domenica 27 marzo 2022

Tornando a viaggiare - 27 marzo 2022

Un gerundio di speranza, visto che ci rimane quella e poco altro, per ora. Ma almeno viaggiamo con la lettura, spaziando da Cuba all’India, dal Cile alla Russia, fermandoci alfine in un sempre amato Egitto. Dove per l’appunto al-Aswani ci dà il meglio per l settimana, seguito da un altro autore che leggo sempre con piacere, l’indiano Ghosh. In fondo al gruppo gli ispanici, che non mi hanno entusiasmato, né Arenas né Ovando. In mezzo un autore che, letto ora, nel mezzo di una guerra insensata, dona senso alla lettura. Vi invito a leggere e riflettere sulla citazione che riporto.

Reinaldo Arenas “Prima che sia notte” Repubblica Mondo 11 euro 9,90

[A: 04/02/2019 – I: 21/08/2021 – T: 23/08/2021] - &&  

[tit. or.: Antes que anochezca (Autobiografia); ling. or.: spagnolo; pagine: 347; anno 1990]

Un libro veramente difficile. Non per la scrittura, ma per la tipologia dei contenuti. Anche se la preponderante parte omosessuale, benché troppo esibita, forse, ci può stare, la parte visceralmente anticomunista e anticastrista (che si può capire) risulta forzosamente inserito. Una bandiera da esibire, senza mai porse una domanda o macerare un dubbio (o almeno così salta fuori dalla pagina).

Ora, io non ritengo di avere nulla da opporre alla presentazione della vita, quale che essa sia. Tuttavia, la vita di Reinaldo mi sembra da lui essere stata troppo semplificata: sesso tanto, amore poco o nulla. Troppo squallido. Io so, e vedo, amori omo, etero e bisessuali che vanno da grandi picchi a profondi abissi. Qui, c’è solo sesso. E anche molto squallido. Anche perché, per Reinaldo, tutti sono gay: i gay, le donne, gli uomini tutti, sposati o meno. Troppo facile, troppo semplicistico. Quasi fosse solo un tentativo, come dicono i francesi, per “èpater les bourgeois”.

Di certo, non può mancare l’empatia con una persona che, malata di AIDS, trova la forza, la volontà, di scrivere, di narrarsi, di mostrarsi nudo e a nudo. Con le due pagine migliori e più forti che sono le ultime due. La descrizione della luna sopra Cuba, lirica, bellissima. E la lettera di addio, di chi, capendo di non farcela più, decide che “per lei lascia la vita”.

Il volo d’uccello che ci impone l’autore, invece, all’inizio sembrava promettere e bene. La descrizione dell’infanzia, povera ma felice. Il rapporto con la nonna, e quello, mai risolto e forse irrisolvibile, con la madre. La campagna, il fiume, gli animali, l’orto. E la scoperta della propria omosessualità. In modo semplice e non traumatico. Anche se poi, il trauma, lo dovrà portare per tutta la vita. O almeno per tutta la sua vita cubana.

Arenas è del ’43, quindi ha tutta l’infanzia e la giovinezza per vivere la sciagurata permanenza al potere del dittatore Fulgencio Batista. Quando Cuba era solo una grande casinò per gli americani danarosi e per i mafiosi di ogni risma. Soggettivamente, il periodo di Batista, porta un aumento della povertà nelle campagne, tanto che la famiglia Arenas vende tutto e prova a reinventarsi una vita possibile nella triste città di Holguin, nel sud di Cuba.

All’inizio, come tutti d’altronde, si unisce alla rivoluzione. Ma dalle sue parole, scritte anni ed anni dopo, traspare solo la delusione. Certo, il castrismo non fu rose e fiori, come tutte le rivoluzioni. Come diceva tal Andreotti, “il potere logora chi non ce l’ha”, ma corrompe che ce l’ha. Non entro, non voglio entrare in polemica con l’autore. Mi sono limitato a leggerne le parole, a capire quanto c’era di vero e quanto di iroso rimpianto. E non è facile.

I regimi dittatoriali (ed anche a Cuba, c’è una dittatura, di sinistra, volendo, ma con tutte le contraddizioni e le difficoltà di un popolo assediato, che resiste, fino all’ultimo goccia di sudore, alle lusinghe americane) hanno sempre mostrato poca propensione all’accettazione dei diversi. E di sicuro, negli anni ’60 e ’70 anche per Cuba era lo stesso. Il machismo dei Caraibi è ben noto. Ma dopo, ora, almeno nella Cuba che ho visto io, il clima mi è sembrato diverso. Tuttavia, non essendo né cubano né omosessuale, forse ho parametri di comprensione diversi.

Comunque, la scrittura che ci riporta a tutte le traversie passate da Reinaldo per cercare di allontanarsi da Cuba è ben partecipata. Si soffre con lui, pur essendo da posizioni diverse. Ed in queste traversie, inizia a scrivere questo testo, ma solo di giorno, perché la notte non c’è luce. Viene imprigionato, condannato, rilasciato. Poi, nella grande confusione del 1980 con l’assalto alle ambasciate, riesce, con uno stratagemma, a fuggire a Miami. Corregge a penna il passaporto, cambiando Arenas in Arinas. E finalmente, dice, respira la libertà.

Anche fuori Cuba, però, avrà non poche delusioni. Quando i suoi scritti venivano trafugati di nascosto, era diventato un simbolo. Ora che parla apertamente, in giro per il mondo, scopre l’ipocrisia di tutta quella frangia radical-chic, che non crede alle sue traversie. Noi ci crediamo? In mancanza di controprove, si. Che comunque, è quello che Reinaldo sente. Quello che ci comunica, quello che per dieci anni lo sostiene. Finché, anche l’AIDS lo stronca.

Alla fine, uno scritto ambivalente. Umanamente, lo seguo. Politicamente, mi sorgono interrogativi. Che sono sempre quelli legati agli sforzi per permettere all’uomo di sviluppare le proprie capacità. Non so quale sia la ricetta giusta. Forse non c’è. Di certo, l’unico parametro che mi sento di portare avanti a tutto è il rispetto. Se c’è, si può cercare di migliorare. Se non c’è, rimane la prevaricazione di chi urla più forte. E non è questo il mio mondo.

“Ho sempre pensato che sia meglio conoscere gli scrittori da lontano, leggerli, piuttosto che conoscerli personalmente, perché c’è il rischio di rimanere terribilmente delusi.” (332)

Amitav Ghosh “Le linee d’ombra” Repubblica Mondo 12 euro 9,90

[A: 24/02/2019 – I: 23/08/2021 – T: 25/08/2021] - &&&--

[tit. or.: The Shadow Lines; ling. or.: inglese; pagine: 295; anno 1988]

Torno ancora una volta al sempre gradevole Ghosh ed alle sue storie indiane. Qui, addirittura, siamo risaliti indietro sino al secondo libro da lui scritto, poco più che trentenne. Se ne sente, a volte, un po’ di scrittura acerba. Che nelle prove successive, pur mantenendo immutato un certo modo di porgere la storia, il flusso narrativo risulta più lineare. In questa più che onesta prova, a volte, pare necessario riprendere fila di un discorso non si sa dove interrotto.

Non siamo ancora alle grandi saghe della maturità della scrittura di Ghosh, né ai reportage da tutte le zone asiatiche. Tuttavia, c’è un filo che collega questo agli altri romanzi di Amitav. L’attenzione alla situazione locale, l’attenzione ai rapporti tra hindu e muslim, ma anche tra indiani in genere e gli inglesi. Attraversando nel tempo momenti topici della storia indiana.

Certo, la non linearità della narrazione è uno degli elementi che a me disturbano maggiormente, che alla fine devo ricostruire vicende e rapporti, alla luce di quanto viene detto dopo ma che avviene prima. Ci sono infatti momenti di difficoltà tra i personaggi, che si capiscono solo alla fine. Ma andiamo con ordine.

La storia coinvolge una grande famiglia indiana, originaria, agli inizi del Novecento in quel di Dacca. E vedremo come sia importante. Due fratelli, che litigano, si dividono la casa. Noi seguiamo uno dei due. Soprattutto, vediamo cosa succede alle due figlie. Una, Maya, la più bella, trova presto un buon matrimonio con un funzionario legato alla diplomazia, così che riuscirà a girare il mondo. L’altra, la nonna del narratore, che sposa un ferroviere, che vive a lungo in Birmania, ed alla morte del marito nel ’36, si reinventa insegnante in una scuola a Calcutta.

Ed è Kolkata una delle protagoniste della storia, così come esce dalla narrazione del protagonista. L’altra è Londra, anche lei narrata dal piccoletto. E poi c’è Dacca, che entra solo per narrazioni laterali, anche se ha una sua funzione nella storia.

La famiglia di Maya, nel ’39, per motivi medici, va in Inghilterra. Oltre i genitori c’è Robi, il cugino poco presente, ma soprattutto Tridib, sognatori con i suoi occhiali ovali dalla montatura dorata. Tridib che poi sarà il mentore del narratore, che gli parlerà della storia inglese, di chi ha visto, dove, e soprattutto gli parlerà di May Price, l’amica inglese di tutta la vita.

Il narratore interviene solo negli anni ’50 (sappiamo che nasce nel ’52), affascinato dalle storie del ventenne Tridib, che gira per la città, che beve tè, che ha problemi di stomaco (e lo capisco bene). Ogni spunto è buono per lo sfuggente Tridib, narrazioni archeologiche, tracce di ricordi, e soprattutto una fervida immaginazione che quando non sa, inventa. E negli anni ’50 interviene anche Ila, la terza figlia di Maya, la cuginetta che sconvolgerà gli affetti del narratore, ma che volerà per altri lidi.

Ghosh riesce a dipingerci molto bene la vita a Calcutta di quegli anni. I rapporti, il matriarcato, insomma tutte le tipologie classiche della “mitologia” familiare indiana. Vediamo la nascita degli amori, vediamo la fine degli stessi. Vediamo tante cose. Fino al momento topico, quando la famiglia di Maya per lavoro torna a Dacca, e si porta dietro la nonna che vuole rivedere lo zio, nonché Tridib e May Price in visita agli amici indiani. Siamo nel passaggio tra il ’63 ed il ’64, ed è importante, dal punto di vista storico.

Come sappiamo, nel ’48, con l’indipendenza, il continente indiano venne diviso nella parte hindu (l’India) e nella parte mussulmana (il Pakistan). Questo secondo, però era diviso in due: quello attuale, ed il Pakistan Orientale, con capitale Dacca. Proprio nell’apice della storia, nascono i movimenti indipendentisti, che riescono ad ottenerla a fronte di lotte e morti varie, così che in quell’anno nasce il Bangladesh.

Anche le nostre famiglie saranno coinvolte nei casini, e ne usciranno modificate per sempre.

Ghosh non prende posizione, narra, ma si vede che empatizza molto con tutti: gli indiani, i bengalesi, financo gli inglesi. Che ognuno ha dei punti a favore, ed anche dei momenti no. Come sottilmente ci fa intendere lo stesso autore, richiamando nel titolo quel fondamentale testo di passaggio dall’infanzia alla maturità che fu “La linea d’ombra” di Conrad.

Finisco solo con un piccolo puntiglio filologico. Tutte le sommosse che portano alla parte cruenta e finale del libro iniziano con il furto di una reliquia di Maometto, conservata nel Kashmir, e poi al suo ritrovamento. Ma quella che mi interessa è che Ghosh (ed i suoi traduttori) la indicano come Mu-i-Mubarak mentre nella narrazione che si ritrova cercando del mausoleo della moschea di Hazratbal viene indicato come Moi-e-Muqqadas. Io mi astengo e chiedo a chi ne sa più di me.

Zachar Prilepin “San’kja” Repubblica Mondo 21 euro 9,90

[A: 15/04/2019 – I: 04/11/2021 – T: 06/11/2021] - &&

[tit. or.: San’kja; ling. or.: russo; pagine: 334; anno 2006]

Yevgeny Nikolayevich Prilepin detto Zachar è uno scrittore russo che non avrei mai letto se non inserito in questa panoramica di letteratura di tutto il mondo. Ed anche dopo averlo letto, credo che mi asterrò da altri approfondimenti. Ora, non è che non sia scritto bene, grazie anche all’ottima traduzione di Enzo Striano, e che non abbi potenti modi di esprimere e di coinvolgere il lettore. Tuttavia, l’ideologia che esprime ed il personaggio “Zachar” sono lontani anni luce dal mio modo di essere e di pensare.

Tanto per dire, e qui chiudo la parentesi sull’autore, è stato combattente nelle Forze Speciali russe, e poi volontario nella Guerra di Cecenia nel ’96; è stato a lungo membro del Partito Nazionalista Bolscevico (su cui torneremo), seguace a lungo di Limonov, e, come ultima uscita, ha affermato che il COVID è una punizione divina contro l’Occidente per aver legalizzato il matrimonio tra persone dello stesso sesso.

Detto ciò, veniamo al libro, che segue le gesta di un personaggio, Sasha Tishin detto San’kja, che in molti tratti rispecchia il giovane Zachar. Sasha è discretamente giovane (direi tra i venti ed i trenta), un po’ come lo scrittore all’epoca della scrittura. E come Zachar, è disgustato dalla situazione in cui si trova la Russia al momento della scrittura.

Facendo una facile traslazione, Sasha è attivista di un movimento denominato “Unione dei creatori” (anche se il nome completo sarebbe “Unione patriottica di sinistra radicale dei creatori”, ed è tutto un programma), seguace del leader Kostenko, incarcerato da Putin. Come non vedere lì dentro Limonov ed il suo Partito Nazionalista Bolscevico, poi diventato “L’Altra Russi”?

Sasha è discretamente sbandato, anche se proviene da una famiglia dotta. Con tutte le contraddizioni del caso: padre professore universitario, morto per una ubriacatura lunga e continuata. Si contorna di amici tra lo strafatto ed il nichilismo. C’è Vanja, sempre fuori di testa per Vodka e marjuana. C’è Rogov, che sembra il più politico, ma sempre poco concludente. C’è Nega, abbreviazione di Negativo, perché parla poco e vede tutto sotto la luce peggiore (anche se ha un fratello chiacchierone detto “Posi”, abbreviazione di Positivo).

I ragazzi partecipano a manifestazioni con l’unico intento di fare casino e sollevare polveroni (dei Black Block russi?). anche se dietro c’è un minimo di “militanza” politica. Nella persona di Jana, donna molto ragionante, quasi una “Femen” anche se non si denuda, che riuscirà nell’azione estrema di gettare un sacchetto di mondezza in faccia al Presidente. E nella persona di Matvey, quello che organizza le azioni più pericolose, l’unico in contatto con il detenuto Kostenko.

Sarà Matvey che spedisce Nega a Riga per un’azione dimostrativa che porterà all’arresto del ragazzo, ed alla sua condanna a 15 anni. Sempre lui spedisce Sasha ad uccidere a Riga il giudice che ha condannato Nega. Ma che morirà non per mano di Sasha.

Ogni tanto c’è qualche barlume di altro, oltre al degrado che Zachar descrive sulla Russia attuale. La parte di ricordi del villaggio dei nonni. Il lungo ed infruttuoso viaggio per seppellire il padre. Le due o tre discussioni “politiche” tra Sasha e Bezletov, ex amico del padre, le uniche che sembrano dare un senso alle azioni (o alle non azioni) descritte.

Dopo l’azione di Jana e di Nega, le forze dell’ordine del Presidente si scatenano contro gli attivisti dell’Unione. Per evitare lo schiacciamento definitivo, Matvey (seguendo gli ordini di Kostenko) ordina di “fare la Rivoluzione”. Ma le forze dell’Unione sono ben poca cosa, e ben presto i personaggi di spicco sono arrestati o uccisi.

Rimane Sasha, con il suo manipolo, che ruba armi alla Polizia, e si asserraglia nel palazzo del comune. Il libro si chiude con la contrapposizione tra Sasha ed i suoi contro lo strapotere delle forze armate. Già sappiamo, anche se Zachar non ce lo dice, come andrà a finire.

Quindi, certo, Prilepin descrive ben un disagio forte del mondo russo attuale. Prendendo le parti di questi “nazionalisti bolscevichi”, di cui ripete a macchinetta gli slogan. Senza però riuscire non dico a convincere, ma neanche ad interessare me lettore “diverso da lui”.

Tanto per finire in bellezza, ad esempio, ricordo per chi fosse meno interessato alla politica russa, che il partito, di Zachar e di Sasha, ha per vessillo una bandiera rossa con un cerchio bianco al centro, dove sono presenti falce e martello. Bandiera che è l’unione del vessillo stalinista con quello nazista. Qui mi fermo, sconsigliando un’inutile (ed anche faticosa) lettura.

“Si può discutere con chi cerca la verità. Con chi vuole restare della propria opinione discutere è inutile.” (179)

Francisco Ovando “Tutta la luce del campo aperto” Repubblica Mondo 34 euro 9,90

[A: 22/07/2019 – I: 20/11/2021 – T: 22/11/2021] - & e ½    

[tit. or.: Casa volada; ling. or.: spagnolo; pagine: 172; anno 2013]

Anche se non sempre riconosciuta come tale, la letteratura cilena è ben presente nella mia biblioteca (e nella mia mente). Certo, anche se la poesia è difficile (per me) rimane la stella luminosa di Neruda. Ma nella scia della sua cometa, ci sono alcuni che ci hanno lasciato (Roberto Bolaño, Luis Sepúlveda) ed altri che ogni tanto ci omaggiano di un bel libro (Antonio Skármeta, Roberto Ampuero, Marcela Serrano). In questo panorama di alto profilo, si inserisce, ambiziosamente, il giovane Ovando (giovane che poco più che trentenne). Purtroppo, questo libro, pur con degli elementi di interesse, non lascia altri grandi segni.

Intanto partiamo dal titolo, che capisco non sia di facile traduzione, in quanto il termine “volada” in spagnolo ha molti significati. Il più semplice (“volata”) ha poco senso. Il più estremo (“esplosa”) mi sembra appunto estremo. Un senso mediano, tipo “sballata”, quasi tendente alla rovina, potrebbe andare. Gli editor italiani hanno invece preso il titolo di un sotto capitolo (a pagina 125) per farne diventare un emblema. Che rimanda alla fine di uno dei personaggi, e, di riflesso, a tutta la schiera, esigua, di persone che avanzano sulle pagine. Io, tuttavia, rimango nel dubbio che l’autore avesse voluto dire altro.

Premetto anche che la scrittura non è facile da seguire, che l’autore, funambolo delle parole, salta registri, cambia prospettive, scrive dentro la scrittura, entrando e uscendo dalla pagina. Certo, un buon esercizio di padronanza della penna (che l’ottima traduttrice Giorgia Esposito riesce mirabilmente a riprodurre), ma che alla fine porta pochi risultati tangibili.

Noi seguiamo, lungo le pagine, lo sprofondare verso l’irrisolutezza del protagonista, David Arqueros. Correttore di bozze, malpagato e per lo più ignorato, ha un sogno nel cassetto: scrivere un libro su un grande pittore cileno, anch’esso problematico. Da anni raccoglie notizie, libri, manoscritti, e tutto quello che si può su Alfredo Valenzuela Puelma (1856 – 1909), per riscattarne la memoria e restituirgli onori che ebbe poi postumo, ma che fu misconosciuto e trattato veramente male dal mondo delle arti cileno.

Ora, a più di cento anni della morte, Valenzuela è riconosciuto come uno dei quattro grandi maestri della pittura cilena. Ebbe anche il merito di dipingere il primo nudo della pittura cilena, ovviamente suscitando scandalo. Eppur ebbe una mano interessante, visse a lungo a Parigi, assorbendo il clima esuberante di fine Ottocento. Ma aveva una mente fragile, che lo portò alla pazzia e quindi alla morte nel manicomio francese di Villejuif. Solo posteriormente le sue ceneri furono traslate in Cile, dove venne accolto trionfalmente.

Ovando allora prende il povero David e lo inserisce in un turbine di pagine. Che seguiamo lo scritto attraverso diversi modi di esposizione. C’è la vita dei protagonisti, ci sono le fonti storiche della vita del pittore che David intercala alle sue esposizioni, capitoli del libro che David sta scrivendo, soggettive di Valenzuela verso la pazzia, nonché scenari onirici del mondo di David. Un mondo che al fine si riduce nella sua anziana padrona di casa, Justiniana, appassionata di ornitomanzia (antica pratica greca di leggere auspici nel comportamento degli uccelli) e, da metà libro, della di lei nipote Alina, che, arrivando, manda all’aria tutti buoni propositi di David.

Pur se abituati alle scene di “realismo magico” della scrittura sudamericana, qui entrare ed uscire dal sogno, immaginare scene e viverle come più reali del re, non ci dà quel sapore forte e di condivisione di Amado o di Garcia Marquez. Rimaniamo ad aspettare che qualcosa accada, e molto non accade. David prosegue, tra mille impedimenti, la scrittura, Justiniana tristemente muore, Alina prende le redine della casa e della vita di David. Il tutto convergente verso una fine annunciata. Non dico bella, buona, brutta, quel che sia. È come ci si aspettava dalle prime pagine. E così sarà nelle ultime.

Vorrei spendere solo qualche altra parola sull’invenzione della vita di Valenzuela fatta da Ovando e messa sulla penna di David. Che seppur vero quello sopra detto sul nudo in pittura, il quadro di cui tanto si narra nel libro, “La perla del mercader”, venne dipinto nel 1884 a Parigi durante il primo soggiorno europeo, e non, come si estrapola dallo scritto, nell’ultimo periodo che portò Valenzuela alla morte. Non credo si possa trattare di un errore, ma penso di una frecciata ai benpensanti cileni, che nel 1884 inorridirono alla vista del quadro, che espone le rigogliose nudità di una schiava orientale. Quasi a voler significare che da lì iniziò il processo di poca salute mentale del pittore che lo portò, venticinque anni dopo alla morte.

Ma decrittare questo (ed altri momenti) vuol dire avere una conoscenza, certo superiore alla mia, del mondo delle arti in generale, e di quello cileno in particolare. Dalla pagina tutto ciò esce poco coinvolgendo, che magari una nota, una post-fazione avrebbero sistemato meglio quanto si andava leggendo. Al fine, lasciatoci così, poco mi è piaciuto, della storia, dello stile, del risultato finale. Unico merito, lo stimolo a cercare notizie su cose di cui, prima, nulla sapevo.

‘Ala al-Aswani “Sono corso verso il Nilo” Repubblica Mondo 22 euro 9,90

[A: 20/04/2019 – I: 23/11/2021 – T: 26/11/2021] - &&&&

[tit. or.: Jumhūriyya Ka'anna; ling. or.: arabo; pagine: 398; anno 2018]

In memoria di Giulio Regeni e per non dimenticarci di Patrick Zaki.

Questi i maggiori motivi per un così alto giudizio di questa quasi-fiction dello scrittore, dentista, attivista egiziano ‘Ala al-Aswani, per me al secondo libro letto, dopo l’interessante e coinvolgente Palazzo Yacoubian. Anche perché, sul valore intrinseco del libro, ho alcune riserve sulla scrittura, che non mi ha coinvolto così come invece mi ha preso il senso di realtà descrittiva con cui l’autore ci fa partecipe della rivolta egiziana del 2011, quella che portò alla caduta di Hosni Mubarak.

Una scrittura talmente forte che la pubblicazione del libro è stata proibita in tutto il mondo arabo, eccetto che in Libano, Marocco e Tunisia.

Il libro, è ovvio, è un romanzo, quindi i “fatti” sono immaginati dall’autore. Ma noi sappiamo come questa finzione sia altamente possibile. Perché lo dicono i fatti accertati, e lo dicono gli avvenimenti successivi. L’autore, attraverso un racconto corale, ci porta a piazza Tahir nell’ottobre di dieci anni fa. Con tutte le cose accedute che portano al cambio del governo egiziano. Un cambio “alla democristiana”, dove cambia tutto per non cambiare nulla. Dove i veri possessori del potere (militari, faccendieri e imprenditori vari) cambiano cavallo in corsa, ma rimangono a gestire il potere. Non solo, aprendo anche alle frange dell’estremismo religioso, portando l’Egitto in una spirale violenza da cui non si è ancora ripreso. Pensiamo ad al-Sisi e non diciamo altro, che abbiamo tutto ancora negli occhi.

Il racconto, dicevamo, è corale, che seguiamo i vari attori, i buoni ed i cattivi, nell’avanzare delle loro azioni. Un racconto fatto anche di diverso materiale. Racconto in terza persona per narrare fatti, interni ed esterni. Lettere, fisiche o elettroniche, scambiate tra due dei protagonisti. Nonché testimonianze, inventate ma basate su fatti reali, di soprusi subiti da uomini e donne durante la rivolta.

Abbiamo i giovani, ragazzi e trentenni, che si riuniscono per dar vita a quei giorni di manifestazioni che porteranno alla caduta di Mubarak. C’è Dania, studentessa in medicina, che all’Università conosce Khaled, attivista di Kifaya (organizzazione reale, cui anche al-Aswani partecipava). Entrambi si impegnano fino in fondo, lei anche a curare i feriti. Ma Khaled sarà ucciso a sangue freddo da un tenente dell’Esercito. Morte che porterà ad un processo, dove il tenente sarà assolto, cosa che non verrà mai perdonata né accettata da Midani, il padre di Khaled, nonché autista dell’imprenditore Issam Sha’lan.

Quest’ultimo, ex-comunista, ora dirige una fabbrica di cemento che sarà un altro epicentro della rivolta, e dove lavora Mazen, l’autore delle mail. Mazen è un attivista sindacale, anche lui in Kifaya, dove conosce Asma, insegnante d’inglese, timidamente ribelle, l’altra autrice delle mail. Asma, pur religiosa e mussulmana, non accetta il velo, motivo per cui viene ostracizzata dal potere scolastico. I due faranno un lungo percorso, si troveranno, ma saranno separati, lui in carcere, lei in esilio.

Di lato alla storia, c’è anche il vissuto della famiglia di Asma, con il padre contabile in Arabia Saudita, dove fa i soldi per mantenere la famiglia. Cosa che permette all’autore alcune digressioni sul lavoro degli egiziani espatriati, che, per mantenere i parenti, sottostanno alle peggiori angherie da parte degli arabi con i soldi.

Come altra storia, che sembra laterale, ma che porta al cuore del problema è la famiglia di Dania. Il padre, Ahmed ‘Alwani, è il capo della Sicurezza, e vedremo come riuscirà ad organizzare l’uscita di scena di Mubarak, ma anche la ripresa da parte delle forze economiche preponderanti, una volta finita la prima ondata di rivolta. In particolare, organizzando una finta fuga dalle carceri, onde utilizzare i galeotti come forza d’urto contro i manifestanti. Forza d’urto che in particolare si accanisce contro i copti, la minoranza cristiana in Egitto. La strage dei copti imprimerà la svolta decisiva al ritorno al potere dei militari.

Tra i copti, abbiamo invece una delle figure più simpatiche del libro. Il maturo ex-attore Ashraf Wissa, che prenderà coscienza della rivolta, abbandonando spinelli ed alcool, abbandonando la moglie, ed andando a convivere, lui copto, con la mussulmana Ikram, una figura bellissima nel discorso interreligioso di al-Aswani.

Ci rimane solo, di forte, la figura di Nourhan, donna televisiva, che usa le sue bellezze per l’ascesa sociale, nonché per l’ascesa televisiva. Finendo per dirigere la nuova rete televisiva nata per sostenere il regime e spargere falsità su tutto il fronte dell’opposizione.

Ripeto non è una scrittura accogliente, a volte troppo descrittiva, e troppo tesa alla dimostrazione di un assunto, che noi sappiamo vero, ma che non lo sembra localmente. Tant’è che lo scrittore, due anni fa, è stato citato in giudizio da militari che si sono sentiti diffamati da questo scritto. Io non entro nel merito, ma se avete in mente Regeni (e Zaki) non avrete dubbi su come collocare lo scritto.

Un’ultima parola sul titolo, che, in italiano riprende la frase di un manifestante che, intossicato dai gas lacrimogeni della polizia, cerca di salvarsi, appunto, “correndo verso il Nilo”. Ci può stare, ma l’autore ha intitolato lo scritto “La Repubblica com’è”, un titolo che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni, e che avrebbe meritato il giusto risalto.

Visto che si parla di viaggi, mi sembra appropriato appigliarsi a due citazione di  Bruce Chatwin, tratti da due suoi libri epigoni, “In Patagonia” e “Ritorno in Patagonia” il secondo scritto con l’amico Paul Theroux. Nel primo libro, ricordando il grande esploratore inglese Henry Hudson (quella della Baia nell’Artico), dice “Hudson … conclude affermando che chi percorre il deserto scopre in sé stesso una calma primitiva” (28). Mentre nel secondo, parlando della mia sempre cara terra patagonica, ci ricorda che “non c’era nulla… solo il paradosso patagonico: minuscoli fiori in uno spazio immenso … non c’era un campo intermedio di studio. O l’enormità del deserto o la vista di un piccolissimo fiore. In Patagonia si deve scegliere fra il minuscolo e l’immenso” (18)

Io, tra il minuscolo e l’immenso non scelgo, li prendo entrambi, dalla piccola stella alpina alle grandi dune del Sahara. Sperando che, per gioia o per amore, le mete continuino ad esserci propizie. Per ora, continuo soltanto ad abbracciarvi ed a mandarvi

un bacio

Giovanni

domenica 20 marzo 2022

Mondadori di primavera - 20 marzo 2022

Ancora bloccato in casa dagli ultimi strascichi pandemici, dedico questa settimana anche ad un completo riposo mentale. I più sanno che ho un’insana passione per i gialli italici, così che oggi passiamo in rassegna cinque autori della scuderia mondadoriana. Alcuni anche premiati, e con libri che vanno dal 18 al 21 in anni di scrittura. Purtroppo, non altrettanto felici, in termini di gradimento, salvandosi in effetti solo il libro di Marzia Musneci.

Enrico Luceri “Linea retta” Mondadori euro 5,90

[A: 03/02/2021 – I: 07/05/2021 – T: 08/05/2021] && --   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 193; anno: 2021]

Continuo a leggere, quando escono, le storie di Enrico Luceri, aspettando ogni tanto qualche salto in avanti, che, purtroppo, non sempre succede. Qui siamo alla sesta uscita, ed alla quinta con la coppia che, fino ad ora, ha tenuto sollevato il giudizio complessivo delle opere dell’autore.

Una coppia che qui è abbastanza “scoppiata”, nel senso che rimane sempre più in prima linea il commissario Tonio Bonocore, ed è un personaggio che va migliorando, come un vino d’annata. Mentre il suo alter ego, l’ispettore capo Lina Garzya, pur presente, e pur con qualche buon passaggio, rimane in fondo abbastanza defilata, se non fosse per un piccolo scarto nel finale, quando la storia, dalla sua base napoletana, ha un passaggio, non banale, verso Roma.

Come ci ha abituato Luceri, poi, ci sono riferimenti ad altri gialli, anche se non densi come nel precedente. Ricollegandosi al suo primo scritto, c’è un lungo brano dedicato a “La sposa in nero” di Cornell Woolrich, che viene in un certo qual modo, digerito e rielaborato da uno degli scrittori di gialli presenti nella trama. Già, perché, tra un morto e l’altro, molta azione si svolge in una casa editrice, che, tra l’altro, pubblica gialli. E dove convergono, per una serie di motivi, un avvocato che scriveva gialli in gioventù ed ora ha una quota di minoranza nelle edizioni. Una segretaria tuttofare, anch’essa cimentatasi con il genere qualche decennio prima. La figlia di una scrittrice di romanzi rosa, morta suicida anch’essa anni prima. Uno scrittore di un buon libro, molto giallo, ma anche altro, che poi non è più riuscito a ripetere il buon successo iniziale. Nonché l’editore principe, metodico e maniaco, primo morto di una serie di omicidi.

L’altro elemento letterario fortemente citato è “La lettera rubata” di Edgar Allan Poe, uno dei classici del genere. Ma se conosci Poe, e segui la trama, da quando viene citato il grande bostoniano, la trama risulta scoperta, il colpevole chiaramente individuato, aspettando solo che alle stesse conclusioni arrivi Bonocore, con i suoi ragionamenti trasversali, forse un po’ sghembi, anche se non così estremi come quelli del grande Adamsberg di Fred Vargas.

Insomma, per tornare alla trama, c’è l’editore che viene ucciso travolto da una macchina. Da elementi di contorno, Bonocore capisce che è un omicidio. Indagando, trova, come in tutti i buoni gialli, elementi di possibile incriminazione. La giovane moglie, poco sconsolata e molto consolata, prima sembra dall’avvocato di cui sopra, poi si scopre da un attore con cui aveva recitato prima di conoscere il marito. Attore al tempo amico del figlio dell’editore stesso, da sempre in rotta con il padre. poi c’è la segretaria, forse d sempre innamorata, e scornata dalla presenza della giovane moglie. C’è la figlia della scrittrice suicida, morta (anche) per colpa della rigidità dell’editore. Infine, c’è uno scrittore italo-americano, autore di qualche buona prova, emulo di Hemingway anche nella morte (una fucilata in faccia).

Il tutto collegato dalla traduttrice dello straniero, esperta di eteronimi su cui ha scritto un libro. Che viene visitata dall’editore poco prima della morte, e che, dopo essere stata visitata da Bonocore, muore anch’essa. Come muore un responsabile editoriale che aveva pubblicato tanti anni prima l’americano e che (forse) conosceva il di lui misterioso amico, di cui tutti parlano ma che nessuno ha mai visto.

Garzya svolge le indagini a Roma, ed unisce alcuni puntini della trama. Bonocore fa lo stesso con i puntini napoletani. Alla fine, convergono sulla soluzione, che, come dico, era presente da almeno 150 pagine. Con quell’immagine, ottenuta dopo l’unione dei puntini, che la via più breve tra due punti non è la linea retta. Purtroppo, Luceri si scontra con le mie reminiscenze geometriche giovanili, dove ricordo (e vi ricordo) che la distanza più breve tra due punti, è la linea ortodromica, dove, in geometria sferica, è la porzione di circonferenza massima che unisce i due punti. Facile l’estrapolazione poi dalla geometria sferica a quella piana.

Detto quindi delle cose poco meritevoli, passiamo invece ai punti di forza. Di certo Bonocore, la sua resistenza al fumo dopo l’infarto, anche se ci mancano i suoi giri in bicicletta. Il suo tono scanzonato di fondo, anche se qualche pulsione, prima o poi, ce la dovrebbe avere anche lui. E poi, l’uso di sequenze cinematografiche per scandire i capitoli della storia dall’iniziale “primo piano” alla “dissolvenza” finale.

Non banale, infine, l’inserto sugli eteronimi, con l’immancabile accenno a Pessoa, anche se mi avrebbe fatto piacere se qualcuno si ricordasse dell’eteronimo Honorio Bustos Domecq, creato da Borges e Bioy Casares.

Aspetteremo allora il prossimo Luceri, che, comunque, è gradevole e veloce in lettura.

“(attribuito a Samuel Johnson) Il tuo manoscritto è sia bello che originale. Ma le parti belle non sono originali e le parti originali non sono belle.” (117)

Manuela Costantini “Le scelte imperfette” Mondadori euro 5,90

[A: 28/05/2019 – I: 03/10/2021 – T: 04/10/2021] && --  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 209; anno: 2019]

Cosa di meglio di un libro giallo, rilassante e poco impegnativo, da leggere sdraiato al pallido sole di ottobre, davanti al mare di una bella spiaggia di Ibiza? Le premesse ci sono tutte per passare qualche ora in buona compagnia. Peccato che il libro si rilevi un po’ moscio sul lato poliziesco, anche se è consolante e rassicurante nelle parti private.

L’autrice la conosciamo già, ha vinto nel 2014 il premio Tedeschi per il giallo italiano gestito dalla casa editrice Mondadori. L’abbiamo già ricordata nei nostri scritti, in quanto nativa in quella Giulianova della mia memoria. Quindi, niente di sorprendente che la scrittura scorra in modo discreto, anche perché torniamo a frequentare un simpatico personaggio, l’avvocato Filippo Dolci, un tipo che andrebbe di certo d’accordo con il commissario Adamsberg della mia amata Vargas (seconda citazione in poche trame).

Filippo è bassino, ha pensieri aggrovigliati, ma una simpatica moglie ed una figlia teneramente amate. Legatissimo alla nonna, agli amici, al cibo (dove sostiene che Osvaldo fa la più buona pizza al mondo). Anche questa volta si trova invischiato in un’indagine senza mai aver deciso veramente di indagare (o di fare l’investigatore). Ma sfortuna vuole che si trovi spesso coinvolto. Fortuna che vengono sovente in suo aiuto il suo amico, il commissario Pietro Ciccone ed il medico legale Adele Scalzi.

Intorno a Filippo si dipartono poi le diverse trame. Una molto personale dell’avvocato, che si pone sulle tracce di lettere scritte dal nonno partigiano, vicenda gentile ma molto laterale. La seconda riguarda Sandra, che un po’, tangenzialmente, si avvicina al nodo giallo. È infatti lei che scopre il primo morto. Lei che ha un grosso problema: in un incidente d’auto ha perso le gambe, ed ora, avute delle protesi, comincia di nuovo ad affacciarsi alla vita, a camminare.

Sulla sua strada, oltre al morto di cui sopra e su cui si ritorna, trova Filippo e la sua famiglia. Personaggi empatici, che con tutta la dolcezza del mondo, riescono a farla uscire dal guscio.

Sandra stava in macchina al telefono quando ha avuto l’incidente. Per questo non usa più l’auto e va sempre a piedi. La necessità di Lavinia di avere una baby-sitter per Emma, nonché la sollecitudine di Filippo, che le tira fuori ricordi e testimonianze per arrivare a comprendere le vicende gialle, faranno sì che Sandra riprenderà, anche, una vita quasi normale.

Il morto scoperto da Sandra non ha li occhi. Poi vengono altre morti, ognuna con un elemento dei cinque sensi mancante. Il primo era la vista, poi verranno l’udito, l’olfatto e il tatto. Sarà il gusto che fermerà l’improbabile assassino. Perché cercherà di “rubarlo” al nostro Filippo. E Filippo non può morire. Magari avere acciacchi e problemi. Ma quando l’assassino si avvicinerà all’avvocato, anche il commissario Ciccone lo farà, risolvendo il caso.

Un caso di mancanze, più che di scelte. Ed un assassino che sembra volere tutt’altro fuorché uccidere. Ma quando si sceglie di ritrovare ciò che manca, e quando il ragionamento da lineare diventa psicotico, le imperfezioni della vita verranno a galla. Con ciò spero di essere stato abbastanza criptico per aver detto quello che c’è da dire, senza dirlo.

La leggerezza della nostra abruzzese si esplica anche negli altri mille rivoli delle piccole e grandi storie che costellano il romanzo. Da quelle accennate, alle altre, e sono tante, di nuvole di pioggia, di letture trasversali, di persone sbandate, di amicizie che hanno solo bisogno di un tocco per essere rinnovate. Come un fuoco che aspetta sotto la cenere di tornare a scoppiettare. Come la bella “festa della felicità”, in cui in finale tutti quelli che ci sono ancora si ritrovano per esorcizzare tutto ciò che è andato male negli ultimi tempi. Una festa di mestizia, che serve a tornare a guardare il futuro con qualche ottimismo in più. Una festa che mi sa ci servirebbe in questi tempi bui.

Insomma, non mi dispiace il modo un po’ ondivago di andare per le pagine di questa scrittrice, con le parti di Filippo in soggettiva, ed il resto in terza persona. Anche se il giallo è debolino, qualcosa rimane, pur non arrivando ad essere un testo sulle “sorti umane e progressive”.

“Ed è vero che sei insopportabile … così tanto che non posso fare a meno di te.” (96)

Alberto Odone “La meccanica del delitto” Mondadori euro 6,50

[A: 10/08/2018 – I: 17/10/2021 – T: 19/10/2021] &&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 229; anno: 2018]

Pur con il solito congruo ritardo, eccoci ad un nuovo autore italiano, premiato nel 2018 dalla storica rivista Mondadori con il “Premio Tedeschi 2018”. Un premio assegnato ad un giallo italiano inedito con una motivazione che non mi ha convinto. Entra, infatti, nel merito dello scritto, quasi con un trailer, ma non entra, come mi aspetterei per un premio su inediti, nel merito della scrittura.

Con ciò non dico che non meriti premi (non sono io che li distribuisco, quindi taccio) e che non vada letto. Anzi, credo che la lettura di questo libro sia interessante, ed in un certo senso, coinvolgente (in alcuni momenti). Non è purtroppo omogenea, con delle parti che prendono ed altre che si fa fatica a mandar giù. Soprattutto, e purtroppo, non è un libro profondamente giallo, anche se ci sono morti e misteri. È forse una divagazione da thriller storico (cioè inserito nella storia), con un personaggio centrale che (almeno nelle linee teoriche) parrebbe ricalcare il Martin Bora di Ben Pastor.

Odone mi è sembrato un po’ velleitario nel voler costruire una storia all’ombra della Storia. Anche se personaggi e situazioni sono discretamente delineati, le linee guida (che a questo punto sono esterne) le conosciamo e non ci danno (e daranno) sorprese. Siamo a Monaco di Baviera, nel 1920, quando, la Repubblica Consiliare Bavarese (tentativo di una Repubblica socialista) viene spazzata via dai “Corpi Franchi” (freikorps), milizie irregolari di forte matrice di destra. Siamo alle prese con una radicalizzazione degli animi a seguito della fine (per i tedeschi ingloriosa) della Guerra. Così che miliziani, ex-soldati, aristocratici ed altre “brutte persone” si coagulano intorno all’idea di una “Grande Germania” (dal punto di vista storica).

Nascono idee folli, nascono fantocci improbabili (come il mago del racconto, che sosteneva una sua reincarnazione dopo una vita come monaco buddista), nasce la necessità di avere un nemico, di avere qualcuno cui addossare le colpe di una sconfitta che brucia. Ed ecco sorgere il mito dell’ebreo cattivo, arraffone, banchiere, ed altro ancora. Comincia anche ad uscire allo scoperto un ex-pittore viennese, dotato soltanto di una buona (a tratti eccellente) capacità oratoria. Vediamo infatti, anche qui, in qualche cammeo, Adolf Hitler tenere discorsi da birreria e scaldare gli animi. Anche se, fortunatamente, pur se le sue idee pervadono il testo, lui non compare mai come attore principale.

L’attore principale, in realtà, è un esimio poliziotto, Kurt Meingast. Molto noto ed in carriera prima della guerra, poi nella guerra ferito quasi a morte nel corpo e nell’anima. Ora, reintegrato con compiti marginali. Che è sì bravo, ma non allineato con la maggioranza della polizia. Quindi va tenuto d’occhio, ed eventualmente “fatto fuori”, o fisicamente o lavorativamente.

La sfortuna dei cattivi è che Kurt arriva sul luogo di un delitto, che, dalla dinamica che ne ricava analizzando la scena, non può che essere stato commesso da due poliziotti presenti. Certo, il morto, un delinquente di mezza tacca, non mancherà a nessuno. Ma Kurt è integerrimo, e capisce subito che gli assassini sono i poliziotti, e che dietro c’è altro, molto altro.

Da qui partono le indagini, che lo portano ad attraversare i momenti bui che la Germania stessa sta attraversando. Da qui partono svariate digressioni di Odone nel tentativo di mescolare le piccole e le grandi storie. Così che, oltre a nomi e personaggi fittizi, vediamo entrare in scena anche elementi storici, pur con un qualche beneficio d’inventario sulla loro fedele rappresentanza.

Non mancano piccoli colpi di scena, anche se Kurt attraversa tutto il romanzo con la sua enorme dirittura morale. Che vuole il colpevole (o i colpevoli) senza piegarsi a ragioni di partito o di convenienza. Bravo investigatore (tendente all’ottimo) capisce anche ben presto la meccanica e la dinamica, materiale e morale, delle morti. Ma da lì a riuscire ad incriminare colpevoli e mandanti ce ne vuole.

Non è un caso che, a parte il delinquente di cui sopra, ci siano molte morti tra giovani fanciulle, tutte, stranamente, di origine ebraica. Non è un caso che molti personaggi di dubbia fama si muovano all’ombra della nascente industria cinematografica (lunghe e spesso mirate, sono le citazioni del famoso film “Il gabinetto del dottor Caligari”). Non è un caso che per almeno quattro quinti del romanzo Kurt sia manipolato occultamente, cosa che sembra solo il lettore riesca ad accorgersi.

Alla fine, con un colpo d’ala, Kurt trova il modo non tanto di incriminare tutti i colpevoli, quanto di affrettarne la fine di alcuni e di avere una sua vendetta privata. Ma il romanzo non decolla mai. Odone cerca anche di coniugare il mistero con momenti di obnubilazione di Kurt, e con la presenza strana di un assistente di Kurt, poco credibile invero.

Insomma, la fine è nota fin dall’inizio. Aspettiamo solo di vedere come si concatenino i fatti. Ed è questa, la trama, quella premiata dalla giuria. La scrittura a tratti parte per suoi percorsi diagonali, e non si fa seguire a pieno. Così come volutamente Odone lascia ampie zone d’ombra, che la conoscenza storica e sociale può riempire.

Una debole seppur utile lettura autunnale, ma con poca possibilità di nuove uscite.

Marzia Musneci “Dove abita il diavolo” Mondadori euro 5,90

[A: 07/01/2019 – I: 09/12/2021 – T: 10/12/2021] &&& --   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 250; anno: 2019]

Dopo quanti, credo 5 o 6 anni, si torna a leggere un libro della Musneci, con protagonista l’omocodice Matteo. Non eccelso, ma leggibile. Soprattutto nelle parti di rapporti umani, che il giallo, pur presente e pur complicato, non prende moltissimo.

Intanto, si scioglie il dubbio posto alla fine del romanzo precedente: Matteo e Cristiana fanno un figlio o lei prosegue la sua carriera di profiler e va a Quantico? All’inizio la risposta è semplice, che assistiamo a lunghe telefonate intercontinentali tra i nostri due eroi. Poi Cristiana torna, e scopriamo l’altra faccia della medaglia, che Cri è incinta. Questo complica un po’ il suo lavoro sul campo, anche se le sue intuizione permettono al nostro Matteo di arrivare ad un bandolo della matassa della complessa trama imbastita dalla scrittrice.

Intanto facciamo un passo indietro, che tutto comincia dalla morte di Flavia Sanguera del Poggio, una complessa figura di donna, nonché amica del nostro Montesi. Che anzi era ospite della tenuta dei Sanguera in quanto la donna aveva fatto un’interessante scoperta archeologica. Infatti, Flavia era appassionata dell’antichità, partecipava a giochi gladiatori in cui si esibiva come se si fosse ancora al Colosseo, con le belve e Nerone. Questa passione l’aveva portata a scavare nella sua tenuta, ed a trovare una tomba intonsa, che parrebbe essere appartenuta ad una donna gladiatrice molto famosa ai tempi di Roma. Tale “Amazon”. Vi risparmio le facili battute che si possono fare associando questo nome all’attualità.

Quello che notiamo è che, il giorno dopo la scoperta, Flavia precipita dall’alta rupe del poggio e muore. Matteo Montesi, ospite della tenuta per lo svelamento della tomba, è subito coinvolto nelle indagini, pur in assenza di Cri, ma in presenza del suo amico, il commissario Felice Santarelli. Tutti propendono per una scivolata maldestra dall’alto della rupe. Ma Matteo no.

Comincia quindi la sua indagine, inizialmente, come ovvio, rivolta al mondo delle lotte in costume, laddove la nostra Flavia usava il soprannome di Achillea, la versione femminile di Achille. Marzia ci fa entrare in questo mondo per me sconosciuto e che non vedo perché non debba rimanere tale. Unico divertimento, è seguire i panegirici che vengono fatti per le gladiatrici, che furono poche, ma furono, come dimostrano le iscrizioni trovate ad Alicarnasso.

Dovendo tuttavia seguire l’indagine a tutto tondo, Matteo si trova anche ad affrontare l’altro mondo di Flavia, quello del suo lavoro. Lei fisica sanitaria in un laboratorio supertecnologico, insieme ad altri ricercatori e scienziati degni di Nobel, porta avanti un progetto mirabolante sulla vita di una specie di meduse piccolissime, denominate “Turritopsis nutricula” che hanno l’interessante particolarità di poter invertire il loro ciclo vitale. Una volta sessualmente adulte, possono regredire e trasformarsi in polipi sessualmente immaturi. Questa capacità di invertire il ciclo vitale potrebbe rendere la specie immortale (infatti il soprannome di questa specie è proprio “medusa immortale”).

La nostra Flavia sembrava essere riuscita a riprodurre questo ciclo in laboratorio, generando nel suo gruppo di lavoro l’aspettativa di aver scoperto un potenziale “siero dell’immortalità”.

Questo apre nuovi orizzonti alla trama: una volta dimostrato che non fu incidente, Flavia è morta per la statua di Amazon (bellamente scomparsa) o per le meduse immortali (vittima di qualcuno della sua squadra poco felice dei suoi successi).

Il tutto si complica con la vicenda laterale di una fantomatica scrittrice, amante del padre di Flavia, e forse madre naturale della stessa. Ma è una vicenda collaterale che poco avanti ci porta nel discorso. Discorso che invece viene correttamente interpretato da Matteo, con l’aiuto da profiler di Cri, con il sostegno dell’assistente Yorick e del commissario.

Al solito, il finale prevede che Matteo si cacci nei guai, rischi di morire, e venga salvato in maniera rocambolesca. Così succede anche in questa puntata. Ma una volta risolto il mistero, e non vi dico come, ci rimane da assistere alla figlia di Matteo e Cri e di aspettare una nuova puntata delle avventure dei nostri.

Come sottolineavo all’inizio, lettura gradevole, trama complessa ma gestibile. Forse mi sarei risparmiato i soliti flashback in corsivo, e qualche citazione musicale che questa volta non mi andava di interpretare. Segnalo solo, ma per altri divertimenti, che a pagina 87, quando si deve intrufolare in un laboratorio, Matteo usa un tesserino falso intestato a “Mario Rossi”, ed a chi gli chiede se fosse giù di fantasia risponde: “qualcuno deve pur chiamarsi Mario Rossi”. Confermo, ed io ne ho incontrato uno in uno dei miei viaggi. Mitico.

Roberto Mistretta “La profezia degli incappucciati” Mondadori euro 6,50

[A: 21/07/2019 – I: 06/01/2022 – T: 08/01/2022] && +   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 227; anno: 2019]

Eccoci allora ad un altro vincitore del Premio Tedeschi, sebbene con il consueto ritardo tra la  pubblicazione e la mia lettura. L’autore è incontrovertibilmente siciliano, tra l’altro omonimo di un mio carissimo amico palermitano. Questo Mistretta, tuttavia, è nisseno di Mussomeli, anche se usa la sua città come paradigma di una qualsiasi cittadina sicula, nascondendola sotto il nome di Villabosco.

A quanto leggo, tuttavia, non è la prima uscita del protagonista, il simpatico maresciallo sovrappeso Saverio Bonanno, pur se la precedente uscita non credo appartenga ai gialli mondadoriani. Saverio è tornato a vivere con la madre, donna Alfonsina, portandosi appresso la figlia adolescente Vanessa, dopo che la moglie è fuggita con qualche circo che passava di là. Ma la sua vita pare arrivare ad una volta con l’arrivo in paese della simpatica assistente sociale Rosalia, con la quale nasce presto un’intesa, benedetta anche dalla madre.

Tuttavia, la vita della cittadina è ben presto sconvolta dalla morte di Nofrio Falsaperla, governatore della ricchissima confraternita del Purissimo e Preziosissimo Volto di Nostro Signore. Nofrio aveva ingegnato, con un architetto ed un falegname, un meccanismo complesso al fine di poter portare da solo il simbolo della confraternita, il fercolo con la statua della Veronica, colei che asciugò il volto di Gesù durante la via Dolorosa. Inciso, per chi non ha conoscenze di processioni: il fercolo è una macchina che viene utilizzata per portare in processione simulacri di santi. Peccato che il sistema crolli e Nofrio muoia schiacciato. Disgrazia? Così pensa Saverio, ma una lettera anonima lo costringe ad aprire una piccola inchiesta, che presto si ingrandisce, a forza di prove che è stato omicidio ed a cui altri omicidi seguono.

Intanto, Nofrio era un discreto sciupafemmine, con storie e storie delle belle del paese. La moglie del suo vice, Ideale Dolcefiore, la moglie del falegname, nonché, ultima arrivata, Minica, che doveva impersonare Veronica nella processione. Mentre Saverio procede nell’indagine, coinvolgendo il vice, il falegname, nonché padre Bartolomeo, il parroco supervisore della processione e confessore della confraternita, le vicende locali si complicano.

Il superiore di Saverio, capitano Oliva, sta seguendo un’indagine di mafia, quando muore in un agguato, dove risulta gravemente ferito il vice di Saverio, il brigadiere Attilio Steppani. Il nostro maresciallo è costretto a seguire le due vicende, anche se, per una serie di circostanze che troverete ben descritte da Mistretta, Saverio comincia a supporre che ci sia più di un punto in comune nelle due vicende.

Bonanno si muove come un elefante nella cristalleria di Villabosco, ma comincia a mettere puntini su delle “i” che ancora sono misterioso. Che ruolo può aver avuto la giovane Minica, che risulta amante o qualcosa in più di Nené, mafioso da due soldi che sembra implicato nell’agguato al capitano Oliva? Che cosa ha fatto, o scoperto, il falegname che ha restaurato il fercolo? Perché il parroco sembra sfuggire alle domande di Bonanno, talvolta nascondendosi dietro confessioni religiose non rivelabili? Chi è lo strano tizio che parla da solo?

Il nostro troverà la linea che unisce tutti i puntini, e che conduce ad uno scrigno segreto, nascosto nel fercolo, contenente gioielli della confraternita, che di certo hanno scatenato il putiferio. Ovvio che non vi dico chi, come e perché. Anche perché c’è un nuovo pericolo da sventare: la moglie di Saverio torna di nascosto a reclamare la figlia (ma solo perché vuole denaro). Questa volta sarà Rosalia, senza turbare Saverio, a risolvere brillantemente il caso.

Mistretta è gradevole, in particolare nella descrizione dei personaggi, in particolare Saverio, che oltre a quanto sopra citato, vive anche con il cane Ringhio, si sposta su di una Punto, sorbisce una notevole quantità di caffè, fuma e mangia di gusto. Meno riuscita è tutta la costruzione della complessa trama gialla, che si è voluta incasinare con cenni di mafia, che ci stanno sempre bene in Sicilia, mettendoci sopra anche la panna di una lunga scia di morti, la cui dinamica è risolta solo con le descrizioni finali.

Auguro all’autore di trovare presto anche qualche possibili seguito, che i personaggi sembrano ben utilizzabili in romanzi seriali.

Essendo la terza trama di marzo, e non avendo nuovi libri felici da condividere, vi lascio un allegato con florilegio di citazioni. Che non risparmio anche qui, tornando ancora alla toccante Irène Némirovsky, quando in lingua lessi “David Golder”, che mi colpì con un macigno la sua frase: “remontèrent au hasard une rue … la rue Vielle-du-Temple… ici, à côté, dans la rue des Rosiers, il y a un petit restaurant juif». Che ricordi! Lì, quando ci andai negli anni ’70 c’era uno spaccio dei mitici felafel, non a caso chiamato “L’as du felafel”. E poco prima uno dei migliori ristornati ebrei di Parigi, “Chez Goldenberg”. Purtroppo, il ristorante fu vittima di un attacco insensato nel 1982, e non essendosi più ripreso, poi ha definitivamente chiuso.

Quest’aggancio di terrori lontani, ci porta ai terrori attuali, ad una guerra insensata, nei confronti della quale l’unico atteggiamento corretto ce lo mostra Papa Francesco quando invoca “Fermatevi, per pietà”.

Noi poco possiamo, se non stringerci sa coorte, ed abbracciarci. Ma anche non facendoci mancare i miei settimanali

Baci

Giovanni

ADDENDUM: da questa settimana, per inaugurare una festosa primavera, aggiungo una nota finale, nel caso qualcuno dei miei esimi lettori gradisca fare una segnalazione; questa settimana, quindi, vi segnalo “TRE” di Valerie Perrin.

 

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di marzo

Per le citazioni di questo mese ci rivolgiamo all’estate del 2009. Un’estate segnata da uno dei più bei viaggi da me organizzati. Quello che seguiva le due rive del fiume Giordano, prima in Giordania e poi in Israele.

Prima del viaggio, intanto, nel mese di luglio, avevo dato una bella mostra ad una delle scrittrici di racconti da me più amate. Vi parlo di Alice Munro e del suo “Nemico, amico, amante …”. Con alcuni fulminanti giudizi sui rapporti umani. Cominciando a pagina 72, “perché dici che ti dispiace dirmelo? Hai mai notato che quando qualcuno dice che gli dispiace dire qualcosa, in realtà non vede l’ora di dirla?”. Un’istantanea che in due righe ci porta un mondo: “quello che ... aveva davvero voglia di fare non era più cercare, ma sedersi a terra … restare seduta per ore … per rimanere in quello spazio dove nessuno la conosceva né pretendeva niente da lei” (198). O meglio ancora: “le era passato per la mente il pensiero che ... la cosa giusta da fare sarebbe stata gettarsi nell’acqua. Così com’era, grondante di felicità. Soddisfatta come di certo non le sarebbe capitato di sentirsi più” (234).

Certo, un mese inusuale, che dopo i racconti, passai a lodare le poesie, bellissime, di Derek Walcott, traendo da “Mappa del Nuovo Mondo” alcuni piccoli gioielli in versi:

“To change your language you must change your life” (72) [per cambiare il tuo linguaggio devi cambiare l tua vita].

“Si potrebbe anche smettere di scrivere / … / e diventare, invece / il loro lettore ideale … che antepone l’amore / per i capolavori al tentativo / di ripeterli … / e diventare il più grande lettore del mondo” (91) [uno dei miei sogni nel cassetto!!]

“certe cose non le scegliamo noi / ma siamo quello che abbiamo fatto / soffriamo, gli anni passano, lasciamo / tante cose per via” (106-107). Che potenza l’immagine di essere ciò che abbiamo fatto nel corso della nostra vita.

Un libro con alcuni momenti epici fu poi l’epopea della comunità Arbëreshë descritta da Carmine Abate in “La moto di Scanderbeg”. Il primo e lungo, era dedicato ai rapporti di coppia. Iniziando con il descrivere il momento in cui ci si lascia: “le grido i bei momenti passati insieme, le accarezzo la mano, cerco di commuoverla con gli occhi umidi, faccio l’isterico alla perfezione; allora lei mi stringe per un attimo sul suo petto caldo, ma non appena mi sono calmato e illuso, mi dice che è tutto finito” (94-95). E lei poco dopo prosegue: “mi hai fregato per anni, hai sempre saputo camuffare il tuo egoismo; invece pensi solo ai fatti tuoi. Te l’avevo detto: l’amore bisogna curarlo, come una pianta, altrimenti si secca, muore. Tu non l’hai saputo curare, il nostro amore. E ora è morto. Perciò ti prego, non cercarmi mai più. Non voglio più vederti, ci faremmo solo del male” (95).

Poi un richiamo per chi, adolescente, forse lo è ancora a quasi settant’anni: “vi state complicando la vita, ma vi amate. Questo è importante. Il dramma è quando non ci si ama più. Ora devi decidere tu. Non puoi continuare all’infinito a fare l’adolescente. Hai trentadue anni [sic!!!]” (177).

Infine, una citazione del grande teologo scolastico Ugo di San Vittore, che ci ricorda un momento di condivisione della vita, tanto forte quanto mai in questi tempi di guerra: “L’uomo che trova dolce il luogo natale è ancora un tenero principiante; quello per cui ogni suolo è come il suolo nativo è già più forte; ma perfetto è l’uomo per cui l’intero mondo è un paese straniero” (127).

Prima di partire per l’avventura mediorientale, lessi alcuni libretti di Irène Némirovsky. Uno in particolare, “Il calore del sangue”, mi colpì duro con alcune frasi. Sull’amore: “noi siamo morti… perché abbiamo cessato di amare”. Sul rapporto con i figli: “non possiamo vivere al posto dei nostri figli (anche se a volte ci accade di desiderarlo)”. Infine, con una fotografia del mio gruppo viaggiante: “un gruppo di persone in età matura emana un senso di imperturbabilità… sono soddisfatti di sé… tra i quaranta e i sessanta queste persone godono di un’effimera pace”.

Settembre, l’inizio di settembre, non poteva che portare riflessioni sulla vita e su tutte le sue sfaccettature.

In un libro, per altri versi non bello, anche se scritto da una persona ammirevole, “Lettere dalla Kirghisia” di Silvano Agosti, l’autore ci riporta un verso di un poeta kirghiso, che nella sua laconicità riecheggia versi di una vecchi canzone dei Nomadi (e di Guccini); “… con noi o senza di noi /verrà il tramonto / e sarà magnifico … (poeta kirghiso)” (87).

C’era poi il cultore dei non-luoghi, Marc Augé con tanti spunti presi dal breve e bellissimo “Casablanca”.

Ovviamente molti sul cinema: “il miracolo del cinema sta nel fatto che ci impone l’evidenza fisica di eroi che conservano la loro giovinezza, mentre noi invecchiamo” (54). Dove ribadisce che i film vanno visti su grande schermo: “il cinema … [è] l’occasione di un incontro. È un’altra ragione per la quale non amo molto i DVD. Avere un film sottomano … è come uccidere il caso” (61). E dove, partendo dal film del titolo, arrischia una considerazione sulla vita tutta: “è inconcepibile… immaginare un seguito a Casablanca… perché è impossibile, nella vita, ritornare al passato. Non si può risalire il corso della vita” (82).

Poi alcuni toccavano le corde del mio io e del mio privato. Nei rapporti con mio padre: “l’ultima volta che ho ucciso … mio padre è un po’ di anni fa, quando ho raggiunto e poi superato l’età che aveva quando è morto” (55). Nell’amore per mia madre: “mia madre camminava con difficoltà, ma non rinunciava alle sue passeggiate… conosceva come le sue tasche i percorsi degli autobus … ma non ha mai rinunciato a fare la spesa al supermercato di rue Monge o al mercato di place Maubert” (79). Finendo per ricordarmi che, sempre, io sono (anche) un parigino adottivo: “mi piace la Gare Montparnasse… mi piace l’odore delle stazioni” (70).

E si conclude con una consapevolezza: “abbiamo tutti un giorno o l’altro la sensazione che la vita avrebbe potuto essere diversa, ma che comunque continua. … ci possiamo allora sentire o molto liberi o molto soli” (64).

Una sensazione subito dopo ripresa da Jean Marie Gustave Le Clézio ne “L’africano”: “Era troppo tardi, il tempo non torna indietro, neanche nei sogni” (46).

Quindi, noi, sempre, continueremo ad andare avanti.