lunedì 28 marzo 2016

Liguria, psicanalisi e gialli - 28 marzo 2016

Inusualmente, dato il giorno festivo, comincio augurando a tutti una buona Pasqua, che era ieri, ma i miei amici gradiranno comunque i miei auguri.
Già altre volte avevo commentato il connubio tra Liguria e psicoanalisi, in relazione alle lunghe letture (anche se di corti scritti) da me dedicate a Lorenzo Licalzi. Qui, aggiungiamo un addendo alla somma, dato che il bravo bruno Morchio oltre che ligure (ed in particolare genovese) e psicanalista, scrive dei gialli di buon respiro, imperniati sulla figura di Giovanbattista “Bacci” Pagano, un investigatore radicato nella Genova dei carruggi. Un buon personaggio, certo con alti e bassi, ma sempre con un occhio di riguardo vicino alla sufficienza letteraria. Sicuramente per i primi due, un pochino meno, ma sempre di gradevole lettura, gli altri.
Bruno Morchio “Maccaia” Sole 24 ore – Noir Italia 33 euro 6,90
[A: 25/02/2014– I: 27/05/2015 – T: 29/05/2015] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 231; anno 2004]
Come dissi tramando il primo libro dedicato all'investigatore Bacci Pagano, pur non convincendomi del tutto, pensavo che ne avrei riletto. E guarda caso, lo stesso Sole 24 ore, sempre nella collana Noir, pubblica la seconda storia di Bacci. Quindi se ne legge per dover di collana, e, come immaginavo, la storia, la scrittura e tutto il resto diventano più corposi ed interessanti. Non che Morchio diventi all'improvviso un maestro di prima grandezza. Ma risale abbondantemente e con agile passo i piccoli avvallamenti cui era cascato nel primo libro. Intanto, pur sembrando difficile, riesce a ricucire la partenza. Dicevo, per come si era concluso il primo romanzo, che si doveva trovare qualche nuova idea. E così è. Anche se rimangono in ombra i misteri sollevati nel primo libro sulla parte così detta “da Servizi Segreti”, Bacci ha un buon avvocato (donna) alle spalle che lo tira fuori dai guai, gli fa avere la licenza, e lo rimette in pista. In secondo luogo, pur non nascondendo idee e sentimenti dei protagonisti, non si cade nella “propaganda” di bassa forza, lasciando vedere bene, anche se in controluce, cosa si pensa di molte cose (l’Italia, l’immigrazione, la politica, l’economia). Ma la trama non ne è appesantita. Entriamo meglio anche nel personaggio “Bacci Pagano”, incontrando la ex-moglie (che non ci sta molto simpatica), cercando di capire se Bacci riuscirà a vedere la figlia Aglaja (e per capirne il nome, basta che qualcuno rilegga “L’idiota” di Dostoevskij), entrando nel suo ménage di persona solitaria (non sola) dove c’è un rapporto di mutua comprensione con la donna che lo aiuta per le faccende di casa, la nubiana Zenab, ed il di lei figlio Essam, assistendo al ritorno sulla piazza della psicologa Mara dalla quale si erano lasciati tre anni prima (“perché tu, Bacci, sei un analfabeta dei sentimenti”), e chiosando con l’unico elemento di vera continuità, il rapporto di amicizia e mutua collaborazione con l’ispettore Pertusiello, per facilità comunque chiamato sempre con il nome, Totò. Ed ovviamente rimangono il vino, e la musica, o più che la musica, Mozart. Ed il secondo protagonista di tutte le storie, la città di Genova, con i suoi carruggi (come nel primo libro), con le sue piazze e le sue vie, e con Paolo Conte che ne canta (come dal titolo che oltre a rimandare al tempo umido di scirocco, riporta ai versi di “Genova per noi” del cantante piemontese). Detti questi contorni, la storia è linearmente complicata. abbiamo un anziano signore, sbranato al collo da un lupo. Signore di una settantina di anni, in realtà usuraio, e con sposa giovane e panamense. Per inciso bella, tal che sia Bacci che Totò ne rimangono colpiti. E per di più fedifraga consensuale, che ha una storia con l’autista cileno. Che guarda caso ha un allevamento di cani in provincia. Signore che aveva anche fatto una assicurazione sulla vita ben onerosa due anni prima, sotto le minacce di un fantomatico rumeno. Bacci viene ingaggiato dall'assicurazione che non vuole pagare il premio. Bacci che si convince, ad istinto, che la soluzione non vada cercata verso la bella. Pian pianino, aiutato anche (ma con molto spavento da parte di Zenab) dal giovane Essam, e da varie circostanze fortuite, ricostruisce molti retroscena. Compare una figlia illegittima del morto. Morto che spendeva soldi a profusione ai casinò. Compare il rumeno, che non è altro che un fantomatico fidanzato della figlia. Compare dietro a tutti l’assicuratore che, unico, sapeva molto più di quanto si immaginava. E che stava cercando di imbrogliare i soci della ditta per salvarsi da una imminente bancarotta. Alla fine, come non succedeva nel primo libro, tutti i nodi vengono sciolti. Si sanno colpevoli e mandanti e tutto il resto. Finendo con una bella e prospettica cena a tre, con Bacci, Mara ed Essam. Ripeto, i sentimenti e le idee di Morchio traspaiono comunque ma sono ben congeniali alla trama stessa, riappacificandomi con uno scrittore che se ne leggera di nuovo.
Bruno Morchio “Crêuza degli ulivi” Corriere della Sera 25 euro 6,90
[A: 05/05/2014– I: 03/10/2015 – T: 05/10/2015] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 357; anno 2005]
Siamo così giunti al terzo episodio delle storie di Giovanbattista Pagano detto Bacci, laureato in lettere, ex rivoltoso degli anni Settanta con malaugurato strascico giudiziario (involontario per altro), ora e sempre di più investigatore privato e genovese. Con la seconda connotazione importante anche più del resto. Genovese e, come dice la sua futura ex Mara, “analfabeta dei sentimenti”. Non è un caso che il sottotitolo originale del libro, uscito per gli interessanti tipografi semi-artigiani della Fratelli Frilli editore, era “Le donne di Bacci Pagano”. Qui, rispetto alla stretta cronologia delle storie, Morchio si sposta un po’ indietro, posizionandosi nell'agosto del 2001, subito dopo le storie del G8 di Genova (e bisognerebbe fare due lavori filologici: paragonare il clima di Pagano con quello di Erica Franzoni della Fassio nel recente “L’oro di Sarah” e quello di ricostruire un po’ la “storia di Bacci”) e lasciandoci un po’ spaesati sui rapporti amorosi del nostro. Che qui, dopo una furibonda lite, sembra lasciarsi definitivamente con la sua fidanzata storica, la psicologa Mara Sabelli. Mentre nel precedente Maccaia sembra che vi sia un ritorno di fiamma. Qui il nome tutelare della casa, la nubiana Zenab, è in visita ai parenti africani, nel precedente / successivo ha un suo ruolo ben definito. Qui, intanto, il nostro ha una vigorosa storia di sesso e di amicizia, non di amore purtroppo, con la bella Valeria, dove un po’ si consolano insieme, un po’ si dilaniano per quella incapacità (forse troppo legata al lavoro di psicoterapeuta di Morchio) di introspettarsi nei sentimenti del suo animo che Pagano palesa sempre di più. E come dice il titolo, altre donne la fanno da padrone nell'andamento del libro. Linda, amica storica di Mara, mai troppo simpatica a Bacci, che viene trovata annegata in casa, e dove si scopre avesse una rovente storia d’amore con il chirurgo Amidei. Eleonora, la bella moglie di Amidei, che ingaggia Pagano per scoprire se il marito la tradisce, e, scopertolo tragicamente con la morte di Linda, re-ingaggiare Pagano per trovare le prove dell’innocenza del marito. Nelle more (e questo noi che non siamo analfabeti come Bacci lo avevamo capito da subito), Valeria si consola con Bacci proprio perché uscita da poco tempo (meno di un anno sembra) da una torbida storia di sesso sempre con il “buon” Amidei. Che appunto non è affatto buono, che in quel di Milano intrallazzava con le cliniche private, e che, quasi raggiunto dai magistrati (“rossi” ovviamente) ripara a Genova per rifarsi una verginità. Tampinato però dai soci milanesi, che lo controllano affinché non faccia stupidaggini. Utilizzando in questo il malavitoso Maurice Carta, detto lo Svizzero (ancora notizie dai Cantoni, eh…). Ma lo Svizzero, controllando il chirurgo, fa una strana scoperta. Il padre di Linda, il super-ricco Beltrami, che aveva cacciato per motivi oscuramenti incasinati lei ed il fratello da casa, diseredandoli del suo cospicuo patrimonio, dove venti anni di totale assenza dalla loro vita, ora che si avvicina o sente avvicinarsi la fine, cerca di riavvicinarsi a Linda. Magari reintroducendola nell'asse ereditario, a scapito del figlio di primo letto, il triste ed oscuro Roberto. Cosa fa allora lo Svizzero? Da buon killer prezzolato si offre a Roberto per far fuori i suoi due fratellastri e lasciarlo solo ed erede unico. Non sappiamo, non se ne hanno le prove giudiziarie (solo quelle morali, ma con quelle non si va in prigione), se Roberto accetti. Fatto sta che Linda muore. Che Carlo, il fratello, sfugge ad un primo attentato. E nel corso del secondo, viene ucciso provvidenzialmente dal nostro Bacci. Questa la storia, ma non si va avanti per quasi 400 pagine solo con queste righe. Che si intrecciano, appunto, le storie d’amore e di pentimento di Bacci, le cene e le discussioni tra Pagano ed il suo amico vice questore Totò Pertusiello (mitica quella di cozze e lampughe, innaffiata da uno chablis gelato), il mai sopito rapporto tra Bacci e la figlia Aglaja (quella che non lo vuole vedere), le passeggiate per i carruggi, poi per le crêuze, che sempre ci rimandano ai suoni immortali di De André, alle poesie d’amore dei poeti spagnoli tanto amati da Linda, e non solo il molto citato Lorca, ma anche e soprattutto il meno noto (al volgo) Jimenez che tuttavia un Nobel della letteratura lo prese, nel 1956. Insomma, tanta carne al fuoco, e purtroppo non ancora uno splendido volo in alto, che la fine dei libri di Morchio lascia sempre un po’ in sospeso la parte giudiziaria delle vicende. Come detto, non quella morale, ma in un giallo ci vogliono entrambi. O ci vuole una spiegazione perché ne manchi una. Certo, Morchio avrebbe facilità nel dire che in Italia le cose vanno più come le descrive e la lascia sospese lui. Ma noi si spera in un cambiamento, sempre e comunque. Infine, qualche pagina di libricino in meno, che l’ambientazione post-G8 non aggiunge nulla al libro, se non una sua connotazione temporale. E forse la dedica, che condividiamo sia a Manolo Vazquez Montalban sia ad Aldo Tarascio.
“- Sono un analfabeta dei sentimenti. – Cosa vuol dire? – Che non so leggere i miei sentimenti. Non li capisco. Mi sfuggono. E faccio anche fatica con quelli degli altri.” (148)
“Sono troppo vecchio per fare progetti.” (258)
“Se proprio non riesce a stare insieme, la gente dovrebbe almeno imparare a lasciarsi bene.” (327)
Bruno Morchio “Con la morte non si tratta” Garzanti euro 4,90
[A: 02/10/2014– I: 20/12/2015 – T: 24/12/2015] - &&&---
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 297; anno 2006]
La terza prova di Morchio con il suo investigatore privato Giovanni Battista “Bacci” Pagano è sicuramente meno riuscita delle precedenti, che mi avevano convinto a seguire la carriera di quest’occhio privato genovese, letterato, ex-carcerato per fatti di terrorismo mai provati. Ed anche se la storia mostra un grande amore per la Sardegna (seconda terra di molti genovesi), a me mancano Genova, le sue “crêuze” e i suoi “carruggi”. Sicuramente è anche un libro “di passaggio”, che serve all'autore per approfondire il suo personaggio ed i suoi contorni (gli amici, le donne, la figlia). Meno coinvolgente e meno riuscita la parte “poliziesca”, quasi d’ambiente più che di scoperta. Molto anche condizionata dalla collocazione sarda di tutta la parte nodale della vicenda. Sardi i luoghi, sardi ed oscuri i personaggi che si muovono e si dovrebbero muovere nella trama. Togliamoci subito questo dente, allora. La storia comincia una decina d’anni prima, rapina ad un furgone porta valori. Dove un bandito rimane ferito e viene arrestato, e coerentemente condannato. Ora Sanna (il bandito) ha paura che il figlio lo voglia vendicare ed ingaggia Bacci per trovarlo prima che faccia sciocchezze. Per questo il nostro si trasferisce nell’Ogliastra, in quel di Tertenia, suo luogo di ritiro, dove vive il suo grande sodale, Virginio Loi, il carceriere che gli ha “salvato la vita” durante i cinque anni di carcere. E lì si ritrova nelle faide locali complicate dalla rapina di cui sopra. Rapina organizzata da Otello Ganci, e realizzata da Puddu, Canu e Sanna. I tre fuggitivi si spartiscono il bottino, facendo comunque recapitare a Sanna in carcere di che mantenere moglie e figlio. In Francia, per motivi oscuri (oscuri a noi lettori e non spiegati da Morchio), Canu uccide Puddu. Per vendetta, Ganci fa fuori Canu, si ritrova con tre quarti del ricco bottino, e, dopo qualche anno di relax francese, durante il quale si sposa con la bella, giovane ed ex-prostituta Martine, ritorna a Tertenia. Qui appunto Pagano sa che non troverà il figlio di Sanna, ma sa che si perpetuerà qualche vendetta. Che la famiglia Canu è pronta a vendicare il suo morto. E Otello è ormai in fin di vita per un tumore. Dopo molte e complicate vicende (poco spiegate purtroppo) incasinate da Martine che vorrebbe mollare Otello e farsi nuova vita con il giovane Vale, tutto avrà un suo compimento. E l’unico che rimane alla fine (e questo ha anche una sua morale) è il buon Sanna carcerato. Ma quello che preme di più a Morchio (dato anche che il nostro è pure psicologo) è indagare sui personaggi, sui loro sentimenti e comportamenti. Abbiamo i rapporti d’amicizia tra Bacci e Virgilio, cementati dal carcere prima e dal lungo sodalizio poi. I rapporti di Bacci con le donne: la continua guerra con l’ex-moglie Carla, lo strano connubio con la psicologa Mara, le puntate verso “nuovi e freschi lidi” come i tentativi di Martine verso di lui (ed i suoi rifiuti). I rapporti genitori – figli, con l’irruzione prepotente sulla scena di Aglaja. Tuttavia, sovente, quello che più preme all'autore meno interessa il lettore. Certo, il rapporto con Virgilio consente di scavare nel passato di Bacci, di farci ripercorrere gli anni giovanili, gli aneliti rivoluzionari, ma anche la correttezza “morale” del personaggio, che rimane coerente con sé stesso, anche nel carcere dove trascorre cinque anni benché innocente. E dove lo salva, appunto, il rapporto con Virgilio, carceriere dal volto umano, che ora, pensionato, lo ospita spesso nella sua Sardegna. Guarda caso, casualità permettendo, proprio nel comprensorio che sarà teatro della vicenda dei banditi sardi sopra descritta. Più dal suo mestiere di psicologo poi, Morchio ricava i rapporti tra Bacci e la ex-moglie, tirando fuori tutta quella serie di comportamenti che divorziati senza pace riescono a tirarsi addosso per anni ed anni. Soprattutto laddove ci siano figli di mezzo. Come in questo caso. Con Clara che diventa iperprotettiva nei confronti della figlia, tanto da soffocarne ogni anelito. Con Aglaja che vede il padre come anelito di libertà. E con Bacci che non sa come comportarsi. Sarebbe inutile dirgli, caro Bacci, comportati come sei, cioè non essere diverso da te stesso. Lo sei con le donne, siilo anche con tua figlia. Ma non è facile, lo capisco, comportarsi coerentemente con la propria personalità, quando pensi che un tuo sbaglio possa far precipitare le cose, e precipitarle tanto che per altri dieci anni rischi di non vedere più tua figlia. Lateralmente commentiamo che è apprezzabile (ed immaginiamo non facile) che Bacci resista al fascino malsano di Martine, riuscendo (anche se solo sul filo di lana) a non andarci a letto. Sarebbe stata una caduta di tono ingiustificabile. Come avete capito, la parte dei rapporti umani è quella che mi ha interessato di più, che probabilmente continuerò a seguire sulle tracce di Bacci. Sperando che anche il contorno migliori. In particolare se, come spero, si tornerà in Liguria ed a Genova, si ritroverà il commissario Pertusiello che qui c’è un po’ mancato, e si continuerà ad ascoltare CD di Mozart.
“La lettura è sempre stata la migliore medicina del mio malumore e del mio nervosismo.” (220)
Bruno Morchio “Le cose che non ti ho detto” Garzanti euro 9,90
[A: 02/10/2014– I: 01/03/2016 – T: 03/03/2016] - &&&----
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 278; anno 2007]
Quinto capitolo delle storie di Giovan Battista “Bacci” Pagano. Dove, come speravo, si torna ad intrecciare discretamente intorno ai sentimenti ed alla psiche. Ma dove il contorno che si usa definire “giallo” è ancora in minore, e se vogliamo anche un po’ rimasticato da un altrove ben riconoscibile. Morchio mi è ormai familiare, ma ricordo, a chi fosse sfuggito, che nasce psicologo e psicoterapeuta. Insomma, un altro dottore prestato alla letteratura, come Andrea Vitali o, meglio, come Lorenzo Licalzi. In questo romanzo, poi, il lato psicologia esce fuori, prepotentemente, sia perché uno dei personaggi centrali è proprio uno psicologo, sia perché le problematiche presentate nascono proprio dall'ambito lavorativo. Rapporto terapeuta e paziente, innanzi tutto, ma anche tra terapia e mondo esterno, e, non ultimo, tra il terapeuta e la propria professione. Cosa succede se il terapeuta viene a conoscenza di situazione potenzialmente fuori dall'ordine costituito? Come si sente e si pone il terapeuta? Cosa succede se il terapeuta si innamora di una paziente? Si tratta di transfer inverso? E se poi la sposa? Tutte domande che credo Morchio, come ogni bravo psicologo, si sia fatto, e che, forse proprio per la difficoltà (o impossibilità) di dare una risposta chiara, cerca di adombrare nel corso del romanzo. Quasi sentisse il bisogno di una esternazione, per coinvolgere noi, poveri lettori, nei suoi pensieri e nei suoi panegirici mentali. Il tutto complicato da un intreccio mortale di situazioni incrociate. Vent'anni prima dello svolgere delle azioni attuali, Bacci indaga sulla morte in Thailandia di Andrea, un ragazzo, casualmente in analisi con il dottor Ingroia. Bacci tenta di aver un aiuto dal dottore, senza successo. Poi tenta di risolvere le modalità della morte stessa recandosi a Bangkok, luogo del delitto. Da qui in poi, l’autore alterna passato e presente, per arrivare ad una soluzione complessa non di un caso, ma della vita dei personaggi. Qui, mi fermo un attimo, e riprendo quell'accenno di critica iniziale. Sin dalle prime battute tailandesi, ho pensato ad un altro grande giallo ambientato in Oriente, “Gli uccelli di Bangkok” del grande Manolo, in cui il mitico Pepe è coinvolto nell’auto-risoluzione di un caso. Un caso che ha molti punti in contatto con quello qui presentato (italiani all'estero, mafie e diamanti, polizia corrotta, ed altro). Un caso intrecciato anche con un omicidio in Barcellona in ambiente non carvalheschi, quel mondo radical-lesbo-chic che il nostro Pepe conosce bene, conoscendo tutti i sottoboschi barcellonesi. Se avete pazienza, andate a rileggerlo, anche se non è uno dei libri più riusciti di Vazquez Montalban. Certo Morchio risolve l’intreccio in maniera diversa e direi brillante (anche se comprensibile ben presto a noi attenti lettori onnivori). Inoltre, con onestà, tributa un omaggio a Pepe esplicito ed implicito (che non vi svelo). Tornando a Bacci, si diceva delle situazioni incrociate. Che ora, nel presente, Ingroia tenta più volte di togliersi di mezzo (con alcool tanto ed anche con una pistola) ed a Bacci si chiede un aiuto. E chi lo chiede se non la sua ex Mara, psicologa anch'essa, che tra l’altro ha proprio Ingroia come supervisore psicoanalitico? Bacci si cala quindi nel presente di Ingroia, che ha appunto sposato una sua paziente, Carolina, che oscilla tra uomini e donne senza sapersi decidere. Bacci è pur sempre un investigatore, quindi guarda, chiede, collega. Unisce Carolina ad Andrea, ricordandone le tracce tailandesi. Svela casualmente il passato di adozione di Carolina. Associa la morte di Andrea per mano di un italiano trafficante in diamanti con la morte dello stesso. Segue le tracce del losco figuro a ritroso, trovando alla fine IL (scusate la maiuscola, ma ci vuole) filo rosso che congiunge Andrea, Carolina, Ingroia, il suicidio della madre naturale di Carolina, una improvvisa ricchezza e la morte del trafficante. Una risoluzione cui dà una mano la lettura di Proust (ricordiamo che Bacci, in carcere, si laurea in Lettere) e che avanza sulle note di un andante di Mozart. Ci sono ruscelli che portano acqua al mulino della soluzione, ma che vi lascio la gioia di scoprire. Io cerco di chiudere sulle note positive dell’altro versante del nostro Bacci, il personale. Quello dei suoi rapporti con la figlia Aglaja, e con le sue donne, Mara in prima linea. Tutto convergente verso una bella festa di 18 anni della figlia, cui partecipano gli amici sardi del romanzo precedente, la sua colf (e qualcosa in più) Zenab con il figlio Essam, Mara, il commissario Totò con moglie. Festa verso la quale Bacci si proietta con un dono di Ingroia, anzi delle parole di Ingroia, convincendosi ad affrontare i suoi problemi come problemi e non, al solito, come qualcosa da sempre derivato dai cinque anni di prigione. Al fine, un romanzo dignitoso per la parte psicoanalitica, discreto per la trama generale, un po’ moscio sul versante poliziesco. Un autore, quindi, da tenere comunque sotto controllo. Ne vale la pena (almeno fino ad ora).
“Gli psicoanalisti dovrebbero conoscere l’inconscio come le proprie tasche … E invece no. Non sanno un cazzo, come chiunque altro. Messe da parte due o tre teorie e qualche accorgimento tecnico, tutto ciò che rimane è quello che sentono in fondo all'anima. È così che curano i pazienti. Sono restii ad ammetterlo, perché questo farebbe crollare il baraccone.” (47)
Avendovi già inviato in testa di trama i miei auguri, continuo il mio andare alla ricerca di andare. Non ci sono molte mete e molti spazi, tra carenza di soldi da spendere in viaggi ed una sempre più ristretta cerchia di mete, data la guerra ormai in atto su molti (troppi) fronti. 

domenica 20 marzo 2016

Traveller’s Trip - 20 marzo 2016

Come dire che noi viaggiatori entriamo in fibrillazione quando si parla di viaggi, quando si fanno i viaggi e quando si torna dai viaggi. Qui abbiamo un bel campionario di un libro comprato a Tallinn per festeggiare un interessante viaggio baltico (ed è stato un libro un po’ deludente) ed un libro comprato a Mumbai per un coinvolgente viaggio indiano (stesso risultato). Invece gli altri due, oh che bellezza! Brokken ci porta a spasso per i Paesi Baltici così come Magris per il Danubio. Due libri belli e imperdibili.
Sofi Oksanen “When the Doves disappeared” Atlantic Books euro 9,79
[A: 19/08/2015– I: 21/08/2015 – T: 29/08/2015] - && e ¾  
[tit. or.: Kun Kyyhkyset katosivat; ling. or.: finlandese; pagine: 296; anno 2012]
Sulla fine dell’estivo viaggio baltico, alla ricerca di un possibile libro che prolungasse il viaggio sulla carta, in una bella libreria di Tallinn, mi imbatto nel nome di questa scrittrice di cui avevo letto qualche riga sulla Lonely Planet. Vedendo inoltre che è un romanzo ambientato, principalmente anche se non esclusivamente, negli anni ’40, decido che possa proporsi come libro di/da/sul viaggio. Intanto, approfondisco la conoscenza con l’autrice, che scopro essere finlandese (ed infatti in finnico scrive) ma di origini estoni. Così che anche questo è un elemento che ben suggella un viaggio terminato nella sempre a me cara capitale del Nord. Ed è anche un’autrice che ha scritto altro sui periodi staliniani in Estonia (da dove fuggirono un dì i suoi genitori), con due libri di cui riporto i titoli, non sapendo se siano editi in Italia, “La Purga”, il suo più premiato, e “Le vacche di Stalin”. Vi dico invece che questo, con il titolo corretto di “Quando i colombi scomparvero” è uscito qualche anno fa da Feltrinelli. Venendo al libro, tuttavia, mi aspettavo qualcosa di meglio, anche se ha sicuramente fatto nascere, come vedremo, curiosità ed approfondimenti. È un libro che si sviluppa in due narrazioni parallele ed alternate, tra l’Estonia del periodo ’40-’44 e l’Estonia del ’62-’66. Diviso in sei parti, tre durante la Seconda Guerra Mondiale e tre durante il periodo “sovietico” duro dell’Estonia. Gli elementi portanti della narrazione sono tre, anche se potrebbero essere quattro. Ci sono i due cugini, Roland ed Edgar, e la moglie di quest’ultimo, Juudit. Negli anni quaranta, i due cugini fuggono in Finlandia per addestrarsi alle armi, e poi tornare in Patria per combattere l’invasione dell’Armata Rossa. Un’invasione iniziata e sancita dal patto Ribbentrop – Molotov. Quando nel ’41, Stalin rompe il Patto, i due rompono la fittizia alleanza, iniziando una più che ventennale guerra. Roland, colpito anche dalla misteriosa scomparsa di Rosalie, si lega sempre più ai Fratelli della Foresta, e continua la sua lotta sia contro i tedeschi che contro i sovietici. Edgar, mutato il suo nome in Eggart Furst, diventa invece un collaborazionista dei tedeschi che hanno occupato il suolo patrio. Non si ricongiunge con Juudit, i due si erano lasciati con molto astio, in seguito alle non usuali abitudini sessuali di Edgar. E Juudit, libera nella terra occupata, si lega di amore vero ad un gerarca tedesco occupante. Ciò non toglie che continui ad incontrarsi e ad aiutare Roland la primula rossa. Il quale, dopo tentativi di piccoli sabotaggi, si dedica sempre più a fare lo scafista per portare il più possibile ebrei al di là dello stretto, verso la Finlandia ed i Paesi Scandinavi. Purtroppo, l’attività di Eggart lo porta a contatto con tutti i gerarchi, e riconosce, non visto, Juudit. Seguendola, scopre anche Roland e le sue attività. Lo fa arrestare negli ultimi giorni di guerra. Poi anche lui cerca di mimetizzarsi tra i morti di un campo di concentramento. Tutti escono vivi dalla guerra, e ne ritroviamo traccia, una ventina d’anni dopo. Furst è diventato il compagno Parts, dopo aver passato alcuni anni di “ricondizionamento” in Siberia. Tornato, si è ripreso Juudit, che sta sempre più scivolando verso una china alcoolica e di latente schizofrenia. E con le sue doti camaleontiche, Parts convince l’apparato sovietico ad incaricarlo di scrivere un libro di denuncia dei collaborazionisti hitleriani, sfruttando surrettiziamente le sue conoscenze dirette del periodo. In questa ricerca, si imbatte in altre tracce di Roland, che sembra sempre presente e vivo nella lotta contro tutti gli invasori. Oksanen in questa parte riesce a disegnare e descrivere con efficacia la fatuità dei russi occupanti, la loro boria, e tutti gli elementi negativi che hanno presso i paesi dell’area balcanica per decenni. Magistrali le descrizioni dei pedinamenti al caffè Moskva o le cene a base di caviale e champagne, ma solo per le alte sfere. Tuttavia Parts non solo si imbatte in tracce di Roland, ma anche in altri elementi della “sovversione anti-sovietica”. Si infiltra in ambienti studenteschi. E smaschera una rete che dalla giovane Evelin lo porta ai genitori di lei, viventi nella campagna intorno a Tartu. Dove il padre non è altro che il vecchio Roland. Parts vince su tutta la linea, rimanendo solo dopo aver anche fatto internare Juudit. Solo ma non vincitore (anche se nel triste finale, nelle sue memoria, veniamo finalmente a sapere anche quale sia stata la fine di Rosalie). Al solito, ho ricostruito seguendo il filo degli anni questa storia che va su e giù per il tempo. Ma come detto, mi ha preso sia per alcune descrizioni di Tallinn, in special modo ricordandomi quando si passava alla sede del KGB.  Ma soprattutto per le vicende storiche, degli Estoni e degli altri popoli baltici. Popoli che ebbero una prima e breve vita felice tra il ‘20 ed il ’40 con la prima indipendenza. E poi una lunga sofferenza, appunto, con le occupazioni naziste e comuniste, con lo sterminio degli ebrei (era una zona ben densa, anche se soprattutto in Lituania), con le purghe staliniane. Il libro pone anche un forte interrogativo sulle vicende del ’41. I russi avevano invaso e occupato, militarmente e con tutta la forza della burocrazia zarista, fino dalla fine del 1700 un territorio che, al contrario, era stato fiorente di mercati e liberalità. A poca distanza c’è Koningsberg, ora Kaliningrad, patria di Kant. Riga era uno dei maggiori porti dell’area. C’era una fioritura di idee notevoli. E quando le Armate Sovietiche cominciano la nuova invasione, i patrioti estoni pensano che legarsi ai tedeschi possa portare loro benefici. Non sanno, certo, di cadere tra brace e padella, ma furono in molti a scegliere quello che pensavano “il minor male”. E non solo in Estonia. Ed è stato interessante (ma forse meglio delegato ad altre discussioni) ripercorrere le storie dei Paesi Baltici. Comprese appunto quelle dei Fratelli della Foresta, una banda di mutuo soccorso, poi di lotta clandestina, nata nel 1905, durante la prima repressione zarista a fronte della fallita rivoluzione del 1905. Ma di questo ed altri elementi di interesse si tornerà a parlare, magari seguendo le file del secondo libro baltico preso per ricordarmi il viaggio. Per questo prima, buoni spunti ma una scrittura che non mi ha convinto fino in fondo. Tuttavia buono ed interessante per sapere di popoli e cose che sarebbero altrimenti rimasti a me oscuri.
Jan Brokken “Anime Baltiche” Iperborea euro 19,50 (in realtà, scontato a 16,58 euro)
[A: 01/09/2015 – I: 01/09/2015 – T: 02/09/2015] - &&&&&
[tit. or.: Baltische Zielen; ling. or.: nederlandese; pagine: 479; anno 2010]
Divorato! Bellissimo e coinvolgente, soprattutto per averlo scorto in libreria al ritorno del bel giro baltico, aver capito che sarebbe stato inutile aspettare, anche se non un libro economico come piace a me, ma è anche pieno di fotografia, che ne fanno salire il prezzo. E nonostante tutto, ritengo di aver fatto bene. Insieme a Brokken ho ripercorso strade, palazzi e momenti dell’agosto nei Paesi Baltici. Sottolineando quella bellissima frase di inizio narrazione che riporto in fondo, e che sottoscrivo in pieno. Serviva questo secondo viaggio, dopo che, dal libro della Oksanen avevo rivissuto i momenti difficili dell’Estonia nella Seconda Guerra Mondiale e sotto la dominazione sovietica. Momenti che ci ripresenta anche Brokken, che insiste molto anche sul tema delle migrazioni interne (forzate o volute) che ci riportano al nostro presente attuale. Tra i due libri c’è quel tratto in comune sullo sterminio degli ebrei, sulle speranze di indipendenza che legarono molti nazionalisti ai pur non amati tedeschi. E tutti quegli altri afflati di libertà, come la bellissima rivoluzione cantata, che il 23 agosto del 1989, nel cinquantenario della prima invasione sovietica, unì milioni di persone tra Vilnius e Tallinn, lungo la via Baltica, a cantare per la libertà. E che costò la vita a molti libertari (non certo rivoluzionari) ben descritti nel doloroso capitolo dedicato alla morte di Loretta Asanaviciute di Vilnius, schiacciata da un carro armato russo. Il secondo elemento di piacere per me, come detto, è stato ripercorrere alcuni momenti di questa estate. Scendere per Plymius Gatvè a Vilnius lungo i vecchi quartieri ebraici, fino a sboccare nella grande Gedeminus Prospektus, con i suoi negozi alla moda. Perdersi prima per il centro di Riga, per poi, attraversata la grande Esplanade, arrivare al quartiere Art Nouveau, alle case di Elizabetes e Alberta iela, ai palazzi disegnati e costruiti da Mikhaïl Eisenstein, il maestro dello Jugendstil nonché padre del grande regista Sergej. Girare per il quartiere medioevale di Tallinn, passando per Pikk wea davanti all’ex-sede del KGB, entrando a sentire un bellissimo coro nella Niguliste Kirik per poi salire sulla collina di Toompea per ammirare la cattedrale russo-ortodossa dedicata ad Alexander Nevskij. La capacità di Brokken è poi quella di partire da un nome, da una persona, e di aggirarsi per i luoghi che ne hanno visto il nascere ed il crescere. Non sempre fino ai compimenti maturi, che molti sono prima o poi fuggiti dai quei luoghi. Facendo un percorso circolare di cultura, dai libri alla musica all’arte (e come non amarlo, quindi). Partendo dalla bellissima libreria di Janis Roze di Riga, una delle 10 più bella al mondo. Per poi dedicarsi ai molti fuorusciti ma che conservano a lungo dentro di sé la propria anima baltica. Seguiamo quindi l’infanzia di Roman Kacew a Vilnius, fino alle sue fughe, al convertirsi francese e cambiare il proprio nome in Romain Gary (e lo seguiamo sino allo strano matrimonio con la bellissima Jean Seberg, alla non ancora chiarita morte di lei, ed al suo suicidio a 66 anni). Per passare ai grandi artisti, prima con il lituano Chaim Jacob Lipschitz, fuggito anche lui a Parigi a 18 anni, cambiando il suo nome in Jacques Lipchitz e diventando uno dei maggiori scultori cubisti. Per poi arrivare al lettone Markus Rotkowičs che riparò a Portland nel 1913, divenendo uno dei più grandi artisti del secolo scorso con il nome di Mark Rothko (anche lui suicida a 66 anni come Gary). Ma è senz’altro la musica una delle componenti incastonate indissolubilmente nell’anima baltica. Non a caso si parlò di Rivoluzione Cantata. Non a caso, nella regione ci sono i più grandi e rinomati cori ora esistenti. E da lì è uscito il lettone Gidon Kremer, uno dei più grandi violinisti moderni. Ma soprattutto, quello a me molto caro, fin dai tempi la cui fama non era così estesa, fin da quando si era in pochi, in Occidente, a seguire fedelmente quella benemerita etichetta di musica globale che è la ECM di Berlino. Parlo dell’estone Arvo Pärt, che tra pochi giorni compirà l’ottantesimo compleanno, e nella cui musica si sente indissolubilmente l’eco delle sterminate distese boschive, degli isolamenti, ma anche delle passioni e dei tentennamenti dell’anima. In mezzo a tutto questo ben di Dio, ho seguito anche due momenti che portano l’autore in due zone che non ho (ancora) visitato. Prima nell’enclave di Kaliningrad, un tempo meglio noto con il nome tedesco di Königsberg, patria come tutti sanno del grande filosofo Kant, ma qui seguita dall’autore nel percorso di formazione che la vide studentessa in quella Università della celeberrima filosofa, storica e scrittrice tedesca Hannah Arendt. Poi nella Curlandia, laddove imperversavano i cosiddetti “baroni baltici”, grandi proprietari terrieri che ne fecero il bello ed il cattivo tempo. E da quelle terre che nasce l’unione tra il barone baltico Conrad von Vietinghoff e sua moglie Jeanne, che divenne la madre putativa dell’orfana Marguerite Cleenewerck de Crayencour (a voi meglio noto con il nome di Marguerite Yourcenar, che come molti sanno è il quasi anagramma del cognome vero). Per finire, circolarmente, sempre tra Curlandia e Livonia, con il poco noto scrittore Eduard von Keyserling maestro di quella scrittura che fu nominata come "le novelle del castello", perché gran parte di esse sono ambientate nelle tenute della nobiltà baltica da cui proveniva. E già da queste opere traspare, all’inizio del secolo scorso, quel senso di esaurimento di quell’esperienza che da lì a poco doveva far nascere nella regione la Prima Guerra Mondiale e la Rivoluzione Russa. Arrivo alla fine di questo meraviglioso viaggio letterario con un senso di gratitudine per Brokken che me li ha fatto rivivere, e per la caparbietà con la quale abbiamo scelto queste terre per una estate intensa e piacevole. E con l’invito a tutti i miei amici lettori e viaggiatori di leggere e viaggiare anche voi per questi luoghi.
“Perché viaggiare, insieme a leggere e ascoltare, è sempre la via più breve per arrivare a sé stessi.” (24)
“Non posso dire no a qualcuno a cui ho detto sì una volta.” (260)
“Quando si viaggia i pregiudizi è meglio lasciarli a casa.” (323)
“I pittori ci mostrano quello che c’è sempre stato ma che noi non abbiamo mai visto in quel modo.” (389)
Kiran Desai “Hullabaloo in the Guava Orchard” Faber & Faber euro 6
[A: 21/11/2015– I: 21/11/2015 – T: 29/11/2015] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 209; anno 1998]
Come al solito durante le mie peregrinazioni avventurose, cercando nella bellissima Oxford library di Mumbai ho pescato questo libro di Kiran Desai, figlia della nota e prolifica Anita. Libro cui fu conferito il Betty Trask Prize, un premio riservato agli autori del Commonwealth che non hanno compiuto i 35 anni. Pur avendo lati interessanti, inglese fluente e struttura accattivante, mi aspettavo qualcosa di meglio. Forse di meno “magico”, come a volte capita negli scrittori indiani. Scrittori che a lungo sono rimasti ignoti, che l’India era rappresentata solo dalle poesie di Tagore (e forse solo perché ne parlava magnificamente William Butler Yeats) o dagli scritti di Kipling (che, benché inglese, era nato a Bombay). Solo dopo la comparsa di Salman Rushdie il cielo indiano comincia a riversare le sue stelle verso occidente, e conosceremo Vikhram Chandra (“Giochi sacri”), Amitav Ghosh (“Il cromosoma Calcutta”), R.K. Narayan (considerato il Cechov indiano), Arundhati Roy (“Il dio delle piccole cose”), Vikram Seth (“Il ragazzo giusto”), Vikas Swarup (“Le dodici domande” da cui fu tratto il bellissimo film “The Millionaire”) e Anita Desai (“Il villaggio sul mare”). Torniamo però a Kiran ed a questa storia vera e strampalata. “Confusione nel frutteto di Guaiava” (questo sarebbe il titolo italiano, dove invece è uscito come “La mia nuova vita sugli alberi”) è la storia di un giovane di nome Sampath Chawla, che vive nella città di Shahkot in India. Nasce in una notte mentre un feroce monsone si abbatte sulla regione facendo terminare il periodo di siccità. Gli abitanti di Shahkot sono convinti che Sampath sia destinato ad essere un uomo importante. Non solo porta la pioggia tanto necessaria, ma fa sì che la Croce Rossa, sorvolando Shahkot, perda delle casse con del cibo: una manna per Shahkot. Kulfi, la madre eccentrica e il padre esigente non sono però così sicuri che il loro bambino possa diventare un grande uomo. Per Kulfi è uno strano alieno con una grande voglia marrone sul suo volto. Per il padre un ragazzo svogliato. Questa parte dell’infanzia è sicuramente molto ben tratteggiata e mi aveva intrigato. Mi sono, invece, perso più avanti, quando, venti anni dopo, Sampath non ha ancora mantenuto le promesse di grandezza. In realtà, è tutt'altro. Il padre cerca inutilmente di consigliarlo su come possa ottenere un lavoro migliore o almeno un aumento di stipendio presso l'ufficio postale dove lavora. Sampath non presta attenzione ai consigli di suo padre. Presso l'ufficio postale, Sampath passa ore da solo, dissigillando al vapore le lettere scritte alla comunità, ed imparando molto sulla vita di ognuno e sui loro segreti. Non siamo sorpresi quando Sampath è licenziato dopo uno spogliarello e relative prese in giro delle persone riunite per il matrimonio della figlia del suo superiore. Kulfi è dispiaciuta per Sampath, con il quale si sente una grande connessione, e gli dà una guaiava fresca. Dopo averla mangiata, Sampath si sente trasformato. Per la prima volta disobbedisce al padre che lo incita a cercare un nuovo lavoro. E fugge verso un attraente frutteto che vede in lontananza. Si arrampica su di un bellissimo albero e decide di rimanervi. La famiglia cerca di intervenire e di far scendere Sampath, ma lui diventa per la sua comunità un grande eremita, saggio e onnisciente. I cittadini sono convinti delle sue capacità soprannaturali quando allude a questioni private nella loro vita, informazioni che ha preso, a loro insaputa, dalle lettere indebitamente lette. La fama di Sampath manda la piccola città di Shahkot nello scompiglio. La sua esuberante sorella s’innamora di un a lei non adatto gelataio; delle scimmie alcolizzate terrorizzano i pellegrini che si riuniscono intorno all’albero di Sampath; suo padre cerca di trasformare il frutteto in una fonte di reddito; non manca una zelante spia che cerca di rendere plausibili i misteri di Sampath. Dopo quell’inizio soft, le situazioni si complicano e gli eventi si succedono sempre più fuori controllo. Tutti si concentrano sul far sparire le scimmie, mentre tutto il resto va a rotoli. Alla fine sarà Sampath, con un finale magico e sorprendente, a salvare sé stesso, le scimmie (ma poco altro). La storia di Sampath è la storia di un giovane uomo sognatore, che vorrebbe immedesimarsi con la natura, fantasticando di essere lontano dalla modernità, dalle sue distrazioni e dai suoi fastidi. Un uomo condizionato fin dalla nascita, che Sampath viene dal sanscrito con significato di “buona sorte”. Come abbiamo visto non ne avrà molta (almeno come la intendiamo noi, forse lui è felice sull’albero, così come lo era il Barone Rampante di Calvino). Le parti migliori sono nei tentativi di Kiran di catturare la cultura del subcontinente indiano, intrecciate tra le sue peculiarità e le complessità universali dell'esperienza umana.
Claudio Magris “Danubio” Garzanti euro 12,90 (in realtà, scontato a 9,68 euro)
[A: 17/06/2014– I: 05/12/2015 – T: 22/12/2015] - &&&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 474; anno 1986]
Non è un libro “sempre” eccezionale, ma data la penuria di buone letture del panorama attuale, questo libro di Claudio Magris si erge in tutta la sua bellezza, meritando un en plein di encomi, e, come vedrete, di citazioni. Rovesciando poi l’uso delle buone maniere che mi insegnò la cara Maria Luisa, dico subito i due elementi che mi hanno impedito di raggiungere la vetta di 6 libricini (meta pressoché irraggiungibile). Il primo, indipendente dalla volontà dell’autore, è l’età del libro. Scritto or sono trenta anni, ne risente in alcuni punti, quelli, in particolare, dove si parla di nazioni “oltre cortina”, dove si elaborano discorsi su Tito (su cui torno) e su Ceausescu. Certo, ogni libro è figlio del suo tempo, e questo era il mondo del 1986, tuttavia mi avrebbe fatto piacere una serie di note a margine, che potessero chiamarsi “Danubio, trent’anni dopo”. Il secondo, dove invece l’autore sarebbe potuto entrare, è la mancanza di un indice analitico di nomi e di luoghi. Tanti sono i personaggi che scorrono insieme alle pagine ed insieme al Danubio. Tanti che a volte se ne dimenticano i nomi. O se ne vorrebbe ricordare qualcosa, ma che si va perdendo dopo aver girato qualche decina di pagine. L’operazione “Danubio” comunque prende subito, sin dalle prime righe. Magris fa un lungo viaggio, dalle sorgenti alle foci del grande fiume mitteleuropeo, scrive taccuini sul viaggio, e poi li rielabora, in un’opera che non è un saggio, né un romanzo, ma un lungo viaggio con lui, con impressioni, idee. Ed alla fine, una ricostruzione di un mondo, di uno spazio. L’ho trovato un modo che mi ha affascinato di collegare storia, geografia, filosofia e brandelli di vita. Ogni pagina ci rimanda elementi di pensiero, storie, momenti. Dalla discussione su dove fossero le sorgenti o la sorgente del grande fiume. Per poi passare al lungo cosso tedesco, dove prima incontriamo anche altre città. Prima cioè di quelle eponime che tutti sanno. Vediamo Ulma, Passau, e la mitica Ratisbona (oh, amici fools). Ci caliamo nei valli che dai teutonici passi, sfiorando Mauthausen, ci conducono felici ai caffè viennesi. Mi ricordo l'hotel Sacher, ma anche la cripta dei Cappuccini. La piazza davanti a Santo Stefano, il ring, e, certo, anche il grande fiume certo non blu. Sfioriamo la repubblica ceca, per giungere in un soffio in Slovacchia ed alla sua Bratislava. Ci aspetta l’altra grande città danubiana, la da me poco amata Budapest. Con la sua grande isola, la sua parlata incomprensibile. Io qui mi fermo poco, anche se Magris a lungo ci ricama. Preferisco proseguire, sfiorando, il Banato, per giungere in Transilvania, entrare nella a me ignota Bulgaria, cercando alla fine il grande delta romeno. Quanta gente abbiamo incontrato in questi quasi 3000 km. Anche non legata ai posti che attraversiamo, ma di cui Magris ci rimanda pensieri ed azioni. Celine ci inizia al viaggio, incontriamo teutonici in Pannonia. Ma soprattutto ci appassioniamo a Maria Vetsera ed i fatti di Mayerling. E come dimenticare Romy Schneider e la sua principessa Sissi? La grande figura di Lukacs e le sue considerazioni su letteratura e politica, che ci fanno consegnare il testimone a Elias Canetti, rumeno apolide. Politica e filosofia s’intrecciano ben presto tra i campi di concentramento ed i ricordi del passato austro-ungarico. E non è un caso che ne parli il triestino Magris. Prima di lasciarlo, e di lasciarvi alle lunghe citazioni, ci sono spunti che qui e là mi hanno preso e che riporto per discuterne ancora. Ed anche per polemizzare con Magris. A pagina 100, la frase “si viaggia non per arrivare ma per viaggiare”, avrebbe meritato la citazione della fonte, il grande Robert Louis Stevenson. La favola della bambina intitolato “Rosa”, ve la riporto in finale, dedicandola alla mia amica Rosa. Non posso dimenticare le dieci righe appassionate dedicate ad Herta Muller a pagina 361, ventitré anni prima che lei ricevesse il Premio Nobel. La succinta descrizione di pagina 382 su Novi Sad, l’Atene serba. E come passare in silenzio che sempre nel 1986, prima dei disastri degli anni ’90, Magris scriveva “la solidità [del mosaico jugoslavo] è necessaria all’equilibrio europeo e la sua eventuale disgregazione sarebbe rovinosa per quest’ultimo, come quella della duplice monarchia [asburgica] lo è stata per il mondo di ieri.” Finisco con solo un memento, quello dei graffiti che Lord Byron fece al tempio di Poseidone a Capo Sunion. Lo avevo scordato, come tante cose che invece Magris ricorda, appunta e ci rimanda. Come ha detto qualcuno, è alla fine un grande libro in equilibrio tra cuore e ragione. Ed in particolare, un libro che non si deve lasciar passare pagina dopo pagina, ma dove ogni riga ci rimanda ad un tutto diverso essere, ad un approfondimento che, noi curiosi ed appassionati lettori, abbiamo preso al volo. Non lo lasciamo finire così.
“[si parla di un convegno intitolato “L’architettura del viaggio: storia ed utopia degli alberghi” e dello schema di intervento previsto] Lo schema è la bozza di uno statuto della vita, se è vero che l’esistenza è un viaggio, come si suol dire, e che passiamo sulla terra come ospiti.” (11)
“Scrivere significa colmare gli spazi bianchi dell’esistenza.” (36)
“Non [è] la successione di quegli attimi senza storia [che] crea la storia. La vita, diceva Kierkegaard, può essere compresa solo guardando indietro, anche se dev’essere vissuta guardando avanti.” (43)
“Lo spirito soffia dove vuole e nessuno può essere permanentemente sicura del proprio genio o della propria pochezza.” (74)
“Il viaggio è … sempre un cammino verso quelle lontananze che splendono rosse e viola nel cielo della sera … nei paesi sui quali sorge il sole che da noi tramonta.” (97)
“Favola di Monica Favaretto: La Rosa era felice. Andava d’accordo con gli altri fiori. Un giorno la Rosa si sentì appassita e stava per morire. Vide un fiore di carta e gli disse: ‘Che bella rosa sei!’ – ‘Ma io sono un fiore di carta’. – ‘Ma lo sai che sto per morire?’ La Rosa ormai era morta e non parlò più.” (116)
“La vera letteratura non è quella che lusinga il lettore, confermandolo nei suoi pregiudizi e nelle sue sicurezze, bensì quella che lo incalza e lo pone in difficoltà, che lo costringe a rifare i conti col suo mondo e con le sue certezze.” (183)
“La forza, l’intelligenza, la stupidaggine, la bellezza, la viltà, la debolezza sono situazioni … che, prima o dopo, capitano a tutti.” (270)
“Se c’è una cosa che non posso sopportare, diceva Victor Hugo quando assisteva a qualcosa di particolarmente stupido o cattivo, è pensare che tutto questo domani sarà storia.” (418)
I viaggi tacciono, il vostro tramatore si riposa. Come ci si riposerà a Pasqua, aspettando incontri d’aprile. Ricordo che per Pasqua le trame si spostano al lunedì.

domenica 13 marzo 2016

Sufficientemente italiani - 13 marzo 2016

Ebbene sì, ecco che dopo qualche colpo grosso in ambito poliziesco, torniamo con una bella manciata di autori italiani. Una nostra vecchia conoscenza, il calabrese Abate, e tre nuovi amici, Desiati, Enia e Bianconi. Come spesso accade, quello che meno mi ha convinto è proprio Carmine, anche se ripensare a Ullo e Gaetano è stato interessante (leggetene per capire di cosa parlo). Salendo di gradimento, abbiamo il poco qualificabile David, che però ci porta su oggetti rotondi (siano essi palloni siano essi CD) che sempre ci aggradano, nonostante tutto. Saliamo ancora un pochino con Francesco, e le parole e la musica. Finiamo con le tragedie svizzero-pugliesi dedicati all'eternit (meditatene bene, amici miei).
Carmine Abate “Gli anni veloci” Mondadori euro 9,50
[A: 01/07/2014– I: 20/09/2015 – T: 23/09/2015] - && e ¾     
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 241; anno 2008]
Ritorno sempre con piacere a leggere gli scritti di Carmine Abate, per quel po’ di “amore calabrese” che mi ha da sempre lasciato la mia amica Rosa. Anche se in genere Abate parla di Crotone e non di Rossano. E per quelle storie degli immigrati arbëreshë che mi avevano fatto accostare alla sua scrittura. Questo era comunque un libro che stava sepolto nelle mie lunghe liste, uscitone un commento nella terza di un ormai datato supplemento Libri di Repubblica. Ed inserito in quella che chiamai “Aspettando Economica”, che il libro costava già 18 euro. Ora, invece, eccolo qui, a metà di quel prezzo. Ed anche se letto dopo 6 anni dall'uscita, e dal meritato Premio Tropea che vinse nel 2009, mantiene un’alta soglia di gradevole lettura. Purtroppo, per il mio gusto di seguire le trame e gli intrecci, il finale non è all'altezza del resto. Un finale prevedibile, scontato, forse anche un po’ buonista, che abbassa assai il giudizio complessivo. Di un libro che segue le vicende dei nostri protagonisti dai 14 agli oltre 30 (o forse già 40) anni. Il baricentro della vicenda è Nicola, ragazzino bellino (con i capelli alla Lucio Battisti), studioso il giusto, ma soprattutto dedito alla corsa. Alla corsa veloce (da cui il titolo), quella sui 100 metri. In un gran momento della velocità italiana, quello dell’apice di Mennea, ma che (per chi non lo sapesse, e poiché non c’è scritto nel libro), anche di Tilli, di Pavoni, di Ullo. Ed il nostro Nicola alla corsa dedica tutto, con la rabbia di una rivincita voluta/sognata (il padre era stato un discreto calciatore, finché, per crescita e bisogni economici, entra nella Montedison di Crotone), diventando un buon velocista, capace di avvicinarsi ai 10”. Ma già dalle prime battute, siccome Abate (come molti, purtroppo) ha il vizio di andare su e giù nel tempo, sappiamo che non sfonderà. Infatti, nel presente è “solo” un insegnante di Educazione Fisica. E niente già mi toglie dalla testa che avrà un incidente che lo fermerà, prima o poi. Troppo scontato. Come scontata, anche se fa piacere che ci sia, è la sua storia con Anna. Ragazza che viene dall'interno, che per seguire il liceo va a pensione dalla famiglia di Nicola. Vuoi vedere che nasce una storia fra loro? Vuoi vedere che si bloccherà, magari perché Nicola pensa più a correre, o, da introverso e imbranato qual è, non sa manifestare bene i suoi sentimenti? Ed anche questo puntualmente avverrà. Che tralascio le fasi intermedie, ma poi Anna va a lettere a Firenze e Nicola all’ISEF a Roma, si incontrano spesso, su o giù. E niente di più strano che Anna rimanga incinta. Nicola si tira indietro, ed Anna (per paura, per aborto, per altro) sparisce e si lasciano definitivamente. Questo quindi il succo. Una storia d’amore di due adolescenti, i loro problemi, la realtà del Sud, il bisogno di riscatto. Ovviamente c’è tanto altro, sia nella parte descrittiva, la figura del fratello Mario, prima studente fuoricorso a Messina, leader del movimento studentesco locale, poi operaio anche lui alla Montedison, ed infine sindacalista, che ritroviamo nel finale con moglie simpatica e due figli. C’è la bella figura dell’anziano Capocolò, trapiantato a Crotone dalla natia Ferrara, con la sua pesca, il suo orticello, e la storia d’amore con Gemma (bellissima). E c’è la parte emozionale-musicale. Che tutto il libro è percorso da un lato dalle canzoni di Lucio battisti che fanno da colonna sonora alla storia di Nicola ed Anna. Con Anna infatuato che scrive a Lucio, con le lettere che tornano indietro e che Nicola nasconde. Ma soprattutto con tutti quei momenti, quei brani quel “lo scopriremo solo vivendo”. Dall’altra, visto che stiamo a Crotone, c’è anche il grande Rino Gaetano, l’amicizia con Nicola e Mario, le canzoni che nessuno capisce, e l’assurda morte per un colpo di sonno sulla Nomentana all’altezza di via Carlo Fea (e ben lo conosciamo il punto). Il motivo conduttore, che poi è abbastanza scontato, è la voglia di Nicola, ormai grande e sui 35 di ritrovare Anna. Per ridarle quelle lettere di Battisti che aveva nascosto. E per capire i motivi del loro allontanamento. E magari riavvicinarsi, che Nicola ancora è preso da lei. Con fatica ne trova la casa in Trentino, con le due figlie, una adolescente ed una sui dieci anni. Riusciranno ad incontrarsi? Riusciranno a chiarirsi? Riusciranno a capirsi? Poiché ho già detto che il finale è molto banalino, così come l’incidente che fermerà la corsa di Nicola, capite anche voi cosa è successo. Io non lo dico, perché, pur nel limbo dell’aurea mediocritas, è un libro che fa piacere leggere. Come fa piacere ripercorrere i testi delle canzoni della mia giovinezza (in fondo Abate ha solo 1 anno meno di me…).
“Il vero amore si vede nelle difficoltà.” (196)
Mario Desiati “Ternitti” Mondadori euro 9,50
[A: 01/08/2014– I: 01/10/2015 – T: 03/10/2015] - &&& e ¾     
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 258; anno 2011]
Un’altra degna segnalazione della mitica e non ancora ritrovata rubrica di Satisfiction (“Soddisfatti o rimborsati”). Lontano dal Premio Strega, in attesa di leggere il primo lavoro del nostro amico toro (quello delle spose infelici) eccoci a percorrere una strada che da Tricase in provincia di Lecce, proprio in fondo alla punta del tacco italico, poco più di 15 chilometri a Nord di Santa Maria di Leuca, ci porta a Niederurnen in Svizzera, che sta invece al Nord della confederazione, quasi in Germania (ed infatti si parla tedesco). Ma che cosa porta i nostri emigranti pugliesi ad andare verso il Nord? Ce lo dice il titolo di questo interessante (anche se non completamente riuscito) romanzo di Desiati: lu ternitti. Che, tradotto in italiano, sarebbe l’Eternit. Perché lì c’è la fabbrica di cemento-amianto nata nel 1903 e quando comincia la storia (nel 1975) è ancora in piena produzione. Lì vanno i senza terra pugliesi a cercar fortuna. Lì va la famiglia Orlando, in particolare la protagonista della storia, l’allora quindicenne Domenica detta Mimì. Desiati ci porta per un lungo arco temporale, di più di trentanni, così come di trenta anni è il periodo massimo di incubazione del mesotelioma pleurico, il tumore provocato dall'asbesto, il materiale costituente dell’Eternit. Certo, tutti abbiamo seguito il processo alla fabbrica, con prima la condanna, poi la prescrizione del reato di inquinamento ambientale. Ma qui abbiamo un viaggio che ci porta si in Svizzera, ma che con Mimì, con gli altri personaggi di contorno, ritorniamo POI a Tricase ed alla sua vita (al suo sole, al suo mare). Personaggio luminoso e controverso la nostra Mimì, dura fino in fondo, senza compromessi, che si innamora quindicenne dell’operaio triggianese Pati in quel di Svizzera. E lì abbiamo i primi personaggi che ci porteremo dietro per il viaggio: Biagino, il fratello di Mimì disastrato dall’alcool, che percorrerà senza macchia ma con tanta paura tutta la discesa abbrutente dell’ubriacatura cronica, Vope, l’amico silenzioso di Pati, e padre del bel Federico fidanzato storico per otto anni della bella Arianna, la figlia di Mimì e di Pati. Ma Pati dopo un anno di Eternit, per paure che conosceremo solo in finale di romanzo, fugge dalla fabbrica e da Mimì. E lei torna al paese con figlia a carico. E la crescerà con amore, mentre lei attraversa la vita, con una spensieratezza che non verrà mai capita dai gretti pugliesi, ma che la porterà a seguire la sua vita di molti amori, di molti amanti, sempre lì a cucire cravatte, sino al ricongiungimento finale. Con chi andatelo a scoprire. Ma prima scopriremo, in molti passaggi temporalmente discontinui, le varie storie che si intrecciano alle morti per tumore. Non faremo l’elenco di questi morti, e delle cerimonie di ricordo che i vivi intrecciano, così come intrecciano le “parmasie”, gli omaggi di frutta ed altro che accompagnano i morti per il loro ultimo viaggio. Ma vediamo quindicenni giocare nelle limpide acque pugliesi Arianna, con Federico (che come detto ne diventerà il fidanzato ufficiale, ma che …) e Paolo (che sarà sempre preso da mamma Mimì). Vediamo crescere Arianna, studiare, andare a Roma, laurearsi in medicina, e tornare a fare il dottore in Puglia, ma anche a recuperare le sue radici. Vediamo Mimì, sui trenta poi sui quaranta sempre con nuovi amanti ma sempre solare, sempre prodiga di consigli ad amiche e colleghe della fabbrica di cravatte, sempre altrettanto pronta ad una battaglia a biliardino. E sempre a recuperare l’etilico Biagino. Ed anche pronta ad uno scontro verbale durissimo con Pati tornato anche lui dalla Svizzera, dopo aver vissuto venti anni con Franca, ma alle prime avvisaglie del male, tornare anche lui ai boschi ed agli scogli dell’infanzia. Insomma, un lungo volo tra belle persone e dure realtà. Una denuncia di quella che successe negli anni Settanta in Svizzera, ed un monito verso chi non si ricorda che, una volta, “gli emigranti siamo noi”. In questo mondo, ove non si capisce più come sentirsi verso tutta questa gente che fugge dalla povertà. Belle, sempre, alcune immagini, anche se i fiammiferi nella notte svizzera ricordano troppo Prèvert per non sentirli un po’ stonati. Tutti alla fine pensano ai dolori che lu ternitti porta in ognuno di loro. Io penso anche a tutti i momenti belli che lo stesso ha scavato nel cuore dei nostri personaggi. Ma io si sa, sono sempre il grande ottimista. Buona lettura (soprattutto agli svizzeri!).
“È meglio avere qualche paura in più, ma dare anche un po’ di risposte ai nostri cuori.” (211)
Davide Enia “Rembò” Repubblica Pallone 7 euro 6,90
[A: 05/07/2014– I: 08/10/2015 – T: 11/10/2015] - &&&   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 268; anno 2006]
Un buon esempio di una prova che è altrimenti inclassificabile. Dovrebbe essere un romanzo, ma in realtà sono i canovacci, allargati e commentati, di una trasmissione radiofonica di qualche anno fa. Davide Enia, con la collaborazione di Fabio Rizzo, crea una storia in 15 puntate su di un “mitico” calciatore: il palermitano Rembò. E su questa finzione crea una struttura di divertissement, ma anche di interesse. Certo si parla di calcio, ma non di quello “reale” bensì di quello che potrebbe essere. Si parla di giovani che giocano al calcio. Ma si parla anche di Palermo, nel senso più esteso del termine (includendo anche il lontano quartiere di Palermo a Buenos Aires). Si parla della storia del narratore, David chiamato Davidù, e della sua famiglia: i genitori sempre assenti alla ricerca di un lavoro a giornata nell'entroterra siciliano, degli zii cui il giovane viene affidato (zia Pupetta e zio Serafino), della morte della sorella. Lo spunto è trovare le tracce di questo mitico calciatore, Rembò, che messe le scarpe ai piedi, dai 14 ai 19 anni regalò sogni e gol al popolo rosanero (che sono i colori del Palermo, per chi non lo sapesse). Poi, improvvisamente, a 19 anni si ritira dallo sport e scompare. Non se ne hanno tracce per alcuni anni, poi ricompare come cuoco in un ostello a Finisterre, alla fine del cammino di Santiago, poi scompare di nuovo, e sappiamo solo dell’esistenza della sua tomba, con due date (1954 – 1991) e un pallone. Ci sono tanti giochi, tante idee, e tanti rimandi in tutto il libro. Ad esempio, Rembò è la trascrizione fonetica di Arthur Rimbaud, celeberrimo poeta francese ritiratosi dall'attività poetica a soli 24 anni, per poi scomparire e riapparire in tutta altra veste in Africa (e tanti anni fa, in quel di Aden andai a cercarne la casa dove visse, la trovai, e sotto, vicino al portone c’era un misero caffè, il “Bar Rembò”). C’è lo scopritore di talenti calcistici, lo zio Serafino, che faceva i puzzle incastrando i pezzi cromaticamente, fumatore accanito e morto di … vecchiaia. C’è la zia Pupetta religiosissima in quanto a 4 anni entrata in coma per una meningite è sopravvissuta, dice lei, per avere sognato Gesù Cristo. Ci sono i personaggi reali del pantheon letterario e musicale dell’autore: Borges con un suo racconto, anche se modificato, tratto da “La città degli immortali”. C’è Shakespeare. C’è il piano di Glenn Gould che ci allieta con una sonata di Carl Philip Emmanuel Bach. Ci sono citazioni di tanti musicisti a me cari, come Beatles, Pink Floyd, Brian Eno, Nick Drake, Van Morrison. Ed altri che ho imparato a conoscere come Devendra Banhart.  E poi c’è il calcio farcito di personaggi mitici tramandati dalla tradizione orale delle gradinate degli stadi, inno da esteti alle tecniche sopraffine, alle arti più pregiate delle scarpe bullonate: il dribbling, il tiro all'incrocio dei pali, il gol spettacolare. Il dribbling come danza, come passo a due tra una preda, il dribblatore, e un cacciatore, il difensore, nel quale conta costringere il terzino alla mossa sbagliata, al movimento fasullo che lascia di sasso di fronte a uno scarto improvviso. E un secondo dopo è già troppo tardi. C’è la leggenda di Argo, uno zingaro che giocava solo per colpire il «sette» della porta avversaria. C'è il calcio giocato a piedi nudi, tanto rozzo quanto puro, il calcio-samba degli artisti brasiliani che esprime gioia di vivere e di giocare, quello giocato da corpi che mantengono la memoria dell’Africa, quello dell’estro selvatico di Garrincha, la mitica ala destra con una gamba più corta dell’altra che irrideva gli avversari con le sue finte da antologia. Infine c’è Palermo, una città in bianco e nero, una città che rimbalza dagli angoli della memoria, illanguidita da un bagliore di nostalgia, popolata da sorelle che non ci sono più, da padri temibili, da trame all'uncinetto, da partite per strada, da piatti di cuscus e da crocefissi col maglioncino per l’inverno. E, come termina Enia, «ogni volta che ci troveremo a calciare un rigore, che ci protegga Rembò». Non conosco, non ho mai ascoltato la trasmissione radiofonica, ma deve essere stata divertente, tanto che mi ricorda le puntate di quelle follie giovanili che io e Luciano facevamo alla “nostra radio”. Commenti, intarsi seri, ed una colonna sonora (che ora si chiama “playlist” che fa più fico) per un libro che non è un libro, e per una colonna sonora che ora ho anche io nei miei supporti magnetici.
Francesco Bianconi “Il regno animale” Mondadori euro 9,50
[A: 01/07/2014– I: 16/10/2015 – T: 19/10/2015] - &&& e ¼
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 241; anno 2011]
Ecco ancora una degna segnalazione di Satisfiction (la fanzine che ho spesso citato ultimamente e che, purtroppo, non è più in circolazione), che nel 2011, a firma di Ranieri Polese, inviato culturale del Corriere della Sera, consigliava appunto questo libro di Francesco Bianconi, sottolineandone la frase per lui centrale: “La colpa è di Milano! È colpa di Milano per quasi tutto ciò che accade negli usi, nei costumi e nella cultura italiani degli ultimi trentanni”. A lungo tuttavia, dopo averlo messo in libreria, mi ha frenato l’immagine di copertina, una foto di Ryan McGinley intitolata COYOTE. Poiché ritengo che anche le copertine facciano parte della confezione-libro, la faccia del ragazzo con il lupo sulle spalle sembrava dirmi di stare attento, che qualcosa non va. Alla fine, i libri si leggono, ed anche questo ha iniziato il suo percorso, con una lettura che mi ha subito coinvolto. Spingendomi ad indagare sull'autore, e scoprendo che si tratta del leader dei Baustelle. Non lo avevo collegato, anche perché penso al complesso e non ai singoli personaggi. E se mi chiedete chi siano i Baustelle, non vi rispondo, ma vi suggerisco di ascoltare “Un romantico a Milano”, e poi ne riparliamo. Poiché non sa fare molto, ma almeno riesce a scrivere (i suoi professori gli affibbiano un ‘Ottime capacità narrative e di sintesi’) Alberto decide di partire dalla natia Abbadia e di tentare la fortuna a Milano. Dove inizia questa sorta di ritratto dell’artista da precario (con buona pace di Dylan Thomas). Dove Alberto tenta tutto, ma non trova altro che un lavoro sottopagato in una fucina di service redazionali (quelle agenzie dove giovani pubblicisti scrivono per tutto e per tutti, senza partecipare con la testa alle parole che tirano fuori), dove scrive in quello stile che viene definito dal suo capo “mondano”, e dove i suoi pezzi (che servono solo per sopravvivere) vedono la luce su giornali dall'improbabile titolo come “Il Nostro Vino”, “Il Nostro Cavallo”. Lì a Milano, inseguendo momenti stranianti, vedendo gente e domandandosi perché, il suo torpore iniziale tende a svanire ed impara a galleggiare nell'eterno reality senza snaturarsi. E sarà proprio questo a permettergli di crescere, superare gli attacchi di panico, le défaillance con le donne (che seppur timido, attrae), conoscere Ilaria. Di vivere alternando la visione del bicchiere mezzo pieno a quella cruda di un futuro da anno zero. Eppure Alberto trascina le sue giornate nel niente, con l’impressione di non avere il minimo sbocco. Intorno a lui si muove un universo di perdenti, inconcludenti, uomini e donne in preda all'abbrutimento più profondo, che vengono dal nulla e camminano verso il nulla, o verso un epilogo tragico. Storie attuali e flashback si intrecciano fra di loro, formando lentamente il mosaico della storia di Alberto, finché nella sua vita non si intravede uno spiraglio. Su tutto incombe la cappa pesante del consumismo e della vita “moderna” nella quale tutto si compra e tutto si può vendere, tutto è corruttibile e la corruzione è solo la logica di ogni giorno. Il gioco si fa divertente quando Alberto, in “missione” al Festival del Cinema di Venezia, incontra il “vero” Francesco Bianconi. Un ‘espediente con il quale Francesco riesce a parlare di sé in modo sempre più diretto. Peccato che da questa intervista cominci la parte peggiore del libro, e ci si avvii verso un finale che mi ha lasciato decisamente freddo, facendo calare non poco il giudizio finale. Perché se divertente la descrizione del party veneziano, l’irruzione di individui irrazionali che sparano a destra e sinistra sembra far parte più di un film di Tarantino. Come di un film, ma questa volta più sul lato Wenders, si svolge l’incomprensibile finale. Tuttavia, così come seguendo le liriche dei testi dei Baustelle (e spesso i capitoli fanno omaggio anche alle loro canzoni), ci si accorge che le riflessioni dei vari personaggi, per quanto pessimistiche siano, sono tuttavia il più delle volte condivisibili, e che molti dei loro pensieri, dubbi, stati d’animo, ci sono appartenuti almeno in parte. Sono d’accordo con Bianconi, quando sembra dirci che bisogna guardare in faccia la realtà, anche se scomoda. Dopo la lettura, consiglio una buona terapia a base del ultimo disco live del complesso.
Seconda domenica del mese, e piccolo allegato legato (mi piace essere agglutinante, e se leggete l’acclusa cura capirete) alla crisi d’identità.
C’è qualche ipotesi viaggereccia all'orizzonte, ma niente di cui sia convinto, per cui rimango, ad ora, qui, a leggere per me e scrivere per voi. Nonché farvi un riverito omaggio di pensieri poveri ma belli per una quaresima d’attesa. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

MARZO 2016
Non mi sembra proprio fuori tema, questo mese. Anzi, direi con un tempismo eccezionale, pensiamo a noi stessi ed alla nostra identità. Prima di entrare in crisi.

IDENTITÀ, CRISI DI

Max Frisch                “Stiller”
Diego Marani            “Nuova grammatica finlandese”
Franz Kafka              “La metamorfosi”
Antonio Tabucchi       “Sostiene Pereira”
Chi sei tu, lettore? Un genitore, un professionista, uno studente, un bambino? Sei sempre lo stesso o esistono due versioni di te - quella che mostri solo a certe persone e quella che invece è sotto gli occhi di tutti? Oppure sei convinto che il «vero» te stesso è sempre rimasto nell'ombra?
La letteratura è piena fino all'orlo di personaggi che soffrono di crisi di identità - vuoi per un’amnesia, per un crollo nervoso o per qualche altra inspiegabile ragione Il narratore di “Stiller”, romanzo pubblicato nel dopoguerra dallo svizzero Max Frisch, nega con insistenza di essere lo scultore scomparso Anatol Stiller davanti a chi sostiene di riconoscerlo in lui. In effetti, se diamo retta al suo passaporto, si chiama James (o Jim) White. Amici, conoscenti e perfino sua moglie, tuttavia, lo identificano ripetutamente come Stiller - un enigma che confonde sia il lettore che lo stesso White (o dovremmo dire Stiller). Mentre, a poco a poco, si scopre la verità, non possiamo fare a meno di riflettere sulla fragilità del nostro rapporto con noi stessi. Non vogliamo dirvi troppo, ma chi pensa di stare smarrendo il senso della propria identità dovrebbe fare attenzione e chiedere aiuto solo a persone di cui si fida, incluso sé stesso.
Una cosa è certa, nel viaggio della vita, più che un passaporto, conviene portarsi dietro un’etichetta col proprio nome cucita nella giacca per non perdere mai il contatto con sé stessi. Quando a Trieste, durante la seconda guerra mondiale, un uomo viene trovato quasi ucciso a bastonate, l’etichetta finlandese sui vestiti dice che si tratta di un certo Sampo Karjalainen. Nel riprendere conoscenza, tuttavia, non ricorda chi è - e non parla. Questa è l’intrigante premessa di “Nuova grammatica finlandese” di Diego Marani. L’uomo finisce a bordo di una nave, dove c’è un medico finlandese che cerca di fargli ricordare almeno la lingua, con la sua grammatica diabolicamente complicata e le parole ricche di consonanti. E se quest’uomo non fosse stato davvero finlandese? Cosa diventerà quando parlerà una lingua diversa?
Cos'è che lo rende sé stesso? Alla fine sembra che siano i nuovi rapporti che stringe sulla nave a fargli recuperare la propria identità. Leggete questo romanzo, e il legame che saprete stabilire con le sue pagine potrebbe aiutarvi a scoprire qualcosa che non sapevate di voi stessi.
Ma se siete cosi sfortunati da smarrire del tutto la vostra identità, la cura migliore da avere tra le chele è “La metamorfosi” di Franz Kafka. Gregor Samsa, un commesso viaggiatore, si risveglia un mattino per scoprire che si è trasformato in uno scarafaggio - uno scarafaggio gigante, anzi. È disgustoso, non solo per sé stesso ma per tutta la sua famiglia, e anche se Gregor tenta di farlo, continuare a vivere come faceva prima della trasformazione diventa sempre più difficile. Mangiare è impegnativo, comunicare impossibile, l’igiene di base compromessa: Gregor non può che scivolare lentamente in uno stato vegetative vuoto ma sereno, e morire di fame.
Ritenetevi fortunati: anche se non sapete chi siete almeno siete umani. Guardate con ammirazione le vostre dita, gli alluci, la punta del naso. Godetevi l’uso delle vostre membra. Leggete l’ultimo paragrafo del capolavoro di Kafka a voce alta e rallegratevi del fatto che la vostra voce non è lo spaventoso stridere di un insetto. Celebrate la vostra umanità - chiunque voi siate.
E se vi torna qualche dubbio quando passate di fronte a uno specchio, ricordatevi della teoria che il dottor Cardoso espone al giornalista Pereira, il pingue vedovo responsabile della pagina culturale del «Lisboa» nel più famoso romanzo di Antonio Tabucchi. Siamo nel 1938 e all’ombra della Spagna fascista, Lisbona “puzza di morte”. Nessuno ha il coraggio di pubblicare le vere notizie e Pereira, da parte sua, riempie la propria pagina con traduzioni dalla letteratura francese del XIX secolo. Ogni giorno si tira su parlando con una foto della moglie morta, mangiando una omelette alle erbe aromatiche con diversi bicchieri di limonata al Café Orquidea, e concludendo il pasto con un caffè e un sigaro. Pereira sa benissimo che tutte quelle omelette stanno avendo un effetto deleterio sulla sua linea, ma è incapace di resistere. È solo quando incontra il dottor Cardoso in un centro termale fuori città che comincia a capire il suo bisogno di cibi grassi e bevande zuccherate e la sua necessità di cambiare registro e di trovare finalmente il coraggio di combattere Franco e tornare alla vita.
La teoria del dottor Cardoso è quella dei medicins-philosopbes, i cui principali rappresentanti furono Théodule Ribot e Pierre Janet. Credere di essere «uno», gli spiega Cardoso in un ristorante di Lisbona, «staccato dalla in commensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un’illusione, peraltro ingenua, di un’unica anima di tradizione cristiana». Secondo il dottor Ribot e il dottor Janet e gli altri medici filosofi di fine Ottocento, 1’anima non è unitaria e monocellulare e ogni uomo è un arcipelago di io. Il carattere, la personalità degli individui, quello che siamo, dipende da quale io egemone si impone nella confederazione delle varie anime e ne assume il controllo. È un risultato, non una premessa. Questo equilibrio dura finché, dopo una lunga erosione, l’io egemone che guida la confederazione si indebolisce, perde forza e viene alla superficie un altro io, più forte e più potente, che prende il sopravvento e spodesta il precedente. Se non si vuole entrare in conflitto con sé stessi o rischiare la follia, si può solo assecondare questo cambiamento. Pereira ascolta attento, mentre termina di mangiare la sua macedonia di frutta senza zucchero e senza gelato. Alla fine della cena promette al dottor Cardoso di rifletterci sopra e lo saluta con un sorriso che sembra quello di un’altra persona, dandogli appuntamento per l’indomani alla sua clinica talassoterapica.

Bugiardino

Ho letto Kafka tanti anni fa, e non l’ho mai digerito. Forse per questo non lo rileggo (e se faccio male tiratemi le orecchie). Ho invece letto, e ben ricordo, il libro di Tabucchi, che sapete essere una stella del mio firmamento. Ma ne lessi prima di essere tramatore, quindi ve lo rimando, con solo una tirata d’orecchie alle nostre terapeute (ed anche ai revisori italiani), che Pereira è un oppositore di Salazar e non di Franco. Rimane il bel libro, che ho letto, consigliato, riletto, e se volete potrei anche prestarlo, sull'identità e la Finlandia. Magico.
Diego Marani “Nuova grammatica finlandese” Bompiani s.p. (regalo di compleanno di Sara e Giampaolo)
[pubblicato il 17 maggio 2015]
Non credo ci sia bisogno di alcuna cartomanzia per immaginare che questo è un libro da collocare alla grande nel prontuario dedicato alle crisi d’identità. Ma di questo se ne parlerà più avanti, che intanto questa trama è un ringraziamento alla mia amica Cecilia, che non so se e come c’entri con Marani, ma che a più ripresa è entrata nei miei pensieri, in quanto una buona parte del romanzo ha sullo sfondo il “Kalevala”. E come non ricordarne e sottolinearne l’edizione da lei e da Roberto Arduini curata nel 2007? Inoltre, come dice il titolo (e poi vi torneremo sopra), è anche un inno d’amore verso una lingua poco conosciuta, forse tra le meno diffuse al mondo: il finlandese (pare sia parlata da 6 milioni di persone in tutto, collocandosi intorno al 120 posto delle lingue parlate, tant'è che l’italiano si colloca al 20°). Una lingua che posso dire conosco veramente poco, che mi ricordo solo (da alcune reminiscenze linguistiche) essere di un ceppo detto “uralo-altaico”, che comprende lingue di una difficoltà enorme di comprensione e scritture (tipo estone e ungherese). Che tuttavia, stimolato da Marani, ho cominciato a leggerne in rete, dove ho scoperto una cosa mostruosa: è una lingua che ha quindici casi diversi, dal tranquillo nominativo all'inquietante abessivo (e poi ci stupiamo che in Europa i finlandesi siano quelli che maggiormente sanno parlare in latino!), che ha quattro forme dell’infinito, ed anche un caso chiamato “plusquamperfetto negativo”: una bomba linguistica! Finisco soltanto con la lingua dandovi un altro messaggio preoccupato: è una lingua agglutinante! E siccome sarete curiosi alla fine ve lo spigo. Ma torniamo a Marani ed a questo libro con alti e bassi, con momenti forse poco chiari, che vengono lasciati nell'ombra usando lo schema del passato: l’azione (anche se ce n’è poca) si svolge alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quindi qualcosa può essere lasciato al mistero del passato. La storia, in realtà, è di una semplicità disarmante. Un medico finlandese, fuggito in Germania dopo l’uccisione del padre per motivi politici, in servizio presso una nave tedesca, trova una persona in coma nelle banchine del porto di Trieste. Un marinaio, con una divisa con su scritto un nome (Sampo Karjalainen) ed un fazzoletto con le iniziali SK. Uscito dal coma Sampo scopre di aver perso la cognizione della parola. Il medico, trovando lontano da casa un lembo della sua patria perduta, comincia a curarlo ed a insegnargli nuovamente la lingua materna. Quando finalmente sta meglio, il dottore lo rispedisce ad Helsinki, in un ospedale dove dovrebbe trovarsi uno psicologo logopedista. Che invece è scomparso (forse morto in guerra), e dove Sampo trova un’infermiera, Ilma, che lo aiuta e lo presenta ad un pastore luterano, padre Koskela. Andiamo così avanti, nel buio della memoria di Sampo che ogni giorno studia con il prete, che riempie i suoi quaderni di scritte e di grammatiche, che gira per la città in preda alla guerra ed alla tenaglia tra Germania e Russia (in fondo San Pietroburgo è proprio lì a due passi). Le parole del pastore, e le piccole agnizioni di Sampo ad ogni nuova parola che entra nel suo vocabolario, ci fanno da culla nel capire la genesi di una lingua, ed il suo radicarsi in una regione altra dalle sue origini (come detto sopra, la radice è addirittura mongola). Ma il pastore fa anche altro: usa il grande poema epico finlandese, il Kalevala, per istruire Sampo, ma anche per addentrarsi nella spiegazione dell’anima di questa nazione. Qui, ovviamente, tornano i ringraziamenti di cui all'inizio, per averne capito un po’ di più. Sampo si rende a poco a poco più indipendente, e con piacere lo seguiamo per l’Esplanadi della capitale, andando verso il porto e la chiesa ortodossa in punta (era l’estate del 2012, ma è come se ci camminassi ieri pomeriggio). Purtroppo il pastore, preso da furori strani, decide che deve tornare sul fronte a combattere, come i suoi eroi dell’epopea, abbandonando il povero Sampo. Ilma proverà a rompere la corazza sperando che forse l’amore possa far breccia (e belle son quelle pagine sull'albero dei ricordi). Ma Sampo è troppo chiuso nella ricerca della propria identità. Che questa lingua fa breccia nel cervello, ma non arriva al cuore. Che cerca di capire origini e possibili legami, ma siamo in tempi di guerra e tutto è instabile. Sampo, pur sapendo che dovrebbe e potrebbe dire una parola ad Ilma, rimane muto e solingo. A bere la Koskenkorva (una vodka finlandese allungata con acqua e zucchero), a pensare al pastore ed al Kalevala. Finché, sul porto di Helsinki, vede sfilare una nave da guerra appena rimessa a nuovo dai cantieri navali: il Sampo Karjalainen. E capisce che quella divisa, quelle iniziali sono un’identità illusoria, sono della nave e lui chissà chi sarà. Decide allora di partire anche lui per il fronte, dove morirà per una patria che non saprà mai se sia o meno la sua. Noi invece lo sappiamo, che il buon dottore, in base a tutta una serie di informazioni che gli arriveranno con ritardo, ricostruirà la vera storia del personaggio, come nasce, come va in coma, e tutto il resto. Storia che v’invito a scoprire leggendone e non aspettando che io ve ne narri. A me rimane, con tutti gli alti (tanti) e bassi (pochi) di cui sopra, una storia sulla ricerca di sé, sul limite che ci si può porre in questa ricerca. Vivendo in una terra ostile, o comunque con una lingua madre diversa, come fa il nostro Marani da anni (da sempre quasi) espatriato a Bruxelles. Dove, guarda caso, si occupa di multilinguismo. Bravo, ed auguri per i suoi lavori, mentre io mi rimetto alla ricerca di un suo libro che vorrei prima o poi trovare (“Come ho imparato le lingue”).
“È più facile nascere che morire. Forse per la morbosa curiosità che ogni uomo ha, anche nel dolore, di vedere come va a finire.” (42)
“Le forme di una lingua si ripercuotono inevitabilmente su chi la parla, ne plasmano il volto, le case, la terra, le abitudini, il cibo.” (59)
“L’abessivo è la declinazione delle cose che mancano: “toivotta”, senza speranza! È bellissimo … perché in generale sono più le cose che ci mancano di quelle che abbiamo.” (90)
“Passiamo la vita sfiorando i nostri simili senza mai veramente conoscerli.” (152)
“Ancora una volta, il mio nome era tutto quello che avevo.” (174)
Ed ecco, come promesso, la genesi della forma agglutinante che ci permette di capire il significato della parola “kirjassanikin”:
kirja: il libro
kirjani: il mio libro
kirjassa: nel libro
kirjassani: nel mio libro
kirjassanikin: anche nel mio libro
Da paura!

Conclusioni

Aspetterò prima o poi di aver la voglia di leggere lo svizzero Frisch (e gli svizzeri ultimamente sono un po’ troppo presenti). Per ora sostengo con forza che Marani è sicuramente da prendere per curarsi la memoria e cercarsi un’identità. Tabucchi è da prendere sempre, con dosi serali omeopatiche. Su Kafka non mi pronuncio.

domenica 6 marzo 2016

La Signora del Giallo 4 - 06 marzo 2016

Non è un caso che spesso vadano appaiati il grande belga e la maestra inglese. Certo ci vorrebbe un calmiere con l’unico degno maestro d’oltre oceano, tra piatti ghiotti ed orchidee, ma Nero Wolfe non è ancora tornato nelle mie corde. Allora, dopo una settimana dedicata a Simenon, torniamo ad altri scritti della nostra baronessa. Scritti tra la fine della guerra e la nascita del vostro tramatore preferito. Romanzi che oscillano tra un po’ più ed un po’ meno della sufficienza, senza però tornare alle punte di massimo gradimento che riservo fino ad ora al solo ed inimitabile Hercule Poirot, che purtroppo in questa settimana di trame risulta sfortunatamente assente.
Agatha Christie “Verso l’ora zero” Corriere della Sera 30 euro 6,90
[A: 20/02/2015– I: 07/09/2015 – T: 08/09/2015] - &&& e ½
[tit. or.: Towards Zero; ling. or.: inglese; pagine: 214; anno 1944]
Un ottimo giallo “da camera”, cioè da poter essere svolto tutto in un luogo unico, visto che, come in molti gialli di Agatha Christie, quello che interessa per lo svolgimento delle indagini sono più le parole che i fatti. E non a caso, in tarda età, ne fu fatto anche un adattamento da pièce teatrale. Inoltre, sarebbe perfetto per una partecipazione incentrata su Poirot, tanto che il Sovraintendente Battle (è lui infatti il protagonista) ad un certo punto lo cita, dicendo “Qui ci vorrebbe Poirot, quel buffo ispettore belga”. Come in tutte le (quattro) storie del Sovraintendente, ci sono personaggi diversi che costruiscono la scena, montando i presupposti del dramma. E spesso agendo come nostri transfert da investigatori. Qui, al contrario, si costruisce certo una struttura criminogena, ma sarà il nostro sovraintendente in prima persona a sciogliere il dilemma. E sarà l’unico romanzo tra i 66 scritti da Agatha in cui avviene. Ciò nonostante, cioè pur scontando la mancanza di Poirot, rintanata nel suo rifugio inglese in attesa della fine della guerra, la nostra impagabile scrittrice mette su un bel romanzo. Un romanzo cui lei stessa, nelle prime pagine, ci avverte: sarà un buco nero in cui tutto convergerà alla fine. Perché un omicidio non è il punto di partenza, ma il punto di arrivo della vicenda criminosa. Allora si mette in scena un meccanismo complesso, dove ognuno agendo dà una spinta alla roulette nella direzione voluta dal disegno assassino. Ci sono tentativi di arrivare prima alla fine. C’è la solita cortina fumogena da prestigiatore, che ci fa guardare a destra quando bisognerebbe guardare a sinistra. Ma lo ritengo, finora, il miglior romanzo senza Poirot della nostra scrittrice. Il nodo del romanzo è incentrato sulla patriarcale famiglia di Lady Camilla, che si riunisce nella sua casa in riva al mare. Quest’anno, il figlioccio Neville Strange decide di portare la sua bella e nuova moglie Kay contemporaneamente alla presenza della sua precedente (da cui ha divorziato da non molti anni) Audrey. Sono inoltre presenti Ted, uno stravagante ex-spasimante di Kay, e Thomas, cugino alla lontana, tornato dopo 8 anni dalla Malesia, perché innamorato di qualcuno. E Mary, la dama di compagnia. Gli odi sono palesi: Kay è una belloccia di poco cervello, legata ai soldi di Neville, e forse ancora attratta da Ted. Audrey sembra covare un sordo rancore verso l’ex-marito, non si sa se per il divorzio, perché Neville abbia sposato Kay, o perché Neville stesso abbia passato sotto silenzio la possibile storia tra Audrey e Adrian, il fratello di Thomas, troncata dall’improvvisa morte di quest’ultimo in un incidente d’auto. Thomas stesso non sopporta Neville e la sua supponenza, nonché il fatto che a Neville sembra sempre andare tutto per il verso giusto e senza sforzi. Un particolare che si dovrà tenere conto ad un certo punto è che tutti i “protagonisti” hanno una particolarità fisica: Kay è una falsa bionda, Audrey ha una cicatrice sull’orecchio destro provocata da un morso di cane, Mary ha un ciuffo di capelli albino, Neville ha il mignolo della mano sinistra significativamente più corto di quello della mano destra e Thomas ha il braccio destro leggermente offeso (tanto è mancino). Il dramma avviene l’ultimo giorno, quando si scopre Lady Camilla con la testa sfondata. Vicino al corpo una mazza da golf macchiata di sangue. La cameriera di Milady quasi avvelenata da una dose eccessiva di sonniferi. Mentre stiamo per entrare in media res, facciamo tre piccoli incisi: il sovraintendente Battle sventa un tentativo di mettere in difficoltà sua figlia che sotto stress confessa (senza essere colpevole) di aver commesso un furto. Il giovane Angus, rovinato dalla sua onestà non avendo voluto dire una bugia per salvare il suo datore di lavoro, licenziato e lasciato dalla moglie, tenta il suicidio. Salvato, dopo lungo peregrinare, qualcuno premierà la sua bontà con un incarico oltreoceano. Ma prima di partire, torna sul luogo del tentativo (ovviamente la baia dove sono tutti). Un giudice, vecchio e malato di cuore, racconta ai convenuti da Lady Camilla una storia su di un freddo assassino, che non venne mai scoperto, ma che lui saprebbe riconoscere perché ha una particolarità fisica. Ma a causa di un ascensore fintamente rotto, il giudice ha un attacco di cuore e muore. Torniamo allora in media res, dove Battle, in trasferta nella baia, conduce l’inchiesta. Si scopre man mano che: Neville aveva litigato con Lady Camilla sulla presenza contemporanea di Kay e Audrey, Neville dice a Kay che vuole tornare con Audrey, tutti pensano che alla morte di milady l’eredità vada ai coniugi Strange, una giacca di Neville macchiata di sangue viene ritrovata. Tutto converge sulla colpevolezza di Neville, ma la cameriera, prima di essere vinta dai barbiturici, dice di essere passata da Lady Camilla, mentre Neville si allontanava verso un vicino albergo per giocare sino a tarda notte a biliardo con Ted. Battle deve allora rivedere tutti gli indizi, pensando quindi che ci sia qualcuno che volesse incolpare Neville cucendogli addosso, maldestramente, delle prove. E se ne trovano altre, come un paio di guanti macchiati di sangue, che vanno bene solo a Audrey. Il profumo e capelli della stessa Audrey sulla giacca macchiata di sangue. Nonché il colpo alla testa della vecchia sferrato da sinistra, come può fare un mancino. Audrey, schiacciata dalle prove come la figlia di Battle, mentre pensa al suicidio viene salvata da Angus. Che ricostruisce una possibile azione criminosa trovando fortunatamente una corda bagnata nel solaio della magione. Ne parla a Battle, dicendo che ne aveva visto lo svolgersi la sera dell’assassinio. Su questa base, Battle inscena un melodrammatico finale, incastrando il vero colpevole (che non vi dico chi è). Peccato che la notte in questione ci fossero nuvole ed Angus non poteva aver visto quello che ha detto. Ma se non è vero è ben pensato. Certo, la benevolenza di Lady Agatha non può fare a meno di qualche lieto fine (ci sono tanti possibili intrecci di coppie), e questo sembra un po’ appiccicato. Tuttavia il tramone giallo ha una sua discreta sostenibilità e coerenza. Insomma, mi è piaciuto. E con rammarico leggo di altri scrittore di genere che tentano a lungo, ma non raggiungono le capacità della maestra del giallo.
Agatha Christie “Giorno dei morti” Mondadori s.p. (trovato a Soriano)
[A: 01/05/2015– I: 23/09/2015 – T: 24/09/2015] - && e ½
[tit. or.: Sparkling Cyanide; ling. or.: inglese; pagine: 190; anno 1945]
Vent’anni dopo aver utilizzato il Colonnello Race in uno dei suoi primi romanzi (“L’uomo vestito di marrone” del 1924) ecco che, finita la Guerra, non volendo scomodare né Poirot né Miss Marple, lo ritira fuori come elemento investigativo, anche se il colonnello, un po’ come il sovraintendente Battle, interverrà solo nella volata finale del romanzo (e neanche in modo molto significativo). Con alcune varianti, come al solito negli scritti di Agatha, è sempre un “delitto da stanza chiusa”. Nel senso che i possibili colpevoli sono elencabili in un ristretto numero di persone. Ad una cena di compleanno, la festeggiata muore per avvelenamento da cianuro (come dice il titolo inglese “Cianuro frizzante” in quanto ingerito in una coppa di champagne). Insieme a Rosemary sono presenti la sorella Iris, il marito George, il misterioso Anthony, la segretaria Ruth, il politico Stephen con la moglie Sandra. Si sostiene Rosemary si sia suicidata in quanto depressa, e tuttavia, dopo alcuni mesi si scopre che forse non è così. E che tutti potevano avere interesse alla sua morte. Iris in quanto, per uno strano lascito, avrebbe ereditato le sostanze della sorella. Anthony di cui Rosemary aveva saputo il vero nome (Tony Morello) e la sua permanenza in un carcere americano, insieme al cugino di Iris, Victor, uno sbandato sempre a corto di soldi ed invischiato in loschi affari. Ruth che aveva una cotta per George e poteva volere il campo aperto. Stephen che aveva avuto una storia con Rosemary, l’aveva lasciata da pochi giorni, ma lei minacciava uno scandalo. E lui, da politico inglese degli anni Quaranta (non siamo certo nella nostra epoca poco raccomandabile) non poteva permetterselo. Sandra che sapeva della storia ma non della rottura ed avrebbe avuto interesse a riprendersi il marito. Infine, lo stesso George roso da gelosia. Nel corso dell’anno che passa si accumulano indizi strani. Victor, che Ruth ha fatto imbarcare per il Sudamerica onde evitare scandali, ogni tanto si fa vivo per qualche necessità economica. Anthony sparisce per molti mesi, tornando quasi allo scadere dell’anno a farsi vivo, e ad “insidiare” Iris. George che riceve lettere anonime che indicano la morte di Rosemary non sia suicidio. Stephen e Sandra che proseguono la loro vita pubblica, mirando anche verso cariche istituzionali. Così George pensa di organizzare una seconda cena, ad un anno dalla prima, con le stesse persone. E con una sedia vuota. Ma alla fine della cena è lui che muore, sempre per avvelenamento da “cianuro frizzante”. Il colonnello Race, presente nella sala ma non alla cena, vede che nessuno aveva toccato il bicchiere di George. Un altro suicidio? Un assassino molto astuto, quasi un prestigiatore? Anche qui, tutti e cinque i rimasti in vita potevano aver tentato qualcosa. La nostra scrittrice, come detto qui un po’ in sordina, cerca di portare indizi in tutte le direzioni, facendo fare lunghi colloqui tra Race ed altri in cui si esaminano i pro e i contro. Nelle more, comunque, il colonnello scopre che Anthony è in realtà un agente del servizio segreto in copertura, per cui lo esclude dai sospetti. E sarà proprio Anthony a sbrogliare la maggior parte della matassa. Intuendo che c’è stato un giro di bicchieri, per cui George aveva bevuto in quello di Iris, la vera destinataria del veleno. Ma chi aveva interesse a farla fuori? Qualcuno che avrebbe eredito le sostanze cospicue. Quando si scopre che Victor non è partito quando doveva partire, che è tornato quando non doveva tornare, che Ruth era l’unica persona che potesse testimoniare in suo favore, tutti i tasselli vanno al loro posto. Ma è una soluzione moscia, prevedibile, poco consona alla scrittura di altro livello cui ci si aspetta dalla signora del giallo. Certo, i dialoghi sono ben messi, si ceca di mascherare le prove con abili velature. Tuttavia è un libro di passaggio e di distensione estiva. Non a caso, l’avevo lasciato nell’eremo sorianese, e solo per i noti problemi di traslochi di libri, è uscito fuori, andando ad ingrossare la bibliografia “Christiana”. Si aspetta con ansia il ritorno di Poirot.
Agatha Christie “Un delitto avrà luogo” Corriere della Sera 3 euro 6,90
[A: 20/08/2014– I: 23/09/2015 – T: 25/09/2015] - &&& e ½
[tit. or.: A Murder is Announced; ling. or.: inglese; pagine: 311; anno 1950]
Siamo ormai negli anni Cinquanta, la nostra Agatha ha appena compiuto sessanta anni, e la sua scrittura si fa più corposa, anche in questa avventura di Miss Marple, che, come sapete, non è che sia la mia passione principale. E come ormai da molte scrittura, la tipologia di trama ha un andamento similare. Si presenta una situazione, dei personaggi, delle possibilità. Poi, ma spesso mai prima di metà libro, si fa intervenire Miss Marple o Hercule Poirot. Così succede anche in questo libro, che tuttavia ha un meccanismo di “facci vedere se sei capace”, molto interessante. Nella piccola cittadina di Chipping Cleghorn (e quando si parla di cittadine di provincia, si immagina che se deve intervenire qualcuno sarà Miss Marple) sulla Gazzetta locale appare l’annuncio di un delitto. Tutti pensano ad un gioco di società, e la maggior parte della comunità si reca a casa di Laetitia Blacklock detta Letty. Dove, per l’appunto, alle 18:30 si spengono le luci, c’è un grande parapiglia, irrompe un uomo mascherato, si sparano due colpi di pistola, ed il terzo uccide (o si uccide) il misterioso ladro. Ci sono i due lontani cugini di Letty, Jane e Patrick, c’è Dora, svampita compagna di scuola di Letty, c’è Philippa, parente lontana, con marito scomparso, figlio piccolo e passione per la campagna, ci sono le signorine Murgatroyd e Hinchcliffe (che secondo me sono un po’ lesbo, ma questo non c’entra nulla con la storia), c’è il signorino Edward con mamma, c’è il colonnello Easterbrook con signora, c’è la moglie del curato, la signora Diana “Cicci” Harmon (soprannome dovuto al fatto di essere rotondetta, ah ah ah), nonché la profuga ebra polacca e cuoca di casa, l’arcigna Mitzi. L’ispettore Craddock indaga, scopre collegamenti strampalati, ma non risolve il mistero. Sembrava Letty senza particolari beni, neanche derivati dalla morte della sorella Charlotte, ma poi si scopre che era la segretaria di uno squalo finanziario. Che lasciò tutto alla moglie, ma che, alla morte di questa, tutto sarebbe andato a Letty. Si scopre che c’è una sorella dello squalo cui non verrà lasciato nulla, e che ha due gemelli, Pip e Emma, forse interessati a che Letty muoia prima della zia, così che siano loro ad ereditare. Poi si scopre anche che Jane non è Jane ma Emma. E che il gemello Pip, che tutti credevano maschio, è invece la buona Philippa, che sta avendo una storia con Edward. Che tutte le persone hanno possibili comportamenti poco ortodossi, tanto che potrebbero essere collegati alla morte del cameriere svizzero (era lui quello dell’assalto a casa Blacklock). Dimenticavo, Letty risultava ferita di striscio ad un orecchio. Era lei quindi il bersaglio? Nessuno poteva vedere nulla, che lo svizzero aveva una torcia e tutti ne erano accecati. Meno la signorina Murgatroyd, che stava dietro la torcia. Inoltre c’è Dora che, svampita e straparlante, a pagina 158 ci dà un indizio che solo cento pagine dopo riusciamo a capire. Intanto, entra in campo la zia di Cicci, ovviamente la nostra Miss Marple. Che però non fa in tempo né a salvare Dora, che viene stroncata da una pastiglia di veleno presa al posto di un’aspirina da un tubetto destinato a Letty, né la signorina Murgatroyd, che si ricorda un particolare illuminante, ma prima di poterlo comunicare alla sua amica-amante Hinch, viene strangolata. La nostra scrittrice, poi, innesca una sfida perversa con il lettore, mostrando sempre più spavalderia. A pagina 254, compare un appunto di Miss Marple, contenente 10 parole. Se il lettore riuscisse a decifrarne il contenuto, ed a collegarle tra loro, arriverebbe alla conclusione prima di Miss Marple e dell’ispettore. Ovviamente, la nostra Jane batterà in volata la polizia, ricostruendo la lunga trama che ha portato a queste tre morti, e svelando chi ci sia dietro a tutto ciò. Devo dire che l’avevo sospettato, ma non ero riuscito a tirar fuori un senso dalle dieci parole suddette. E brava Agatha, sempre più spavalda ed ormai padronissima del mestiere. Pur con tutte le sbavature dovute alla vita inglese di campagna (di cui non sono né estimatore né conoscitore), un romanzo un filo più all’altezza delle aspettative, e con una riuscita senz’altro migliore di alcune non eccelse prove precedenti.
“Ho sofferto molto dal punto di vista fisico; ma, quando si soffre, si conosce anche il grande piacere dei momenti nei quali le sofferenze non si fanno più sentire.” (177)
Agatha Christie “Miss Marple: giochi di prestigio” Corriere della Sera 5 euro 6,90
[A: 01/09/2014– I: 30/09/2015 – T: 02/10/2015] - && ½
[tit. or.: They Do It with Mirrors; ling. or.: inglese; pagine: 209; anno 1952]
Come si sa, leggendo la bibliografia, solo dal ’50, col sopra citato delitto annunciato, Agatha Christie riprende a scrivere di Miss Marple. Tuttavia, se il precedente ha un andamento sicuro, ed una ferma mano, questa seconda uscita, risente forse un po’ della necessità di pubblicare. Non che sia mal messa, o altro. Tuttavia risulta di poca presa. Certo, qualche punta ironica in più rispetto allo standard, ma poco intreccio giallo. Infatti, il tutto si risolve in una lunga serie di interrogatori da parte dell’ispettore Curry, che analizzano il delitto in tutte le sue fasi e le sue movenze, percorrendolo e ripercorrendolo. Per poi arrivare ad una fine annunciata forse un po’ troppo frettolosa. La novità, veramente eclatante, è che Miss Marple compare sin dalle prime battute. Convocata dall’amica di gioventù Ruth (dove scopriamo qualcosa dell’infanzia della nostra quasi simpatica signorina) perché preoccupata per la comune amica Carrie. Con uno stratagemma Miss Marple si introduce quindi nella vita di Carrie, e nella sua complicata ricostruzione, in cui anche noi ci perdiamo. Carrie è una entusiasta, sempre pronta a cercare operazioni filantropiche in favore di derelitti e disadattati. In tutto questo: a) sposa un certo Gulbrandsen, super ricco, con già un figlio a carico, Christian, poco più grande di Carrie, ed insieme danno vita ad una Fondazione per gli intenti filantropici di cui sopra; b) non riuscendo ad avere figli, adottano una bambina, dall’infelice nome di Pippa, che poi scopriremo essere la figlia biologica di una assassina all’arsenico; c) subito dopo, invece, Carrie rimane incinta e nasce Mildred, che rimarrà infelice tutta la vita, sempre messa seconda dietro a Pippa; d) alla morte di Gulbrandsen, Carrie sposa tal James, già con due figli a carico, gli stonati Stephen ed Alex, che Carrie adotta quando James scappa con una ballerina jugoslava; e) ora Carrie ha da poco sposato l’altrettanto visionario Lewis Serrocold, e con lui continua opere filantropiche di vario genere; f) Pippa nel frattempo ha sposato un italiano, dato alla luce la bella Gina, morendo poco dopo; g) Gina è stata in pratica allevata in America dalla zia Ruth, e lì conosce e sposa Walter, e con lui torna alla casa avita della nonna Carrie; h) Mildred sposa un triste ecclesiastico, con cui non riuscirà ad avere figli, ed alla morte di questi torna anche lei da mamma Carrie; i) Christian diventa quindi il capo e gestore del Fondo Gulbrandsen. Vi siete persi in questi intrecci? Io quasi. Ma tutti i personaggi sono presenti a casa di Carrie, compreso tal Eddie, un ondivago che ogni tanto si inventa ascendenti mirabolanti, per poi diventare calmo e ragionante più che se fosse normale (o forse lo è?). In una serata di tragedia, succede che Lewis palesa i timori che Carrie venga avvelenata, Eddie da fuori di matto, prende Lewis e con lui si chiude a chiave in una stanza urlando e sbraitando, tutti gli altri rimangono fuori, poi va via la luce, e Walter si allontana per riparare le valvole. Si odono prima uno poi due colpi di pistola. Non si riesce ad aprire la porta, ed alla fine si trovano due fori vicino alla scrivania di Lewis, questi ansante un po’ preoccupato, e, nell’altra ala, Christian ucciso da un colpo di pistola. Questo avviene nel primo quarto di libro. I restanti tre quarti sono dedicati a quella sfilza di interrogatori di cui sopra. Ma poca è l’azione e poca la partecipazione. Tanto che alla seconda pagina di interrogatorio, Miss Marple dice che ad uccidere le mogli sono in genere i mariti (e viceversa). Con questo in testa, cerchiamo poi di capire i giochi di prestigio del titolo, che non è che siano tanto chiari. Un po’ come nel precedente libro, tutti potevano essere entrati od usciti dalla stanza per andare ad uccidere Christian. Agatha cerca di introdurre qualche elemento di disturbo, come una presunta crisi matrimoniale tra Gina e Walter, ed altre minuzie. Ma tutto si risolve quando si scopre che Eddie è una persona normale, ed il gioco degli specchi è impostato da … Beh questo scopritelo anche voi. Quello che dispiace è che la fine viene raccontata e riassunta in 3 pagine, mentre il tutto aveva appena varcato la soglia delle 200. Tant’è che rimangono zone d’ombra (muore Alex, ma come? Muore anche un ragazzo, ma in che modo?). Insomma, non una grande prova, cara la mia signora. Si attende con ansia il ritorno di Poirot.
“- Non ti senti vecchia, vero? – No, per niente … Nonostante gli acciacchi e i dolori, che sono tanti. Dentro continuo a sentirmi una ragazzina … Forse è così per tutti. Lo specchio ci mostra quanto siamo vecchi, eppure non ci crediamo!” (28)
Agatha Christie “Polvere negli occhi” Corriere della Sera 24 euro 6,90
[A: 05/02/2015– I: 27/09/2015 – T: 29/09/2015] - &&& ½
[tit. or.: A Pocket Full of Rye; ling. or.: inglese; pagine: 259; anno 1953]
Ovviamente una lunga e partecipata citazione va a questo scritto, pubblicato in un anno genetliaco e, come il sottoscritto, ancora decisamente valido. Ma prima di addentrarci nei meandri di una trama non molto complessa, ma con tutte le caratteristiche per sviare noi attenti lettori, dedichiamo qualche riga ai soliti lai contro traduttori e parenti stretti (correttori, editori, e via oriando). Ora chiediamoci: aveva senso il titolo originale “Una tasca piena di segale”? Certamente, e poi vi spiego anche perché. Il sostituto “Polvere negli occhi” serve a farci capire quello che ho detto prima, un corpo estraneo che ci fa distogliere lo sguardo dal giusto punto di osservazione per scorgere il (o la) colpevole. Ma attiene poco al nocciolo della trama. Che la tasca si riferisce alla seconda linea di una filastrocca infantile inglese, intitolata “Canta una canzone da due soldi” e tratta da una delle raccolte più note di rime infantili “The Real Mother Goose” (“La vera Mamma Oca”, per non confonderla con la raccolta di fiabe di Perrault “Ma Mère l’Oye”). La filastrocca (con relativa traduzione) ve la riporto in finale. Perché è quella che fa da leitmotiv alla successione delle azioni nefande. Secondo elemento (e questo certo più difficile) di spavento per il nostro traduttore – traditore è la presenza di merli (“blackbirds”) per un qualche strano elemento narrativo che vedremo. Il fatto che delle morti siano avvenute durante cerimonie del tè, in genere in Inghilterra accompagnate da qualcosa di dolce da mangiare, consente al simpatico ispettore Neele di prendere in giro il suo sottoposto ricordandogli che deve cercare “blackbirds” (appunti merli) e non “blackberries” (cioè more, anche se vengono qui tradotte con mirtilli neri). Una piccola nota a piè pagina, no? Allora, veniamo a noi. Prima della Guerra, Agatha aveva utilizzato per ben due volte di seguito delle filastrocche per due romanzi di Poirot. Visto che la filastrocca ha successo, eccola che, come suo costume, la riutilizza, in un romanzo di Miss Marple. Che al solito interviene ben oltre metà, fa due interventi (di cui uno relativo all’aggancio della filastrocca alla vicenda), indica la soluzione al buon ispettore e se ne torna a casetta. La vicenda è incentrata intorno alla famiglia Fortescue. Il capostipite, Rex, sanguigno ed ai limiti della legge, ha accumulato beni e denari, ma ora si sta avviando verso una precoce demenza senile, spendendo e sperperando soldi, nonché sposando una signorina di trenta anni più giovane, che mira solo al denaro. Il cattivo Rex, allora, muore in ufficio, bevendo una tazza di tè. Ma si scopre che: il veleno l’ha ingerito ore prima, in casa, e che ha della segale in tasca. In casa, oltre alla moglie Alice ed al suo amante Viv, c’è il triste figlio maggiore Percival, spilorcio e sparagnino, con la giovane moglie ex-infermiera Jennifer, la figlia Elaine, in lite con il padre perché vuole sposare il poco abbiente Gerard, la zia Effie, che tutto vede e nulla dice, la governante super efficiente Mary Dove e la cameriera super imbranata Gladys. Non è presente, perché ancora in Africa, Lancelot, il figlio minore, cacciato da giovane in quanto un poco truffaldino, che vivacchia tra imprese sballate e corse dei cavalli, con sua moglie Pat, un’aristocratica cui Lance vuole un bene profondo. Ovviamente sono tutti contenti della morte di Rex, che salva l’impresa familiare dalla bancarotta. Ma nel testamento, il vecchio aveva fatto un lascito enorme ad Alice, cosa che avrebbe continuato la discesa verso la povertà. Ebbene, prima che sia possibile incassare i soldi, Alice viene uccisa anche lei durante un rinfresco di tè nel salotto buono, mentre mangiava pane e miele. L’ispettore capisce che la reticente Gladys sa qualcosa, ma prima di riuscire ad interrogarla, la poveretta è strangolata nel locale lavanderia, e lasciata con una molletta sul naso. In tutta questa confusione, è intanto arrivato Lance e signora, creando altro scompiglio, innervosendo Percy, e rinvangando una vecchia storia di merli (eccoli che arrivano). Perché Rex lasciò morire un suo socio mentre cercavano di scoprire le potenzialità della “Miniera dei Merli” in Tanganica. Questo mette pepe alla ricerca, perché la figlia del socio, ormai tra i venti ed i trenta, è scomparsa, ed aveva giurato da bambina di vendicarsi. Sarà lei sotto mentite spoglie ad essersi introdotta in casa Fortescue? Può essere Mary Dove? Può essere Jennifer? Oppure? Ecco che, ormai quasi alla fine, arriva l’arzilla Miss Marple, che collega i delitti alla suddetta filastrocca (ne vedete il nesso ovvio). E scopre l’assassino in base a due particolarità: Gladys è stata uccisa prima di Alice, contrariamente alla filastrocca, ciò che indica la paura del colpevole di essere scoperto anzitempo; inoltre il veleno che uccise Rex deriva dalle bacche dei tassi, ritrovate in una marmellata d’arance che solo Rex usava (e come lo capisco, è l’unica decente da mangiare). Quindi qualcuno aveva indotto la credulona Gladys a mettere le bacche nella marmellata, e, prima che l’ingenuotta potesse smascherarsi, l’ha uccisa. Per poi uccidere anche Alice, in modo da consentire all’impresa di non collassare. Quando poi si scopre che in Tanganica ci sono miniere d’uranio, anche la questione della miniera avrà la sua rilevanza. Miss Marple spiega tutto all’ispettore, ma non si hanno prove. Prove che verranno alla luce con una lettera di Gladys a Miss Marple (dimenticavo, la poveretta veniva proprio da St. Mary’s Mead, guarda tu!) in cui la cameriera confessa la sua partecipazione all’azione, dicendo che le era stata proposta dal suo fidanzato, di cui allega una foto. E questi è … Vi pare che ve lo posso dire così su due piedi? Ma tanto l’avete capito, ed è interessante il modo in cui ce ne porge la soluzione la nostra Miss Marple. Una parte finale ben scritta, come deve accadere in un giallo che si rispetti, senza dar nulla per scontato. Che tutto alla fine, viene spiegato. Una bella prova. Ed ora ecco la filastrocca:

SING A SONG OF SIXPENCE


Sing a song of sixpence,
Canta una canzone da due soldi,
   A pocket full of rye;
   una tasca pieno di segale
Four-and-twenty blackbirds
Ventiquattro merli
   Baked in a pie!
   farciti in una torta!


When the pie was opened
Quando la torta viene aperta
   The birds began to sing;
   i merli cominciano a cantare
Was not that a dainty dish
Non è questo un piatto delizioso
   To set before the king?
   da servire ad un re?


The king was in his counting-house,
Il re era nel suo ufficio
   Counting out his money;
   che contava i suoi soldi
The queen was in the parlor,
La regina era nel suo salotto
   Eating bread and honey.
   che mangiava pane e miele.


The maid was in the garden,
La serva era nel giardino
   Hanging out the clothes;
   che stendeva la biancheria
When down came a blackbird
Quando è sceso un merlo
   And snapped off her nose.
   e ha beccato via il suo naso.



PS: se siete interessati, c’è un bell’articolo su Wikipedia inglese relativo alla genesi di questo stornello. Cercatelo!
Inizia marzo pazzerello, ed ecco allora che torna l’elenco ed i giudizi dei sedici libri letti nel mese di dicembre. Un mese senza particolari scostamenti dalla linea mediana, illuminato però dal bellissimo, consigliatissimo, libro da leggere e rileggere: il “Danubio” di Claudio Magris.

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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Michele Giuttari
Il Basilisco
Corriere della Sera
6,90
3
2
Andrea Camilleri
La piramide di fango
Sellerio
14
3
3
Antonio Manganelli
Il sangue non sbaglia
Corriere della Sera
6,90
3
4
Jaime Miranda
Non sono qui per farmi degli amici
Gran Via
s.p.
2
5
Agatha Christie
Un cavallo per la strega
Corriere della Sera
6,90
2
6
Danila Comastri Montanari
Mors Tua
Mondadori
12
3
7
Danila Comastri Montanari
In corpore sano
Mondadori
12
3
8
Georges Simenon
I Maigret – 4
Adelphi
s.p.
4
9
Danila Comastri Montanari
Cave Canem
Mondadori
9,90
2
10
Cristiana Astori
Tutto quel blu
Mondadori
4,90
2
11
Stephen Chbosky
Noi siamo infinito
Sperling & Kuipfer
13
3
12
Claudio Magris
Danubio
Garzanti
12,90
5
13
Bruno Morchio
Con la morte non si tratta
Garzanti
4,90
2
14
Julian Barnes
Il pedante in cucina
Corriere della Sera
7,90
3
15
Camilla Läckberg
Il bambino segreto
Marsilio
14
3
16
Wilbur Smith 
Il Dio del fiume
Longanesi
s.p.
2

Come si supponeva, le Galapagos sono andate nel dimenticatoio delle imprese sballate patrocinate da Avventure, e sostenute da viaggiatori poco attenti. Ma avremo modo di riparlarne, per ora godiamoci questo mese di marzo, all’insegna delle sistemazioni.