domenica 26 dicembre 2021

Selleriana - 26 dicembre 2021

Finiamo quest’anno mirabile con una piccola abbuffata della casa editrice Sellerio. Uno dei must della mia biblioteca, che conta più di 200 titoli dalla copertina azzurro scuro. Con alcuni punti fermi, come in questo caso, dove incontriamo lo Schiavone di Manzini, i vecchietti del BarLume di Manzini nonché il non poco sfruttato ma da me molto amato Vincenzo Corso di Fabio Stassi. Dove il buon Fabio surclassa gli altri, che comunque sono sempre su livelli più che dignitosi.

Fabio Stassi “La lettrice scomparsa” Sellerio euro 14

[A: 05/06/2018 – I: 10/04/2021 – T: 11/04/2021] &&&& 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 273; anno: 2016]

Seppur di non grande produzione, trovo sempre interessanti gli scritti di Fabio Stassi, sia quando scrive romanzi che quando cura l’edizione italiana di uno dei libri fondamentali delle mie ricerche letterarie. Quel “Curarsi con i libri – Rimedi letterari per ogni malanno”. Non so se sull’input di quel lavoro, oppure in modo parallelo, Fabio ha poi sviluppato alcune narrative intorno alla figura di un biblioterapeuta.

Lo avevo incontrato in un racconto delle tante antologie di Sellerio, ed ecco che qui invece si erge a protagonista di un romanzo intero. Non è sempre riuscito, ci sono passi che sembrano più insiemi di racconti cuciti sapientemente insieme. Tuttavia, il tema di fondo, l’idea originale c’è, ed è portata avanti con maestria. Soprattutto, sono incantato dal modo in cui l’autore riesce a parlare dei libri. Si sente un rapporto d’amore grandissimo, e che viene da lontano.

Penso sinceramente che Fabio sia un “robusto” lettore, e che, forse, alcune delle manie che riversa sul suo protagonista vengano, di necessità dalla sua esperienza personale. Prendere appunti durante la lettura, immaginarsi le biografie dei personaggi letterari che si incontrano, tratteggiare ipotesi di sollievo a fronte di letture, non può essere casuale. Anche il tratto psicologico che alterna letture omeopatiche a letture “antibiotiche” è degno di nota. Ci sono letture che solcano gli stessi mari dei nostri dolori, fornendoci una piccola dose di veleno quotidiana. E ci sono letture opposte, che veleggiano in alto mare, su oceani procellosi e che ci fanno vedere il contraltare delle nostre fobie, delle nostre paure, delle nostre insicurezze.

Per venire allo scritto, seguiamo probabilmente la genesi del personaggio di Vincenzo Corso, detto Vince (senza accento). Figlio di madre single, di umili origini, ma di appassionate letture, cresce tra le donne delle pulizie degli alberghi della Costa Azzurra, poi un’adolescenza a Genova, ed una maturità alla Sapienza di Roma con laurea in Lettere Moderne. Qualche supplenza poco gratificante, quindi il grande salto: aprire uno studio di “rigenerazione esistenziale”, che fortunatamente ribattezza in finale “biblioterapia”. Lì riceve i pazienti, generalmente donne, che gli sottopongono i loro problemi personali, ed a cui Vince suggerisce letture appropriate.

Il percorso è lungo e difficile, che suggerire una lettura implica un moto simultaneo del terapeuta e del paziente verso una ipotesi di cura attraverso le lettere. E non sempre questo moto d’incontro è facile, o avviene con il dovuto rispetto reciproco. Durante il romanzo, a parte il nucleo centrale su cui torniamo, ci sono, come accennavo, una serie di incontri che si risolvono quasi in mini-racconti dove esploriamo mondi e modi di essere ed apprezziamo, cercando di capirne il nesso, le spinte alla lettura che Vince propone.

Tanto per fare esempi presi qua e là, vediamo i suggerimenti del tipo “Festa mobile” di Hemingway per curare capigliatura indomabili, “Sangue negli occhi” di Lina Meruane per non farsi vincere dai sensi di colpa, “La vita davanti a sé” di Romain Gary per curare l’alcoolismo o “La cena degli addii” di Ito Ogawa per riuscire ad ingrassare.

Il corpo centrale, quello del titolo, è il “giallo” cui si associa la trama. Scompare una vicina di casa, forse uccisa dal marito (cfr. “La finestra sul cortile” di Hitchcock) o forse solo scomparsa, benché sembra probabile sia suo un corpo ritrovato nel Tevere.

Vince ha dei forti sospetti su cosa possa essere avvenuto, sulla dinamica dei fatti. Aiutato da Emiliano, l’amico libraio, utilizzando una lista di libri che la signora Parodi aveva in corso di lettura, nonché frequentando l’emeroteca della Biblioteca Nazionale con la sua amica Marta, Vince trova il bandolo della matassa.

Scoprendo il legame che unisce la scomparsa della signora Parodi ai seguenti sei libri (i romanzi “In terra ostile” di Philip K. Dick, “Post Office” di Charles Bukowski, “A ovest di Roma” di John Fante, “Una cosa divertente che non farò mai più” di David Foster Wallace, ed i racconti  “Wakefield” da “Wakefield ed altri racconti” di Nathaniel Hawthorne e “La moglie fedele” da “Aprile è arrivato” di Morley Callaghan) risolve il mistero, spiegandolo in finale nei suoi più nascosti particolari. Se non li conoscete, cercate soprattutto di leggere Hawthorne, è fantastico.

Per inciso, mi ha anche colpito il fatto che poco dopo aver letto di Philippe Petit nel libri di Colum McCann (“Questo bacio vada al mondo intero”) ne ritrovo una citazione a pagina 188.

Sarà che amo anch’io i libri, saranno i mille spunti che mi dà Stassi, l’ho trovata una lettura che mi ha preso cervello e cuore come non succedeva da molto in queste mie letture. Anche per la sua ambientazione romana: Vince abita in via Merulana, si aggira per Piazza Vittorio, va a San Lorenzo attraversando il tunnel sotto la ferrovia. Insomma, c’è un senso di casa forte.

Ultimo inciso: ho letto il 40% dei libri citati da Stassi. Non male.

“Per i libri ho sempre avuto buona memoria. Mi ricordo la dimensione, il colore delle copertine, i caratteri della costa.” (73)

“Andare a spasso per Roma … ha questo di diverso: ti aspetti sempre, da un momento all’altro, di incontrare qualcuno, ma non accade mai.” (117)

“Salii sul soppalco, a mangiare una tavoletta di cioccolata fondente e a leggere.” (192) [due su tre identici; bravo Vince]

“Non c’è niente di più vero del teatro. Per questo recitare è così difficile: non è fingere. La voce del personaggio diventa la tua voce.” (251)

Antonio Manzini “Vecchie conoscenze” Sellerio euro 15

[A: 15/06/2021 – I: 21/06/2021 – T: 23/06/2021] &&& + 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 407; anno: 2021]

Mi era sfuggito, e ringrazio le “mattine” di Radio Capital che ne hanno parlato (insieme ad un’intervista a Luca Crovi che sicuramente riprenderemo in altra sede per parlare del “giallo italiano”). Allora, saputo, comprato, letto.

Come dottamente rileva Corrado Augias, può essere letto in parallelo con “Flora” di Antonio Robecchi, entrambi con due storie in parallelo da seguire. Ma, ed io sono d’accordo con lui, c’è almeno un libro di gradimento tra i due. Ed a vantaggio di Manzini. Siccome poi di Robecchi ne ho già parlato in altra trama, rimango su Manzini, e soprattutto, su Rocco e i suoi fratelli (citazione da Visconti, forse non tanto peregrina).

Sempre riprendendo l’intervista di cui sopra, concordo con Manzini nel descrivere il libro come una ricerca di mettere alcuni punti finali alle tante storie iniziate nel corso delle puntate precedenti della serie. Che ormai, e questo bisogna dirlo a chiare lettere, non sono più romanzi legati dalla presenza degli stessi protagonisti, ma sono una serie a modello delle “serial fiction” televisive. Anche perché, ed è ovvio, a breve inizieranno proprio le riprese al fine di riproporre in tv Marco Giallini ed i suoi credo a cavallo della fine dell’anno.

Ma torniamo al romanzo.

Abbiamo quindi la storia “gialla”, quella che in tutti i libri di genere dovrebbe fare da filo conduttore della trama, e la storia “personale”, che in questo caso, tra alti e bassi, parte dal primo libro ed ancora è presente. Anche se ci sono alcuni elementi che ne fanno presagire una possibile conclusione.

La storia “gialla” ruota intorno alla morte della professoressa Sofia Martinet, esperta d’arte ed in particolare di Leonardo da Vinci. Colpo alla testa, nessun segno d’effrazione. Come risalire la china delle possibilità? Ben presto i responsabili possibili si riducono a tre: l’amico inglese, gay ed editore delle sue pubblicazioni, spesso visto a casa di Sofia, in particolare a valle dell’ultimo colpo accademico (la pubblicazione di un articolo che ribalta la prospettiva sui libri di ottica di Leonardo); l’amico tedesco, un tempo amante di Sofia, che vede la sua carriera distrutta dall’articolo in questione ma che risulta essere in Germania ai tempi della morte; il figlio, quarantenne e scapestrato, senz’arte né parte, che chiede ancora soldi alla madre per una sua strampalata iniziativa, soldi che la madre ha poca voglia di regalarglieli.

Il mistero sembra insolubile, se non ci fossero due “aiutini”: il figlio dell’amante dell’agente Casella, che navigando tra cloud ed altre informaticherie, riesce a ritrovare mail che sbugiardano qualche sospettato, e l’amante dell’agente Deruta, che riesce ad interpretare i farfugliamenti apparentemente senza senso dell’unico testimone al delitto, il figlio di una vicina della morta, ritardato mentale e cieco.

Messo in cantiere il giallo e la sua soluzione, apro un piccolo inciso: gran parte del romanzo non di prima battuta, quello che esplora vie laterali, è dedicato al coming out di Deruta, che finalmente confessa di essere gay e va a vivere con il suo amore, Federico. Ci può stare, anche se l’agente non è uno dei personaggi principali, e l’inciso è un po’ lungo e forzato.

La parte “personale” invece ruota ancora e comunque intorno alle vicende romane di Rocco, alla morte della moglie, alla morte dell’assassino della moglie, alla morte dell’amica di Rocco, alle vendette del fratello dell’assassino e di Sebastiano, compagno della seconda morta.

Manzini ha incasinato la storia, romanzo dopo romanzo, seguendo un po’ le onde del gradimento del pubblico. Caterina, la vice di Rocco, che stava per prendere il posto di Marina nel cuore del nostro, era stata allontanata in quanto ritenuta responsabile di delazione, secondo Rocco. Rocco stesso sembra proteggere Seba, che lo aiutò nella vendetta di Rocco. Qui, prima ricompare Seba, che pare aver trovato le tracce dell’assassino dell’amata. Poi, compare quest’ultimo che pare debba fare rivelazioni forti sul malaffare capitolino.

Rocco in aiuto al procuratore, si trova in difficoltà: aiuta Seba a fuggire (o almeno così crede), poi con il procuratore scopre il delatore morto. Ma tutti gli indizi, che poi saranno prove, portano ai cattivi di Roma come mandanti ed esecutori di tuti questi assassini e depistaggi. Non vi dico come, ma ovvio che Rocco trova una serie di bandoli, ed ha anche un colloquio chiaritore con un’altra vecchia conoscenza: Caterina (avete capito il perché del titolo).

A parte i rapporti tra Rocco e Caterina, che credo non abbiano tanti sbocchi alla luce attuali, quest’ultima rivela che anche Sebastiano era implicato nei traffici che portarono alla morte di Marina. Sarà vero? Sarà un nuovo depistaggio? Penso che lo scopriremo alla prossima puntata, dove penso vedremo anche se potrà andare avanti in qualche modo il faticoso rapporto di incontro e scontro tra Rocco e Sandra la giornalista.

“In questa vita non è difficile morire, vivere è di gran lunga più difficile.” (388) [citazione della poesia ‘Ai vecchi giorni’ di Vladimir Vladimirovic Majakovskij]

Marco Malvaldi “A bocce ferme” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 12,90 euro)

[A: 23/07/2018 – I: 28/07/2021 – T: 30/07/2021] &&&  +

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 226; anno: 2018]

Beh, non c’è dubbio, quando si torna al BarLume ed alle avventure dei suoi personaggi, la scrittura di Malvaldi assume un passo diverso. Ed anche se di per sé non è un romanzo indimenticabile, di certo è un romanzo non evitabile. Che ci porta piccoli elementi di conoscenza sugli attori della serie. Nonché, e non è male, anche una piccola trama gialla non proprio da buttar via.

Anche perché si parte da lontano, cioè da un delitto del passato, che tra l’altro era passato in cavalleria, senza un vero colpevole. Il tutto si apre alla morte di Alberto Corradi che nel testamento confessa di aver ucciso il padre Camillo. Questo apre un monte di problemi. In primis al figlio di Alberto professionista verso la carriera politica, che, fosse vero il testamento, non avrebbe un soldo in canna.

Questo apre anche una problematica relativa alle questioni sindacali di allora (si parla di fine anni Sessanta, e sapete bene il clima dell’epoca), che fu accusato del delitto il sindacalista Bonci. Che però non se ne riuscì mai a provare la colpevolezza. Tuttavia, fu emarginato in paese, che Camillo era uno in vista, un vero padrone, autoritario e dispotico. Con un’orda di “alleati” che tentarono di farsi giustizia da soli, con un’irruzione selvaggia in casa Bonci, con l’unico risultato che Viridiana, la figlia, viene colpita da un’emorragia, e muore. Che, si scoprirà molto dopo, era incinta.

Solo un giornalista, il Frateschi, rimane vicino a Camillo. Ed un altro scrivano, anche di lunghi diari, l’Ubaldo, rimane vicino a Franca la moglie di Camillo.

Tutti si perderebbe solo nel passato, lasciando il nostro Massimo con il vicequestore Alice senza molti argomenti d’indagine, se ora, in città, non venisse ucciso anche Ubaldo. Perché? Da dove vengono questi rimasugli del passato che inquinano il presente?

I nostri vecchietti del Bar, nonno Ampelio in testa, non hanno altro da aggiungere al fuoco delle possibili indagini se non i loro ricordi del tempo. A un incuriosito Massimo e a una professionale Alice raccontano dei giorni del delitto, dei malumori degli operai, dei dubbi e delle paure, di tutti i personaggi che ruotavano attorno all’azienda di Camillo Corradi. Si avvia così un romanzo che si alterna tra presente al bar e passato di lotta e di rancore. Si spulcia, si collega, si leggono resoconti del tempo. Fino a scoprire un possibile filone, legato alle unioni che si erano stabilite nel tempo.

Ubaldo aveva sempre portato con sé il segreto della morte di Camillo, che il ben voluto era anche un farfallone, ed avendo messo incinta una signorina del luogo, voleva includere il figlio naturale nell’asse ereditario, creando problemi non solo al figlio ma soprattutto alla moglie Franca. Ma non vi dirò il perché.

Solo che nei diari di Ubaldo c’era anche la vera storia di Viridiana, e di chi l’aveva messa incinta, riuscendo a defilarsi nella baraonda del tempo. Ma essendo ancora ben presente ora in Pineta. Si capisce presto chi sia il vero assassino del presente, ma l’arma del delitto, che porterà alla soluzione del caso, sarà scoperta solo grazie ad un colpo d’ingegno della bella nonché intelligente Tiziana, l’aiuto di Massimo al bar.

Queste forse sono le parti migliori. Sia nelle rimuginazioni solitarie di Massimo, sia, e con più forza, nelle caratterizzazioni dei nostri vecchietti. I ricordi di Pilade e di Ampelio ci portano su e giù nel tempo. Tra l’altro, Ampelio ricorda i tempi dell’Università della figlia (la madre di Massimo), di come questa rimane incinta senza voler dire di chi e come. Di come lui fa irruzione in facoltà, che sa chi sia (o pensa di saperlo) suscitando una rissa furibonda, con finale in gattabuia per il nostro allor giovane Ampelio. Descrizioni che mi hanno di colpo riportato ai miei tempi universitari, alle assemblee, alle risse con le frange estremiste. Laddove io ne fui partecipe solo in una, con relativo pugno in faccia (preso, non dato), e non da fascisti. E qui mi fermo nei ricordi.

Mentre immagino che l’accenno alla madre di Massimo possa preludere ad un qualche revival di mamma Gigina, a volte citata ma mai realmente presente.

La scrittura di Malvaldi, quando si torna al nostro BarLume, è sempre una spanna superiore alle altre prove del bravo scrittore. Ho ancora qualche libro non di pineta da leggere, ma non ne ho ancora molta voglia.

“Le cose veramente importanti della vita accadono per caso. Se tenti di controllare ogni singolo aspetto della tua vita e di non far niente che possa sfuggire alle tue previsioni, non ti succederà mai niente di veramente importante.” (142)

“La curiosità per il superfluo … è quello che sopra ogni cosa ci rende umani.” (169)

Marco Malvaldi “Bolle di sapone” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 12 euro)

[A: 02/09/2021 – I: 03/09/2021 – T: 05/09/2021] &&& --

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 266; anno: 2021]

Questa volta non ho saputo proprio resistere. Ho visto che è uscito un nuovo episodio dei miei cari vecchietti, e non solo l’ho comperato, cosa sana ed auspicabile. Ma l’ho anche letto d’un fiato. Risultando alla fine una lettura oltremodo gradevole, seppur con alcune scelte dell’autore che non mi sento di condividere. Motivi però che non dico e che vi lascio intuire dalla lettura.

Intanto, plaudo all’idea di contemporaneità che ci comunica Malvaldi: siamo in tempo di Covid, e proprio all’inizio della pandemia il nostro colloca il racconto. Così che Alice, la bella e futura (si spera) sposa del nostro Massimo, il “barrista” del BarLume, si trova bloccata in quel di Calabria, dove teneva un corso proprio il 9 marzo 2020 all’Università di Rende.

Tutto il romanzo è pervaso dalla duplicità: c’è voglia di stare, di fare, di dire, e c’è l’impossibilità di farlo, che si deve prima stare a casa, poi stare distanziati, poi mascherati. Il romanzo copre un non lunghissimo lasso di tempo, per cui non arriviamo ancora alle campagne vaccinali, ma non dispero che Malvaldi ne sappia approfittare con qualche futuro scritto.

Anche nonno Ampelio è bloccato, che una caduta anodino lo costringe in Ospedale. Ed è bloccata anche mamma Gigina, di cui finalmente si trova traccia non solo in parole, ma in presenza. Di passaggio verso la Malesia, l’ingegnere dei ponti si trova anch’essa bloccata in Pineta. Con il padre in ospedale, e con la madre che “se non è fritto, non è buono da mangiare”.

Bloccati in vario modo anche gli altri vecchietti: Aldo che non riesce a fare il pensionato, il Remediotti ed il Del Tacca che si arrabattano prima con code alimentari, poi ripiegando anche sulla spesa online. E vai con Amazon.

Tutto ciò dà modo al nostro di imbastire un racconto giallo inverso: invece di avere il delitto nella camera chiusa, abbiamo gli investigatori costretti ad indagare dalla camera chiusa per un delitto avvenuto, invece, molto all’aria aperta. Certo, voi direte, era un meccanismo insito in molte vicende gialle, prima ed eponima fra tutte la saga di Nero Wolfe. Ma lì c’era sempre la possibilità che Archie Goodwin andasse sul campo, o che lo stesso Wolfe facesse una sortita fuori della serra delle sue orchidee. Qui, no!

Qui, abbiamo un ristoratore, che sta mettendo su una catena di pizzeria, prima in Calabria, poi in tutto il Sud. Che viene fulminato da una fucilata mentre è in fila al supermercato la mattina del 9 marzo, in Calabria, ovvio. Facendo finta di poco, Alice da remoto, distilla pezzi di informazione, sia a Massimo che ai nostri vecchietti. Così che partono le indagini da Pineta verso Rende, senza muoversi di pezza.

Due giorni dopo il pizzaiolo, muore la moglie apparentemente per un botulino malizioso. Ma ben presto, grazie ad Aldo ed Ampelio, scoprendosi derivare da una fiala di botulino per chirurgia estetica. Probabilmente fatta ingerire alla donna non accidentalmente.

I sospetti si appuntano allora sul figlio della coppia, erede delle catene pizzaiolesche, ma forse non proprio esente da buchi economici paurosi nelle finanze di famiglia. Peccato che il rampollo abbia un alibi di ferro, che neanche Massimo riesce a smontare.

La svolta psicologica avviene scoprendo che i due morti avevano una cospicua assicurazione sulla vita, anche in caso di morte violenta. Che entrambi avevano modo di uccidere l’altro per una serie di circostanze che non sto qui a narrare. Che tutto potrebbe filare liscio a meno che non si potesse dimostrare che le morti incrociate siano state concordemente decise (dolo verso l’assicurazione) e non casualmente avvenute.

Non vi dico il prosieguo ed il finale delle indagini, ma se siete detective vi ho dato l’indizio chiave, che serve a far filare tutto il ragionamento. Tra l’altro è lo stesso indizio che disvela ad un certo punto Malvaldi. Ma si sa, gli indizi troppo palesi sono come la lettera rubata: per ignorarli basta metterli in bella evidenza. Ha un senso tutto ciò, forse maggiore di quello che io abbia pensato in un primo momento. E però non mi è piaciuto, così che fiorettato il voto con qualche sfilza di meno.

Prima di dare appuntamento a Malvaldi alla prossima lettura, vorrei tornare solo a pagina 108, dove mamma Gigina spiega al giovane Massimo come fa a ricordarsi i numeri di telefono. Praticamente, associandoli metamorficamente a delle lettere. Questo mi fa venire in mente i miei modi di ritenere i numeri. Che io invece associo ai numeri primi. Così che il mio numero di telefono lo ricordo perché è composto da due numeri primi di tre cifre superiori a trecento e da due numeri vicini a 86. Ricordo questo, ed il resto è storia.

“I genitori … sono dei talenti naturali quando si tratta di irritare i figli. Alle capacità spontanee, che evidentemente si acquisiscono alla nascita della prole, si uniscono delle tecniche sopraffine, tipo ricordare loro degli episodi particolarmente imbarazzanti dell’infanzia.” (173)

“A … anni o stai male o stai peggio. Oramai alla mi’ età conta che stia bene quell’artri.” (224)

Oltre ad essere la quarta trama del mese, e quindi senza altri allegati, è anche l’ultima di questo anno, che, pur nella pandemia, ha portato cose nuove nella vita e nelle letture del vostro tramatore ufficiale.

Per terminare degnamente anche con i ricordi citanti, mi piace condividere una frase di Michael Connelly che nel suo primo libro “La memoria del topo” afferma (e condivido): “Non si cura un’anima ferita con un cerotto”. Infatti, niente cerotti, ma tanti ricordi, tante persone che mi tornano in mente, tanti amici, tanti posti visitati, tanti posti da visitare. Un abbraccio da fine anno per un nuovo anno sereno.

domenica 19 dicembre 2021

Ultimi Grandi Investigatori - 19 dicembre 2021

Ecco che sta finendo un altro anno, e terminiamo anche una collana dalle premesse interessanti e dai risultati altalenanti. L’idea di Repubblica era decente: pubblicare un racconto per un decina di “Grandi Investigatori”. Allora qui ne abbiamo gli ultimi cinque, con delle scelte che premiano tre grandi classici: Sherlock Holmes, Hercule Poirot ed Ellery Queen. Mentre quelli che più mi stanno vicino al cuore, hanno subito scelte di pubblicazione mediocri per il commissario Ricciardi ed assolutamente pessime per Pepe Carvalho.

Arthur Conan Doyle “Uno scandalo in Boemia” Repubblica “I Grandi Investigatori” 6 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 07/05/2021 – I: 05/06/2021 – T: 05/06/2021] &&& --

[titolo: A Scandal in Bohemia; lingua: inglese; pagine: 46; anno: 1891]

Devo dire che, tra tutti i Gran di Investigatori, non ho mai avuto una soverchia passione per Sherlock Holmes. Forse perché non ho grande empatia con la scrittura di Sir Arthur. Fatto sta che, pur trovando in un certo qual senso brillanti le idee del nostro, la loro trasposizione cartacea non mi ha mai soddisfatto a pieno. Forse anche perché, alla fin fine, sono pochi i romanzi, ma molti i racconti con il nostro che fa da protagonista.

Altrettanto poca empatia mi suscita il pur bonaccione dr. John Watson, che mi sembra sempre sia troppo “meravigliato” da quello che succede, teso a riportarne su carta gli svolgimenti, ma poco teso a capirne qualcosa.

Sebbene avesse già scritto due romanzi, questo è il primo racconto imperniato su Sherlock, uscito nell’antologia “The adventures of Sherlock Holmes”. Ed è l’unico in cui compare una donna, Irene Adler. È anche considerato da Holmes uno dei suoi più grandi fallimenti. Il nostro viene ingaggiato dal re di Boemia (regno esistente realmente alla scrittura del testo) indicato con il nome di Wilhelm Gottsreich Sigismond von Ormstein (completamente inventato) con il compito di recuperare delle foto compromettenti che lo ritraggono insieme ad una tal Irene Adler, attrice e (secondo la fama) avventuriera. Travestito da vagabondo si aggira nei dintorni della casa di Irene, venendo casualmente coinvolto come testimone nel di lei matrimonio segreto con l'avvocato Godfrey Norton. Per capire dove sia la famosa foto, Holmes si travesta da prete, inscena una rissa, si finge ferito e si fa accogliere in casa. Watson lo aiuta dall’esterno lanciando un fumogeno, così che, con la sua acuta capacità d’osservazione, Sherlock comprende il vero nascondiglio. Il giorno dopo Holmes, Watson e il duca, si presentano a casa di Irene, che però aveva capito il trucco di Holmes, ed era scappata con il marito, portando con sé la foto, e sostituendola con una sua personale, con dedica a Sherlock, dove si complimenta per l’arguzia del nostro investigatore. Holmes rimane basito, e come pagamento da parte del duca, sceglie di tenere solo la foto, senza accettare nessun compenso in denaro.

Per la precisione storica, gli avvenimenti descritti da Conan Doyle avvengono a Londra il 20 e 21 marzo 1888. Per l’imprecisione letteraria, Irene non compare più direttamente (solo accenni), anche se gli epigoni di Sir Arthur costruiranno montagne di storie con la sua presenza. L’unica che a me è piaciuta, per l’inventiva e la freschezza, comunque è la serie per ragazzi, scritta da Alessandro Gatto dal titolo “Sherlock, Lupin e io”, dove l’autore inventa un’amicizia giovanile tra Irene Adler, Sherlock Holmes e Arséne Lupin. Dal punto di vista delle stranezze attribuite ad Irene, in una fantasiosa biografia, dopo la finta morte di Holmes, questi si rifugia in Montenegro, dove è raggiunto da Irene, vivono tre anni insieme facendo gli attori girovaghi, e generando un figlio, cui viene imposto il nome di … Nero Wolfe. Non faccio commenti.

Passiamo al solito a vedere le caratteristiche del personaggio “Sherlock”, anche se, data la sua grande fama, forse ne sapete meglio voi. Comunque, analizzando i vari scritti, arriviamo a queste considerazioni generali. Sherlock nasce il 6 gennaio 1954, è sempre celibe, anche se ha una donna nel suo cuore, l’Irene di questo racconto. Ha occhi di colore chiaro, che risultano “acuti e penetranti”. I capelli sono neri, corti, e pettinati all’indietro. Di corporatura magra, è alto circa un metro e novanta. La carnagione anche è pallida, e veste sobriamente, con abiti tendenti al nero. È deciso, sicuro di sé, molto attivo quando ha un nuovo caso che lo appassiona. Altrimenti diventa apatico, indolente e scontroso. La sua dimora abituale è, ovviamente, il 221b di Baker Street. Ha una cultura varia, senza una specializzazione particolare, seppur molto ferrato in chimica e botanica.

Infine, ci sono due cose da sottolineare, una vera e l’altra inventata. La vera è una frase che dice ne “Il segno dei quattro”: “Una volta eliminato l'impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità”. Frase che sottolinea la necessità di osservare e non solo di vedere. Come in questo racconto, dove Watson vede dei gradini, e lui dice che sono diciassette. La falsa è la frase “Elementare, Watson!”, da lui mai pronunciata, ma che fu inserita dall’attore William Gillette nel testo teatrale “Sherlock Holmes”, rappresentato per la prima volta al Garrick Theatre di Broadway, New York, il 6 novembre 1899. In quella prima, Gillette inoltre indosso il famoso cappello da cacciatore (il “deerstalker”) e fumò la pipa ricurva (la “calabash”). Possiamo quindi concludere che, senza Gillette, non avremmo lo Sherlock che conosciamo.

Maurizio de Giovanni “L’omicidio Carosino” Repubblica “I Grandi Investigatori” 8 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 13/05/2021 – I: 18/06/2021 – T: 18/06/2021] && 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 2012]

È la terza volta che mi imbatto in Carosino, dalla prima lettura che ne feci nel 2013, nella breve antologia “I primi casi del commissario Ricciardi”, passando per “L’ultimo passo di tango”, letto cinque anni dopo e che, nella poco sincera quarta sostiene contenere tutti i racconti di de Giovanni. Affermazione vera solo per i racconti con Ricciardi, e questo in particolare. Infine, questa poco brillante serie in omaggio con Repubblica, di cui non finirò mai di parlarne male.

Intanto, al fine di non ripetermi, riporto quanto scrissi qualche anno fa:

“Il primo testo [di “L’ultimo passo di tango”, regalo della mia amica Otto], poi, è in assoluto la prima uscita del commissario, nato quasi per scommessa come risposta ad un concorso letterario cui l’autore non voleva partecipare. E mentre pensa (come confessa nella postfazione) seduto al Gambrinus, gli viene fuori la storia di questo commissario che vede i morti. Solo i morti di morte violenta, che gli ripetono, come in un film che si inceppa, le ultime parole prima della morte. Un dono (o una maledizione) che sappiamo anche dai romanzi gli deriva dall’infanzia, e forse gli viene trasmessa dalla madre. Ed anche qui, ne “L’omicidio Carosino”, è la frase della duchessa che gli fa venire in mente la reale soluzione dell’omicidio. La duchessa è donna di mondo, si accompagna con un giornalista sposato, e sarà la moglie di questi (non svelo nulla che viene ben presto detto) a spararle al petto. Ma noi ed il commissario sappiamo che la duchessa è già morta. E la frase, nel giro di tre pagine, lo porta alla soluzione. Che forse non porterà alla condanna perché poi il commissario è anche empatico con le situazioni che affronta. E, benché nel pieno dell’era fascista, è sempre al limite della ribellione.”

Chi poi ha seguito la serie tv dedicata al commissario, ricorderà lo svolgimento dei fatti. Laddove, lo sceneggiato, dilatando i tempi, riesce a dare una visione migliore e più completa delle parti in causa: la baronessa Carosino ed il suo sfarfalleggiare nel bel mondo, il giornalista amante, la moglie tradita, il portiere ladruncolo, le famiglie affamate in quegli anni Trenta non certo agevoli. Uno dei pochi casi in cui mi ha soddisfatto più la sceneggiatura che il testo originale.

Come al solito, in questa serie, vediamo anche un po’ più da vicino questo nono Grande Investigatore.

Luigi Alfredo Ricciardi, barone di Malomonte, nasce il 1° giugno 1900, quindi durante la maggior parte delle indagini, è sulla trentina. Presto orfano dei genitori, si trasferisce a Napoli, si laurea con lode in giurisprudenza ed entra nella squadra mobile della regia Questura. A Napoli è accudito dalla tata Rosa Vaglio, e, alla morte di questa, dalla nipote Nelide. È frugale, in genere pranzo con una sfogliatella al caffè Gambrinus o al massimo un trancio di pizza, cena leggero la sera, e non porta il cappello. Non desidera fare carriera, ma soltanto risolvere i casi che gli arrivano, aiutato da quello che lui chiama il “Fatto”, e di cui parliamo più avanti. Per questo è abbastanza isolato in Questura, e si accompagna soltanto con il fedele brigadiere Raffaele Maione (che vive nei Quartieri Spagnoli) e dal razionale e antifascista medico legale Bruno Modo. Non ha un gran rapporto con le donne, proprio a causa del “Fatto”. Viene spudoratamente corteggiato dalla bella e ricca ex cantante lirica Livia Lucani (vedova del famosissimo tenore Arnaldo Vezzi), ma, sebbene lusingato, non cede alle di lei profferte. Anche perché è da sempre innamorato a distanza di Enrica Colombo, una timida vicina di casa con la quale, inizialmente, scambia solo occhiate dalla finestra. Anche se alla fine, spinto prima da Rosa, poi da Nelide, darà vita ad una timida storia d’amore (per saperne di più leggete gli ultimi due romanzi della serie).

Dicevamo, la sua vita è condizionata dal “Fatto”: la capacità di percepire le ultime parole e i sentimenti delle vittime di morte violenta. Parole e visi che poi pian piano svaniscono, ma che gli danno modo di indirizzare le indagini. O di consolare il fido Maione dalla morte del figlio Luca. Aiutato dal “Fatto” e dalla sua storia personale, è dotato di un profondo senso di giustizia che lo spinge a indagare a fondo tutte le sfaccettature di un caso, anche dopo aver ottenuto una confessione dal presunto colpevole, pur di non mandare in galera un innocente.

Riccardi è il protagonista di 12 romanzi scritti da de Giovanni, che giura il dodicesimo essere l’ultimo, senza altri episodi. Staremo a vedere.

Agatha Christie “Il sogno” Repubblica “I Grandi Investigatori” 7 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 13/05/2021 – I: 18/06/2021 – T: 18/06/2021] &&& 

[titolo: The Dream; lingua: inglese; pagine: 46; anno: 1938]

Si riconosce subito quando una persona, una scrittrice, sa scrivere. Si riconosce subito quando sa scrivere si gialli. Si riconosce subito quando conosce come gestire un romanzo o un racconto. Tutto ciò per dire che Agatha Christie è insuperabile, soprattutto in questa dimensione.

Sa farci entrare nell’atmosfera, caratterizzare il giusto i personaggi, non dilungarsi in descrizioni utili solo a fuorviare il lettore. Ha inoltre il giusto tocco di ironia e sfida, quando il personaggio dice di aver capito quasi tutto, mentre noi brancoliamo nel buio totale.

Non è quindi un caso che in questa breve (e poco fortunata) collana entrino entrambi i suoi due personaggi. Ho parlato già di Miss Marple. Qui ci occupiamo di Hercule Poirot.

Intanto, occupiamoci del racconto. Costruito alla tipica maniera di Agatha. Si introducono i personaggi: entra Poirot, che non ha bisogno di presentazioni, si incontra con Farley, un facoltoso signore, o meglio, entra in contatto con un tizio che gli racconta di aver paura di morire a fronte di un sogno ricorrente da lui fatto, in cui, alla fine, si suicida. Elemento fondamentale della trama è la lettera che Farley ha scritto a Poirot per convocarlo, il fatto che la rivoglia indietro, l’errore di Poirot di scambiarla con la lista della lavanderia, errore ignorato da Farley, e rimessa in ordine dei pezzi di carta al loro posto prima di lasciare la magione. Senza peraltro esser riuscito a rasserenare Farley sul futuro.

Ovvio che dopo qualche tempo, Farley viene trovato morto, apparentemente suicida. Ovvio quindi che, trovando la lettera tra le carte di Farley, Poirot venga convocato come “persone esperta dei fatti”. Tutto fa pensare al suicidio: il sogno, la stanza chiusa, nessuno che vi possa entrare né da porte né da finestre. Moglie e segretario che insistono sulla paura di Farley a fronte del famoso sogno. Ma Poirot ha un cervellino molto funzionante, e, a parte avere in dubbio le dichiarazioni di molti presenti, quando scopre che il morto odiava chinarsi e, per raccogliere oggetti, usava delle mollette estensibili (anche se questo è il nome dato all’epoca a quegli oggetti che ora vengono venduti come “pinza telescopica”), la soluzione arriva lampante e il suicidio viene rivelato come essere un vero e proprio, nonché meditato, omicidio.

Veniamo allora al nostro piccolo investigatore belga. Fisicamente, quando compare nelle storie della Christie, è un uomo già maturo, con la testa a forma d’uovo, capelli tinti, occhi verdi, e soprattutto un paio di baffetti sempre ben curati. Inoltre, veste impeccabilmente, dall’aria quasi di un dandy wildiano. Anche se sappiamo aver avuto una donna nel cuore: la contessa russa Vera Rossakoff, che appare in un paio di romanzi.

Poirot è belga, sfidando così i detti sornioni alla francese, che trattano i belgi come noi, nelle barzellette, trattiamo i carabinieri. Era capo della polizia a Bruxelles, poi pensionato. Durante la Prima Guerra mondiale, ferito ad un gamba per cui sarà sempre un po’ claudicante, viene evacuato verso la Gran Bretagna, dove da allora vivrà per sempre. È lì che risolve il suo primo caso (“Poirot a Styles Court”, uscito nel 1920). Ed è a Londra che si stabilisce al 56B Whitehaven Mansions, Charterhouse Square, Smithfield, London W1.

Poirot è orgoglioso, fiero del suo cervello, ama essere lodato, ed applica il suo metodo infallibile per risolvere i casi: ordine e metodo. Tanto che dirà ad un suo sodale ispettore inglese, di preferire un approccio psicologico al crimine, e quindi che, usando le sue "cellule grigie", riuscirebbe a risolvere i casi, stando comodamente seduto in poltrona. Come tutti gli scrittori di intelligente capacità, Agatha scrive anche un ultimo romanzo con Poirot, che si intitola “Sipario”, dove Poirot muore a seguito di complicazioni cardiovascolari, dovute al fatto che Poirot uccide un serial killer. L'azione crea a Poirot, ormai anziano e malato, un senso di colpa che lo conduce alla morte. Ma Poirot è talmente noto che l’uscita del libro provoca il giorno dopo l’uscita di un necrologio, scritto da Thomas Lask, che iniziava con queste due frasi: “Hercule Poirot, detective belga divenuto famoso a livello internazionale, è morto in Inghilterra. La sua età era sconosciuta."

Ricordiamo infine la genesi del nome, che venne in mente alla scrittrice unendo due metà di personaggi letterari, all’epoca abbastanza noti: il nome deriverebbe da Hercule Popeau, pensionato della polizia francese, personaggio descritto “piccolo e rotondetto”, creato nel 1912 dalla scrittrice franco britannica Marie Adélaïde Lowndes Belloc. Il cognome sarebbe invece una storpiatura di Jules Poiret, ufficiale della polizia francese, ritiratosi a Londra, e creato nel 1909 dal gallese Francis (Frank) Howel Evans. Vedete bene come i vari caratteri si intreccino. L’originalità della Christie è l’aver messo l’accento sul Belgio.

Manuel Vazquez Montalban “La dea nuda” Repubblica “I Grandi Investigatori” 9 s.p. (in omaggio con Repubblica)

[A: 22/05/2021 – I: 19/06/2021 – T: 19/06/2021] - &  

[tit. or.: La diosa desnuda; ling. or.: spagnolo; pagine: 46; anno 2011]

Penso che sia abbastanza noto il mio amore per Vazquez Montalban, sia per i 18 libri suoi che sono nella mia biblioteca, sia per quel breve incontro, avuto ai tempi dell’estate romana a Massenzio, quando si riusciva a parlare di libri, si riusciva ad incontrare gli autori. Cose ora impossibili, non tanto (o non solo) per problemi pandemici, ma soprattutto perché nessuno in Italia investe più nella cultura.

Ricordo solo, in quell’incontro, che parlai con lui dei suoi primi libri, riuscendo ad avere un autografo in “Yo maté Kennedy”, che avevo portato appositamente da casa. Momenti irripetibili.

Ciò detto, non posso passare sotto silenzio l’inutilità di questo racconto. Non ha nerbo, non ha quasi storia, mi sembra proprio che Montalban non avesse molto nelle sue corde questa dimensione. Aveva bisogno di spazio, di tempo, per dar modo ai suoi personaggi di entrare nelle loro manie, nella loro quotidianità. Qui, se non sapessimo chi è il nostro Pepe, potremmo leggerlo come un qualsiasi racconto con un qualsiasi personaggio alla ricerca non di risolvere un giallo, e forse neanche un mistero.

Un tizio ingaggia il nostro ispettore perché capisca cosa faccia la figlia, libertaria e sbandatella. Il tizio è insopportabile. La figlia ha atteggiamenti provocatori con tutti. Con il padre, con il vecchio amante che usa solo per innervosire il padre. Con Pepe, cui si mostra discinta oltre il limite. Bella è bella, e “desnuda” appare più di quanto sia utile al racconto. Pepe la segue, cerca di capire le sue frequentazioni con gli ambienti un po’ out di Barcellona. Ne conosce la madre ed il fratellastro problematico, dal punto di vista fisico.

E poi capisce perché la dea frequenta chi frequenta, cerca le cose che cerca, compra la droga sottobanco, ed altro. Ma non per uso personale, bensì… Beh, se volete saperlo leggetelo pure, tanto ci si mette una mezzoretta, neanche tanto gradevole.

Ma dov’è Charo, dov’è Biscuter, dov’è la villetta di Vallvidrera ed il suo imperdibile camino? Dove sono le Ramblas ed il suo ufficio? In fondo, dov’è la sua e la nostra Barcellona? Da nessuna parte. Un libro decisamente inutile.

Non inutile, invece, cercare di delineare il personaggio Carvalho. Secondo i cenni che ho tratto dai molti libri letti, nasce in Galizia, probabilmente intorno al 1939, verso la fine della Guerra Civile. Partecipa da giovane alla lotta clandestina antifranchista, conosce il carcere. Incongruentemente (nel primo libro di cui sopra) lavora quattro anni come agente della Cia. Poi torna a Barcellona a fare l’investigatore privato. È un antieroe solitario, che, pur amando la sua città, ama viaggiare (ah, come lo capsico).

Non ha mai avuto una connotazione precisa dal punto di vista fisico, che l’autore ha invece insistito sul lato “umano”, sulle debolezze e le forze. Ad esempio, leggendario è il camino della libreria di Vallvidrera, dove brucia i libri letti nel passato. Libri che non gli servono più per capire il mondo. Anche se ha sempre delle remore, quando si avvicina a Conrad (in parte, ma solo in parte, lo capisco).

La passione vera è invece la cucina, sia nelle vesti di cuoco sia in quelle di commensale. Tanto che sono uno dei non tanti possessori di un libro invece imperdibile: “Las recetas de Carvalho”, che trovai in un delle mie escursioni spagnole. Pieno di ricette, e di suggerimenti. Perché, come dice Montalban: “La cucina è, come la letteratura, un altro modo di creare mondi immaginari”.

E non è un caso che io abbia la tetralogia completa delle ricette “da investigatori”: posseggo i ricettari della signora Maigret, di Nero Wolfe, di Pepe Carvalho e di Salvo Montalbano.

Per finire con il nostro, ci sono alcune imprecisioni sul nome, a volte riportato come José Carvalho Tourón e altre volte come José Carvalho Larios. Inoltre, nel “Quintetto di Buenos Aires”, il doganiere leggendo il passaporto, lo chiama Pepe Carvalho Tourón. È anche portato verso l’oblio dall’autore, che nell’incompiuto “Millennio”, ne fa perdere le tracce in giro per il mondo (un libro di cui ho sentito parlare, ma che non ho mai avuto il cuore di leggere).

Ellery Queen “L’avventura della signora barbuta” Repubblica “I Grandi Investigatori” 10 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 22/05/2021 – I: 27/06/2021 – T: 27/06/2021] &&& --- 

[titolo: The Adventure of the Bearded Lady; lingua: inglese; pagine: 46; anno: 1933]

Con questo, in anticipo rispetto alla programmazione pubblicizzata, Repubblica chiude il ciclo degli omaggi dedicati ai grandi Investigatori. Pur tirando le orecchie all’editore per la sua scarsa professionalità, devo dire che è una chiusura in bellezza. Non tanto per il racconto in sé, che pure è ben fatto ed esemplare, ma per l’omaggio ad uno dei più longevi personaggi delle scene investigative. Ed anche per la complessità della sua “nascita”.

Infatti, i romanzi ed i racconti vengono pubblicati a nome Ellery Queen, che è il personaggio centrale delle indagini. Ma questo è solo il nome dietro cui si nascondono i due cugini Frederick Dannay e Manfred Bennington Lee. Due cugini newyorchesi, di origine ebraica, cresciuti a Brooklyn, e nati entrambi nel 1905, con il vero nome di Daniel Nathan per Frederick e Manford Lepovski per Manfred. Insomma, una bella matrioska gialla.

Prima di tornare al personaggio, vediamo intanto questo racconto. Sono passati cinque anni dalla nascita di Queen sulla carta, e sei romanzi. Questo è invece il quarto racconto. Come i romanzi avevano la caratteristica di includere il termine “Mystery” nel titolo, i racconti erano caratterizzati dall’iniziale “The Adventure of…”, anche se il termine ha un’accezione leggermente diversa che il nostro “Avventura”. Come in questo caso che la “signora barbuta” non è che sia un’avventura vera e propria.

Il racconto segue le tracce del classico degli Anni Trenta “whodunit”, cioè “chi l’ha fatto”, ricerca del colpevole attraverso gli indizi. Questo, inoltre è il primo racconto che utilizza un espediente poi spesso ripreso, denominato “dying clue”: indizio di chi muore, cioè un indizio lasciato dalla vittima immediatamente prima di essere uccisa.

La storia è una scatola cinese complicata di eredità, di morti normali, e di possibili successioni palesi o meno. Il morto non accidentale è un dottore, da anni ospite di una casa signorile dove la morte della capostipite lascia un conto aperto verso la successione. Che la vecchia, disereda i nipoti poco prima della sua morte per infarto, nominando una parente da anni trasferitasi in Inghilterra. Parente figlia di un fratello del di lei marito (il possidente capostipite), fuggita con lui e con il fratello lontano dall’America per dedicarsi al teatro. Morto lo zio (sicuro), morto il fratello (probabile ma non certo), Edith torna nella casa dove vivono appunto il dottore, ed i due figli del possidente.

Il dottore è anche un appassionato di quadri, ed Ellery lo trova nel suo atelier, pugnalato, mentre stava finendo di dipingere la riproduzione del quadro di Rembrandt “L’artista e sua moglie”. Il dottore ci lascia però l’indizio chiave: disegna una bella barba sulla faccia della moglie di Rembrandt. Non dico altro, che il mistero è tutto qui, e ben chiaro. Anche ben scritto, che alla fine, Ellery in quattro pagine ricapitola tutta la storia e chiarisce tutti i punti oscuri. Ben fatto, anche se, appunto, il mistero è abbastanza esile.

Venendo al personaggio, si scoprirà ad un certo punto che nasce, come i cugini, nel 1905. A metà strada, essendo uno di gennaio, l’altro di ottobre, Ellery nasce a giugno. La madre, probabilmente facoltosa, muore presto, lasciando ad Ellery di che studiare (si laurea ad Harvard) e di che vivere senza lavorare. Il padre, Richard, è ispettore capo della Squadra Omicidi, e spesso, nelle prime avventure, Ellery da una mano al padre per risolvere i misteri.

Anche la vita privata di Ellery è misteriosa. Nei primi romanzi, c’è una specie di flashback dove si dice Ellery essersi sposato, avere una figlia ed essersi trasferito a vivere in Italia, vicino a Fiesole. Poi questi indizi scompaiono, rimane lui, un po’ dandy, un po’ gigione, nella sua casa di arenaria al centro di New York. Sempre nella prima fase, sembra anche dimostrare un discreto interesse verso l’altro sesso. Ad esempio, qui parla con garbato interesse di una fanciulla spagnola, e verso la fine chiede ad un avvocato l’indirizzo della bella infermiera che circola nel palazzo, di cui aveva intravisto le belle fattezze in controluce al chiaro di luna.

Tuttavia, tutti questi piccoli vezzi esteriori a poco a poco spariscono. Rimane l’investigatore che per il gusto intellettuale di svelare i misteri, viene chiamato sulle scene dei crimini, e che non ha pace fino a che non riesce a risolverli. Una formula asettica, che mette una bella barriera tra il personaggio ed i suoi autori. Talmente ben fatta, che negli ultimi venti anni di scrittura (l’eroe termina di esistere nel 1971) spesso i due cugini affidano la stesura dei romanzi a “scrittori fantasma”.

Terza trama, niente cure librarie, niente libri felici, ma tante citazioni del vostro Ireneo Funés (super citazione, a voi scoprirla).

Ci avviciniamo al Natale, oltre ad essere sempre i più buoni, abbiamo novità e molte. Ho iniziato a costruirmi uno studio tutto mio dove lavorare, abbiamo fatto un trasloco, si è sposata mia nipote (i lutti ci sono stati, ma quelli li porto dentro il cuore, da solo). E pensando al padre della sposa, cioè mio fratello, mi è venuta in mente questa citazione di Janet Evanovich tratta dal suo primo romanzo, “Bastardo Numero Uno”: “indossai una t-shirt … e misi le scarpe da jogging… arrancai per il primo chilometro… il mio corpo non è stato progettato per correre. Il mio corpo è stato progettato per star seduto in una macchina costosa e guidarla”.

Dato infine che a Natale siamo tutti più buoni e rispettosi, io non mi esimo da pensare a tutti voi, ad abbracciarvi.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di dicembre

“E mi addormento come in un letargo”, un ex ergo che forse solo i Borgogni coglieranno, ma che introduce una nuova tornata di citazioni, che accumulai dal gennaio al marzo del 2009. Citazioni, spesso, che vengono a grappoli, spesso più di una per libro.

La prima tornata risale alla fine di gennaio. Lunghissime rimembranze da un breve racconto di Simona Vinci, tratto dalla collana del “Corti di Carta” del Corriere. Si trattava di “Un’altra solitudine”, e sfidava la mia voglia di essere solo insieme a qualcun altro. Simona cominciava dicendo: “quando un uomo incomincia a essere solo dentro la sua testa, non si può convincerlo a tornare indietro” (ed io solo in testa non lo sono mai stato); poi “quando si è immersi nella Natura non si è mai soli” (ed io continuavo a spingere per i miei viaggi africani). E sempre sui viaggi, concordavo: “una persona che non ha mai fatto un viaggio da sola, si conosce poco”. Inoltre, sosteneva: “la solitudine, al contrario del suo compagno cattivo, l’isolamento, può essere uno straordinario esercizio di libertà”. Concludendo, infine “la maggior parte delle persone che si sentono sole sono single, oltre i 54 anni” (che era proprio l’età di quell’anno).

All’inizio di febbraio mi imbattevo in un autore molto acclamato seppur di nicchia (e di nicchia rimane). Lessi “Parenti lontani” di Gaetano Cappelli. Dove mi rimasero due frasi, una di storie allora già passate, una di storie forse future forse sognate. La prima “sto vivendo il decorso di ogni storia tra un uomo e una donna: all’inizio ti sembra un sogno che vorresti non finisse mai; dopo, non molto dopo, le cose si complicano, ci sono regole, imposizioni, divieti ed eccoti il sogno bell’e trasformato in incubo da cui vuoi sloggiare”. E la seconda: “è una gran donna: ha un corpo statuario e un talento naturale da geisha… è bravissima in cucina quanto a letto!!”.

Non esimendomi poi dai viaggi (anche se quell’anno dovevo aspettare agosto per coronare un mio sogno), aderii in toto alla frase di Marcello Fois, che “In Sardegna non c’è il mare” riportava: “come Seneca dice a Lucillo: non è spostandosi che si risolvono i problemi”.

A cavallo dei grandi compleanni di febbraio, mi dedicavo alle letture francesi. Dove c’era un illuminante Georges Simenon che ne “La pazza di Itteville” in un Maigret prima di Maigret affermava: “mi è capitato, in qualche salotto, di sentire qualcuno chiedersi scioccamente se è possibile amare due donne allo stesso tempo… io non lo so… non sono uno psicologo”.

Mentre la mia amata Fred Vargas in “Sous les vents de Neptun” sottolineava un analogo concetto scrivendo: “il faut deux fenêtres pour faire un courant d’air” [cioè : c’è bisogno di due finestre per fare una corrente d’aria].

A metà mese, ripresi invece la lettura dei “Corti di Carta”, dove l’esimio storico Valerio Massimo Manfredi sosteneva in “Midget War”:  “quello che sappiamo proviene sempre dalla nostra esperienza” (un po’ tautologico…), mentre l’esimio saggista Gabriele Romagnoli riprendeva in “L’unico al mondo”: “tutti gli enigmi del mondo si dissolvono in una carezza”.

Mentre la fine di febbraio fu completamente occupata da un altro dei miei idoli letterari, Amos Oz e da uno dei suoi più bei libri: “Una storia d’amore e di tenebra”. Una meta autobiografia, con alcune perle fondamentali: “se non ti restano più lacrime per piangere, non piangere. Ridi”, “quando si vuol bene si perdona tutto fuorché il tradimento”, “l’unico viaggio da cui non si torna a mani vuote è quello dentro noi stessi”. Per terminare con una citazione del profeta Geremia, ripresa in altro contesto da un romanzo di J. T. Leroy: “Il cuore è ingannevole più di ogni altra cosa, è incurabile. Chi lo può conoscere”.

L’inizio di marzo si scontrò con altri racconti editi da Repubblica, questa volta interessanti, in quanto bilingue (cioè tradotti con testo a fronte, un esercizio utile per vedere le difficoltà della traduzione, le scelte dei traduttori, il loro “tradimento”). Due mi sono rimaste impresse. Una di Saul Bellow che in “Un piatto d’argento” mi dice: “Sono di solito gli egoisti a essere soprattutto amati. Fanno quello che tu neghi a te stesso ed è per questo che li ami”. L’altra dell’amato-odiato Ernest Hemingway, che nel bellissimo “La breve vita felice di Francis Macomber” sostiene: “non c’è piacere in nessuna cosa che aspetti troppo a lungo”.

In un passaggio di metà mese, Gianluca Morozzi nel purtroppo poco interessante “Despero” comunque tira fuori una frase da riflessione: “è meglio aver amato e perduto che non aver amato per niente”.

Ci fu poi una bella accelerazione nelle ultime due tronate marzoline. In una spiccavano il libro unico ma molto intenso di Pascal Mercier “Treno di notte per Lisbona” ed uno dei tanti libri della poco valutata Maeve Brennan, qui letta ne “La visitatrice”.

Pascal è pieno di riflessioni. La prima arriva da una citazione: “Marco Aurelio: … è breve la vita per ciascuno. E questa tu l’hai quasi interamente consumata senza portarti rispetto, ma anzi hai riposto nelle anime di altri la tua felicità… quelli che non seguono i moti della propria anima è inevitabile che siano infelici”. Proseguendo con una constatazione valida per molti: “mi è capitato mai di dare retta davvero a qualcun altro?”. Un pensiero al corretto uso dell’amicizia: “non si può fare degli altri … i portatori d’acqua nella rincorsa alla propria felicità”. Ed una sequenza di frasi sullo scorrere del tempo e sul nostro esistere in esso: “Perché tutte quelle cose facevano ancora male? Perché in venti, trenta anni non era riuscito a scrollarsele di dosso?”; “La vita non è ciò che viviamo; è ciò che ci immaginiamo di vivere”; “quando il tempo di un’esistenza è agli sgoccioli, non ci sono più regole che contano. E allora è come se a uno desse di volta il cervello e fosse maturo per il manicomio. Ma in realtà è esattamente il contrario: al manicomio dovrebbero andarci quelli che non vogliono ammettere che il tempo è agli sgoccioli. Quelli che continuano come se niente fosse.”: “fai del tuo tempo qualcosa che valga la pena … [bisogna] … combattere contro l’errore di credere che ci sia sempre il tempo per farlo, più in là…. Non mancare nei confronti di sé stessi”.

Maeve invece ha una solo frase: “soltanto … ciò che non chiedi a gran voce … è irresistibile”.

Altri due maestri mi accompagnarono in quella fine di marzo. Il grande Robert Louis Stevenson oltre a diversi capolavori che ben conosciamo, scriveva anche piccoli pamphlet, come questo: “Elogio dell’ozio” (che mi pare fondamentale). Anche perché fa due affermazioni, la prima delle quali è strabiliante: “non vi è dovere che sottostimiamo maggiormente che quello di essere felici. Quando siamo felici disseminiamo il mondo di anonimi doni che rimangono sconosciuti anche a noi stessi, o, quando vengono rivelati, sorprendono il benefattore più di chiunque altro” e la seconda mi ricorda qualche amico e parente: “se non si sa essere felici senza rimane pigri, bisognerebbe restare inattivi”.

Infine, sebbene non ami le poesie, non potevo tirarmi indietro alla lettura di un capolavoro come “Poesie d’amore e libertà” di Jacques Prévert. Già allora, aveva un afflato ecologico, sostenendo: “tante foreste sacrificate per fornire la carta / ai miliardi di giornali che ogni anno /attirano l’attenzione dei lettori sui rischi del disboscamento”.

Per finire con una delle poesie d’amore che rimarrà per sempre nella memoria, nel cuore, negli occhi (e che riporto anche in originale, che è bellissima):

 

Trois allumettes une à une allumées dans la nuit

La première pour voir ton visage tout entier

La seconde pour voir tes yeux

La dernière pour voir ta bouche

Et l’obscurité tout entière pour me rappeler tout cela

En te serrant dans mes bras

Tre fiammiferi accesi uno ad uno nella notte

Il primo per vederti tutto il viso

Il secondo per vederti gli occhi

L’ultimo per vedere la tua bocca

E tutto il buio per ricordarmi queste cose

Mentre ti stringo fra le mie braccia

 

Un nuovo mese di pensieri ripresi, masticati e condivisi. Sperando che anche il lettore vi rifletta.

 

domenica 12 dicembre 2021

Chi legge è un viaggiatore - 12 dicembre 2021

Come da regalo amorevole di alcuni anni fa. Quindi continuiamo con la collana dedicata alle letterature intorno, visto che non si riesce (ancora) a viaggiare. Con la particolarità di avere una trama senza anglofoni. C’è Aramburu, un basco spagnolo, il migliore, c’è Abad, uno spagnolo di Colombia, c’è l’austriaco Vermes e per ultima quello che meno mi ha convinto, il Nobel cinese Mo Yan.

Fernando Aramburu “Patria” Repubblica Mondo 13 euro 9,90

[A: 24/02/2019 – I: 21/05/2021 – T: 25/05/2021] - &&&&  

[tit. or.: Patria; ling. or.: spagnolo; pagine: 634; anno 2016]

Un libro non facile, non certo per la scrittura, anche se ci mette del suo, ma sicuramente per i temi trattati. Ovvio, dolorosi e presenti nei Paesi Baschi della vicenda (e dello scrittore), ma che non possono non aprire riflessioni in tutti i paesi in cui c’è stato terrorismo, indipendentismo, lotta armata.

Fernando Aramburu Irigoyen, intanto, è anche lui basco, di San Sebastian (una città che ricorre molto in questi miei giorni, nelle letture, e nell’ultimo film di Woody Allen; bisognerà andarci). Ma a 26 anni, dopo una laurea in filologia ispanica, decide di trasferirsi in Germania, dove insegna spagnolo fino ai suoi sessanta anni, e dove vive tuttora. E forse solo da lontano si riesce a scrivere di fatti, di personaggi, talmente forti, talmente vicini alla propria sensibilità (e forse alla propria infanzia) che l’allontanamento è l’unico modo per trattarli.

Certo, il libro è pieno anche di “altri” fatti: amori, dolori, famiglie e rapporti genitori e figli, scelta della propria identità, fuga, accettazione, figli, amicizia, e poi, ancora e sempre e di nuovo, amore. Si entra in molti “topos” della cultura spagnola, catalana e castigliana, ma soprattutto, in molti luoghi della cultura basca. Perché, oltre questi fatti che riempiono, come è ovvio, la vita di ognuno, il punto centrale è la lotta del popolo basco per l’indipendenza, adottando per cinquanta anni, tra la fine del franchismo ed il post-franchismo, una strategia (anche) di lotta armata. Ed in queste più di seicento pagine, ci si domanda se sia stata una scelta giusta, se sia stata una scelta, se le conseguenze che ne sono derivate (e ne derivano) sono sopportabili, giuste, spiegabili.

La vicenda principale si snoda attraverso l’evolversi del rapporto tra due famiglie basche, un tempo legate da amicizia anche profonda tra i genitori. Le diverse opportunità della vita ne fanno divergere un po’ gli atteggiamenti, anche se non in forma ancora irreparabile. L’una, proletaria, barcamena la propria vita nelle necessità quotidiane. L’altra trova un suo benessere borghese seguendo il patriarca che ha un’impresa di trasporti con discreto successo economico. La rottura si comincia a compiere quando il secondogenito della prima famiglia decide di passare in clandestinità affiliandosi all’ETA (acronimo per Euskadi Ta Askatasuna, cioè “Paese Basco e Libertà”). La rottura si approfondisce quando il patriarca della seconda decide di non pagare le “tasse rivoluzionarie” all’ETA. E diventa definitiva quando l’ETA lo uccide.

Aramburu decide di dare al romanzo una struttura complessa, andando avanti e indietro nel tempo, e facendoci così scoprire (o riscoprire) gli avvenimenti. Unico punto fermo, l’inizio che coincide con l’annuncio della fine della lotta armata dell’ETA, il 20 ottobre 2011.

Non credo di essere capaci di ricostruire agevolmente la complessa storia, preferisco allora passare in rassegna i personaggi principali, le due famiglie.

In una abbiamo il padre, soprannominato il Txato (credo voglia dire “il chiacchierone”), imprenditore, proprietario di un’azienda di trasporti. Per quieto vivere, per un po’ paga una tassa all’ETA ma poi decide di sospendere il tutto. Pensa di trasferirsi, ma è preso di mira, ed alla fine, in una giornata di pioggia, assassinato da un comando. Sposato con Bittori (Vittoria in basco), si allontana dalla cittadina dopo l’assassinio, ma vi ritorna dopo l’ottobre di cui sopra. È malata, si riavvicina alla figlia maggiore dell’altra famiglia, ma non all’amica di un tempo. E lotta, fino alla fine, per ricevere un perdono da Joxe Mari (vedi oltre). Hanno due figli. Xabier, medico, con qualche storia femminile alle spalle, ma si capisce che in gioventù era innamorato di Arantxa, e forse lo è ancora. E Nerea, che seguiamo prima in diverse storie d’amore sfortunate, e poi in un ancor più complicato matrimonio.

Nell’altra c’è il padre, Joxian, legatissimo al Txato, che non ne accetterà/comprenderà mai la morte, andando a poco a poco in una deriva alcolica. Ma soprattutto c’è Miren (Maria in basco), che si radicalizza con il figlio, che ha un senso di incompleta rivalsa tra le sue sfortune e le pretese fortune del Txato. Accetterà mai la fine della contrapposizione? Loro hanno tre figli. Gorka (Jorge in basco) il minore cerca subito di dissociarsi da tutto, sia dalla lotta armata, che dall’ambiente familiare. Tanto che andrà vivere fuori, e si sposerà con uomo. C’è la maggiore, Arantxa (nome che deriva dal vezzeggiativo basco del biancospino), mal sposata con due figli, la vediamo sin dall’inizio su di una sedia a rotelle, a seguito di un ictus. Come dice lei “prigioniera del mio corpo, in una prigione che non finirà mai”. È però il personaggio più solare, più coraggioso, quello che cerca e trova il modo di riavvicinarsi a Bittori. E forse a Xabier? Infine, c’è Joxe Mari, il figlio che decide di passare in clandestinità, di far parte dei comandi dell’ETA, fino a guidarne uno nella sua regione natale. È lui che organizza il colpo a Txato, anche se non sappiamo se sia lui a sparare. Attraverso di lui vediamo momenti della lotta armata, dei passaggi di frontiera tra le regioni basche di Francia e Spagna. All’inizio è solo un ribelle, ma acquisterà col tempo anche la coscienza della lotta. Alla fine, viene arrestato, e condannato a 126 anni di carcere. Dove ha tempo di riflettere, e di interrogarsi sul passato, e soprattutto sul futuro.

Questo in sintesi sui personaggi, che avremmo potuto seguire meglio, ma che credo diano il senso del romanzo. Con quella parte poco espressa, sulle ragioni della lotta (quasi che anche noi, non spagnoli, ne dovessimo sapere). E con quelle domande sui dolori che cinquanta anni e quasi mille morti hanno lasciato sulla pelle dei baschi e non solo.

Un romanzo che fa riflettere, non sempre ben riuscito (a volte si sente che Aramburu scrive da lontano, quasi prendendo distanze che non si dovrebbero prendere). Ma val la pena di fare uno sforzo di lettura e di utilizzarlo come spunto di riflessione. Anche per altre situazioni, ed altre nazioni, ed altre lotte. Se ne può parlare, allora.

“Ci sforziamo di dare un senso, una forma, un ordine alla vita, e alla fine la vita fa di noi quel che le va.” (259)

“Chiedere perdono richiede più coraggio che sparare.” (617)

Héctor Abad “L’oblio che saremo” Repubblica Mondo 2 euro 9,90

[A: 01/12/2018 – I: 27/05/2021 – T: 29/05/2021] - &&& e ½    

[tit. or.: El olvido que seremos; ling. or.: spagnolo; pagine: 250; anno 2006]

Un’altra buona, se non ancora ottima, prova della collana dedicata alla letteratura in giro per il mondo uscita circa tre anni fa con Repubblica. Questa volta, ancora, vengo trasportato in una zona del mondo che conosco in parte, ma in una nazione che non ho (ancora) visitato: la Colombia. Inoltre, un sentimento di vicinanza mi aveva subito attratto ad inizio lettura: quel titolo ripreso da un verso di Borges, dedicato alla fugacità della vita (“Noi siamo già l'oblio che saremo”).

Non sono certo un conoscitore della letteratura colombiana (a parte Garcia Marquez, che poi prende la cittadinanza messicana), ma questo scritto di Abad, tra cronaca e memoria, è interessante e coinvolgente. Per due principali ragioni: l’analisi del rapporto tra lo scrittore e suo padre e le descrizioni (personali ma non meno toccanti) del clima di violenza nella Colombia degli anni tra il sessanta (Abad è del ’58) ed il ’90 (il padre viene ucciso nell’agosto dell’87 e Hector ripara per lunghi anni in Italia).

È tutto giocato sulla memoria, e sul tentativo (riuscito) di dare una dimensione personale all’uomo pubblico che fu il padre, ed alle sensazioni che si provavano a vivere in quegli anni a Medellin. Prima che la città stessa divenisse preda incontrastata di Pablo Escobar e del suo cartello della droga.

Vediamo così, in tutta la prima parte, quella dimensione privata della vita della famiglia Abad. Una famiglia molto “femminile”, visto che ci sono cinque sorelle ed Hector unico maschio. E come maschio, ha un rapporto privilegiato con il padre, liberale, ateo, professore di medicina dedito alla salute igienista più che alle cure mediche in sé. Soprattutto dopo un’operazione a lui mal riuscita. Ma la Colombia povera aveva bisogno di qualche sprone per la pulizia, il curare di malattie endemiche, la mancanza di acqua corrente, ed altri momenti di mancanza igienica che Abad padre denuncia e tenta di sovvertire.

Ma dicevo, la prima parte è anche personale, le passeggiate tra i due, le letture del padre, la musica a tutto volume (classica, ovvio). E le lontananze, che il padre spesso è in rotta di collisione con il potere e decide in quei casi di accettare offerte in giro per il mondo, specialmente dall’OMS, per vivere e passare a momenti migliori.

Il primo momento di rottura della felicità, secondo Hector, avviene quando alla sorella Maria Cecilia viene diagnostico un melanoma maligno a sedici anni, dove, nonostante tutte le cure, nulla si potrà fare. Quella morte segna il carattere del padre, che, internamente, sembra non riprendersi più. Una domanda che spesso mi sono fatto: come fa un genitore a superare la morte di un figlio? Penso che sia una delle cose di un dolore talmente forte che non se ne uscirà mai indenni.

Si butta allora vieppiù nel personaggio pubblico. Anche in anni in cui la Colombia comincia ad essere dilaniata da spaccature politiche profonde, nonché da una guerra civile in cui sempre più spazio prendevano i guerriglieri delle FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia), contrastate con tutti i mezzi, spesso illegali, dai conservatori al potere, attraverso forze paramilitari. Forze che dall’85 in poi falcidiano la sinistra ed i liberali in genere. Mattanza che vedrà cadere sotto i suoi colpi anche Hector Abad Gomez. Uccisione che lo scrittore descrive, analizza, vivisezione in lunghe e dolorose pagine. Che, dal punto di vista privato, fanno ancor più risaltare l’umanità e l’amore che il padre aveva per la madre di Hector, Cecilia Faciolince.

Poi, come detto, Hector fugge, si lascia alle spalle Medellin, la lotta, i morti, e poi la droga, e solo più di venti anni dopo tornerà in patria.

Ora, è di sicuro uno scritto potente sul piano umano, che mi ha fatto pensare e ripensare a mio padre, ed alla sua figura, anche ora che son quattordici anni che ci ha lasciato. Ma che, dal punto di vista del testo, forse, lascia un po’ troppo in controluce i dissidi profondi della Colombia dello scorso fine di secolo. Ma è un libro coinvolgente, e di una collana che sta mantenendo le promesse iniziali. Speriamo continui.

“Io lo amo così com’è, completamente, con tutte le sue qualità e tutti i suoi difetti, e di lui mi piacciono anche le cose su cui non siamo d’accordo.” (105)

“A me l’intelligenza è servita solo a essere stupido.” (200)

“[da “Stanze per la morte del padre” di Jorge Manrique] se anche la vita perdette / ci lasciò totale conforto / la sua memoria.” (211)

Timur Vermes “Lui è tornato” Repubblica Mondo XX euro 9,90

[A: 09/04/2019 – I: 26/10/2021 – T: 28/10/2021] - && e ¾  

[tit. or.: Er ist wieder da; ling. or.: tedesco; pagine: 394; anno 2012]

Ne avevo sentito parlare, ma non mi aveva abbastanza convinto all’acquisto in libreria. Solo in seguito, grazie alla collana sulle letterature del mondo è entrato in biblioteca ed ora, letto e meditato, ne parliamo con attenzione. Che è un libro particolare, in un certo senso poco etichettabile con un genere o un filone narrativo. Ma è ben scritto e, soprattutto, altamente documentato.

Solo il finale mi ha lasciato perplesso. Quasi che, alla fine, Timur non riuscisse a risolversi se girare completamente sul versante ironico oppure rimane su di un crinale possibilista che lasciasse il lettore alla mercè di suoi possibili finali. Così l’autore si maschera dietro un nulla di fatto, o meglio su di un crinale aperto a paure possibili (ma forse anche a rassicurazioni probabili).

Il coraggio di Timur è stato quello di affrontare un argomento veramente spinoso e sensibile per il popolo tedesco. Il coraggio di affrontare Adolf Hitler senza porsi dietro a barriere ideologiche preconcette. E Hitler, per mia conoscenza, non è mai stato completamente anti demonizzato, così come succede a molti dittatori del passato, Mussolini in testa.

Certo, il romanzo chiede al lettore di sospendere un passo di realtà, ed una volta fattolo, di giudicare le parole e le azioni per quello che esprimono, non per quello che sono state e per le loro tragiche conseguenze. La sospensione ci domanda di credere alla possibilità che, una mattina, in un parco di Berlino, si svegli una persona che ha fatto un salto temporale di 65 anni. In quel parco, vestito con l’uniforme indossata al momento del suicidio nel bunker, troviamo uno stralunato Adolf Hitler, che non sa come e perché sia lì.

Ci vogliono un po’ di capitoli perché capisca di non essere più nel 1945 ma di essere nel 2011. Ma lui sa di essere sé stesso, e con tutta la carica di quanto ha detto, scritto e fatto nella sua vita, si accinge a capire cosa fare in questo mondo “nuovo”.

L’autore utilizza alcuni differenti timbri espressivi per coinvolgerci in questa irrealtà. Innanzi tutto, c’è lo stupore per le cose che non c’erano, o erano differenti. Ad esempio, il televisore (differente) o il computer (inesistente). Poi ci sono gli altri, che prendono Adolf per un attore che interpreta magistralmente una parte. Questo porta certo a situazioni stralunanti, laddove Hitler continua ad essere sé stesso, venendo preso invece per un comico, per questo osannato, per questo portato in palma di mano da uno show business irrispettoso di ogni regola.

Il testo è tutto in soggettiva, laddove seguiamo i pensieri del dittatore, e vedendone i risvolti esterni siamo portati sia a riflettere sul passato, sia a capire quanto sia facile, in quest’epoca dell’apparire, portare sugli allori un personaggio televisivo che, analizzandone le parole, rievoca solo morte e distruzione. Il gioco sta tutta nella contrapposizione tra eventi attuali visti con una mentalità degli anni Quaranta. Facendone vedere contemporaneamente le due assurdità: quella di una mente dittatoriale di allora e quella di alcuni aspetti dei giorni nostri.

L’aspetto a me meno congeniale è il sovente rimando ad aspetti della politica tedesca attuale che, nonostante le ottime note in calce, mi rimane abbastanza lontano. Cosa che invece non è lontana ma avvicina è la lunga postfazione dove lo spirito giornalistico dell’autore ci rimanda, citazione per citazione le affermazioni di “zio Wolf”, inserendole nel loro contesto reale, effettuando la contro straniazione rispetto alle stesse frasi inserite nel contesto narrativo.

Concordo infine con chi è rimasto deluso dal finale, come detto sopra. Anch’io avrei preferito qualcosa di meno volatile. Di certo, in ogni caso, il testo di Vermes ci fa riflettere sulle modalità con cui una persona dai marcati assolutismi possa aver avuto l’appoggio di molte persone comuni. Perché è in dubbio che ne abbia avuto.

Citerei in finale la chiusa che anche Vermes usa citando a pagina 338 quanto secondo lui disse Peter Ustinov: “Chi non ha dubbi, è pazzo”. Non ne ho trovato traccia, ma la faccio mia, assecondandola ad un che invece è sicuramente reale, di Voltaire: “Solo gli imbecilli non hanno dubbi”. Io di dubbi ne ho molti, meno uno: leggete questo libro.

“È preferibile non sposarsi. Questa è la cosa brutta nel matrimonio: crea dei diritti. È molto meglio avere un’amante (citazione da “Monologhi dal quartier generale del Führer” di Adolf Hitler)” (377)

Mo Yan “I quarantuno colpi” Repubblica Mondo 3 euro 9,90

[A: 07/12/2018 – I: 13/06/2021 – T: 16/06/2021] - & +   

[tit. or.: 四十一炮 Sishiyi pao; ling. or.: cinese; pagine: 476; anno 2003]

Premessa obbligatoria: non sono mai stato un amante della letteratura orientale, che leggo con difficoltà; ma, in particolare, non sono mai entrato in sintonia con gli scrittori cinesi (direi praticamente nulla per quanto riguarda gli autori cinesi contemporanei, se non quelli espatriati, come Qiu Xiaolong, o emigrati a Taiwan, come Chan Ho Kei).

Detto ciò, ero quindi curiosamente portato alla lettura di questo libro, forse non il migliore, di Mo Yan. Anche se, per questo e per l’insieme della sua opera, nel 2012, ha ricevuto il Nobel per la letteratura, primo cinese ufficiale ad ottenere il premio, che prima di lui era stato attribuito nel 2000 a Gao Xingjian, ma questi era già espatriato, ed aveva ottenuto la cittadinanza francese, qualche anno prima.

Invece, Mo Yan è “cinese – cinese”, e come tutti i maggiori scrittori, questo è lo pseudonimo di Guan Moye. Scrittore nativo della cittadina rurale di Gaomi, con qualche imprecisione sulle date: 2 febbraio (wiki Italia), 17 febbraio (il miglior sito wiki, quello norvegese) o 5 marzo (Encyclopedia Britannica), sempre nel 1955. Non entro nella necessità o nel vezzo dell’usare nomi altri, rilevo solo che “Mo Yan” in cinese significa “non parlare”.

Io invece, parlo, e confesso che il libro non mi è piaciuto neanche un po’. C’è chi accosta la prosa di Mo Yan al realismo mistico, a Garcia Marquez o altro. Personalmente, constato solo che non mi ha preso, non mi ha coinvolto. Ho cercato di trovare spunti, o riflessioni, nella storia di Luo Xiaotong, ma, a parte lo scorrere delle sue parole narranti, le immagini suscitate, la descrizione della vita rurale e del suo passaggio ad una dimensione industriale, non mi ci sono trovato.

Soprattutto, perché lo scrittore utilizza, bene ma non mi piace, un suo andare su e giù nel tempo, scandito visivamente dal passaggio della scrittura dal corsivo all’italico. Il corsivo si svolge nel presente, dove Luo Xiaotong racconta ad un monaco buddista custode del tempio delle deità Wutong (su cui torneremo più avanti) la sua storia, come catarsi per diventare anche lui monaco. L’italico è invece il passato, collocato intorno al 1990, dove lo stesso protagonista racconta la storia del suo villaggio e della sua famiglia.

Nel passato assistiamo a tutta la trasformazione della campagna cinese da agricola ad industriale. Su due binari: privato e pubblico. Nel primo vediamo il padre di Luo fuggire con l’amante, vediamo la madre stringere la cinghia per andare avanti ed eventualmente vendicarsi del marito, tanto da diventare (probabilmente) anche l’amante del capo villaggio, vediamo il padre tornare dopo cinque anni, l’amante morta, insieme ad una figlia da lei avuta, vediamo la crescita di Luo che diventa un fulcro della vita industriale del villaggio, l’agnizione del padre che uccide la moglie fedifraga, i tentativi finali di Luo per una catarsi di difficile realizzazione.

Nel secondo, c’è tutta la parte “politica” di Mo Yan (anche se lui la nega). Il villaggio agricolo che, per denaro, diventa il “Villaggio del mattatoio”, dove i cittadini diventano feticisti, amanti così tanto della carne (che si tratti di carne d'asino, barbecue mongolo o "teppanyaki di quaglia") che le costruiscono un tempio. Non solo, diventano avidi, vendono, per soldi, carne adulterata. Ed i contadini si convertono in macellai senza scrupoli, poi si consorziano, industrializzano i loro processi. Si arricchiscono a dismisura. Qui Mo Yan tenta di portare l’attenzione ai pericoli della capitalizzazione cinese. Ma lo fa rivestendo le parole di tutte le allegorie possibili.

Come ad esempio vediamo nel presente, irrompere nel tempio automobili, donne discinte, e tante cose anche iperboliche, ma che sembra dirci l’autore, come se il monaco cercasse di mettere in difficoltà il futuro discepoli, con tentazioni “a cui non può resistere”.

Se avrete la forza di resistere alle quasi cinquecento pagine, ne vedrete di trasformazioni. Ma vedrete anche quanto lontano sia la cultura cinese dalla nostra (o quanto noi abbiamo difficoltà a conoscerla). Ad esempio, il tempio dove Luo parla al monaco è dedicato alle deità Wutong ed a pagina 404, l’autore cita un passaggio dello scrittore Pu Songling. Allora, forse pochi sanno che in effetti le “Wutong Shen” sono un gruppo di cinque divinità sinistre, dedicate (anche) ai piaceri della carne. Oltre ad esserne reali (ci sono templi a loro dedicati nella Cina meridionale), lo scrittore Pu Songling, vissuto a cavallo del 1700, ne scrisse a lungo nel suo testo fondamentale “Racconti straordinari dello studio Liao” una raccolta di oltre 400 favole popolari cinesi. Questo chiude il cerchio che avevo aperto all’inizio: se conosci tutto ciò, forse apprezzi Mo Yan, altrimenti le aspettative di capire qualcosa decadono e lasciano poco piacere nella lettura.

Un ultimo accenno: Luo nel finale spara 41 colpi di cannone contro il capo villaggio (non vi dirò neanche se lo colpisce o meno), così come 41 sono i capitoli del libro. E 41 sono tradizionalmente i colpi di cannone che vengono sparati nelle onorificenze pubbliche, sotto l’esempio della tradizione britannica. Ricordo che furono appunto sparati 41 colpi per le onoranze funebri di Filippo d’Inghilterra. E ricordo che in cinese “cannonata” sta anche a significare “vanteria” fuori misura. Saranno allora cannonate tutte le parole che ci ha elargito Luo in tutto il romanzo?

Speravo decisamente meglio nella puntata della collana dedicata alla Cina ed al suo premio Nobel.

“Se vuoi il mio latte fatti avanti … Magari berlo è peccato, ma non soddisfare un desiderio è un peccato ancora più grande.” (84)

Seconda trama del mese, dedicata questo mese a combattere la xenofobia.

Invece, finiamo non con la paura del diverso, ma con un inno al rispetto di ognuno. Rispetto che continuo a praticare in questo giorno che segna un’importante svolta: finito il trasloco, ho uno studio tutto mio dal quale vi scrivo. Dove sto rimettendo in ordine i libri, ripensando ad un risibile commento dell’ottimo Fabio Stassi che, in un libro para-scacchistico (dove ogni volta penso al mio amico Mauro), intitolato “La rivincita di Capablanca” scriveva “per i libri si era iscritto alla New York Public Library e ne saccheggiava le riserve aurifere con puntuale cadenza: un romanzo ogni tre giorni”. Se fate i conti sono circa 120 romanzi all’anno. Che dire se quest’anno ho superato quota 200?

Ma non è questo che mi preme condividere, quanto la contentezza di questa fase, per cui ancora con più gioia tutti vi abbraccio.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

DICEMBRE 2021

Cosa meglio che finire un anno ed un libro con una citazione verso la paura dell’altro.

XENOFOBIA

Se vi capita di aver paura, o addirittura di provare disgusto per chi proviene da un paese diverso dal vostro, tuffatevi in questi libri di autori extraeuropei. Scritti da persone originarie dei paesi dove sono ambientati, dimostrano quanto tutti noi siamo sostanzialmente identici sotto la pelle e ci ricordano la nostra comune umanità

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER CURARE LA XENOFOBIA

Jorge Amado                        “Jubiabà”

James Baldwin                      “Gridalo forte”

David Grossman                    “Vedi alla voce: amore”

Harper Lee                           “Il buio oltre la siepe”

Camara Laye                        “Un bambino nero”

Melania Mazzucco                  “Vita”

Harriet Beecher Stowe           “La capanna dello zio Tom”

Alice Walker                         “Il colore viola”

Richard Wright                      “Ragazzo negro”

Marguerite Yourcenar             “Memorie di Adriano seguite dai Taccuini di appunti”

Bugiardino

Per la mia cultura e propensione personale, avrei aggiunto al titolo, oltre che “curare la xenofobia”, “coltivare il rispetto”. Che ritengo sia il vero fondamento della vita e dei rapporti umani.

Intanto, di questa decina, Amado, Wright e Yourcenar li ho letti agli inizi degli anni ’80, e li ritengo tuttora di una estrema vitalità. Lo zio Tom, addirittura, lo lessi al liceo, e, purtroppo, è rimasto solo nella memoria remota. Grossman, come molti autori israeliani, è stato il pane dei miei anni ’90. Rimangono fuori, non letti e che forse non leggerò Baldwin e l’unica italiana, Melania Mazzucco. Quindi parleremo del razzismo americano con Harper Lee e Alice Walker, e di quello africano con Camara Laye. Insomma, si parla sempre di gente di colore più scuro del nostro.

Harper Lee “Il buio oltre la siepe” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato 6)

[tramato il 14 settembre 2008]

Un libro pieno di sorpresa, o almeno tre: la prima è che Harper Lee è una donna, mi ero sempre fissato fosse un uomo. La seconda è la dura gradevolezza. La terza è che Atticus Fintch anche nella scrittura ha sempre la faccia di Gregory Peck. Unico libro degno di nota della Harper, anche ora, a quasi 50 anni dall’uscita, mantiene la sua forza, la sua freschezza, la sua dolente attualità. Un libro in fondo pieno di diversi, con i quali fare i conti. E sarà proprio uno tra i più bistrattati a salvare da una sordida fine i fratellini Fintch.

Vogliamo parlare del nero accusato solo perché nero? Dei benpensanti che vanno in giro a fare le ronde? Dei padri padroni? Forse sarebbe giusto, come sarebbe giusto proiettare nelle scuole lo stupendo film.

A Maycomb, Jem e Scout (figli di Atticus Fintch) un'estate conoscono un altro bambino, Dill, e fanno amicizia. I tre sono attirati da Arthur Radley detto Boo, considerato un uomo pericoloso e violento, rinchiuso nella casa accanto alla loro. Ma, col passare del tempo, si accorgono che Boo, senza farsi vedere, si preoccupa dei tre. Atticus spiega che è stato nominato d'ufficio per difendere un uomo nero, Tom Robinson, accusato di violenza carnale su una bianca, anche se sapeva che avrebbe perso.

Al processo, Atticus dimostra, senza ombra di dubbi l’innocenza del nero e la colpevolezza di Bob il padre della violentata. Ma Tom viene condannato ugualmente da una giuria di bianchi. Durante una festa di Halloween Scout e Jem stanno andando verso casa, dopo la recita, quando vengono assaliti da un adulto. Nel luogo della lotta, alla fine viene ritrovato il corpo di Bob pugnalato al petto. Ho detto quasi tutto, ma lascio un po’ di buio, infondo alla siepe.

Note di merito alla traduttrice (se è merito suo) che ha reso nel titolo molto dell’atmosfera. Infatti, in italiano, il titolo è una metafora: il buio oltre la siepe è ciò che è sconosciuto pur essendo vicino. Nel romanzo, è la figura di Boo, il vicino di casa dei Fintch che loro non hanno mai visto e che, per questo, non conoscono. E, infatti, anche Scout afferma che, col tempo, la casa di Boo non la spaventava più, ma non le appariva meno buia. Nel testo, invece, ci sono diversi riferimenti al titolo originale (“To kill a mockingbird” che significa: Uccidere un usignolo). L’usignolo è un uccello innocuo, che delizia con il suo cinguettio. Ucciderlo è quindi un peccato doppiamente grave.

Come usuale nelle mie prime letture, inserisco in finale delle note biografiche. Harper Lee  nasce il 28 aprile 1926 (toro!) a Monroeville, Alabama, da padre avvocato (come nel suo libro), ma segregazionista, e da una madre costantemente invalida per una persistente depressione. Ultima di due sorelle e un fratello, Nelle Harper Lee frequentò la scuola pubblica del suo paese e l’Huntington College, una scuola privata solo per donne. Si iscrisse poi dal 1944 al 1949 all’University dell’Alabama, dove fece parte della “sorority” Chi Omega e dove tenne su “Rammer-Jammer”, il giornale umoristico degli studenti, da lei diretto, una rubrica intitolata "Commento Caustico". Seguì un corso alla Oxford University con il progetto di laurearsi in legge, ma lo interruppe sei mesi prima della laurea. Nel 1949 si trasferì a New York, raggiungendo il suo amico d'infanzia Truman Capote (da lei ritratto nel personaggio di Dill). Qui lavorò come impiegata per la Eastern Air Lines e la British Overseas Airways; e, nel frattempo, scrisse vari racconti e sviluppò "Il buio oltre la siepe", più volte rifiutato dagli editori. I suoi amici, nel 1956, le regalarono un anno di libertà economica per dedicarsi esclusivamente alla scrittura e lei si licenziò dall’impiego. Dopo la pubblicazione presso le edizioni Lippincott del suo unico e celebre libro, che in un anno vendette mezzo milione di copie, Lee collaborò con Capote alla ricerca su un episodio di cronaca in Kansas che ha fornito la base per il romanzo dello scrittore "A sangue freddo" (1965). Il lavoro di Lee fu determinante per la stesura di questo testo; tuttavia, Capote non lo riconobbe adeguatamente, limitandosi ad una dedica, per di più condivisa con il proprio amante gay Jack Dunphy.

Harper Lee, che nel frattempo aveva pubblicato soltanto gli articoli “Love – In Other Words” nella rivista “Vogue”, “Christmas To Me” e “When Children Discover America” in “McCalls”, si dedicò poi alla stesura di un secondo romanzo, "The Reverend”, ma non lo diede mai alle stampe, per motivi che restano ignoti e che lei non chiarì.

La chiave dell'enigma legato al suo ritiro e alla sua decisione di smettere di pubblicare, rinunciando a sfruttare la propria notorietà e l'ondata di successo, sta nella sua "personalità paradossale". Secondo sua sorella, il manoscritto di “The Reverend” le venne rubato subito dopo il completamento e lei, semplicemente, lo prese come un segno del destino. Quanto alla sua scelta esistenziale di eterna “single”, Harper lo ha sinteticamente spiegato così: “Prima di poter vivere con altra gente, devo riuscire a vivere con me stessa”. Il resto è silenzio.

Alice Walker “Il colore viola” Sperling euro 9,50

[tramato il 08 marzo 2015]

Un bel libro, certamente non facile, e sicuramente ravvivato nei ricordi da chi (ma non io) ha visto il bel film che ne ha tratto Spielberg. Anche questo, come altri che leggo in questo periodo, vincitore di un Pulitzer, pur se un premio avuto or sono trenta anni. Ed anche questo, come il coevo della Morrison, ambientato nell’universo nero. E di non facile lettura, perché si configura come un romanzo epistolare.

Seguiamo le vicende di Celie attraverso le sue lettere, prima a Dio, quando giovane e spaventata, non sa a chi rivolgere le sue parole e come affrontare una vita molto complicata. Poi alla sorella Nettie, da cui viene separata a forza. Finendo poi nelle risposte che la sorella invia e che non sappiamo se arrivano. Quindi mai una narrazione diretta, sempre una ricostruzione attraverso le parole dei protagonisti. Siamo nella prima metà del ventesimo secolo, nel più profondo Sud degli Stati Uniti, dove i neri si sposano solo per avere una persona che curi i numerosi figli che nascono dentro e fuori il matrimonio. Celie, abusata dal patrigno, vede sparire i suoi due figli. Poi, per salvare la sorella Nettie dagli stessi abusi, accetta di sposare l’anziano (ma non vecchio) Albert, e di fare la cameriera per tutti.

Così Nettie riesce a fuggire lontano, tanto che se ne perderanno le tracce per buona parte del libro. Celie fa crescere i figli di Albert, aiuta Harpo, il maggiore, a sposare la ribelle Sofia. Poi tutto cambia con l’arrivo di Shug, una cantante (professione quanto mai peccaminosa) che è stata per anni l’amante di Albert. La ventata di una donna indipendente comincia a far maturare Celie (e lo vediamo dal tono delle lettere che cambia). C’è all’inizio diffidenza tra le due, poi comprensione, poi qualcosa in più, forse amore. E grazie all'aiuto di Shug, Celie trova le lettere che Nettie aveva continuato a spedirle, e che il marito le aveva occultato in tutti quegli anni. Scopre così che la sorella, seguendo le sue indicazioni, aveva raggiunto i missionari a cui erano stati affidati i suoi due figli, e con loro si era recata in Africa, per un programma di evangelizzazione ed assistenza nelle zone più arretrate di quel continente.

Attraverso le lettere recupera il suo mondo, abbandona la scrittura con Dio, e si affida alla sorella, seguendo la crescita dei figli ed assistendo alla progressiva demolizione dell'ambiente e delle tradizioni tribali del luogo da parte della rapace civiltà occidentale. Intanto Sofia ha l’ardire di schiaffeggiare il sindaco, viene incarcerata, poi allontanata dai figli e dal marito. Celie, attraverso la forza che le ha dato Shug, tenta di affrontare tutto e tutti. E quando è messa alle corde, decide di andarsene a Memphis, con Shug, mettendo a frutto il suo talento, creando una piccola attività di sartoria. Sembra un bel momento, poi Shug irrequieta riparte e tornerà anni dopo, sposata con un ragazzo che ha un terzo dei suoi anni. Decidono tutti di tornare al paese natio, che il patrigno è morto lasciando una cospicua eredità a Celie. Anche Albert è cambiato, non picchia più Celie come faceva all’inizio, si cura dei figli e dei nipoti.

Intanto Nettie cerca di tornare con i figli di Celie, ma nella traversata vengono affrontati da navi tedesche (siamo ormai in guerra) e se ne perdono le tracce. Il mondo sembra crollare, ma è proprio l’ex-marito che la sostiene nel piccolo e le da quella pur poco consistente serenità per andare avanti. Per far ricongiungere Harpo e Sofia. Per farsi avanti al ritorno di Shug, e finalmente dichiarare apertamente l’amore che da sempre provava, e di viverlo. E quando meno se lo aspetta, arriva Nettie con la sua nuova famiglia. Portando definitivamente la felicità nella casa in cui tanti anni prima, tutto era cominciato.

Si sente molto che Alice Walker è un’attivista dei diritti delle donne, ma lo fa in un modo corretto verso tutti. Si sente molto, e ne viene una grande rabbia, il modo come i bianchi (che poco entrano direttamente sulla scena) tengono i neri sotto il tallone. Si sente molto la capacità che può avere una donna quando viene messa in grado di poter sfruttare al meglio le proprie capacità. Si sente molto la bravura di una scrittrice che ha ragione di esistere anche solo per aver scritto questo libro (probabilmente ne ha scritti molti altri, ma per ora questo mi è sufficiente).

“Siamo qui … per far domande. Per chiedere. E … facendo domande, interrogandosi sulle cose grosse, si impara molto sulle piccole, quasi per caso. … Più mi faccio domande … più amo la gente.” (307)

Camara Laye “Un bambino nero” Aiep Editore euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)

[scritto il 15 agosto 2021 e non ancora pubblicato]

Uno dei tanti libri di cui non conoscevo l’esistenza, e che le ormai mie mitiche “libropeute” me ne consigliarono, e non invano, la lettura. Un libro che ci porta tanto lontano, nello spazio e nel tempo. Nel tempo, che ci si muove in un’Africa della fine degli anni ’40. Nel tempo, che l’autore ci porta in Guinea. Anzi, per l’esattezza, in quella che viene chiamata Guinea-Conakry, per distinguerla dall’altre Guinee. Ed ancor più precisamente, nella cosiddetta “Alta Guinea”, la regione con capoluogo Kourussa, ai confini con il Mali.

Camara scrive il libro agli inizi degli anni ’50, che mi porta a prima della mia infanzia, suscitando anche scalpore, per la gentilezza con cui affrontava temi non molto alla moda, al tempo. Ma anche perché qualcuno sostenne che fu aiutato da “scrittori ombra”. Noi ci disinteressiamo delle polemiche, e vediamo il risultato di un libro che nel tempo è divenuto un libro fondamentale della francofonia. Che la Guinea di Camara era una colonia francese, al contrario della Guinea-Bissau portoghese o della Guinea Equatoriale spagnola.

Lo scritto ci porta fino ai primi ricordi dell’autore, alle sue esperienze presso la famiglia avita, nella campagna di Tindican, e nella casa parentale di Kourussa, la capitale della regione. Quindi seguiamo le parole di Camara, in primis accogliendo con riverenza la proprietà di linguaggio. Si nota, anche nella traduzione, che si parte da una lingua non propria ma ben introiettata, con uso corretto di sintassi e costruzioni varie. Poi, vediamo che ci parla della città e della campagna, della famiglia con tutte le sue estensioni, del lavoro del padre, orafo da sempre, legato al mestiere e per questo riverito e ben voluto.

Seguiamo anche, nel corso degli eventi, quel misto di fede mussulmana e di tradizioni animiste, ben presenti allora in quest’Africa narrata, ma che è sempre viva in quella zona del mondo. D’altra parte, Camara non pretende di raccontarci tutto il territorio (“L’Africa è vasta”, scrive). Ma non ci addentriamo nella fede, se non per tornarci più avanti, quanto ci immergiamo nell’atmosfera selvatica degli incontri che il giovane Camara effettua nelle camminate verso la scuola. Un susseguirsi di leoni, cinghiali, capre, scimmie. Spaesando la nostra percezione, o almeno quella delle nostre campagne, dove tuttalpiù si incontravano conigli.

Ricco di riferimenti culturali di un mondo che via via è scomparso, Camara arriva al punto cruciale, quando parla del passaggio all’età adulta, che, come in ogni paese mussulmano, passa per le pratiche mutilatorie. Si accenna, senza però approfondirla, alla escissione femminile. Mentre si parla e si gira a lungo sulla circoncisione. Sui sentimenti di attesa e di paura che provoca, sul fatto di sapere (forse) cosa dovrebbe accadere, ma rimanerne tuttavia meravigliati, e poi scossi. Anche se poi apprezziamo la bravura e la velocità del tagliatore di prepuzi che svolge la sua opera su decine e decine di giovani in tempi rapidissimi.

Ma Camara sta stretto nella regione natia, e trova il modo di volare alto. Prima nella capitale e poi addirittura in Francia. E mentre ne seguiamo il percorso, apprezziamo la delicatezza con cui ci parla di tante piccole cose: la nascita di sentimenti romantici verso l’altro, la sua famiglia, complessa ed allargata, anche nella non facile convivenza con le plurimogli del padre (fantastica la scena del regale della seconda moglie per la sua partenza). Poi la scoperta della grande città, la descrizione commossa di Conakry, sia al suo arrivo, ma in particolare durante le sue passeggiate. Lì, ha la possibilità di ottenere una borsa di studio per Parigi. Lì vediamo la difficoltà di convincere la madre alla partenza. Lì lo vediamo partire insieme alla sua amica Marie.

Lì finisce la storia del ragazzo negro. Forse comincerà quella dell’uomo. Ma sarà di certo un'altra, e scritta altrove. Noi restiamo ad apprezzare un piccolo gioiellino, che serve ai giovani lettori per addentrarsi nella lingua francese, ed a noi per evocare un mondo che solo in parte non c’è più. Una buona prova, di certo, forse letto troppo tardi per apprezzarne in pieno le sfumature. Ai giovani l’ardua sentenza.

Conclusioni

Finiscono così dopo cinque anni i libri “curativi”. Se ci saranno ritorno, sarà per libri letti dopo la scrittura di queste note. Non arrabbiatevi di tutto ciò, ma continuiamo con il motivo conduttore di questo mese (e di questi anni): il rispetto.

Buona fine dell’anno, come buona è a fine di questo libro.