domenica 22 luglio 2018

Un luglio ... nero - 22 luglio 2018


Sia perché trattiamo di quattro libri usciti nelle varie collane del “noir” italiano di Repubblica, sia perché da una prima “quasi” sufficienza, i giudizi vanno in calando, sia infine, ma non se parli ora, per tutte le disavventure che questo mese ci sta portando. Rimane di certo una simpatia per Simi che aspetto ad altre prove, una curiosità per possibili riscatti di Ervas, anche se con molti punti interrogativi, ed una sostanziale indifferenza verso altri scritti di D’amaro.
E con una piccola premessa: come spesso dopo viaggi avventurosi, altri si aggiungono a queste mie mail periodiche. Se hanno piacere resteranno, se si stufano, basta dirlo, e rimarranno soltanto nelle mail dei viaggi (da cui nessuno le toglierà mai).
Giampaolo Simi “Cosa resta di noi” Repubblica Italia Noir 28 euro 7,90
[A: 06/12/2016 – I: 08/03/2018 – T: 10/03/2018] - &&&-----
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 236; anno 2015]
Per buona parte della lettura questo libro mi lasciava perplesso. Come storia, poco “noir”, come nelle prime 150 pagine, è interessante, ma non fa scattare molle particolari. L’ultima parte la fa piombare direttamente nelle atmosfere del mitico Scerby, tanto che non sono meravigliato che abbia, per l’appunto, vinto il Premio Scerbanenco 2015. Alla fine, a lettura ultimata, posso dire di essere ancora perplesso. Infatti, la storia in sé è ben divisa in due parti di cui certo la prima fa da traino al lancio della seconda, ma che, a parte l’episodio che la tinge di nero, poteva continuare ad essere una pallida storia d’amore e di corna nella riviera versiliese. Abbiamo il lui, narratore in prima persona, Edo, bagnino tuttofare dei bagni Antaura (stabilimento esistente a Viareggio, ma qui preso solo come “location” dell’azione). Ad un certo punto della sua storia, si innamora, ricambiato, della figlia del padrone, la bella Guia. Più giovane, di bel mondo, tendenzialmente scrittrice, ma anche giornalista, PR, ed altro. Matrimonio d’amore, che naviga bene sull’orlo delle frequentazioni viareggino-romane. Fino a che i due si mettono in testa di avere un figlio. Purtroppo, azoospermia (anche se non totale) e fibromi rendono difficile il processo, motivo per cui i due si imbarcano in lunghe sedute ospedaliere ed altre diavolerie ginecologiche, senza però che si vada avanti di un passo. Ovvio che la coppia entri in una crisi latente, che culmina nella decisione di abbandonare il processo. Contemporaneamente a questa decisione avvengono due fatti importanti: Edo, come direttore dei bagni, decide di avviare una ristrutturazione per la nuova stagione, e Guia termina un libro dedicato alla lotta per avere un figlio. Edo conosce così la responsabile del cotto da posa, Anna, quarantenne “abbastanza…”. Cioè abbastanza simpatica, abbastanza brava, abbastanza avvenente. Si infioretta così un balletto tra il dire e il fare, in cui Edo non fa un passo più lungo di mezza gamba, eppure entra nelle simpatie di Anna. Che ha una storia dura alle spalle, e neanche tanto alle spalle. Si accompagnava con tal Gianni Giorgi in arte Giangi, un comico da strapazzo che imperversa per i lidi toscani come molti comici d’avanspettacolo. Che ha un paio di macchiette interessanti (tipo alcune da Zelig minore), che gli danno un minimo di risonanza. Peccato che sia anche alcolista e manesco. La prima tara lo porta a cadere con un tonfo quando avrebbe potuto avere successo, la seconda lo porta in un rapporto conflittuale con Anna. Che lo lascia, ma che lui non molla, continuando a perseguitarla. Sull’altro versante, il libro di Guia sulla non-nascita del bambino viene cestinato dall’editore, facendo piombare la donna in una depressione profonda: no libro, no bimbi, cosa c’è nella vita? Anche la lontananza tra Edo e Guia non favorisce la distensione ed il ricomporre il loro stato di crisi. Anzi lo esaspera, con Guia che tenta di tutto, imbarcandosi in mille sterili rivoli, ed Edo che invece sembra tirarsene fuori, provato dalle difficoltà della convivenza e senza una reale via di sbocco. Il punto di svolta si ha il 14 febbraio (casualmente San Valentino): ormai esasperato da Guia, Edo cede e scopa con Anna, mentre esce incontra Giangi che sopraggiunge, il giorno dopo Anna è scomparsa. Da qui nasce la seconda parte falsamente noir, anche se come detto con atmosfere alla Scerby. È ovvio, anche se nessuno sembra dirlo, che è stato Giangi. Ma come? Ed il corpo? L’interesse di Simi è invece su altro: le ripercussioni su Edo, quelle su Edo e Guia, quelle sui media (Giangi colpevole o innocente in tutte le trasmissioni TV?). Edo cerca di tirarsi fuori, ma Guia invece si tira e lo tira dentro. Con tutta una serie di note stonate che noi avevamo visto a pagina due, e che Edo vede a pagina 200. C’è tutta la parabola mediatica che sembra interessare Simi: Giangi sulla polvere, poi di nuovo sull’altare, Guia che lo intervista, Giangi che torna sulle scene, Guia che ne diventa l’amante, Edo che si allontana, una scena “finto madre” con faccia a faccia tra Giangi e Edo, l’ultimo spettacolo, irritantemente inutile, di Giangi. Finalmente, e ce n’è voluto, Edo capisce che è meglio andarsene. Non sappiamo dove evolverà la sua vita ora che fa il tuttofare su di uno yacht lontano dalla Versilia. Né diciamo, anche se sappiamo, cosa sarà di Guia, di Giangi, del libro di Guia su Giangi, ed altre vicende in minore. Quello che sappiamo, o pensiamo di sapere, o ipotizziamo, e che nessuno troverà Anna, e nessuno sarà incolpato della morte. Per riuscire in questo finale interessante, Simi ha un bel “coup de theatre”, che è realmente il punto nero forte del libro. Se non avesse avuto questa idea, che sicuramente non vi dico, sarebbe caduto molto in basso. Così diventa un libro strano eppur interessante, palloso nella prima parte, intrigante nel finale. Io finisco con il rimanere ancora perplesso, sulle scelte di Repubblica e sulla scrittura di Simi. Ma ho letto di molto peggio. Quindi va bene così.
Fulvio Ervas “Finché c’è prosecco c’è speranza” Repubblica Italia Noir 24 euro 7,90
[A: 09/11/2016 – I: 11/03/2018 – T: 14/03/2018] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 252; anno 2010]
Quando lessi il titolo per la prima volta provai una immediata simpatia per questo libro. Purtroppo non ricambiata dal libro stesso, ora che l’ho finalmente letto. Non che Ervas non abbia delle frecce al suo arco, ma il libro è il quarto episodio basato sulle gesta di un simpatico ispettore di padre iraniano e madre italica, l’ispettore Stucky. Questo poteva essere un atout, se non che Ervas non ci facilita il compito, facendo finta che noi si sappia tutto dell’ispettore e del suo mondo, partendo in quarta con la storia ed i suoi contorni. Purtroppo noi si sa poco, e solo a fatica riusciamo a districarci nel mondo di Stucky. Dove abbiamo, almeno così ho ricostruito io, una poliziotta veneziana, tal Teresa, che si accompagna con lui, condividendone dei momenti molto, ma molto intimi, uno zio iraniano che vende tappeti, due sorelle, Sandra e Veronica, affiatate nel mettere in difficoltà il nostro, cercando anche di circuirne la virtù (e forse riuscendoci, ma sul fatto cala presto un velo discreto). Dall’altro lato, quello pubblico, abbiamo la Questura di Treviso, con il commissario Leonardi, prossimo alla pensione e che cerca in ogni modo di percorre i sentieri meno impervi, scansando qualsiasi pericolo, soprattutto se le vicende si avvicinano troppo alla politica ed altre “magagne”, e gli appuntati Landrulli, sempre alle calcagna di Stucky e Spreafico, che invece fa da palo per il commissario. Tutto questo mondo pieno di tic e di cose che dovremmo sapere se avessimo letto i primi tre libri. Ma non lo abbiamo fatto, ed il ritmo della lettura ne risente. Secondo elemento che fa mal digerire il piatto, o meglio il bicchiere di prosecco, è quell’intercalare, dopo qualche capitolo, con un paio di pagine in corsivo, dove, mentre si dipana la vicenda, il matto del paese, anche se proprio matto non è, solo forse un po’ rintronato dal troppo bere, tal Isacco, ci narra le vicende di vita di una serie di paesani, tutti morti di cancro. Ora, è pur carina e ben scritta questa specie di “Spoon River trevigiana”, ma a me rompeva anch’essa il ritmo di lettura, facendo perdere il filo, che, anche se non complicato, aveva del suo. Che ovvio tutto gira intorno al prosecco. Dove abbiamo un primo morto, suicida, il conte Ancillotto, grande produttore di bollicine, nonché gaudente imperituro. Vissuto a lungo in Sud America, dove fece amicizia anche con Secondo, l’oste del paese. Poi tornato sui declivi della Valdobbiadene, a fare la bella vita ed a produrre vino. Il conte si suicida al cimitero, con accanto una bottiglia (anzi un “mathusalem”) di champagne. Mentre indaga sul conte, parlando con la domestica Adele, con il prete Don Anselmo (uno che si faceva consegnare tutte le armi fucili e pistole dei vari valligiani, perché amante della pace), con Francesca, una escort con la quale si accompagnava spesso nell’ultimo periodo, avviene il secondo fatto delittuoso: l’ingegner Speggiorin, direttore del cementifico di zona, viene freddato con tre colpi di pistola mentre torna a casa in bicicletta. Pistola che ben presto si scopre essere stata in possesso del conte, e che il conte stesso aveva depositato nelle mani del prete. Tra un bicchiere e l’altro di bollicine, il nostro ispettore scopre altre stranezze del conte: una querelle lunga e senza per ora nessun vincitore, con la Confraternita del Valdobbiadene, sul modo più puro di produrre le bollicine, attraverso lieviti selezionati, ma anche osteggiando l’inquinante cementificio. Un afflato ecologico. Poi l’arrivo dell’erede del conte, una cilena che in patria coltiva anche lei vini, ma che viene nelle terre del conte propugnando bellicosamente di espiantare le vigne per produrre banane. Tra una passata in osteria, una visita di Elena, un battibecco con le sorelle vicine di casa, Stucky accumula domande ma non risposte. Anche questo poi scopriamo, proveniente dai precedenti episodi: l’ispettore in ogni indagine scrive domande su domande in fogli di carta, cui ogni tanto riesce a dare risposte. Formando così due mucchi sul suo tavolo: le domande ancora senza risposte e le domande risolte. Divertente chicca investigativa. Ervas cerca di mettere molta carne al fuoco, cerca di imbrogliare le carte, mettendo in mezzo il conte come malato, Isacco come longa mano del conte stesso, l’ingegnere con amante moglie di un politico di grido (cosa che mette in agitazione il commissario), la scomparsa di Francesca, le mattane dell’erede, la ritrosia di Adele. Ma è tutto un po’ troppo per questo prosecco speranzoso. Di certo Stucky troverà il modo di spiegare tutti i passaggi, ma resta la vicenda un po’ troppo sospesa. Con quel modo di porgere la pagina quasi a voler ammiccare ogni tre capoversi al lettore, con battute, riflessioni, giri vari. Alla fine un prodotto leggerino, scritto da una mano che sa usare le parole, e che a volte fa delle riflessioni anche interessanti (o collegamenti con musiche, libri, odori, piatti e vini). Ma a me ha disturbato troppo la non linearità del romanzo, e quelle pagine in corsivo che poco aggiungono (anche se a volte quel poco serve). Non so, riprendo le righe di partenza: sembrava un prodotto ilare-noir, ma non si sviluppa bene in nessuno dei due sensi. Ed è un peccato.
Fulvio Ervas “Si fa presto a dire Adriatico” Repubblica Agenda Noir 20 euro 7,90
[A: 29/11/2015 – I: 14/03/2018 – T: 16/03/2018] - && 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 267; anno 2013]
Passiamo subito ad un altro Ervas, con gli stessi problemi del primo. Anche perché, se quello era il quarto, questo è il sesto. Ed il nostro pur bravo scrivano non riesce a tenere le fila. Forse si pensa che noi leggiamo tutti i libri in sequenza (e può capitare). Ma se non succede, e ci sono situazioni che ignoriamo, la scorrevolezza del testo ne risente. Per cui, di certo, ritroviamo il buon ispettore Stucky, sempre insidiato benevolmente dalle sorelle di Vicolo Dotti, ma ormai passato dall’invaghimento trevisan-veneziano con la bella Teresa, ad un impegno più duraturo con tal Elena (forse uscita fuori nel quinto ed ignorato episodio), dotata perfino di figlio in odore di ribellione, tal Michelangelo. Per sfuggire agli strali di Sandra e Veronica, il nostro pensa bene di regalarsi una bella villeggiatura (in fondo l’azione si svolge tra fine luglio ed agosto) magari in quel di Croazia. Qui, abbiamo due begli intarsi personali. Il primo riguarda il cane che Stucky decide di adottare, essendone morto il precedente proprietario. Poco ci meraviglia il fatto che tale cane si chiami Argo. Secondo, nell’andar in cerca di luoghi villeggiabili, girando isole e coste croate sulla sua inseparabile moto Morini, e con Argo caricato in uno zaino a spalla (nonostante gli ormai 14 chili di peso…), come non far risuonare corde antiche nel momento di passaggio per l’isola di Hvar. Una vacanza di quarant’anni fa, piena di attese e di promesse (in fondo si era sui 25, e la vita, più o meno, sorrideva lunga e moderatamente felice), con la mia fidanzata d’allora, ma sempre, beh forse direi spesso, con il solido amico Luciano vicino (e con tutte le sue vicissitudini, che essendo sue e non mie ho il dovere di tacere). Stucky, ed Argo, al fine, trovano pur un bel campeggio in rive croate, per di più, come spesso da quelle parti, un campeggio naturista. Sarebbero potute nascere scene pruderose, e quasi ci si poteva imbarcarne in una, laddove Stucky incontra la veterinaria Ajda, che quasi quasi, ma poi, sul più bello, qualcuno cerca di massacrare a bastonate Argo, e Ajda si dedica al cane e non all’uomo. Ma questa è una delle tante storie incastonate nella Storia, come quella di foto di donna nuda inserita nella buca delle lettere, di lettere d’amore scritte sui vagoni ferroviari, di ricerche su Internet e di giochi di ruolo collegati (peccato che siano gialli per ispettori di polizia, si prega di sorridere alla battuta). Che anche qui la storia narrata seguendo l’ispettore, vede, da un certo punto in poi, inserirsi una voce altra, in soggettiva, che racconta vicende varie, che abbiamo di certo prima il sospetto poi la certezza, si intreccino con il resto. Qui, abbiamo tal Ugo Boscolo detto Sele, ex-pescatore di Chioggia, che narra la sua storia in soggettiva. Il fallimento da pescatore quando l’Adriatico comincia a perdere pesci, gli anni da skipper/capitano di yacht da turisti, con una ciurma dei suoi sodali chioggiotti, l’ammirazione per Gabriele D’Annunzio, il passaggio dal turismo all’assalto di barca, soprattutto di turisti danarosi (e russi). Ma come nel precedente, la storia in corsivo mal si amalgama con il resto, ha un respiro, un’andatura narrativa diversa, e questo diverso passo non favorisce la fruibilità del romanzo. Dove invece seguiamo con più agio le avventure di Stucky nel campeggio, la scoperta di un cadavere, l’intervento della polizia croata, corrotta tanto quanto molte polizie al mondo, la fuga del principale sospettato, tra l’altro vecchia conoscenza del nostro, e tutta la serie di avventure “da inchiesta” che dovrebbero far alimentare il lato poliziesco della vicenda. Purtroppo Ervas nel suo modo di narrare, scelta personale e quindi rispettabile anche quando non condivisibile, lascia tutto girare tra l’ironico ed il serio. Stucky vede, capisce, si aggira, utilizza il vecchio contatto di Teresa per avere informazioni, si districa tra tutti i nomi e soprannomi dei lidi veneti. Riuscendo anche ad avere, alla fine, un rapporto discreto con il capo poliziotto croato, molto simile a lui in qualche impostazione, anche se sull’altra sponda dell’Adriatico. Il dramma, che alla fine scopriamo, è che, nelle scorrerie dei Boscolo, oltre ai soldi, erano finiti nelle loro mani carte compromettenti, scatenando una guerra tra bande, con una lunga scia di morti. Non vi vado a scardinare il finale, anche se Stucky avrà il suo momento di “gloria”, ma dovrà tornare verso le natie sponde trevigiane in macchina, essendo anche lui ferito come Argo. Insomma, qualche buono spunto, qualche idea, qualche riciclaggio di situazioni già sentite, senza uno spunto veramente ironico, veramente coinvolgente. Anche se non mi ha convinto fino in fondo, invidio sempre (bonariamente) chi sa maneggiare le parole per pagine e pagine.
“In questura la comparsa di Argo provocò reazioni … caustiche: ‘Argo sembra il nome di un elettrodomestico’.” (13)
Armando D’Amaro “La controbanda” Repubblica Italia Noir 31 euro 7,90
[A: 02/01/2017 – I: 17/05/2018 – T: 19/05/2018] - && -- 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 123; anno 2007]
Veloce ed indolore questo nuovo libro della collana sul Noir italiano di Repubblica, quello che si muove di regione in regione, toccando qui la Liguria. In una storia ambientata tra Genova e Calice Ligure. Che tra l’altro è la città d’origine dell’autore, che mi aveva incuriosito, come potrebbe insegnarmi il mio amico Ennio, con quel nome anagrammatico per aumento del cognome. Ma nonostante qualche premessa esterna al libro (il nome, l’età stessa dell’autore, l’abbondono dell’attività forense per la scrittura, l’opera meritoria dei Fratelli Frilli che da Genova continuano a sfornare piccole perle di lettura) la resa finale è stata molto meno brillante. Intanto perché questa è la seconda storia che ha per protagonista il maresciallo Corradi, e come tutte le seconde storie, l’autore rimando a qualche passo della prima lasciando noi poveri lettori con qualche puntino di sospensione. Certo, dal punto di vista del marketing ha senso, così chi vuole colmare quei puntini va alla ricerca del resto della produzione dell’autore. Noi, che siamo molto antipatici, ribadiamo soltanto la scarsa considerazione che in questi casi si ha del lettore. È anche un libro che scorre veloce, con quel doppio ottavo che ne costituisce l’edizione tipografica (per i più “colti” un “in ottavo” sono un blocco di 16 pagine, il doppio “ottavo in ottavo” sono 8 per 16 cioè 128). Ma scorre senza lasciare segni. Non ci appassioniamo alle vicende del maresciallo, che succhia bastoncini di liquirizia avendo smesso di fumare, ma che quando è nel vivo dell’indagine, non fa altro che chiedere sigarette a destra e manca. Non ci coinvolge Iolanda, che non è la nonna del Corsaro nero, ma una signorina divorziata che chiede al buon Isidoro 8questo il nome del maresciallo) di accompagnarla a Calice per una esumazione dovuta ad una ristrutturazione del cimitero. Avvenimenti che si svolgono i primi di febbraio, in concomitanza con la ricorrenza di un eccidio perpetrato da una banda di Repubblichini di Salò (la cosiddetta “controbanda” del titolo). Qui D’Amaro cerca di far salire il tono del racconto, ingarbugliando un po’ le acque. C’è un fascista della banda che pare sia innamorato di una signorina del posto, c’è un traditore del posto che dovrebbe guidare i fascisti in una azione contro i partigiani ma che si fa male e non può. Ma i fascisti trovano comunque qualcuno che li aiuta. Poi c’è un cadavere in più nella tomba della zia di Iolanda. Chi sarà mai? Il fascista che amava la zia e che tornò 20 anni prima in paese, proprio per il funerale della vegliarda? Il famoso Tarzan scomparso? Dopo qualche indagine cui assistiamo senza partecipazione si scopre che è un fratello della morta, senza nessun interesse per la vicenda. Vicenda che l’autore cerca di condire con un po’ di sesso tra Iolanda ed Isidoro che ci fa piacere per loro ma che anche qui aggiunge poco pathos alla vicenda. Una suspense che si cerca di alimentare con la comparsa di un ragazzo che sembra sapere qualcosa delle vicende di sessanta anni prima, ma che, prima di poterle narrare al maresciallo, viene ucciso. Ora finalmente sembra che ci si cali in una atmosfera da “noir”, ma saranno le poche pagine, sarà che l’autore ha poche frecce al suo arco, veniamo subito alla luce con la scoperta di un anziano che poco esce dai boschi, che fa vita ritirata, ma che nel lungo faccia a faccia con Corradi tira fuori le fila di questo breve romanzo. Era lui il ragazzo che sostituì Tarzan per guidare i fascisti, era lui che cercava nei boschi il tesoro di Tarzan (che i fascisti l’avevano pagato e bene ma che Tarzan nascose e morì prima di goderne). Era lui che con l’aiuto del guardiano del cimitero ritrovò il tesoro. Ma il guardiano voleva darlo agli eredi dei partigiani, motivo per cui il solitario cattivo decide di far fuori anche lui. E quando il giovane Alberto gli prospetta la nuova situazione, con il maresciallo che ha anche lui compreso tutto, il vecchio fa fuori anche Alberto. Nell’incontro finale con Corradi, poi, cerca di uccidere il maresciallo, riuscendo solo a ferirlo gravemente, che le forze buone dell’ordine, su suggerimento di Iolanda, hanno capito ed arrivano in tempo per portarlo all’ospedale. Corradi si salva, D’Amaro scrive altre storie, e probabilmente Iolanda e Isidoro avranno la loro storia. Tutto senza né coinvolgimento né altro. Peccato. Rimangono alcuni accenni dell’entroterra savonese, che mi coinvolgono solo nel ricordo di mia nonna la marchesa Paola Bianca Torriglia di Varazze. Prova deboluccia che non lascia altri segni.
Seconda trama, ed allora anche un piccolo consiglio aggiuntivo dei libri per curare malattie, anche se ad ora servirebbero di più libri per curare traumi.
Benché infine nell'ultima trama abbia stilato anatemi contro la sfortuna, non dico certo che il viaggio scozzese sia stato tutto rose e fiori, tra forature e sparizioni. Ma anche qui, siamo sempre dei ragazzi fortunati, anche perché il mio gruppo di “highlander” è stato fantastico. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

LUGLIO 2018
Bah, le libropeute parlano di cure e malattie; io mi astengo e provo solo a commentare.

PREMESTRUALE, SINDROME

Vi fanno male le gambe. Vi vengono i brividi. Meglio fare piano. Qualcosa di troppo impegnativo potrebbe ridurvi in lacrime. Oggi restate sotto il piumone con la borsa dell’acqua calda e un buon romanzo per ragazze: il miglior analgesico del mondo.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER QUEI CERTI GIORNI
Isabel Allende                “La casa degli spiriti”
Thomas Bernhard           “Perturbamento”
Luciano Bianciardi           “La vita agra”
Truman Capote              “A sangue freddo”
Arthur Conan Doyle         “Uno studio in rosso”
Jeffrey Eugenides           “Le vergini suicide”
Helen Fielding                “Che pasticcio, Bridget Jones”
Yu Hua                          “Cronache di un venditore di sangue”
Anna Maria Ortese          “L’Iguana”
Giovanni Verga              “I Malavoglia”

Bugiardino

A parte Truman Capote, che prima o poi leggerò, e Bridget Jones che riposa sugli scaffali in attesa di aver voglia di leggerne, nel mazzo di questi libri anti-sindrome, solo il cinese e Anna Maria Ortese rimangono fuori dai giochi. Gli altri se ne lesse anche e soprattutto prima di queste scorribande letterarie. Dal Verga compulsato sui banchi del liceo, alla Allende dei primi anni ’90, dagli scarsi ricordi, forse anche annebbiati, di Bianciardi e del duro Bernhard, alle ultime riletture dei primi anni 2000 di Conan Doyle. Rimane il solo Eugenides di cui ne parliamo sotto.
Jeffrey Eugenides “Le vergini suicide” Mondadori euro 10 (in realtà, scontato a 9,50 euro)
[tramato il 26 giugno 2016]
Ho sempre confuso nella mia mente aneuronica questo libro con il sicuramente diverso “Picnic ad Hanging Rock”. Errore a posteriori grossolano, visti i diversi scrittori (Eugenides vs. Joan Lindsay) e la diversa ambientazione (America vs. Australia) e la diversa situazione di fondo (suicidio vs. sparizione). Ma sappiamo che la mente fa brutti scherzi, e solo dopo essere stato convinto dalle mie mentori libresche Ella & Susan, a comprare e leggere questo libro, finalmente ho sciolto la confusione. Anche se non so dire se avrei preferito rimanere nell’ignoranza. Comunque, ora posso anche dire che questo libro di Eugenides, il secondo che leggo da lui scritto, anche se è poi il primo che ha realizzato nella sua non prolifica vita letteraria, non mi è piaciuto particolarmente. Mi è scivolato via, pagina dopo pagina, mentre cercavo di afferrarne il senso ed i modi. Senza riuscire a decifrare bene né gli uni né gli altri. Se infatti “Middlesex”, dopo un inizio a bassa carburazione, era andato avanti scorrendo e risultando alla fine di una normale piacevolezza, queste vergini suicide mi hanno creato non poche difficoltà. E tuttavia, cominciamo con le note positive, o comunque innovative, che questo romanzo di più di venti anni fa portava con sé. Innanzi tutto, la trovata di presentarsi come uno scritto collettivo. In tutto il romanzo l’io narrante diventa un noi narratori, con la sotto-trovata poi di non dire mai chi siano questi noi. Certo capiamo che ne possano far parte Trip, Tim, Chase e David, ma la voce narrante rimane un collettivo che, a distanza di anni dai fatti, ne narra, e, forse, cerca di capirne di più di quanto se capisse al tempo. Secondo ed ultimo elemento la presentazione della vita claustrofobica di un quartiere periferico di Detroit (tra l’altro città natale dell’autore, figlio di un immigrato greco, come si intuisce dal cognome, e che riempie questa periferia di altri immigrati, soprattutto italiani), con le casette che immaginiamo come nei film, a schiera su dei viali con alberi e verde. Casette con garage, con del verde intorno. E pur tuttavia senza nessuna reale interazione tra i vari abitanti. Quasi che ci si guardi come da dentro delle provette di laboratorio, ognuno preso dal suo esperimento di vita, senza poter interagire con le vite altrui. In questo mondo senza molta gioia s’inserisce la vita, e la morte, delle ragazze Lisbon. Sono cinque sorelle, accudite e/o oppresse da un padre insegnante di matematica (che brutta fine) ma soprattutto da una madre bigotta ed inflessibile (inciso, resa benissimo sullo schermo del film diretto da Sofia Coppola, dalla bravissima Kathleen Turner). Una madre incapace (nei pochi interventi che la vedono in primo piano) di accompagnare le cinque figlie nell’adolescenza. Il dramma comincia con il suicidio della più piccola Cecilia, e si conclude un anno dopo con il patto sucida, purtroppo riuscito, delle altre quattro. Cecilia si getta dal secondo piano della casa. E nella ricorrenza del primo anniversario della morte, Bonnie si impicca, Mary mette la testa nel forno, Therese si imbottisce di sonniferi e Lux si uccide con il monossido di carbonio della macchina paterna. Tutto il libro scorre fra queste morti, con la voce narrante che cerca di capire prima i motivi di Cecilia. Che restano misteriosi, e vengono tralasciati per cercare invece di entrare in contatto con le altre sorelle Lisbon. Sorelle che sembrano poter uscire dalla cupa atmosfera materna, finché, ad una festa, Lux si attarda con Trip, fanno l’amore, lei torna a casa tardi, e scoppia di tutto. La madre le reclude in casa, le ritira da scuola, il padre si licenzia. Inizia una corsa verso la dannazione, che i narratori descrivono, che cercano di fermare, senza mai capirne motivi, senza mai trovare il modo di intervenire o di far intervenire qualcuno. Sembra allucinante (e forse lo è) che in un paese “civile” in nome delle libertà personali, nessun servizio civile intervenga nella vita della famiglia Lisbon. Eugenides porta tutto alle estreme conseguenze, come detto. Ma anche lui non spiega, non interpreta. Narra, fa forse trasparire elementi di comprensione, tutto però diluito nella melassa che pervade questa inutile vita americana di provincia. Le ragazze muoiono, i Lisbon spariscono (e poi sapremo che divorziano), i narratori continuano da venti anni a porsi domande senza risposte. Il tutto con una rappresentazione dello squallore quotidiano che rende la vita inutile di essere vissuta. Quasi a dire che forse hanno fatto bene le sorelle a scegliere il momento di andarsene. Insomma, meglio il film, più movimentato, anche se meno straniante del libro. Libro, dove ringraziamo Eugenides di averci fatto dono di uno zeugma[1] dantesco a pagina 93 (“se ne andò indossando il suo turbamento ed il suo cappotto”).
“La vita è una perdita di tempo.” (150)

Conclusioni

Ripeto quanto detto all'inizio, da bravo ometto non parlo di sindromi pre o post mestruali. Ne sapete molto meglio voi. Io non sono convinto della scelta di questo mese, ma vado avanti, come un carabiniere (nei secoli fedele).

[1] Figura retorica che consiste nel far dipendere da un unico predicato due complementi o due costrutti diversi, dei quali uno solo propriamente gli si adatterebbe: per es. “Parlare e lacrimar vedrai insieme” (Dante), dove vedrai si adatta solo a lacrimare e non a parlare.

domenica 1 luglio 2018

Delle buone letture - 01 luglio 2018


Eh sì, una settimana di buone letture, tutte con un discreto taso d’interesse. Libri prestati, libri regalati, ma tutti sulla sufficienza, più o meno piena. Si stacca un po’ verso l’alto il buon vecchio Romain Gary, ma devo dire che tutti meritano una lettura. Con qualche punta di curiosità per il me poco noto Foenkinos.
Romain Gary “Educazione europea” Neri Pozza s.p. (Natalino di Nicoletta)
[A: 25/12/2017 – I: 14/01/2018 – T: 16/01/2018] - &&& +
[tit. or.: Éducation européenne; ling. or.: francese; pagine: 271; anno 1945]
Inizio tributando un doveroso omaggio alla mia amica Nico che, amando solo i classici, riesce a farmi recuperare qualche buona lettura nel corso del tempo. Come questa di Romain Gary, scrittore che neri Pozza sta riproponendo alla grande negli ultimi anni e che io mi ero sempre ripromesso di affrontare, prima o poi. Infatti, mi incuriosiva questa sora di avventuriero delle arti e delle lettere, nato con il nome di Roman Kacew a Vilnius in Lituania nel 1914, divenuto poi polacco, russo, emigrato in Francia a 14 anni, naturalizzato francese a 24, aviatore, eroe della resistenza con De Gaulle, diplomatico, regista, uomo di cultura, amante di belle donne, e sempre scrittore, almeno dal 1945 in poi, anno di questo suo primo romanzo, nel quale cambia il proprio cognome in Gary (derivato dall’imperativo russo “brucia!”). Ne avevo letto, ma solo per vie traverse, la storia tormentata del suo amore con Jean Seberg, la bellissima attrice americana, che le persecuzioni dell’FBI portarono anni dopo alla depressione ed al suicidio. Storia tormentata, che Romain la sposa, ha un figlio (vivente, cinquantenne libraio in Barcellona), poi divorzio dopo aver scoperto un flirt di Jean con Clint Eastwood. Ma queste sono altre storie, che, per chiudere con la biografia, servono solo a notare che al fine, a 66 anni, sentendosi invecchiare ed incapacitato a produrre nuove cose, Romain Gary si suicida a Parigi. Ma qui dobbiamo tornare, e torniamo a questo suo libro d’esordio, che l’autore scrive durante la guerra, nelle pause tra una missione e l’altra, e che rifinisce e pubblica al termine della guerra stessa. Primo libro di una persona già matura e piena di esperienze, primo libro a tesi (e questo un po’ ne forza alcune parti), sicuramente comunque uno dei migliori libri che abbia letto sulla resistenza (quella attiva, da “Il partigiano Johnny” di Fenoglio a “Il sentiero dei nidi di ragno” di Calvino). Resistenza nella terra natale di Gary, tra lituani, ucraini e polacchi, vista e seguita attraverso la vicenda di Janek, giovane quattordicenne, dall’ottobre del ’42 al febbraio del ’43, con un’appendice da “fine guerra o quasi”. Janek si rifugia in una “kryjówka”, nascondiglio scavato nel terreno (antesignano dei tunnel vietnamiti) per sfuggire ai tedeschi che imperversano nella zona. Che gli hanno ucciso i fratelli, che rapiranno le donne del paese, tra cui la madre, per farne esca per i partigiani e sollazzo per le truppe d’occupazione, e dove il padre, in un tentativo suicida di salvare la moglie, uccide soldati nemici e muore. Janek vivacchia un po’ con la scorta di patate (uno degli elementi base del mangiare povero della zona, e che tornerà a più riprese per salvare o condannare persone), ma alla fine deve uscire. Si mette alla ricerca dei partigiani e si aggrega ad una compagnia di irregolari, chiamati “verdi”. Con i suoi occhi ancora innocenti, seguiamo le azioni dei partigiani, che muoiono di stenti o di tubercolosi, che muoiono traditi, che muoiono in azioni di guerra, che muoiono per errore o per eroismo. Gary ben descrive il sentimento unitario di lotta che comunque accomuna le varie anime individuali dei partigiani del gruppo di Janek. Difficile ricordarne i nomi, troppo slavi per la mia memoria, non difficile ricordarne le personalità. I fratelli che cercano obiettivi da colpire, il malato di tubercolosi con amante pianista, l’avvocato anziano che si è unito alla lotta per “farsi bello” rispetto alla molto più giovane moglie, il vecchio ciabattino che ha un figlio divenuto generale nell’Armata Rossa, e tanti altri, ma soprattutto Dobranski, lo studente letterato, un po’ alter-ego di Gary, che cerca di sollevare il morale dei partigiani improvvisando brevi racconti morali. Che sono spesso allegorie per i partigiani che lottano. Purtroppo, per me e per la linearità del romanzo, sono anche intarsi che non sempre si incastrano alla perfezione nella trama. Infine compare anche Zosia, coetanea di Janek, che si prostituisce ai tedeschi per carpirne informazioni utili alla Resistenza. Bello il loro incontro, la redenzione reciproca che ne scaturisce, l’amore che sboccia (e che porterà alla fine del libro alla nascita del loro bambino, simbolo della futura Europa). Janek capirà l’importanza, per lui, della musica, ascoltando polacche di Chopin, o il violino di un giovane ebreo. Janek dovrà passare per le forche caudine delle uccisioni dei nemici. Che dopo aver passato tutti i primi tempi come staffetta, nel finale sarà impegnato in prima persona. Vedrà uccidere, ucciderà, e dovrà risorgere come fenice da questi dolori. Perché, come dice ad un certo punto Dobranski, questa che stanno vivendo è una educazione europea, dove le cose importanti non moriranno mai. Moriranno gli uomini, non le idee. Gary, pur condannando senza riserve il nazismo e tutti i suoi seguaci, volenti o nolenti, fa capire che ci sono comunque ampie zone grigie nella vita di ognuno. Non potrà mai cessare (e sono in totale accordo) l’odio per chi ha commesso crimini indicibili, utilizzando tutte le pieghe dell’animo umano per distruggere, sterminare, soperchiare. Ma c’è anche la pietà. Nel furore della guerra, Gary non può tirarsi indietro, non può ammettere pietismi. L’Europa potrà nascere solo distruggendo questo male alla radice. Ma il bello c’è e sempre in ogni cosa. Ce lo fa vedere nella foresta coperta di neve, nel piano suonato magistralmente dal nemico, nelle patate fredde mangiate per non morire. Scrittura compatta, vigorosa, che incita. Autore da considerare meglio, che qui, pur positivo, poteva crescere molto. A volte l’intreccio è debole, ma le parole rimangono. Come rimane il volto di Janek, perso sulle scale, ad ascoltare un pianoforte suonare.
Philipp Meyer “Il figlio” Einaudi s.p. (prestito di Alessandra)
[A: 10/10/2015– I: 10/02/2018 – T: 17/02/2018] - &&& --
[tit. or.: The Son; ling. or.: inglese; pagine: 546; anno 2013]
Un libro che Alessandra non ha gradito molto, e che mi ha girato qualche tempo fa. Ho messo molto tempo anche io per capire se mi interessava, ed ecco che, letto, mi sembra meno peggio di quello che pensavo. Certo, alla fine pensavo fosse più concludente, invece di rimanere sospeso nel limbo delle storie interessanti ma non compiute. L’autore, come ho letto su qualche critica, aveva in mente di fare un romanzo corale, a moltissime voci, per raccontarci un’epopea americana. Impresa parzialmente riuscita, tanto che, all’inizio, stavo quasi per mettere il libro tra i romanzi d’avventura. Poi, in questa resa finale, ha ridotto le voci essenzialmente a tre, e da questi tre contraltari, ognuno con le sue particolarità, esce sì un po’ di epopea americana, ma, forse, e meglio, esce la storia di una “tipica” famiglia americana, delle sue origini, dei suoi personaggi, e di come si sia evoluta la stessa percezione americana di sé stessi tra l’inizio dell’Ottocento fino ai giorni nostri. Devo comunque dire che mi rimane un tantino misterioso il titolo, questo “figlio” che si dovrebbe adattare a chi. A Peter, figlio di Eli? A Jeanne nipote di Peter e figlia di Charles (ma allora perché al maschile)? A Ulysses figlio di un figlio di non si sa chi? O allo stesso Eli, figlio sì di Armstrong, ma soprattutto figlio del suo tempo e della sua storia? Rinunciando a decifrare questo mistero, Meyer, in queste lunghe 500 pagine, ci presenta la storia e l’epopea della famiglia McCullough, immigrata in America alla fine del Settecento, e di cui seguiamo tre voci tipiche. Quella di Eli, il più integrato alla terra stessa, nato nel 1836 e morto a cento anni nel 1936. Quella di Peter il meno integrato, nato nel 1870 e morto probabilmente negli anni Quaranta. Quella di Jeanne Anne, detta J.A., la voce femminile, che riposiziona la famiglia in un solco da cui stava dirazzando, nata nel 1926 ed ancora viva agli inizi degli anni 2000. La parte che mi ha più preso è l’infanzia di Eli, quando dodicenne viene rapito dai Comanche, e ci viene narrata tutta la sua iniziazione indiana. Con occhio attento alle faide tra le diverse tribù, tra indiani e messicani, e anche, ma solo in modo marginale, tra indiani e bianchi. Dicevo questa la parte migliore, in cui vediamo nascere la coscienza di Eli verso la natura e verso la sua terra. Certo Meyer non dimentica che l’uomo è molteplice e sfaccettato e quando Eli, per una lunga serie di circostanze torna a vivere tra la “sua” gente, in lui rimangono sì le abitudini indiane, ma vengono esaltate le qualità poco onorevoli verso i non locali, messicani in particolare. Fino allo sterminio, da lui guidato, verso la famiglia Garcia, di certo non stinchi di santo. Ma le scene sono truculente abbastanza per ricordarci che siamo sempre in zone di frontiera. Dalla strage si salverà solo la piccola Maria. Meno coinvolgente tutta la prima parte dei diari di Peter, con il suo sentirsi diverso dal padre Eli, dai suoi rimorsi verso i Garcia, dal suo estraniarsi dal mondo McCullough, dalla moglie, dai figli. Fino a ritrovare sé stesso solo ritrovando Maria, e fuggendo con lei (ma attraverso momenti assai complicati) in Messico e dando vita al loro ramo messicano, quella da cui nelle ultime pagine sbucherà il giovane Ulysses. Infine, tipica per lo svolgimento, ma quella che veramente non saprei collocare in nessun senso positiva, la lunga storia di J.A. Forse darà al solito perché difficile rendere da uomo l’animo femminile, J.A. colpisce solo perché diventerà una donna con i pantaloni, che dovrà reggere l’ultimo impatto con l’impero. Perché già Eli nell’ultima parte della sua vita, e poi il fratello di Peter, Phineas, costruiscono il loro impero sul petrolio. Meyer fa anche alcune citazioni dotte, come al film “Il Gigante”, l’ultimo interpretato da James Dean. Ma questa è altra storia, J.A. consolida il suo impero, si sposa, fa dei figli che saranno sbandati per sempre (potenza del denaro), diventa vedova, vive una lunga storia d’amore. Per ritrovarsi ottantenne, sulla soglia di una doverosa fine di vita, con tutti i dubbi sull’aver sprecato tutta la vita inseguendo valori cui, forse, non crede più. Ma sottolineo forse, che poi, tutti i McCullough (forse eccetto Peter) rimangono legati alle leggi morali e legate alla natura tramandate da Eli, che rimane per tutti, sempre meno Peter, il faro (nel bene e nel male) di tutta la storia. Ma se la prima parte avvince e convince, dalla metà in poi si trascina. Meyer vuole mostrarci i guasti della società attuale e come hanno radici nel turbolento passato americano. Ma non riesce nel suo intento. Cioè si capisce, ma solo perché si conosce l’America, ciò che è e ciò che fa, da sempre. Non cito il solito Donald, ma mi avete capito. Poteva nascere una storia da “Pastorale americana” che legasse alle vicende della terra quanto lì si nasconde nei meandri dell’Est. Non è nata. Esce solo un discreto prodotto, che poteva essere qualcosa in più. E non lo è stato.
Alexander McCall Smith “Amori in viaggio” TEA euro 9 (in realtà scontato a 6,75 euro)
[A: 15/11/2016 – I: 29/03/2018 – T: 01/04/2018] - &&&--  
[tit. or.: Trains and Lovers; ling. or.: inglese; pagine: 213; anno 2012]
Come molti sanno, sono da sempre un estimatore della scrittura tranquilla e delle atmosfere scozzesi di McCall Smith. Tanto che seguo alcune sue scritture seriali da molti anni. Non quella che persegue da più tempo, relativa ad una improbabile signora detective nel Botswana, ma quelle ambientate in Scozia: la casa di Scotland Street n° 44 ed il Club dei Filosofi Dilettanti, sempre pieno di interessanti questioni comportamentali. Qui, senza un vero perché invece, siamo in una situazione anomale: un libro senza serialità, in cui nulla succede realmente. Mi aveva attirato il titolo, che quando si parla di viaggi, io ho veramente poca resistenza. Purtroppo il titolo italiano è leggermente fuorviante, che l’originale riporta “Treni e Amanti”, che, forse, confesso mi avrebbe attirato ugualmente, ma chissà. Certo il ricordo sopito del mio lungo amore giovanile in treno diciottenne da Siviglia a Madrid con la tedesca Monika si sarebbe svegliato, anche se solo io ed il mio amico Andrea ce ne ricordiamo (non credo Monika che sparì alla stazione di Madrid e non fu più rivista). Per venire al testo, ricordo sempre che, se volete rodare il vostro inglese questo è l’autore giusto: scrive in modo tranquillo, senza troppi fronzoli, in un inglese facile ma non banale. Io, nonostante le insistenze della mia amica Chiara, continuo a leggerlo in italiano. Quindi, di conseguenza, a trovarlo molto essenziale. Infatti, qui, come accennavo prima, non succede granché. Abbiamo uno scompartimento di un treno che sta viaggiando nella campagna inglese. Quattro passeggeri che non si conoscono. Due giovani, i più o meno trentenni Hugh e Andrew. Il più che maturo David. La cinquantenne, credo, Kay. Come tutti gli sconosciuti, ma di buone maniere, si parla di tutto e di niente. Fino a che Andrew, spinta da una sua urgenza personale, comincia a parlare dei suoi problemi di cuore. Della sua passione per l’arte, dell’incontro con la ricca Hermione in una casa d’aste. Lo scontro con il padre di lei, che lo vede povero e cacciatore di doti. Il suo successo in una difficile expertise. Fino alla nemesi con il padre di Hermione ed al definitivo (ma forse momentaneo) momento di felicità. Non vi dico la natura della nemesi, che poco entra nel discorso. Stimolato da Andrew, anche Hugh racconta la sua storia, l’incontro casuale con la bella Jenny, la nascita (anzi lo scoppio di un amore). Ma Hugh non sa chi sia Jenny, che cela nel passaporto e nelle frequentazioni misteri che potrebbero essere inquietanti. Una donna scomparsa, una vecchia fiamma che ha paura di essere uccisa. Sarà così? Sarà vero? La solita bravura dell’autore è poi nello smontare il castello appena costruito, per farlo vedere nel suo aspetto innocente. Con l’esortazione: dobbiamo fidarci degli altri. Anche Kay, a questo punto, racconta la sua storia, anzi la storia dei suoi genitori. Il padre emigrante dalla Scozia in Australia, i mille lavori, il rintanarsi in una sperduta stazione di treno al centro dell’Australia, nel famoso “outback” (quell’area semi-desertica e remotamente interna del continente australiano). Là dove, ad un certo punto, dopo un lungo scambio epistolare, decide di portare quella che è diventata sua moglie. Là dove nascerà Kay. E ci saranno altre storie. Ma quello che interessa è proprio quello sguardo d’amore che i due genitori continuano a scambiarsi per tutta la vita. L’unico che non parla di sé, ma che pensa e ci comunica i pensieri, è David. Che il suo amore, la sua passione, era rivolta verso, quando diciottenni, al suo amico spensierato Bruce. Una pulsione omosessuale che nessuno dei due vive, ma che si intuisce passa in entrambe le loro teste. Certo, l’autore sembra avere del pudore, ma piace poco che questo amore debba essere silenziato. Ci si rende conto poi che David e Bruce si sposeranno e vivranno altre vite. Ma cosa sarebbe successo se…? Ecco, sono nate quattro storie, le abbiamo seguite, ci hanno dato qualche spunto. Ma niente di veramente esaltante o coinvolgente. Un buon compito, da primo della classe che non ha voglia di spremersi troppo. Spero di tornare alle sue serie che più mi piacevano. Un’ultima tirata d’orecchie: che senso ha quel sottotitolo ammiccante e fuorviante “gli imprevedibili percorsi del cuore”?!! Che rottura gli editor italiani.
“Mio padre … è morto … e mi manca. Non pensavo che avrei provato questa sensazione. Tendiamo a dare i genitori pe scontati.” (16) [vale ugualmente per qualsiasi genitore]
“C’è una canzone, non mi ricordo di chi, che chiede se esiste l’amore a prima vista e risponde che sì, è sempre a prima vista.” (29) [ahi, ahi, ahi, Alexander, è “With a little help of my friends” dei Beatles]
“L’amore ci fa sembrare straordinario ciò che è più normale.” (39)
“Gli esseri umani potevano sforzarsi di comprendere … ma non tutti erano in grado di compiere quel balzo d’immaginazione che consentiva di vedere le cose dal punto di vista dell’altro … per il semplice fatto che era appunto altro. Io sono io e tu sei tu. (73)
“Non posso fornirvi risposte. Ma posso insegnarvi a fare domande.” (184)
David Foenkinos “Il mistero Henri Pick” Mondadori s.p. (prestito di Alessandra)
[A: 01/05/2018 – I: 01/05/2018 – T: 03/05/2018] - &&&
[tit. or.: Le mystère Henri Pick; ling. or.: francese; pagine: 243; anno 2016]
Un altro libro entrato velocemente ed altrettanto velocemente letto. Era un natalino fatto ad Ale, ma in quel di Varanasi, costretto anche io inopinatamente, ad un giorno di riposo, ed avendo esaurito i libri da me portati in India, me l’ha prestato. Ed io l’ho voracemente letto, nulla sapendo dell’autore né del libro stesso. Una delle migliori situazioni per affrontare una lettura. Qualcosa cambiava sapendo che Foenkinos è considerato uno dei migliori scrittori quarantenni francesi? Che ha vinto dei premi? Che ha scritto alcuni libri considerati tra i migliori campioni di vendita in Francia (“Les Cœurs autonomes”, “La Délicatesse” e “Charlotte”)? Poco sarebbe cambiato, che il libro prende, con uno spunto interessante e coinvolgente. E con uno sviluppo sostenuto dalla buona scrittura. Probabilmente troppo facile lo scioglimento del “cosiddetto” mistero di Henri Pick, ma ci sta. Come ci sta la capacità dell’autore di intrecciare vite e storie diverse, prima di prendere il binario veloce della storia principale. L’idea di base, riprende un concetto espresso nel libro “L’aborto. Una storia romantica” di Richard Brautigan, estremizzandone lo spirito. Lì, il narratore mette su una biblioteca di tutti i libri che qualcuno vuole portargli. Qui, Jean-Pierre, nell’ambito della libreria comunale che gestisce, impianta una sezione “di libri non pubblicati o rifiutati”, dove accetta tutti i libri che sono stati respinti da editori vari, purché l’autore glieli porti di persona. Una libreria affascinante e di nicchia, che ha dei momenti di gloria, soprattutto negli ultimi anni di vita di Jean-Pierre, per merito della sua aiutante Magali che spinge tutto il piccolo paese di Crozon a scrivere qualcosa. Il fascino di Jean-Pierre e di Crozon, deriva anche dal fatto che non solo siamo in Bretagna, terra aspra e fascinosa, ma per di più nel dipartimento di “Finistère” (cosa di più affascinante che portare un libro rifiutato fino alla “fine della terra”?). Su questo incipit si installa l’altra storia, quella di Delphine e di Frédéric. Lei editor presso Grasset, autrice di alcune scoperte letterarie di successo. Lui autore del cui libro primo lei si innamora, che lancia ma che risulta un fiasco. Assistiamo alle loro schermaglie, fino a quando non decidono di passare le vacanze dai genitori di lei. Dove? Ovviamente a Crozon. Qui sentono parlare della biblioteca, vanno a trovare Magali, e si immergono nella lettura (d’altra parte lei lavora con i libri). Fino a trovare un manoscritto che reputano “imperdibile”. Si tratta de “Le ultime ora di una storia d’amore” firmato Henri Pick. Qui comincia la storia vera e propria. Che il libro è giudicato da tutti fantastico, con il suo intreccio tra una storia d’amore che volge alla fine con la vita di Aleksandr Puškin. Ma c’è il mistero riguardante l’autore. Che Henri Pick era un cittadino di Crozon, morto da non molto, ma soprattutto era un fornaio, o meglio, un ristoratore che faceva pizze. Qui si esalta la capacità dell’autore di intrecciare storie. C’è infatti quella della famiglia Pick, la moglie Madeleine e la figlia Josephine, antipatica all’inizio poi solo sfortunata. Dell’ex-marito della figlia di Pick. E di tutti i raggiri che si fanno intorno alla figura di Pick stesso. Fino al lancio del libro, al suo successo. Ed alla comparsa di Rouche, un altro figuro dell’editoria, che però, come un Bernard Pivot sfortunato, è ormai emarginato dall’ambiente stesso. Cercando inutilmente di sollevarsi per trovare “il vero autore del libro”. Queste sono le parti migliori, gli intarsi, le piccole storie, Rouche e la sua vita. I dubbi di Frédéric, la voglia di strafare di Delphine, l’umanità di Madeleine, della redenzione di Josephine, forse proprio con Rouche. Capiamo anche presto che Henri non poteva essere l’autore del libro, ed alla fine se ne avranno le prove. Ed allora chi? Forse lo stesso Jean-Pierre prima di morire? O Magali in un sussulto d’amore per Jean-Pierre? O qualcun altro, magari insospettabile? Certo che, come dimostra l’autore, molte vite sarebbero travolte dalla scoperta di un autore “diverso” da Pick. Forse meglio lasciare andare tutto così, come d’altra parte è giusto per un libro trovato nella biblioteca dei libri rifiutati. Quindi, anche se poi nel finale Foenkinos ci svela il mistero, noi lo lasciamo a voi saggi lettori. Per una lettura gradevole, a volte anche stimolante, mai troppo scontata. Stimolante, perché, se non li avete letti, vi consiglio di tornate ai libri di Brautigan, soprattutto “American Dust”, perché la “Pesca alla trota in America” è forse un po’ troppo sperimentale (anche se interessante).
“Che idiozia … fare il furbo con frasi pompose e stroncature senza appello. Non rinnegava le sue opinioni, ma il modo in cui le aveva espresse… Era costantemente in ritardo sulla versione migliore di sé stesso.” (181)
Prima uscita di luglio, con 16 libri in lettura ad aprile, il cui alto numero è dovuto agli agili ma non particolarmente coinvolgenti librini della serie “Unwired”, che si beccano gli unici due “1” del mese. Portato invece verso l’alto dal solito Maigret e dall’ultimo libro della serie Asterix.

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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Alexander McCall Smith
Amori in viaggio
TEA
9
2
2
Georges Simenon
I Maigret – 11
Adelphi
s.p.
4
3
Beatrice Corradini
Io sono pioggia
Centauria
9,90
3
4
Jean-Yves Ferri & Didier Conrad
Asterix e la corsa d’Italia
Panini
12,90
4
5
Olivier Truc
Lo stretto del lupo
Corriere della Sera Svezia
7,90
3
6
Martin Suter
Allmen e le dalie
Corriere della Sera Arte
7,90
2
7
Antonio Manzini
Cinque indagini romane per Rocco Schiavone
Sellerio
14
2
8
Nancy Mitford
L’amore in un clima freddo
Adelphi
12
2
9
Anna Grue
Il bacio del traditore
Corriere della Sera Svezia
7,90
3
10
Federico Pace
Controvento
Einaudi
14
3
11
Wilbur Smith
Il destino del leone
Longanesi
s.p.
3
12
Dino Buzzati
Un amore
Mondadori
s.p.
2
13
Personalità Confusa
Storia completa del tuo futuro
Unwired
s.p.
2
14
Hotel Messico
Seppellitemi con l’accappatoio
Unwired
s.p.
1
15
Marquant
Zitti al cinema
Unwired
s.p.
2
16
Spad
Convivo con la metà di me stesso (il resto l’ho affittato a un pirla)
Unwired
s.p.
1
Non entro nel merito di tutte le sfortune che ci stanno capitando in questi giorni. Note ai più, giustamente ignorate, perché non si vuole cedere alla sfortuna. Noi tutti saremo sempre più forti. Per questo continuo ad abbracciarvi