “i grandi” (genitori, parenti, professori). Spesso anche in conflitto di comunicazione, anche tra di loro. Non è facile capire, a sedici anni, cosa dire e come dire quello che si vorrebbe dire. In questo agile romanzo (sono 250 pagine che scorrono bene in lettura, a me ritemprandomi a valle di lunghe passeggiate scozzesi) seguiamo quindi la parabola esistenziale del giovane Leo. Ginnasiale, ossessionato dai colori (sopratutto dal bianco che lo spaventa), diviso tra play station e calcetto, sempre in compagnia con l’inseparabile Niko. Ha anche un’amica del cuore, Silvia, che gli tiene mano in tutte le sue fantasticherie (immaginiamo certo dalla seconda pagina che ne sia segretamente innamorata). Ha un motorino senza freni. Ma soprattutto è innamorato perso di Beatrice, bella dai capelli rossi, che vorrebbe agganciare ma che non riesce mai ad avvicinare. Il teatro di Leo è completato da due professori – mentori: il prof di religione, su cui D’Avenia ricalca molto il suo attaccamento a don Puglisi, ed il supplente di filosofia (lo “sfigato” come lo chiama Leo), su cui invece credo che l’autore abbia proiettato molto anche del se stesso docente (almeno docente agli inizi, quello che crede nell’insegnamento, che è abbastanza giovane da ricordarsi come era lui stesso quando andava a scuola). L’elemento scatenante del romanzo è la scoperta che Beatrice ha la leucemia. E mentre lei lotta in varie forme con la malattia (trasfusioni, chemio ed altro), Leo attua una manovra di avvicinamento. In un primo tempo, nascostamente ostacolato da Silvia che gli fornisce indicazioni false per contattare Beatrice. Poi, da tutti aiutato (da tutti i giovani, si capisce). Leo dona il sangue nascostamente a Bea. Leo scrive una lettera d’amore, ma mentre va a portarla a Bea ha un incidente serio con la moto senza freni. Sarà casualmente ricoverato nella stessa clinica dell’amata lontana (certo il nome di Beatrice ci porta ad un passo da Dante). E finalmente avrà modo di conoscerla, di palesarsi, di tremare vedendola sfiorire, di farsi forza, aiutato dallo sfigato (che gli suggerisce di seguire i propri sogni invece che solo di sognarli). Ovviamente Beatrice muore. Ovviamente Leo ha una crisi profonda. Ed altrettanto ovviamente (dopo che anche Niko lo abbandona dopo che per colpa sua perdono un’importante partita di calcetto) sarà Silvia a salvarlo. Certo dopo una crisi profonda della loro amicizia, quando Leo scopre le piccole malefatte dell’amica. Ma non può che comprenderle. E da quell’amicizia in cui ci si può dire di tutto, stando bene anche in silenzio, potrà nascere un rapporto diverso. Una maturazione per il nostro giovane, che in finale cesserà di essere Leo per cominciare ad essere Leonardo. Insomma, tematica di giovani e sui giovani, con qualche interessante riflessione sul modo in cui i giovani vedono la vita, e le cose materiali che li circondano. Forse è un po’ semplicistico pensare che possano maturare in fretta, e verso direzioni a noi adulti consone. Questa “elementarità” dei sentimenti porta qualche mezzo libricino in meno, ad un libro che, in ogni caso, si guadagna un posto di lettura gradevole tra i miei scaffali, a volte troppo ponderosi.
“La mia scuola porta il nome di un personaggio di Topolino: Orazio.” (14)
“La maturità non si vede nel voler morire per una nobile causa, ma nel voler vivere umilmente per essa.” (149)
Fabio Bartolomei “Giulia 1300 e altri miracoli” E/O euro 9,50
[A: 15/04/2013– I: 23/04/2014 – T: 26/04/2014] - &&& e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 281; anno 2011]
Queste letture, come osservano alcuni miei attenti lettori, avvengono ad un anno dall’acquisto. Dati i miei strani meccanismi di scelte di letture, non è così difficile che passi del tempo tra l’acquisto e la lettura. D’altra parte, ritengo che un libro (a meno che non parliamo di instant book o altre pubblicazioni legate al momento) non abbia un tempo di lettura. Altrimenti, che senso avrebbe leggere ora “Guerra e Pace”? Ora, non pretendo di paragonare il buon Fabio all’esimio Anton. Ma non è cambiato il sentimento di piacevolezza che mi aveva spinto un anno fa all’acquisto ed ora alla lettura. Inoltre, il libro è uscito nel 2011, quindi direi che ha ben tre anni alle spalle. E li porta egregiamente. È l’opera d’esordio di Bartolomei (che ha pubblicato in seguito altri due libri, sempre con E/O) e credo che qualche altra lettura dei suoi scritti ne farò. Non che sia risolto tutto in positivo. Ci sono sbavature, parti che ritengo leggermente carenti. Tuttavia il libro è gradevole, con una trama sostenibile (pur con tutte le sue improbabilità), una bella scrittura che alterna momenti descrittivi e “oggettivi”, a momenti ironici ed umoristici che non mi sono dispiaciuti. Sono rimasto solo un po’ perplesso da una pseudo - struttura del libro, che inizia e finisce con tre soggettive dei protagonisti. Nel mezzo, il lungo racconto sempre di uno di loro, il simpatico, inventore di storie, auto-ironico Diego. Non capisco perché, visto che poi la storia si impernia su quattro protagonisti, il quarto venga relegato ad un ruolo marginale. Diego, nella sua lunga descrizione, ci fa partecipe prima del suo rapporto con il padre morente e poi morto. Quindi, dopo una crisi interiore dove si chiede cosa stia facendo, non avendo legami seri (non a caso lascia l’ultima donna Alice dicendo che ha bisogno di riflettere, ah ah ah), si dimette da venditore di auto e si lega agli altri due “sfigati” Fausto e Claudio. Tutti e tre si imbarcano quindi in un’impossibile impresa: ristrutturare un casale nella Campania subito dopo Frosinone ed aprirvi un agriturismo. Fausto è un televenditore fallito di orologi. Claudio gestiva un supermarket e l’ha mandato in fallimento. Ben presto i tre vengono raggiunti da Sergio (quello che non viene mai in soggettiva), regista fallimentare degli spot di Fausto. Sergio in fondo è l’unico che, al contrario degli sfigati, qualcosa sa fare. E porta un po’ di ordine nella loro confusione. Nel loro crogiolarsi in un nulla che non può che portarli al fallimento. I quattro poi entrano in contatto anche con i neri che lavorano nei campi, specialmente con Abu, principe africano che si rivelerà un abile aiuto di manodopera. Le doti fallimentari dei tre, in ogni caso, sarebbero capaci di portare alla rovina anche questa impresa, se non avvenisse un elemento di disturbo che capovolgerà la vicenda. Un anziano viene a chiedere il pizzo per la camorra locale, guidando una vecchia Giulia 1300. Precipitando in una serie di equivoci, i nostri decidono di sequestrare Vito. E poi anche i due “garzuncelli” che sono venuti in suo soccorso. E con l’aiuto di Abu, seppelliscono la Giulia 1300 nel campo. Peccato che la radio della Giulia ogni tanto si accenda, e faccia sentire musica classica che si spande per i campi. Dovendo pensare all’agriturismo, decidono anche di ingaggiare Elisa la cuoca. Sarà lei ad essere l’elemento positivo: cambia l’arredamento, prepara pranzi da favola, decide di impiantare l’orto. I turisti scarseggiano, sino a che Diego nella sua verve istrionica inventa una storia improbabile per spiegare la musica dei campi. Nasce quindi il miracolo, e l’agriturismo decolla in maniera decisa. Peccato che i camorristi siano sempre segregati in cantina, anche se Vito, l’anziano, si affeziona ai nostri improbabili e comincia ad aiutarli nella gestione agrituristica. La prima crisi c’è quando Elisa, che nulla sapeva, scopre i camorristi. Ma Diego la convince. Poi i clan camorristi cominciano a farsi la guerra per la scomparsa dei tre di cui sopra, finendo per coinvolgere i neri amici di Abu ed ucciderne due. A questo punto i nostri non possono che liberare tutti, scappare e sperare che Vito riesca a sistemare tutto come loro longa manus. Su questa speranza li lasciamo. Con Claudio che esce dalle sue ipocondrie. Con Fausto che, da fascista convinto, instaura un rapporto di amicizia con Abu. Con Diego che esce dal suo personaggio stereotipo “stronzo”, e, forse, riuscirà a conquistare Elisa. Ma questo Fabio non ce lo dice. E forse non è interessante. Anche se la sospensione con qui ci lascia, mi fa restare sempre un po’ perplesso (come andrà avanti? cosa faranno Diego ed Elisa? e Sergio? insomma, è difficile finire un libro in modo che non ci siano possibili domande analoghe; ricordo che l’unico che mi diede questa impressione fu il Buendia del compianto Gabo). Ripeto quanto detto sopra, gustando il mix da momenti seri (camorra, disoccupazione, immigrazione) a momenti ironici (donne, letture, televisioni), e pensando di aver trovato un buon momento di lettura. Bravo Fabio!
“Siamo la generazione del piano B. Lavorare in questo paese fa così schifo che, anche se fai il miracolo di raggiungere la posizione per cui hai studiato, dopo due anni ne hai le palle piene e inizi a elaborare il tuo piano B. Quasi sempre si tratta di un agriturismo … una vita migliore, più sana, con più tempo a disposizione. Più tempo per pensare e per scoprire che sei infelice lo stesso, che il lavoro non c’entrava un cavolo … Hai traslocato e la prima cosa che hai messo nella valigia sono stati i tuoi problemi.” (37)
“Di solito non affronto discussioni su temi politici. Per non essere coinvolto in battibecchi isterici a proposito di manovre finanziarie o di leggi sull’immigrazione, ho imparato a dire che voto per i Verdi. Funziona, nessuna sa di cosa discutere con un verde.” (223)
Pur non essendo uso a ricitare le citazioni, devo dire che questa settimana sono particolarmente contento delle frasi che mi sono rimaste in mano, anche potendo suscitare un bel dibattito sulla prima di Piccolo o l’ultima di Bartolomei. Senza dimenticare quella che mi ha fatto rotolare sulla scuola di D’Avenia. Per ora non c’è altro, se non continuare a studiare per i sospirati break d’agosto.

domenica 13 luglio 2014

Mondo Noir - 13 luglio 14

Come un’anteprima personale della collana che sta uscendo per Repubblica (il giro del mondo in Noir), eccoci allora che giriamo noi per il mondo con alcuni degli autori seriali che ingrassano la mia libreria. Partiamo da Barcellona, dove lancerei bombe e petardi su chi decide di pubblicare così male uno dei miei autori-cult. Poi voliamo a Shangai, dove si migliora (poco) la qualità, e si peggiora traduzione e contesto (e godetevi lo sforzo che ho fatto per capire e farvi capire il proverbio citato). Certo, ci salva la Los Angeles di Connelly, sempre sopra la media. Per poi precipitare nel baratro dell’illeggibilità degli ultimi libri di Patricia Cornwell, peccato ambientato a Boston, una delle città più interessanti della prima America.
Manuel Vázquez Montalbán “Luis Roldán né vivo né morto” Feltrinelli euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 02/12/2013– I: 28/01/2014 – T: 29/01/2014] - &&
[tit. or.: Roldán, ni vivo ni muerto; ling. or.: spagnolo; pagine: 123; anno 1994]
Sono i…to. Con gli eredi di Montalbán, con Feltrinelli, i suoi editor e le sue politiche editoriali. Sarebbe un elenco molto lungo, che culminerebbe in fine a comprendere come, da quattro tipi di valutazioni diverse, vengano soltanto 2 libri di gradimento per un autore che in genere viaggiava nell’olimpo delle mie preferenze. Perché gli attribuisco 4 libri come autore. Montalbán è profetico, anticipatore, dissacratore, sia con la lunga serie di Carvalho che con altri suoi libri. Ma solo 2 libri alla storia in sé, che non è per principio brutta, solo un po’ slegata, e soprattutto molto e molto legata all’attualità spagnola di venti anni fa. E diamo 1 libro alle politiche editoriali nazionali e internazionali. Che se questo stesso libro fosse stato pubblicato a suo tempo poteva almeno essere contestualizzato meglio. E se lo pubblichi ora, e non ci metti NEMMENO una riga di commento, lasci il lettore ignaro a domandarsi cosa diamine mai abbia comprato. E se l’autore non si fosse fatto una serie infinita di canne prima di buttare giù qualche riga. Infine un altro misero e sconsolato libro di infimo gradimento ad un editor che, passando dal titolo originale a quello italiano toglie una virgola ed aggiunge un nome. Sarebbe costo molto pubblicare il libro con il titolo “Roldán, né vivo né morto”? Perché poi tutto il libro (venendo alla forse poco utile trama) è soltanto un pamphlet contro i malcostumi della vita politica spagnola e del Partito Socialista allora al Governo, con un facile (ed allora molto utile) parallelo con la situazione italiana (e non a caso Montalbán cita Berlusconi direttamente ed indirettamente). Luis Roldán, comunque, all’epoca dei fatti è un personaggio reale. Direttore della Guardia Civil, ammanicato con tutti i poteri, viene scoperto con le mani nel sacco, a rubare, malversare, corrompere, nonché organizzare, tramite milizie private, attenti ad esponenti dell’ETA. Roldán fugge dalla Spagna, e verrà arrestato soltanto l’anno seguente all’aeroporto di Bangkok (per cui Montalbán ne parla solo come un fuggitivo fuggiasco e sfuggente). Processato, viene condannato a 31 anni di carcere. Ne sconta soltanto 15, e nel 2010 viene rimesso in libertà per buona condotta (con quell’odiosa frase della quarta di copertina che sentenzia Montalbán mescolare finzione e realtà, ed essere il cattivo Roldán già da tempo in libertà: da tempo ma dopo anni di carcere). Prima di tornare allo scritto, un Camilleri nostrano avrebbe potuto scrivere un libro analogo intitolandolo “Craxi, né vivo né morto”. Perché Carvalho viene incaricato da sedicenti servizi di trovare lo sgusciante finanziare. Carvalho e Biscuter ne seguono alcune tracce, si imbattono sia in altri servizi segreti deviati (che non a caso hanno i loro quartieri generali nelle fogne) sia in strani personaggi: una direttrice della Televisione Spagnola, che lavora nell’ombra, e che era una delle più ferventi attiviste dell’era franchista, i “maiali iberici”, gruppi di attivisti e terroristi di Stato. Con una finzione degna appunto di invenzioni e contestualizzazioni maggiori, Montalbán riempie non solo Saragozza di sosia di Roldán. Ma ne fa anche un pieno all’estero, dove Carvalho si reca su labili tracce in quel di Damasco. Un po’ di colore locale, qualche battuta sugli appoggi esteri che aveva (ha) la Guardia Civil, ed anche a Damasco compaiono numerosi e fantasiosi Roldán. Damasco dove i servizi segreti israeliani rapiscono il nostro Pepito, lo portano prima a Masada, poi a Gerusalemme. Poi tornano tutti in patria, svelando la beffa finale. Era proprio lo Stato che aveva organizzato la proliferazione dei Roldán, ingaggiando Carvalho per saggiarne la verosimiglianza. Perché quando c’è un esponente politico che ruba è un ladro. Quando ce ne sono centinaia, diventa “costume” (Berlusconi dixit). Peccato questa scivolata editoriale. E, ribadisco, il libro è brutto non perché sia scritto male, ma perché esce con 20 anni di ritardo in Italia (ed alla fine mi domando se sia un caso).
“Adesso si viene a sapere che ha riempito di milioni la sua amante. Io non so cosa succede a questi socialisti, la distribuzione delle ricchezze la fanno a letto.” [sic!!!] (97)
Qiu Xiaolong “La ragazza che danzava per Mao” Marsilio euro 12,50 (in realtà scontato a 1,10 euro con Feltrinelli+)
[A: 09/11/2013– I: 20/02/2014 – T: 24/02/2014] - && e ½
[tit. or.: The Mao Case; ling. or.: inglese; pagine: 363; anno 2009]
Eccoci al sesto caso dell’ispettore Chen, imbastito dallo scrittore Qiu, che dal 1989 vive negli Stati Uniti. Continuo a leggerne, anche se, libro dopo libro, la scrittura di Qiu si attorciglia sempre più, da un lato allontanandosi dai pur interessanti casi dei primi libri, dall’altro legandosi a modi ed espressioni molto “interne” alla Cina. Interessanti forse filologicamente, ma che rendono i suoi libri, se posso dirlo, sempre più pallosi. Qui il vero punto d’interesse è in un certo senso la doppia lettura: c’è il binario delle indagini e della vita di Chen, che non ci prende più di tanto, e c’è Mao in sottofondo, che invece, pur annegato in incomprensioni (mie) ha un buon livello di interesse. O almeno di stimolo ad approfondire un personaggio che da decenni ho lasciato cadere nel dimenticatoio. Doppia lettura che sarebbe stata più palese lasciando il titolo originale (“Il caso Mao”) invece di introdurre questa ragazza che danzava per il Grande Timoniere. Che ovviamente entra nella storia, ma rischia di far pendere la bilancia delle osservazioni verso la ragazza, quando in realtà il romanzo è tutto incentrato su Mao e su alcuni aspetti poco edificanti del maoismo (leggi “la rivoluzione culturale”). Intanto la ragazza, in realtà era un’attrice (come attrice era Jing Qiao, la famigerata Madame Mao). Ed inoltre era una delle innumerevoli amanti del Presidente (che pare avesse una ben nutrita schiera di concubine). Shen, l’attrice, sembra abbia avuto in regalo una poesia autografa di Mao, pare che abbia fatto molte foto al Grande Condottiero, tant’è che, presa di mira dalle Guardie Rosse, si toglie la vita (o viene defenestrata?). Lascia la sua eredità segreta a Qiao, la figlia, che tenta di fuggire ad Hong Kong, viene presa, e ben presto liquidata, lasciando la figlia Jiao appena nata e solitaria. La storia prende le mossa quando la polizia si insospettisce dell’improvvisa ricchezza di Jiao, temendo che abbia rivelazioni anti-maoiste da fare. Per questo, l’ispettore in carriera Chen viene incaricato di far luce, possibilmente, sulla materia. Chen si introduce nell’entourage di Jiao, conosce un suo mentore, il signor Xie, fanatico degli anni Trenta, che si scopre sodale del marito morto di Qiao. Ed intorno a Xie e Jiao cominciano a fioccare morti sospette. Prima una ragazza amica di Jiao. Poi il capo delle indagini della polizia segreta. E bene dice a Chen che viene assalito anche lui, ma si salva e si rifugia a Pechino, dalla sua ex Ling. Lì assistiamo al definitivo recidersi di questi vecchi legami di Chen. Ma anche, e con piacere, al vagabondare di Chen per la Città Proibita, per Piazza Tienanmen, e per la dimora “segreta” di Mao. Su questa parte si tornerà, mentre a Shangai le indagini proseguono, da parte del sodale di Chen, il poliziotto in pensione soprannominato Vecchio Cacciatore. Chen scopre un possibile “Riccone” (così si chiamano i neo-capitalisti cinesi) che si crede una rincarnazione di Mao e che ha concupito Jiao. In un lungo, e poco entusiasmante finale, Chen mette tutti i pezzi a posto, arrestando il cattivo che intanto ha fatto fuori anche Jiao, capendo quali siano i segreti di Shen, ma forse lasciando andare tutto sotto silenzio per non scoprire troppi altarini. Questa la storia, ma è l’altra a tenere banco. Un banco insopportabile, quando Chen cita ad ogni piè sospinto le poesie di Mao. E la poesia cinese, a me, non piace proprio. Non la capisco, non mi smuove neanche mezza corda nell’anima. Ed invece, dato anche che Qiu è un esperto del ramo, ecco che si cita “La fioritura del pruno” di Mao, e si fanno paralleli con poesie Tang, con i pesci del fiume Giallo. Pagine e pagine che guardo passare ma che non aggiungono briciole alle mie pur scarse conoscenze. Ci vorrebbe una sinossi di migliaia di pagine per entrare nel vivo. O forse bisognerebbe essere cinesi. Rimangono spigolature e domande forse più intime e più interessanti. Quante mogli ha avuto Mao? Ha sposato la terza prima che morisse la seconda? È vero che amava ballare? Quali erano i reali rapporti con Madame Mao? Come nasce la Rivoluzione Culturale? Inciso: e quali i rapporti tra questa e le follie cambogiane di Pol Pot? E perché il riccone camuffa la sua voce con accenti strani? Ecco, l’unica risposta l’ho avuta a questa domanda, scoprendo che Mao aveva un forte accento dello Hunan, che dava una strana inflessione al suo “cinese mandarino” (un po’ come sentire parlare in italiano il primo Bossi, mi si dice). Insomma, un libro che ho letto per queste domande su Mao, ma che per il resto sconsiglio vivamente di toccare. A meno che non si sia conoscitori e amanti della poesia cinese, ai quali, soltanto, auguro buona lettura. E chiudo rimandandovi alla citazione sotto riportata, che non capisco e che credo pochi possano capire, anche se mi sono sforzato di farlo.
“A questo mondo, otto o nove volte su dieci le cose non funzionano secondo i nostri piani ma, come dice l’antico proverbio, chi sa se è fortuna o sfortuna, quando il vecchio di Sai perde il suo cavallo?” (70) [e cioè???]
Analisi di un proverbio cinese (che se sbaglia la traduzione e non la spieghi sei un traditore e non un traduttore).
In un articolo a proposito del rischio di bocciatura al gaokao, l’esame d’ingresso all’università, l’autore incoraggia la figlia, studentessa sotto esame, con un famoso chengyu (proverbio): “Il vecchio della frontiera ha perso il cavallo, ma non è detto che sia un male”. La forma originale è (trascritta) Sài wēng shī mǎ, yān zhī fēi fú (“Il vecchio della frontiera ha perso il cavallo, come è possibile sapere che non sia una fortuna?” e già notiamo che chi sa di Cina e di proverbi, traduce “Sai weng” come il vecchio della frontiera e non il vecchio di Sai!). La storia raccontata è quella di un vecchio che viveva vicino alla frontiera del nord; il vecchio possedeva un cavallo pregiato, che però un giorno fuggì oltre la frontiera, dove vivevano i barbari. I suoi vicini si rattristarono molto con lui, il quale però si mostrò molto meno preoccupato, anzi, disse appunto “Chi può sapere che non sia una fortuna?”. Aveva ragione, infatti, dopo qualche mese il cavallo ritornò, addirittura insieme ad un secondo cavallo ancora più pregiato. Tradizionalmente la storia – che potrebbe concludersi anche qui – continua con l’arrivo dei soliti vicini, stavolta per congratularsi della fortuna insperata. Con ammirevole sangue freddo, il vecchio rispose che non era detto che quella fosse davvero una buona cosa. Fu profetico, perché, in effetti, un giorno un suo figlio, mentre cavalcava il nuovo cavallo, cadde dalla sella rompendosi una gamba. I vicini accorsero nuovamente, ma trovarono il vecchio per niente turbato: al contrario, si diceva convinto che anche quella sventura potesse non essere del tutto negativa. I vicini, sbalorditi, si convinsero che il vecchio volesse soltanto dissimulare il dispiacere. Poco tempo dopo, però, i barbari invasero le frontiere, scatenando una feroce guerra: tutti i giovani furono chiamati a partecipare alla battaglia, finendo sterminati. L’unico che scampò fu… il figlio convalescente del vecchio. Solo allora i vicini si convinsero della saggezza delle sue parole.
Michael Connelly “La lista” Piemme euro 13 (in realtà, scontato a 11 euro)
[A: 19/05/2013 – I: 03/04/2014 – T: 06/04/2014] - &&&&
[tit. or.: The Brass Verdict; ling. or.: inglese; pagine: 418; anno 2008]
Eccoci di nuovo in pista con i grandi gialli del maestro Connelly. Parlai qualche tempo fa dei meccanismi di aumento dell’efficacia dei prodotti seriali, e delle loro diramazioni. Connelly ha il suo elemento centrale nell’ormai decennale serie di Hieronymus “Harry” Bosch, provando di tanto in tanto nuovi personaggi per avere più respiro. Nel 2005 introduce un episodio di prova con un avvocato, che, seppur ligio all’ordinamento giuridico americano, ha un suo codice etico quasi di giustizia. Dopo qualche libro su Bosch, ecco che ritorna a Mickey Haller, e con un buon romanzo, che al solito unisce una piccola dose di suspense ad una lunga disamina dei meccanismi giudiziari d’oltre oceano. Con una piccola sorpresa finale, che si intuisce dall’inizio ma di cui parlerò forse più in là. Ricollegandosi all’avventura precedente (“Avvocato di difesa”) ricordiamo che alla fine Haller era stato ferito nel convulso finale che portò alla soluzione del caso. Ora è passato del tempo (almeno un anno) ed Haller non ha ancora ripreso la professione, dovendosi curare da un’overdose di analgesici che lo ha portato quasi alla dipendenza. Improvvisamente, però si ritrova in mezzo al guado. Un suo collega viene ucciso e lui viene nominato “sostituto”. Nel gergo americano significa che, se i clienti del morto Jerry lo accettano, lui può prendersi i suoi casi. L’inizio è ben caotico, non trovandosi molte informazioni sui casi. Lui si mette alla caccia aiutato dalla fida Lorna (la sua seconda ex-moglie) e dal di lei compagno Cisco (investigatore privato). Tra tanti casi minori, uno è quello che viene alla luce con forza. Il processo contro il magnate del cinema Walter Elliot accusato di aver ucciso la moglie ed il di lei amante. L’altro elemento di incasinamento della vicenda, sono le indagini sulla morte di Jerry Vincent, l’avvocato, che sono affidate a… Harry Bosch. Molti sono i motivi stimolanti sul piano giuridico: Bosch è convinto che la morte di Jerry risieda nei casi che ora ha in mano Mickey, ma questi non può dare informazioni sotto il vincolo della segretezza; ci sono elementi poco chiari sulle motivazioni dell’arresto di Elliot; sembra ci sia di mezzo l’FBI che indaga su di un caso di corruzione. Intanto crescono personaggi laterali: uno dei clienti di Jerry viene fatto assolvere da Mickey e da questi preso come autista; Cisco conduce indagini e diventa quasi come Drake l’investigatore di Perry Mason; Mickey è pressato dal buonismo della figlia Hayley e dall’amore mai sopito per la prima moglie Maggie. Un bel momento di lettura è la scelta della giuria, dei modi per accettare o ricusare i giurati, quasi una partita a scacchi, dove si cerca di ottenere in giuria persone potenzialmente favorevoli. Indagando tra i vari clienti poi, Mickey ne scopre uno che non c’era ragione perché diventasse cliente, se non che scopre aver sparato 84 proiettili verso dei poliziotti ed essere stato ammanettato nella stessa auto che porterà in prigione Walter. Ma Walter è un personaggio ambiguo, continua a mostrarsi troppo sicuro di sé, e continua (a detta di Mickey) a non dire la verità. Attraverso le sue indagini private e la lettura di tutta la documentazione il nostro Haller arriva ad alcune conclusioni importanti: nella giuria ci deve essere un giurato corrotto (sono spariti soldi dai conti di Jerry senza motivo) che se non fa raggiungere l’unanimità del verdetto farà assolvere Walter. Le tracce di polvere che accusano Walter vengono proprio da quell’auto di cui sopra. Intanto Bosch continua ad imperversare per sapere notizie, e tra i due si istaura uno strano rapporto di rispetto e antagonismo. Haller vuole vincere pulito, così fa in modo di smascherare il giurato, che sparisce. Elliot diventa nervoso. Haller si dà da fare in alcuni momenti processuali veramente interessanti e ben descritti. Arriviamo così al finale, con Bosch che all’ultimo momento salva la vita ad Haller, Mickey che riconquista la fiducia della figlia, Warner che viene ucciso (non vi dirò da chi) facendo quindi fermare il processo (questa la legge americana). Si scopre, inaspettatamente, la catena di corruzione che ha portato all’infiltrazione del giurato, coinvolgendo personaggi di livello. Si è così avuto quello che diceva correttamente il titolo americano, “Il verdetto del proiettile” (e vi lascio scoprire cosa significa), e non quella “lista” che in realtà poco entra nella storia. Dove appunto abbiamo anche quella sorpresa finale, che noi lettori di Bosch e Connelly già sapevamo (ed intuivamo da diversi indizi). Bosch ed Haller in realtà sono fratellastri. E questo connubio porterà senz’altro a qualche altra vicenda intricata ed intrigante. Per ora rimaniamo con i due personaggi, il poliziotto e l’avvocato, ben delineati e con una cura dei particolari che fanno un piacere della lettura dei libri del maestro Connelly.
Patricia Cornwell “Letto di ossa” Mondadori euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[A: 06/02/2014 – I: 21/04/2014 – T: 25/04/2014] - &
[tit. or.: The Bone Bed; ling. or.: inglese; pagine: 390; anno 2012]
Ormai stiamo rasentando i limiti dell’illeggibilità. O almeno del vituperio del lettore da parte di un’autrice che per tanti anni ho amato, seguito, tanto da avere l’intera serie di Kay Scarpetta ordinatamente messa in libreria (anche se da mia madre, che ha una libreria più spaziosa). In effetti, l’unica cosa salvabile è la traduzione del titolo, una volta tanto resa senza fantasiose invenzioni. Per il resto, un libro senza sussulti, senza grosse invenzioni, inutilmente lungo quasi 400 pagine. Intanto, mi sembra una buona richiesta di amore da parte del lettore, seguire Pat che scrive di 24 ore della vita di Scarpetta e soci, occupando più di 200 pagine. Certo il libro alla fine dura poco più di quattro giorni, relegando in poche pagine convulse finali, messi lì senza tante spiegazioni. Queste 200 pagine sembrano quasi voler essere una “presa diretta”, un tentativo di trasportare su carta l’agilità delle immagini delle serie televisive (i vari C.S.I., NCIS, Body of Proof e via elencando). Ma non è così, ed io lettore arranco sulla pagina aspettando qualche momento saliente, qualche velocizzazione delle idee, se non dello scritto. Che comincia con una possibile morte di una paleontologa in Canada, il cui orecchio viene inviato alla nostra dottoressa, e ricevuto insieme alla notizia della scoperta di un cadavere nelle acque del porto di Boston, lo stesso giorno in cui Kay deve testimoniare al processo per la scomparsa della moglie di un facoltoso cittadino. Assistiamo alle lunghe pagine del reperimento di questo corpo, con un’immersione nelle acque di Kay che libera anche una tartaruga marina impigliata negli stessi fili del cadavere. Ed invece di andare al processo, Kay fa subito una prima parte di autopsia, scoprendo che il cadavere è stato a lungo sotto zero prima di essere immerso nelle acque oceaniche. Ciò darà modo di sviluppare pagine e pagine sul dibattimento processuale con le accuse di vilipendio della corte per Kay e con una montatura mediatica del “salvataggio del cadavere” che daranno modo di prosciogliere il ricco antipatico dalle accuse (no cadavere, no uccisione). Nel pomeriggio e nella serata di questa lunga giornata poi si scopre che: la morta in acqua era una signora benestante scomparsa da sei mesi, che l’assassino aveva attivato un account twitter post-mortem, che Marino (il fido aiutante di Kay) aveva chattato a lungo con questo account, tanto che qualcuno lo ritiene coinvolto, che Benton (il marito di Kay) sa molto di più di quello che dice, che Doug, poliziotta FBI incaricata delle indagini, è cotta di Benton e cerca in tutti i modi di screditare sia Kay che Marino, che un tizio ubriacone supposto morto per caduta dalle scale è in realtà stato ucciso, che lo stesso tizio era il giardiniere part time della morta. Assistiamo anche ad una lunga ed inutile perquisizione delle case dei morti, piene di particolari rilevanti per un uso “legale”, ma sparsi e diluiti nelle lunghe peregrinazioni mentali di Kay, dubbiosa della fedeltà dei suoi cari: di Benton che non le dice tutto, di Marino che sembra essere tornato all’amica bottiglia, di Lucy (la nipote) anch’essa misteriosa e forse coinvolta in una nuova storia d’amore. La mattina dopo scopriamo che la paleontologa è realmente morta (se ne trova il cadavere, guarda caso in contemporanea…). Ma quali sono i fili che legano tutte queste morti, che sembrano (da come sono stati commessi gli omicidi) legati ad un unico serial killer? Cosa lega la paleontologa, la filantropa, la moglie scomparsa ed il giardiniere? Senza darci modo di capire come fa, Kay si reca in una casa di cura per anziani dove lavorava la filantropa, dove a volte lavorava il giardiniere, dove era ricoverata la madre di un alto dirigente della ditta del riccone dalla moglie scomparsa. Kay capisce tutto, ma viene rapita dall’assassino (e questo nelle scarse dieci pagine finali). Fortuna che Lucy ha messo un GPS nella macchina di Kay, così che i buoni riescono a salvare la nostra eroina, non senza che ci rimetta le penne anche Doug (così ce la leviamo di torno). Ed il libro finisce. Con un colpevole che compare una sola volta (prima del convulso finale) verso pagina 240. Con il mistero della morte della paleontologa (forse lavorava anche lei nel centro anziani?). Insomma c’era materia per scrivere un romanzo più snello, più avvincente, e magari con qualche spiegazione in più. Niente da fare, Cornwell, stiamo peggiorando libro dopo libro. Che fare ora? Sperare che la prossima puntata risollevi l’audience o abbandonare il serial?
Essendo il secondo appuntamento del mese, come ormai sapete, trovate allegato un nuovo capitolo legato alle cure attraverso i libri. Dedicato questa volta all’arroganza, con un libro che dovrebbero leggere tutti coloro che hanno figlie adolescenti.
Per finire, visto che ormai sapete tutti che questo mese di luglio si trascorre qui, seduti a scrivere, leggere e mettere (possibilmente ordine), dato che ben tre viaggi Avventure sono stati cancellati ad una settimana dalla partenza, non mi resta che ripetere anche in questa forma gli auguri ai miei amici Nino ed Elena, per la da poco passata festa.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

Anche questo mese parliamo di amore, ma guardandolo da un diverso punto. Anzi da due diversi punti, che dopo spiegherò, per capire questo difetto (malattia) ormai molto generalizzato.

ARROGANZA

Orgoglio e pregiudizio, Jane Austen
Angel, Elizabeth Taylor
Mildred Pierce, James M. Cain
L'arroganza, in letteratura, è uno dei crimini peggiori. Lo sappiamo perché quando il signor Darcy snobba Eli­zabeth Bennet al ballo di Bingley – rifiutandosi di danzare con lei, respingendo la sua bellezza come appena «pas­sabile» e in generale comportandosi in modo sgradevole verso gli abitanti di Longbourn – egli viene immediata­mente liquidato da tutti, anche dalla signora Bennet, come l'uomo «più orgoglioso e antipatico del mondo».
Questo, poi, nonostante sia molto più bello dell'amabile signor Bingley, nonostante possieda una grande tenuta nel Derbyshire, e nonostante sia lo scapolo più appetibile in un raggio di quasi cinquanta chilometri – fatto che, come sappiamo, significa molto per la signora Bennet che ha cinque figlie da sistemare.
Per fortuna la giocosa Elizabeth Bennet, eroina di “Orgoglio e pregiudizio” di Jane Austen, sa come fargli ab­bassare la cresta. Un po' lo stuzzica («Sono assolutamente convinta... che il signor Darcy non abbia alcun difetto» gli dice) e un po' lo rifiuta, di brutto e calcando la mano («Vi conoscevo da meno di un mese e già avevo capito che siete l'ultimo uomo al mondo che potrei mai sposa­re»); in questo modo non solo corregge le sue magagne, ma dimostra a tal punto la «vivacità della [sua] mente» che Darcy si innamora di lei ancora una volta – e stavolta nella maniera corretta. Se soffrite della stessa arroganza, imparate da questo romanzo a riconoscere lo sfottò in­telligente e l'onestà coraggiosa – e accoglieteli a braccia aperte. Magari sarete così fortunati da essere trasformati in una persona perfetta da qualcuno come Elizabeth.
A volte, tuttavia, l'arroganza è così profondamente ra­dicata che niente e nessuno può intaccarla. L'eroina di “Angel” di Elizabeth Taylor – non è l'attrice di Hollywood, ma una scrittrice inglese della metà del XX secolo – ha appena quindici anni quando la incontriamo, e dire che pensa di essere il massimo è un eufemismo. Incorreggibile bugiarda, questa strana bambina è vanesia, prepotente e del tutto priva di senso dell'umorismo. Non prova altro che disprezzo per i suoi compagni di classe, rimane indif­ferente quando uno di loro viene portato in ospedale con la difterite e fantastica su un tempo futuro in cui, coperta di smeraldi e con una stola di cincillà, assumerà come domestica la propria, noiosa genitrice. Ovviamente, la povera donna è abbastanza turbata dalla figlia che ha cresciuto – proprio come Mildred è inorridita dalla figlia Veda, al­trettanto mostruosa, in “Mildred Pierce” di James M. Cain. Veda dilapida le ricchezze famigliari per mantenere il pro­prio stravagante stile di vita e porta via alla madre il nuovo fidanzato. Mildred si spingerà fino a tentare di uccidere il mostro che ha creato.
È piuttosto intrigante notare fino a dove l'iper-fiducia di Angel riesca a spingerla – fino agli smeraldi sognati, in effetti. Anche Veda ottiene esattamente quello che vuole. Nessuna delle due, invece, scoprirà l'umiltà. Il rifiuto – nel caso di Angel, da parte di editori e critici; in quello di Veda, da parte della madre – non suggerisce a nessuna delle due una pausa di riflessione.
Non fate come Angel o come Veda. Quando qualcuno vi respinge, domandatevi che cosa avete potuto fare per meritarlo. Fate come Darcy, invece. Anche se all'inizio si arrabbia e rimane mortificato dal rifiuto di Elizabeth – e dalla maniera in cui lo rimprovera – lui conosce la dif­ferenza tra giusto e sbagliato, e desidera ardentemente che le persone che ammira abbiano, di lui, una buona opinione. Siate felici quando qualcuno vi sfotte – con ogni probabilità, sta cercando di rendervi migliori.
Bugiardino
Quali i due punti di vista? E quali i due amori? Abbiamo l’amore uomo – donna (centro della narrativa della Austen) e l’amore genitore – figli (verso cui pendono Taylor e Cain). Ma anche arroganza salvata dall’amore (sempre la Austen) e amore ucciso dall’arroganza. Il libro sull’orgoglio e il pregiudizio lo lessi intorno alla metà degli anni ’80, e non credo sia il caso di ritornarci su (non credo di ricordarne molto, in realtà). Mentre il libro della Taylor, pur presente nella mia libreria, non è ancora stato letto (e ci si ritornerà a suo tempo). Rimane Cain, si quello del Postino che suona due volte, con questo libro letto tre mesi fa, ma non ancora inserito nelle Trame. Per cui, anche qui, un’anteprima succulenta.
James M. Cain “Mildred Pierce” Adelphi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[letto il 15 aprile 2014]
L’autore è il ben noto scrittore de “Il postino suona due volte”, che però non ho ancora letto. Qui lo troviamo in quello che invece è considerato il suo miglior romanzo, portato al cinema da Joan Crawford (Oscar) ed in televisione da Kate Winslett (Emmy Awards). Romanzo che veniva ascritto al genere noir, in considerazione dei cambiamenti fatti nel film. E che invece è giustamente un mélo come ci fa vedere la mini-serie TV. Infatti, seguiamo per le scorrevoli 300 pagine la storia e le vicende di Mildred Pierce, giovane casalinga che vive nel 1930 a Glendale, sobborgo di Los Angeles. È appena accaduto il grande disastro del ’29, l’America è in piena recessione, ed il costruttore di case Bert (marito di Mildred) si trova a corto di soldi e senza prospettive. Non solo, ma si consola dei disastri tra le braccia di Maggie, mentre Mildred è costretta a fare torte in casa che rivende a pochi dollari, per poter arrivare (e con molta fatica) a fine mese. Ci sono poi le loro figlie: Moire (detta Ray)  e Veda. Mildred, stufa della pochezza di Bert, lo manda a scopare il mare, chiede il divorzio, e comincia a ipotizzare di far diventare un lavoro più redditizio quello delle torte. Ma deve trovare anche il modo di sbarcare il lunario, di pagare il mutuo che le h lasciato Bert. Insomma, sta proprio in mezzo ai guai. Oltre alle torte, l’unico mezzo di sostentamento che ha è il suo corpo. Non che diventi improvvisamente un escort di lusso, ma diciamo concede le sue grazie in modo da ottenere in cambio qualche aiuto, qualche suggerimento. Magari legale, dall’ex-socio del marito. Magari di prospettive, quando cade tra le braccia del bel Monty, un quasi gigolò, forte solo della sua bellezza e dei lasciti aviti che a poco a poco si mangia. In questo girare tra letti e torte, scompare presto la piccola Ray, portata via da una polmonite fulminante. Ma Mildred non si lascia abbattere. Prima continua con le torte, poi si fa cameriera. Accumula soldi ed esperienza, e, nella grande esaltazione del sogno americano, fa una luminosa carriera. Tanto da poter aprire un ristorante suo. Dove impiega le sue amiche, chi ai tavoli, chi ai liquori (che intanto il proibizionismo sta passando). Unico suo cruccio, l’impossibile rapporto che ha con la figlia Veda. Che non accetta lo status di “figlia di una commerciante”. Lei è quella delle grandi manie, delle grandi capacità, quella per cui non è nata nobile ma solo per caso, e fa di tutto per salire (a suo modo) i gradini del potere femminile. Prima con il pianoforte, ma avendo un talento solo ripetitivo deve cambiare e cambia alla grande, verso il canto dove le sue doti spiccano di gran luce. Seguiamo così le loro due carriere, sempre ai ferri corti, ma ognuna con i suoi lumi. Il ristorante, le torte, gli investimenti, consentono a Mildred di arrivare ad una vita agiata. Ogni volta rimessa in pericolo dalla necessità di soccorrere Veda se questa ha problemi, se Veda chiama, se Veda ha bisogno. Bert, intanto, si defila dalla scena, un poco ingelosendosi dei successi di Mildred, ma partecipando a quelli della figlia, in cui rispecchia il proprio egotismo assoluto (se non c’è niente al mio livello, non faccio nulla, aspettando che qualcosa arrivi). Mildred salva anche Monty dalla bancarotta, rimette in sesto le di lui scarse finanze. Lo sposa anche, per poi ben presto divorziare quando si accorge che Monty è un involucro vuoto. Ed è nella parte finale che il melo acquista tono e spessore. Perché Mildred, acquiescente ad ogni richiesta di Veda, si accorge che non solo la figlia la odia da sempre, che Veda l’ha usata per ottenere un contratto canoro più vantaggioso. Ma anche che Veda si mette con Monty, andando via da Los Angeles per continuare la sua bella vita a New York. Mildred alla fine risposa Bert, il suo primo marito (lasciato da Maggie che torna dal suo di marito che nel frattempo ha scoperto del petrolio nel Texas, ahi potenza del grande sogno americano). Il libro è tutto qui, tutto nel rapporto tra genitori e figli e su come le scelte private influiscano sulla vita pubblica dei personaggi. Nel film con la Crawford decidono di inserire la componente noir, inscenando l’uccisione di Monty. Ma è una forzatura, che nel libro manca. Perché il libro, in fondo, è molto più dolente della torbida storia melo-noir del cinema. Dolente ed aulente. Perché da un lato si inneggia al grande mito americano che tutti possono riuscire se hanno le capacità (Mildred fa le torte, sa cucinare, apre un ristorante, ed ha successo; Veda sa cantare, e vola di palcoscenico in palcoscenico), ma tutti falliscono se non ne hanno (Bert si illude di saper fare, e farà lo spiantato per tutta la vita, riscattato solo dall’affetto di Mildred, Monty ha soldi di famiglia, ma non è capace di nulla, e non potrà passare che di fallimento in fallimento). E dall’altro si toccano le corde che sempre inguaiano gli americani: l’incapacità di avere rapporti umani, la tragedia dell’odio genitori-figli (o meglio figli vs. genitori, anche se bollare Veda come la creatura più demoniaca della letteratura come fa la quarta di copertina mi sembra un po’ forte). Ci sarebbe quasi da scriverne un saggio sociologico. Intanto gustiamoci questa scrittura di Cain, dimenticando il film, la serie televisiva, e seguendo gli anni Trenta americani attraverso alcuni protagonisti minuti, anche se non minimali.
“Bert assomiglia a Veda. Se non può fare le cose in grande stile, gli sembra di non vivere.” (102)
Conclusioni
Come detto, qui si tratta di due diversi tipi di approccio alla malattia. L’antagonismo descritto dalla Austen è senza dubbio da utilizzare, e ne concordo le dosi, eventualmente specchiandosi nel contraltare impersonato dalla vanità di Rossella O’ Hara. Trattando invece di adolescenti, potrebbe valere la pena mitigare l’arroganza anche con qualche dose di eccesso di fiducia (nei genitori) per indurne la mancanza (nei figli).


domenica 6 luglio 2014

Misticanza con yogurt - 06 luglio 2014

Dopo due insalate abbastanza omogenee, eccoci ad un quartetto un po’ più “disparato”, anche se non disperato. Unito dalla comune passione per lo yogurt, che ho trovato girando per quelle nazioni. Si parte dalla Finlandia di Paasilinna e la sua girandola di suicidi, si scende (in tutti i sensi) nella Repubblica Ceca di Kundera (dove ricorderò sempre un Capodanno con yogurt di quasi … beh diciamo di tanti anni fa), si risale alla Norvegia del Premio Nobel Hamsun, per finire, dopo tanto freddo, al caldo mediorientale dell’imperdibile libro di Amos Oz.
Arto Paasilinna “Piccoli suicidi tra amici” Iperborea euro 14 (in realtà, scontato a 10,64 euro)
[A: 06/12/2013– I: 30/01/2014 – T: 03/02/2014] - &&& e ½
[tit. or.: Hurmaava joukkoitsemurha; ling. or.: finlandese; pagine: 259; anno 1990]
Me ne aveva a lungo parlato il mio amico Emilio come di un delizioso ed ironico romanzo. Mi capitò inoltre di parlarne con uno studente finnico in una libreria, studente che considerava Paasilinna il miglior scrittore finlandese. Approfittando di una visita alla mostra della Piccola Editoria, nonché di una super-offerta, ecco che nelle nostre trame entra il primo libro finnico. Poiché questa è una di quelle lingue che forse mai riuscirò ad imparare, devo in ogni caso rendere omaggio ai traduttori che hanno fatto un esimio sforzo di rendere la spumeggiante lingua di Arto, in un miscuglio di serietà ed ironia che ben rende lo spirito del romanzo. Devo però rilevare che, ad onta del titolo italiano, decisamente accattivante, il testo originale (come rilevo da una ricerca sul web) porta all’altrettanto affascinante titolo di “Un incantevole suicidio di massa”. E come rileva l’ottima postfazione di Diego Marani da quel titolo, da quell’idea parte tutta la costruzione della trama di Arto. Che si innesca, episodio dopo episodio, come una bomba ad orologeria che sta sempre per esplodere, di cui ci aspettiamo l’esplosione, ma che quando esplode ne fa comprendere tutti i meccanismi, uno dopo l’altro accumulati. E funzionali alla deflagrazione finale. Sebbene non così noto come il suo maggior successo (“L’anno della lepre”) questo romanzo è un vero campionario dei temi e della scrittura dell’autore. Si notano l’amore per la natura, l’astio per le situazioni di costrizione, una sana ironia verso i poteri costituiti, una passione per la parola ed i rapporti umani, che spesso risolvono situazioni difficili meglio di aiuti esterni. Il romanzo è poi un doppio campionario: di persone e di luoghi. Nelle 250 pagine, Arto inserisce persone e nomi e fatti, costruendo decine di vite immaginarie ma reali, come in un campionario di mini-biografie. Rendendoci reali (ed amici, come dice il titolo italiano) questa trentina di personaggi che ad un certo punto si ritrovano su di un pullman di lusso a girare per l’Europa. Il tutto partendo da un numero: 30 suicidi ogni 100.000 abitanti (siamo nel 1990; ora la percentuale è scesa a 16, e la Finlandia, dal podio è scesa al 15° posto). Arto allora comincia a seguire un suicidando: ce ne narra la storia, e seguiamo Olli mentre va a spararsi in un fienile. Dove trova il colonnello Hermanni che cerca di impiccarsi. I due, sentendosi un po’ ridicoli, soprassiedono. E da qui comincia la folle escalation. Olli non ha fatto altro che bancarotte nella vita, ma le saune con Hermanni gli danno una folle idea. Mettere un’inserzione per radunare un po’ di suicidi, in modo di inscenare un suicidio di massa. Il colonnello, con la sua mentalità militare, inizia a fare piani. All’inserzione rispondono centinaia di possibili suicidi. Con la tipica mentalità finlandese, ecco che Olli organizza un meeting, riunisce i suicidi, il colonnello ingaggia Helena, un’aspirante sucida e segretaria di bella presenza. Fanno un convegno con una relazione di una psicologa che aveva tentato il suicidio (le rutilanti invenzioni di Arto cominciano ad ingranare). Alla fine si ritrovano in una trentina di persone decise a suicidarsi ad ogni costo. Ma bisogna organizzare bene le cose. Ai tre capi della nascente organizzazione “Morituri Anonimi”, si associano un furfantello di mezza tacca, Uula, che si aggrega per sfuggire alla cattura avendo rubato soldi ad una troupe cinematografica americana, il cameriere Seppo, che non vuole suicidarsi, ma che “rallegra” la compagnia con macabre storielle, e l’autotrasportatore Korpalo, che mette a disposizione un pullman di lusso. Perché hanno deciso: si va a morire saltando dalle scogliere di Capo Nord. Da qui cominciano una nuova serie (praticamente infinita) di storie di riporto. Per strada si accolgono altri adepti, raccontandocene la storia. Si devono affrontare problemi, ed ogni volta un nuovo morituro viene alla ribalta, ed Arto ci illustra perché deve morire. Ma mentre stanno filando a tutta velocità verso la scogliera, c’è il primo ripensamento: qualcuno tira il freno d’emergenza. Riunione, discussione, altra meta. Buttiamoci dalle Alpi svizzere. Ed allora scorribanda per l’Europa, con una stupenda battaglia a suon di frustini di betulla con degli hooligan tedeschi. Ma gli Svizzeri hanno leggi contro il suicidio di massa. Qualche morituro si innamora delle Alpi, ed abbandona il pullman, ribattezzato “Saetta della Morte”, per passare gli ultimi anni nei cantoni tedeschi. Al colonnello viene allora l’idea di un nuovo punto fondante per la morte: il Cabo Sao Vicente in Portogallo. Nuove scorribande, avventure e schermaglie varie tra l’Alsazia e l’Algarve (e qui, Arto rende in modo magistrale lo scontro tra la mentalità finnica ed il resto dell’Europa). Ma arrivati alla “Finis Terrae” (anche se quella sarebbe al Nord del Portogallo, ma va bene uguale), dopo tanto tempo passato insieme e solidali, i trenta morituri decidono che hanno tanta voglia di vivere, ed abbandono l’incantevole progetto. C’è chi si sposa (come Hermanni e la segretaria), chi apre nuove strade alle sue attività, chi fa finta di suicidarsi per sfuggire alla giustizia (il buon Uula, che decide di rimanere in Portogallo, tanto il sami ed il lusitano hanno affinità sorprendenti, come cito sotto). E non manca in tutto ciò il contraltare dell’ironia verso i poliziotti, che per tutto il romanzo inseguono sempre in ritardo la Saetta della Morte, fino a perderne le tracce. Ed il questore ci rimane tanto male che muore d’infarto. Bravo Arto, che colpo magistrale. L’altro campionario, sarebbe quello geografico, che farebbe la gioia di noi viaggiatori vedere il percorso che effettua tra la Scandinavia e la Lusitania, la nostra Saetta. Un ottimo libro, allora. Che come una vodka finlandese prende sapore a poco a poco. Certo, tutti quei nomi fanno perdere il lume della ragione (e della regione). E qualche accenno di artrite lo denuncia i 25 anni dalla scrittura. Però credo che insisterò con altri nordici, prima o poi.
“Il viaggio più folle della mia vita… Perché siamo ancora vivi o perché non siamo ancora riusciti a morire?” (231)
“La pronuncia del portoghese e del sami presenta affinità sorprendenti. Il portoghese deriva dal tardo latino, e il sami dal bramito delle renne.” (249)
“Quello che è imperdonabile è credersi vivi quando invece si è morti da un pezzo.” (259)
Milan Kundera “Il libro del riso e dell’oblio” Adelphi euro 10 (in realtà, scontato a 7,50 euro)
[A: 04/01/2014– I: 12/03/2014 – T: 15/03/2014] - &&
[tit. or.: Kniha smíchu a zapomnění; ling. or.: ceco; pagine: 273; anno 1976]
Quanti anni erano che non prendevo in mano un libro dell’esule famoso? Tra una cosa e l’altra, dopo “L’insostenibile” (letto per arboriana memoria e mediamente gradito), avevo negli anni Ottanta e Novanta provato a leggerne. Ricordo di averne iniziati almeno due, e di uno (“Il valzer degli addii”) ricordo anche di essermene stufato dopo poche decine di pagine. Ora, col senno della maturità e con la volontà di recupero, spinto anche da altre letture omologhe e marginali, ho preso, letto, e mal digerito questo quasi quarantenne libro. Non dico romanzo, che Kundera scrive affastellando parole, qui come spesso altrove. Ci sono pensieri, trame che tracciano solchi di racconti, unioni e disgiunzioni. Quasi a suggellare quello che in quarta di copertina ci si ostinano a chiamare “variazioni”, per riprendere uno dei tanti fili del narrare. Quel bel pezzo del rapporto con il padre ormai malato e quasi incapace di parlare, e la sua ostinazione di studio sulle variazioni di un pezzo di Beethoven. E non dico che, probabilmente, inserito nel suo contesto storico, il testo non abbia una sua valenza. Come non calarsi nello spirito del ’76, e pensare ai cechi (o meglio, ai Boemi), al loro modo di vivere in una terra occupata, alle ribellioni ed agli ostracismi. Ricordo che fu l’anno di uno dei più tristi fine d’anno da me passati, proprio in quel di Praga, a casa dell’allora amico lettore di italiano, con i miei sodali dell’epoca e con la mia allora fidanzata. Ricordi di un paese bello, ma di tristezza immensa, con un’unica girandola luminosa a segnalare il nuovo anno. E con un dolce fatto di latte cagliato, zucchero e qualche fragola in pezzi. Ecco se mi calo nel mio io d’allora, capisco meglio e bene lo scritto di Milan, la sua rabbia verso il russo oppressore, la rovina del paese, la storia della ragazza che, per aiutarlo, verrà bandita anche lei. Ed anche il muoversi per il paese seguiti da macchine della polizia segreta. Nascondere lettere compromettenti. Cercare lettere d’amore perdute. Ma questa comprensione non riscatta il testo generale. Perché un testo che suoni le mie corde, deve anche rimanere vivo al di là degli anni che passano. E questo non sopravvive, in me, allo scorrere del tempo. Non mi dà nessuna sensazione la lunga digressione sulle vicende di Tamina, del suo amore perduto, dell’isola dei bambini, ed altre metafore che probabilmente non colgo. Non mi coinvolge Mirek ed il suo strano ex-rapporto con Zedna la brutta. Poco mi sembra cogliere nelle vicende del riso legato alla possibile rappresentazione dei “Rinoceronti” di Ionesco (e ricordo ai deboli di memoria, che Ionesco insieme a Borges è stato una delle punte del mio amore giovanile verso la scrittura, che ancora persiste immutato verso di loro). E tutta quella digressione sul rammarico (che questa dovrebbe essere la traduzione di “litost”), con il rapporto tra lo studente e la bella (ma campagnola) Krystina, con lo spaesamento tra la vita in campagna e quella in città, con gli scrittori, le loro idee sulla poesia e sulla vita. Una parte di una pallosità unica, con qualche sprazzo laddove si tenta dell’ironia. Ma subito annegato nel rammarico generale di un qualcosa di incompiuto. Salviamo soltanto quell’accenno all’oblio. Sì, il fatto che qualcuno ha scritto di un tempo altro, che ha ricordato Gottwald e le epurazioni, l’agosto del ’68 ed i carri armati russi, i tristi anni settanta, questo ha un suo senso. Quello di non lasciar cadere quei tempi nell’oblio. Mentre leggo le parole di Kundera rivolte a quegli anni, tornano come bolle le memorie di quei tempi. Non erano nel mio oblio personale, che ora riesco a ripercorrerle in tutti e dieci quegli anni giovanili. Ma forse nell’oblio collettivo sì. Ed allora, senza nessun ricordo del riso, e con la consapevolezza che l’io di allora è sempre l’io mio attuale (con qualche ruga in più e qualche slancio in meno), lasciamo che la memoria ripercorra i tempi e ce li restituisca. Sperando in lettura coeve ma più coinvolgenti.
“Stava con una donna brutta perché non aveva abbastanza coraggio per andare con quelle belle.” (25)
“Il romanzo è frutto dell’umana illusione di poter comprendere il prossimo.” (115)
“Quel che attirò Tamina furono le sue domande. Non per il loro contenuto, ma per il semplice fatto che egli le ponesse. Mio Dio, era talmente tanto tempo che nessuno le domandava niente! … Solo suo marito le faceva incessantemente delle domande, perché l’amore è un continuo interrogare.” (198)
Knut Hamsun “Fame” Adelphi euro 10 (in realtà, scontato a 7,50 euro)
[A: 04/01/2014– I: 18/03/2014 – T: 21/03/2014] - &&&& 
[tit. or.: Sult; ling. or.: norvegese; pagine: 186; anno 1890]
Il recupero di un classico: come scrittore e come scritto. Un libro che per molto tempo è stato nelle mie liste mentali di acquisto, ma che non trovava spazio per più urgenti e presenti letture. Sotto la spenta del mai troppo lodato Curarsi di Otto e Ale, ho deciso di prenderlo, e di leggerlo. È un libro datato, ovvio, visto che, come leggete sopra, è stato scritto quasi 125 anni fa. Ha pur tuttavia una forza espressiva, descrittiva e narrativa non indifferente. Intanto pensiamo allo strano autore, che lo buttò giù di getto a 30 anni. Knut era uomo dai mille mestieri e dai diecimila vagabondaggi. A vent’anni aveva già varcato l’oceano per una lunga permanenza in America. In questo libro riversa molta del suo vissuto giovanile, esaltato dalla scrittura ma intrinsecamente povero, sempre alla ricerca del modo di sbarcare il lunario. Altro dato interessante è la stessa scrittura: prima di Joyce e molto prima di Proust, una sorgente quasi di “flusso di coscienza” che riempie le pagine delle idee, delle azioni soggettive, dei pensieri di questo giovane norvegese, girovagante per le strade e per le case di Christiania (questo il nome di Oslo fino al Novecento inoltrato) in cerca di qualcosa da mangiare e nell’intento di scrivere qualsiasi cosa che possa essere vendibile e sollevarlo dall’indigenza. Il romanzo è tutto lì, concentrato in un ristretto spazio temporale, e scandito da quattro lunghi capitoli, all’interno dei quali il nostro percorre un’altalena, spesso analoga come andamento, ma diversa (ed angosciosa) in ogni passo. Ogni capitolo comincia con questa grande fame, tanto che il libro è grondante di fame dalla prima alla penultima riga (poi vi dirò perché non ultima). E lui gira, pensa, si industria nella scrittura, impegna abiti, cerca conoscenti cui magari ha prestato denaro a sua volta (e non li trova mai), si rivolta contro il Dio che come a Giobbe gli da tante prove da sopportare. Ed ogni volta la discesa verso l’indigenza pura è sempre più forte e sempre con meno speranza di risalita. Tanto che si industria a succhiare pezzi di legno prima, ed anche sassolini poi per placare la fame. Ed intanto, come detto, scrive. E nei primi due capitoli, inaspettatamente, alla fine riesce a vendere un articolo, un brano, qualcosa ad un giornale, che gli viene pagato. E con le cinque corone riesce ad andare avanti un altro po’. Il suo è comunque un girovagare folle, allucinato, fa cose strampalate. Segue una signorina inventandosi storie e storielle. Ed ovviamente quella, pagine dopo, si ricorderà e sembra che si possa innamorare del folle giovane. C’è una timida scena di quasi sesso, che si ferma molto al di qua (si adombra forse la visione di un seno). Ma il giovane, cui la carenza di zuccheri da cibo fa sproloquiare, non può che allontanarsi dalla giovane. Oltre al cibo, costante è anche la ricerca di un riparo per la notte. Quando ha qualche spicciolo riesce ad affittare, anche se per poco, stanze o ripari vari. Al verde, cerca di farsi ospitare. Una notte la passa anche in prigione (con la scusa che ha perso le chiavi di casa). Insomma, inventa di tutto. Ma sempre al di qua della legge. Non ruba mai, anzi quando si trova inaspettatamente dei soldi, li scialacqua subito. Vuoi per concedersi una suntuosa bistecca (ma non avendo mangiato per giorni, il cibo improvviso non potrà che farlo vomitare). Vuoi per dare elemosine, come se fosse un signore. Vuoi per pagare più del dovuto la sua affittacamere, che lo aveva trattato sgarbatamente. E lui, altero, le dà tutti i soldi ricevuti in regalo dalla signorina di cui prima, per poi andarsene via, senza un soldo, senza una casa, senza un cibo sotto i denti. Quando ha due panini, ne regala uno ad un ragazzo che piange. Ma la girandola dei capitoli si fa sempre più difficile, sempre più difficile trovare anche una corona. Che la sua vena di scrittura, l’unica a sorreggerlo, sembra si inaridisca. Per poi terminare (ecco l’ultima riga che non gronda di fame ma di speranze), come nella sua vita di cui scrissi sopra, per imbarcarsi su di una nave, senza un soldo in tasca e senza una meta in testa. Due sono infine i motivi per cui alla fine non riesco a dargli che 4 libricini su 6. Il primo è legato al testo, che alla fine forse diventa appunto ripetitivo con questa ciclicità di alti e bassi. E con l’incapacità del giovane di spezzare il cerchio che lo avvolge. Il secondo è invece di contesto, che poi (ma dovrò approfondirlo) nella sua lunga vita, anche se nel ’20 riceve il Nobel per la letteratura, lo strambo Hamsun si lega al partito nazista, tanto da subire un processo nel ’48 per queste sue simpatie. La materia è controversa, e non c’è spazio (né conoscenza mia) per andare oltre. Ma nella mia testa è un punto nero che non si cancella. Tuttavia devo riconoscere che quando descrive la sua fame, mi fa venire una stretta allo stomaco. D’angoscia.
“Così ero fatto, all’occorrenza pagavo fino all’ultimo centesimo.” (181)
Amos Oz “Non dire notte” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato a 6,80 euro)
[A: 04/10/2013 – I: 31/03/2014 – T: 02/04/2014] - &&&&&
[tit. or.: Al Taghidi Layla; ling. or.: ebraico; pagine: 200; anno 1994]
Un bellissimo libro, triste dalla prima all’ultima pagina. Ecco, se volete un libro triste, credo che questo sia da mettere tra i cinque di testa. Eppur tuttavia, non è un libro triste nel senso che spiace alla lettura, che, appunto, intristendo, ci faccia allontanare. È triste come triste a volte può essere la vita. Ma come la vita è pieno di tanti momenti, di tante sfaccettature. Inoltre Oz, che continuo a sostenere meriti il Nobel, ce lo racconta alternandosi nelle vesti dei due protagonisti della storia: il maturo Theo (non vecchio, ma vissuto, ed estrapolerei dal contesto sia un sessantenne o poco più) e la sua compagna Noa (di una quindicina d’anni più giovane). Il racconto, attraversando alcuni mesi della loro storia, ne ripercorre la genesi, e ne riporta le attuali condizioni, consentendo, nelle due prospettive, di verificare ancora una volta quanto ben espresso nel libro di Barnes (“Il senso di una fine”). La difficoltà di conoscere l’altro, e la diversità di peso che ad una stessa vicenda danno i diversi attori della stessa. Anche qui, come in molti altri libri di Oz, la storia è poca, forse esile, forse solo pretesto. Theo e Noa vivono da qualche anno (sei? sette?) nell’insediamento di Tel Kedar, non lontano da Tel Aviv. La loro è una relazione che si presenta stanca, con tanti momenti di tensione. Theo è disilluso, quasi pauroso della vita, dopo aver dato tanto e passato tanto fino a pochi anni prima. Con quel misto di saggezza e di paura continua a vivere il suo rapporto con Noa. Non bella, forse, ma piena di slanci, che a volte si appoggia troppo a Theo, a volte, per ripicca, se ne allontana per una pretesa di indipendenza. Vediamo quotidianamente, da una parte e dall’altra, tutti i possibili errori che si possono commettere in un rapporto. Theo che ha paura di imporre la sua età come metro di giudizio, la sua esperienza come fonte di saggezza. Noa che ha paura di chiedere aiuto quando ne ha bisogno, e che lo rifiuta quando si avvicina non richiesto. Eppure la loro storia, che ci viene raccontata attraverso i capitoli trasversali, è una storia dell’incontro di due persone destinate ad innamorarsi. Theo, urbanista (e i disegnatori di luoghi sono capitali per Israele ed i suoi insediamenti che, metro dopo metro, conquistano tutti i territori, anche il deserto), di successo, riconosciuto, ma non politicamente sorretto, a seguito di cambi governativi, viene allontanato. E chiede di andare a lavorare in America Latina, dove, scordandosi della patria natia, continua ad avere riconoscimenti, anche se non tangibili, ma di stima, per tutte le situazioni che continua a proporre e realizzare. Ed impara l’andamento lento del popolo latino. E la capacità di ascoltare. Accumulando anche una fortuna, che Israele continua a pagarlo. In un passaggio all’ambasciata israeliana in Venezuela, conosce Noa. Che capita lì dopo tanti rovesci in patria: madre che fugge da giovane e va a vivere in Nuova Zelanda, padre maniaco di cartoline, che si ammala, costretto su di una sedia a rotelle, zia che si prende cura di lei bambina e del padre, ma che è matta come un cavallo. E ad un certo punto, Noa deve prendere in mano le redini della vita familiare, sacrificando se stessa per la famiglia. Muore la zia, muore anche il padre, che tanto bene non stava neanche lui, visto che lascia tutto all’unico parente maschio (un nipote) e niente alla figlia. Noa, delusa e sola, decide di accettare un periodo all’estero, lei insegnante ed amante della letteratura. Ed appunto conosce Theo, di quindici anni più grande. Nasce il grande amore. Theo continua a girare ed a progettare per il Sud America, incontrandosi di tanto in tanto con Noa. Ma sempre più vicini e coinvolti. Ci sono immagini d’amore dolcissime (lui che cura lei ammalata). Noa decide di tornare in patria, chiede a Theo di seguirla. Lo fanno, e si trasferiscono appunto a Tel Kedar. Dove Theo praticamente fa una vita da pensionato, distaccato, tra caffè, scacchi, radio, musica classica, e ricordi. Noa insegna, e viene coinvolta emotivamente dalla morte, forse per droga, di un suo alunno. Il padre vorrebbe istituire un centro di cura per drogati e chiede a Noa, come insegnante cui il figlio voleva bene (ma lei non se n’era mai accorta) di farsi promotrice. Questo avvenimento segna il leit motiv della storia attuale, delle dispute tra detto e non detto di Theo e Noa. Con la presentazione, al contorno, di tutta la fauna di Tel Kedar: la donna sindaco (in gioventù amica di Theo, ed il cui marito è morto in guerra in un’unità operativa comandata dal padre dell’alunno morto), il cinquantenne farfallone (che cerca di scopare, o lo fa, tutte le belle donne del villaggio, facendo una corte stonata anche a Noa, per poi mettersi con la timida Linda), Ludimir (il pensionato contestatore pronto a tutte le cause delle minoranze), Natalia (giovane immigrata russa, lavorante alle pulizie per Theo, e di cui lui si prende cura, trovando nuova vitalità con i di lei parenti e facendo loro trovare un lavoro). Tra un ricordo e l’altro, tra un tentativo di mettere in piedi il centro, con tutti contro, l’acquisto di una casa per lo stesso con i soldi di Theo, il tirarsi indietro del padre, e tanti altri micro avvenimenti, si procede per i mesi della primavera e dell’estate nel villaggio. Ma la potenza di Oz è rappresentarci i continui attriti tra Theo e Noa, ed i momenti, dolcissimi, intensi, dove fanno l’amore, dove si accudiscono, dove siedono vicini sul divino a sentire musica. E tanti altri che vi lascerò scoprire, come vi lascerò il non detto se succede qualcosa o meno per il centro, per la città, per loro due. La bellezza e la tristezza del libro, sono in questa descrizione dell’invecchiamento dell’amore (non tanto delle persone). E questo suo persistere, resistere, risbocciare quando lo avevamo dato per perso. Sarebbe tutto bello se fosse sempre come quando incontriamo il giovane irlandese che per amore di una Daphne gira tutti i kibbutz d’Israele, perché sa che lei lavora in uno, ma non sa come si chiama, ma sa che la ama. Oz capisce (e ci fa capire) che la vita non sono solo questi momenti. Ma sono il dolore al ginocchio, l’indecisione se comperare o no un abito colorato, il bisogno di avere un conforto, la rabbia di averlo ma in modo diverso da come lo si voleva (d’altra parte, Theo usa i suoi modi, ed il suo bello è la capacità di immutarsi nel tempo, a volte anche facendomi arrabbiare come un cane randagio). Oz poi usa il nome Kedar, che è quello di uno dei più oltranzisti insediamenti israeliani in Cisgiordania, come contrappasso, per esaltare (anche se mai in modo diretto) la necessità di una tolleranza globale. Come si rispetta l’arabo, che dopo il felafel sta introducendo anche lo shwarma nella ristorazione locale. Come si rispetta il matto, che va tutti i giorni all’Ufficio postale a chiedere quando arriva il profeta Elia. Ed al funerale del matto, imparo una nuova parola: eulogia. Parlare bene di. Frase derivante dal greco che si usa nei funerali ebraici e cristiani dove si fa l’eulogia del morto. Beh, io vorrei (come si fece per mio padre) non che se ne parlasse bene, ma se ne parlasse con rispetto. Come Oz parla dell’amore di Theo e Noa. E come questo amore tante note ha scatenato nelle mie memorie, vicine e lontane. Tanto che sto scrivendo una trama forse troppo lunga. Qui ci si ferma, invitando a leggere Oz, sia questo che altro. Lessi delle critiche che ne parlavano come troppo lento, quasi stancante. Io non lo trovo certo vivace. Ma trovo coinvolgente il suo modo di porre ed affrontare i problemi. E meglio farlo piano, in questo mondo a volte troppo spesso urlante.
E veniamo allora, come ad ogni inizio mese, alle 19 letture d’aprile (mese di molto riposo dopo le fatiche sudafricane). Iniziato con il bellissimo ed imperdibile Oz di cui ho appena parlato, ma poi proseguito in mediocrità, con alcune punte veramente basse: l’inutile giallo italiano di Veltri, il poco convincente penultimo episodio di Patricia Cornwell e il per me poco leggibile Jodorowsky.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Amos Oz
Non dire notte
Feltrinelli
8
4
2
Helen Simonson
Una passione tranquilla
Pickwick
10,90
3
3
Stefan Zweig
Novella degli scacchi
Einaudi
8,50
3
4
Antonio Skármeta
Il postino di Neruda
Einaudi
9,50
3
5
Michael Connelly
La lista
Piemme
13
3
6
Gianluca Veltri
La dimora del santo
Sole 24 ore – Noir
6,90
1
7
AA.VV.
Ferragosto in giallo
Sellerio
14
2
8
Ugo Mazzotta
Il segreto di Pulcinella
Sole 24 ore – Noir
6,90
3
9
Robert Schneider
Le voci del mondo
Einaudi
10
3
10
Toni Morrison
Amatissima
Pickwick
10,90
3
11
Giorgio Scerbanenco
Dove il sole non sorge mai
Corriere della Sera
6,90
3
12
James M. Cain
Mildred Pierce
Adelphi
12
3
13
Alessandro D’Avenia
Bianca come il latte, rossa come il sangue
Mondadori
13
2
14
Alexander McCall Smith
The Lost Art of Gratitude
Abacus
10
2
15
Arturo Paoli
Cent’anni di fraternità
Chiarelettere
12
3
16
Patricia Cornwell
Letto di ossa
Mondadori
13
1
17
Fabio Bartolomei
Giulia 1300 e altri miracoli
E/O
9,50
3
18
Giorgio Scerbanenco
Europa molto amore
Corriere della Sera
6,90
3
19
Alejandro Jodorowsky
Quando Teresa si arrabbiò con Dio
Feltrinelli
s.p.
1

Quest’anno Avventure ci ha fino ad ora tradito, riuscendo a cancellarmi il terzo viaggio di seguito. Quindi anche il Malawi passa tra le occasioni per ora perdute, ma chissà… Dovremmo aspettare agosto per staccare di più.