domenica 31 gennaio 2021

Boreali 3 - 31 gennaio 2021

Abbiamo due svedesi, due olandesi ed un danese (ovvio che non c’è il liocorno). Dove si piazza in pole position la svedese Axelsson, con un libro che ben si colloca in questa settimana della memoria. A ridosso l’olandese Nooteboom con i suoi rituali decennali e lo svedese Sjöberg con le sue mosche. Lo svedese Brask con la vita reale di Sidis e l’iraniano-olandese Abdollah con la sua moschea contro Khomeini convincono meno. Ma la collana è sempre d’interesse.

Fredrik Sjöberg “L’arte di collezionare mosche” Corriere della Sera Boreali 04 euro 8,90

[A: 19/03/2018 – I: 09/09/2020 – T: 11/09/2020] - &&& e ½ 

[tit. or.: Flugfällan; ling. or.: svedese; pagine: 204; anno 2004]

Un libro talmente atipico da essere stranamente gradevole. Non un saggio, non un romanzo, non una biografia, ma un pot-pourri di parole e sensazioni.

Intanto cominciamo dal titolo, che in originale appunto fa “La trappola per le mosche”, alludendo all’invenzione precipua che diede fama imperitura all’entomologo svedese René Edmond Malaise, la trappola per catturare le mosche chiamata “la trappola di Malaise”, o in svedese, “Malaisefälla”. Tutto il libro si concentra sulle mosche (anche se poi torneremo su questo concetto) utilizzando Malaise come filo rosso della narrativa. Allora, come esce fuori quel titolo sull’arte del collezionismo? Perché ci si ostina a pensare che non si possa capire quanto vuole esprimere l’autore? Perché bisogna inventarsi un titolo “acchiappino” e non un titolo che rispecchi l’andamento dello scritto?

Allora, Sjöberg uomo dai mille precedenti mestieri (come ci spiega nel primo capitolo dedicato a quando faceva il trovarobe teatrale, un mestiere affascinante), trova ad un certo punto la sua via, dedicandosi allo studio ed alla catalogazione di esserini volanti. Che volgarmente chiamiamo mosche, ma che sono note in biologia con il nome di “sirfidi”: una famiglia volante di circa 6000 specie. Anche migratorie, ma soprattutto importanti perché al secondo posto nell’elenco dei maggiori impollinatori, ed al primo come distruttori dei pidocchi. E vi pare poco.

Sjöberg si trasferisce sull’isola di Runmarö, dove tuttora vive con la moglie ed i figli, nell’arcipelago di fronte a Stoccolma. E lì, ogni estate, usando spesso la trappola di Malaise di cui sopra cattura i sirfidi, poi passa i mesi invernali a catalogarli. Tanto da esserne un esperto mondiale. Tanto che nel 2009 espone alla Biennale di Venezia la sua collezione di sirfidi.

Ma come detto, mentre ci parla di sirfidi (e mentre ci passano sotto gli occhi nomi improbabili, colori non immaginati, ed altre amenità, come quella di essere apostrofato da un passante, dopo aver catturato un esemplare: “Ma è una vespa!”. “No, è un sirfide”. “Appunto, è una vespa!”), si ricollega a molte storie, di personaggi vari che si dedicano a varie branche dell’entomologia.

Tuttavia, come detto, il filo conduttore riporta sempre a Malaise. Biologo svedese, figlio di un cuoco francese, a 28 anni, con altri suoi sodali svedesi decide di partire per la Kamchatka (senza neanche giocare a Risiko), con un spedizione che porterà in patria molti importanti risultati, botanici, zoologici ed anche archeologici, ma che venne anche ricordato perché, nonostante all’epoca l’alcool fosse contingentato in Svezia, riuscì ad avere una fornitura quasi illimitata di superalcolici. Dopo due anni nelle remote zone intorno all’ignota Petropavlovsk, tutti tornano alla base. Non Malaise, che continua a girare la zona. Che poi si sposta in Giappone dove assiste al tremendo terremoto di Kamakura, che devastò Tokyo e provocò qualcosa come 200.000 morti. Torna in Svezia, e convince la sua amica Ester Blenda Nordström a seguirlo in una nuova spedizione in quelle zone. Ester è una valente scrittrice, femminista convinta, forse anche gay, mai i due per non aver problemi si sposano. Per poi divorziare alla fine degli anni Venti, quando Ester torna in patria, e lui rimane ad inseguire i suoi insetti. René troverà poi l’amore tre anni dopo in Ebba Söderhell, che da allora lo seguirà ovunque.

Come dice il nostro scrittore, è amore perché Renè dedica una farfalla alla sua Ebba. Poi Renè si ripiegherà su sé stesso, tanto che negli anni Cinquanta andrà per conferenza ad esternare il suo credo sull’esistenza di Atlantide. Lasciamo però Malaise, e dedichiamoci ad altri due passaggi fondamentali dello studio dei sirfidi e degli hobby in generale. Con quella citazione dell’arte della bottonologia, termine inventato da un altro esimio scrittore svedese, August Strindberg, per indicare una attività del tutto inutile (collezionare e catalogare bottoni, diventando però sinonimo di “scienza del futile”). Infine, con la menzione del poco noto Orlik, presente nel romanzo “Utz” del mio sempre riverito Chatwin, nonché collezionista di mosche.

Insomma, avete capito che si parla di mosche, di sirfidi, di imenotteri, ma anche di alberi, di isole, di scritti. In pratica, della vita dello scrittore, e delle sue passioni. Un libro inclassificabile ma intrigante. Un personaggi altrettanto strambo, tanto da ricevere, nel 2016 un premio per la sua trilogia sulle mosche: l’Ig Nobel (se volete saperne di più leggetelo di seguito e poi cercatene).

Comunque, ed a prescindere, un’altra degna uscita di una collana decisamente sopra la media.

“È questo che capita quando si viaggia per avere qualcosa da raccontare. Si perde la capacità di vedere.” (25)

Morten Brask “La vita perfetta di William Sidis” Corriere della Sera Boreali 05 euro 8,90

[A: 29/03/2018 – I: 07/10/2020 – T: 08/10/2020] - && e ½ 

[tit. or.: William Sidis’ perfekte liv; ling. or.: danese; pagine: 309; anno 2011]

Riprendiamo le letture di questa fino ad ora interessante collana, con un libro di un autore danese assolutamente poco conosciuto. Brask nasce giornalista, esperto di cinema, per poi cominciare a scrivere un po’ prima dei quaranta anni. Scrivere romanzi, sull’input di una conferenza sui campi di concentramento che segue nella sua città natale, Copenaghen.

Questo è il suo secondo romanzo, anch’esso molto ancorato alla vita, quasi una biografia, che, tuttavia, mi ha lasciato alquanto perplesso (e forse un po’ deluso). La scrittura non coinvolge tantissimo, e la modalità di riportare la “vita perfetta” del titolo, saltando qua e là lungo la linea temporale, non mi ha convinto. La scelta di Brask è tenere un filo rosso sulle ultime fasi della vita di Sidis, e poi saltare a ritroso nel tempo, dalla nascita ai fatti salienti della sua (di Sidis) vita.

La seconda delusione è che, affrontando il libro senza altri condizionamenti, pensavo ad una pura bio-fiction, che sembrava voler affrontare le tematiche del genio inserito in una società normale, che propria nel contrasto diventa aliena. Motivo per cui il genio non riesce a concretizzare le sue pur brillanti doti, andando incontro ad una disfatta dopo l’altra. Finendo per trovare la sua “vita perfetta” solo nell’isolamento e nella solitudine.

Ovvio che tutto ciò porta ad un risultato completamente diverso quando, spulciando nella rete scopro (non è che si possa sapere proprio tutto) che William James Sidis è in realtà un personaggio reale. Una persona che nasce il 1° aprile 1898 e muore il 17 luglio 1944. Sidis sembra (ci sono diverse testimonianze pro e contro) aver avuto il più alto Q.I. della storia, dove si riporta un indice di 254, quando ad esempio Albert Einstein aveva un indice di 160.

Ed ecco allora che tutta la prospettiva cambia. Diventa un libro biografico, che tenta di scavare alcuni meandri della personalità di Sidis, tuttavia senza affrontare “realmente” i nodi del problema: la personalità del padre ed in subordine della madre, l’incapacità di volgere in positivo la sua scienza (mancanza di un mentore?), la possibilità che sia stato affetto dalla sindrome di Asperger.

Il padre, Boris, fu un eminente psicologo, che però poco o nulla capì della personalità di William, in realtà facendone un burattino di genio, senza entrare mai realmente in comunicazione con lui. Se non nell’idea di una educazione fuori dalla norma. Che trovò terreno fertile in William, ma non nella sorella Helena, motivo per cui tengo a sottolineare che se l’educazione aiuta, deve anche trovare un terreno fertile.

La madre, Sarah, anch’essa ucraina, non entra mai in sintonia con il figlio, godendo delle sue capacità, ma non empatizzandone nei momenti “normali”. Lo portava dalle amiche a mo’ di baraccone, ma non capiva perché non finalizzasse la sua intelligenza.

Quindi Sidis legge a 18 mesi, a 8 anni parla almeno 8 lingue, a 11 anni entra all’Università di Harvard (il più giovane della storia), a 12 anni presenta una dissertazione sulla quarta dimensione che sarebbe stato interessante potesse essere confrontata con le teorie nascenti della relatività. Ma William viene lasciato solo in un ambiente che non apprezza la gente fuori della norma (una critica alla visione della società americana che condivido in pieno). Allora non può che rinchiudersi nelle sue manie, ed entrare in rotta di collisione con il mondo. Legge ed apprezza Marx, ma quando manifesta pacificamente per un primo maggio, viene accusato di essere comunista (reato gravissimo all’epoca).

Non potrà fare altro, allora, che rinchiudersi in quella “vita perfetta” che è la solitudine del genio, dedicandosi a sporadiche uscite con scritti casuali ed eterogeni. Si ricordano un libro sull’importanza dei Nativi Americani per la democrazia o un manuale sul collezionismo dei biglietti di treni e tram. Vivendo ovviamente di stenti, che ad ogni lavoro pur umile non può che entrare in contrasto con l’ordine costituito. Perché, come tutti gli “Asperger” non riesce mai a tacere quando qualcosa va contro i suoi principi e la sua morale.

Non potrà, allora, che morire solo, di emorragia cerebrale a 46 anni, così come suo padre venti anni prima.

L’ultimo elemento che poco mi ha convinto di Brask è la completa lontananza dal mondo scandinavo. Non è che, per forza, bisogna parlare del proprio paesello. Ma incentrare un libro su una personalità completamente distante dal proprio vissuto, rischia di ingenerare (pur nella bravura dello scrittore) fraintendimenti sul quotidiano o sulle modalità di affrontare la vita.

Insomma, quando pensavo fosse una fiction, pur non convincente, aveva un suo fascino. Scoperto l’arcano della “reale vita di William Sidis”, mi ha lasciato discretamente poco coinvolto.

Cees Nooteboom “Rituali” Corriere della Sera Boreali 07 euro 8,90

[A: 09/04/2018 – I: 09/10/2020 – T: 10/10/2020] - &&& e ¾ 

[tit. or.: Rituelen; ling. or.: nederlandese; pagine: 213; anno 1980]

Personaggio affascinante il quasi novantenne Cees Nooteboom, giornalista, scrittore, poeta, e soprattutto, viaggiatore. Tanto che lo metterei nella mia top five di aspiranti al Nobel (se questo premio riacquistasse prima o poi una sua originalità).

Innanzi tutto, scrive bene (ed è ben tradotto), ed anche dove i concetti diventano ostici, anche al limite non condivisibili, si continua a leggerne e si arriva al punto. Poi, non si può che essere solidali con una persona che molto viaggia, e del viaggio scrive (vedi ultima citazione, anche). Cees pubblica un primo romanzo poco più che ventenne, un secondo trentenne, poi fin quasi ai cinquanta decide che è meglio andar per il mondo, “parlare e vedere gente” (cit. Nanni Moretti), e scriverne. Nel 1980, di getto, gli esce fuori dalla penna questo romanzo, come se appunto tutti questi anni ne fossero stati una gestazione inconscia. E secondo l’autore questo è il “suo” romanzo, quello che era necessario scrivere. Tutto il resto è contorno.

Come dice il titolo, il romanzo si accartoccia intorno a dei rituali ben precisi, quasi che, mancandone, la vita non sia degna di essere vissuta. Si svolge anche in tre tappe, che per me hanno significati altri, ben datate: 1953, 1963, 1973. Se dico che la prima è la mia nascita. Spero non mi chiediate altro delle altre. Per Cees, invece, rappresentano tre tappe fondamentali della vita di un suo alter ego, Inni Wintrop.

Si comincia con il ’63, dove seguiamo il racconto del primo suicidio: quello di Inni. Commerciante e artista, trentenne come Cees (che ricordiamo è del ’33), ha una lunga e tormentata storia d’amore con Zita. Si amano appassionatamente, almeno così dice lui. Che però la tradisce compulsivamente, come se nell’amore fisico cercasse il rituale che dà senso alla sua vita. Quando, per motivi che leggerete, Zita lo lascia, Inni si ubriaca poi si impicca nella sua toilette, ma si sveglia la mattina dopo con la corda intorno al collo strappata.

Si passa alla prima parte, che, pur svolgendosi nel ’53, viene rivissuta da Inni con la mente dell’oggi della scrittura. In un viaggio con la zia per trovare il di lei amante, Arnold, Inni scopre di esser figlio di una relazione extraconiugale, dopo la quale il padre lascia la famiglia ed un anno dopo muore (leggete come). Elementi che, pur nella letterarietà, ripercorrono l’infanzia dello stesso Cees. Arnold è straordinario: vive la sua vita al ritmo di un orologio, tanto che rimanda indietro Inni e la zia, essendo questi arrivati dieci minuti prima del previsto. La scansione oraria è fondamentale per Arnold: quaranta minuti di passeggiata, un’ora di lettura, si cena alle sette. E via minutando. Ma l’incontro, oltre a ribadire i rituali di Arnold, serve a Inni per tre cose: Arnold convince la zia ad istituire un fondo con parte dell’eredità paterna, così che Inni lasci il suo miserando impiego e trovi la sua via (quella che abbiamo visto prima); Inni ha una avventura erotica che lo convince che il sesso sarà il suo rituale e continuerà a perseguirlo; Inni e Arnold instaurano una amicizia molto solida. Tanto che Arnold gli racconta momenti della sua vita, il suo rapporto con Dio, il modo in cui si sarebbe ucciso se avesse deciso di farlo. Ed alcuni anni dopo, una nota della zia, gli rivela la morte di Arnold, e lui capisce che è suicidio.

La terza parte è anch’essa sorprendente: saltiamo al ’73, dove Inni, andando in giro per i suoi traffici artistici, e frequentando rivenditori di oggetti giapponesi, scopre Philip e la sua ossessione per le ciotole “raku”. Delle ciotole vi lascio leggere, che non ne so molto. Ma lo strano è che Philip, non solo è oriundo thailandese, ma è anche figlio di Arnold, anche se non ha mai conosciuto il padre. Inni e Philip solidarizzano e diventano amici. Vediamo i rituali di quest’ultimo, che vive in un loft bianco, dove passa la maggior parte del tempo in meditazione, ed in cerimonie del tè. Aspettando di trovare una “raku” che le sue finanze gli consentano di acquistare. Passano così cinque anni di amicizia ed incontri, fino a che Philip trova la “sua” tazza, beve il tè, la rompe e si butta in un canale di Amsterdam.

Tanti sono i significati decontestualizzati di questo intenso romanzo. Il centrale è sicuramente il rapporto tra padre e figli. La mancanza degli uni, il rifiuto degli altri, Arnold che si sente orfano “di un Dio cristiano a cui non crede più”. Tanto che, senza padri, i figli cercano di dare senso alla loro vita seguendo degli stretti rituali. Altri due elementi ritualizzano tutto il contesto: il rapporto tra Cees (attraverso i suoi personaggi) e la religione e l’immanenza che ha la letteratura nella vita di tutti (non a caso ci sono citazioni a piè sospinto).

Un lettore meno emozionale di me andrebbe allora a cercare tutte queste parti, a parlarne, confrontarle ed altro. Io mi accontento di averle lette, di averle capite (alcune) e di suggerire a voi di leggerne. Forse quaranta anni sono tanti, ma i rituali rimangono, per Cees e per ognuno di noi. Se io continuo a prendere un caffè prima di andare a letto, ci sarà un motivo. Per ora, prima di avere il coraggio di entrare a fondo nei libri dell’olandese, ritengo sia giusto suggerirne un’attenta lettura.

“La nudità di una persona che non aveva mai visto nuda era … commovente.” (19)

“Sulle Montagne Rocciose non posso tornare … sono troppo vecchio.” (79)

“Ora che aveva superato i … anni non sarebbe più diventato un pianista, non avrebbe imparato il giapponese, di questo era certo e, allo stesso tempo, questa certezza lo rattristava, come se, finalmente, la vita cominciasse a rendere evidenti i suoi limiti rendendo così visibile anche la morte: non era vero che tutto era possibile. Forse tutto era stato possibile, ma ormai non lo era più. Si era quel che, forse inconsapevolmente, si era scelto di essere.” (148)

“Gli aveva fatto pensare al periodo trascorso a Cheng Mai, nel Nord della Thailandia: guida in mano, aveva vagato di tempio in tempio … sconcertato. … Perfino nel duomo coloniale di Lima si era sentito più a casa che in quel luogo. … Non si hanno mille vite, se ne ha una sola.” (149) [ed io ci sono stato in entrambi i posti e sono d’accordo con lui]

Majgull Axelsson “Io non mi chiamo Miriam” Corriere della Sera Boreali 06 euro 8,90

[A: 09/04/2018 – I: 16/10/2020 – T: 19/10/2020] - &&&& 

[tit. or.: Jag heter inte Miriam; ling. or.: svedese; pagine: 460; anno 2014]

Ancora un libro di buon livello della collana Boreali, dove credo si vede bene la mano di fondo degli editori di Iperborea, che hanno fatto una scelta di vita puntando su questa letteratura. Con successo. Inoltre, capita che ne legga la settimana prima di una visita da tempo programmata e che spero di portare a compimento, al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau.

Majgull è una più che settantenne scrittrice svedese, ma anche, e soprattutto, giornalista, dedita spesso ad inchieste su problematiche spinose anche per la stessa Svezia. Come la prostituzione minorile nel Terzo Mondo, la povertà nella stessa Svezia, con un occhio sempre attento alle minoranze, agli emarginati, ed a tutte le loro contraddizioni.

In queste libro, che ho apprezzato molto in lettura, e (aggiungo questa riga a posteriori) rivalutato dopo la visita ai campi di sterminio sopra citati. Perché Majgull tenta una operazione non proprio facile: fare un romanzo sulle problematiche dello sterminio, senza averle vissute in prima persona (essendo nata nel 1947), ma facendone un racconto in prima persona per bocca della protagonista. Siamo dalle parti di un Primo Levi senza Primo Levi. E l’operazione, pur con dei limiti, riesce abbastanza bene.

Intanto, la Axelsson introduce una vista differente verso la tragedia dell’olocausto e degli stermini nazisti. Infatti, il personaggio centrale è una “rom”, che si chiama Malika, che incontriamo per la festa dei suoi 85 anni. È discretamente sola, pur circondata dagli affetti: il marito Olof è morto da tempo, ma è rimasto il figlio di primo letto, Thomas, con l’insulsa moglie Katrina, ma soprattutto con la nipote Camilla. Tuttavia, nessuno la chiama Malika, perché nessuno lo sa chi sia realmente. Tutti la chiamano Miriam.

Sarà lei stessa, tra un sogno ed un racconto all’amata Camilla, che ci spiegherà la sua metamorfosi. Lei viene da una agiata famiglia gitana, anzi “roman”, che sono gitani stanziali fermatisi in Germania. Vive nella comunità, con i genitori ed il fratello Didì. Ma nel 1944, i nazisti, per continuare a portare avanti lo sterminio di tutti i non ariani, prelevano anche la sua famiglia, e la trasferiscono, cioè ne iniziano il trasferimento verso Auschwitz. I primi a perdersi di vista sono i genitori, così che rimangono lei e Didì. Poi si susseguono vicende convulse, che lascio seguire a chi ne leggerà. Tanto che Didì viene coinvolto nei turpi esperimenti di Mengele, trovando una morte atroce. Rimasta sola, durante un ulteriore trasferimento, Malika, per ripararsi dal freddo, prende il cappotto di una ragazza morta, Miriam Goldberg.

Da questo punto in poi si trasforma in Miriam, e nei suoi racconti seguiamo il duplice strazio: vede i suoi coetnici “roman” prima isolati, poi sterminati tutti in quel di Birkenau. E vede gli ebrei presso cui si è rifugiata, costantemente ma con pervicacia, portati nelle camere a gas, ed anche loro sterminati. Poco prima di subire la stessa sorte, arrivano i russi liberatori. Lei viene inviata prima in Danimarca, e poi, dopo la guerra, essendo Miriam svedese, rimandata in una patria che non è la sua.

Miriam-Malika ha comunque una grossa facilità per le lingue, impara velocemente lo svedese, e trova rifugio e conforto nel dentista Olof, da poco vedovo con un figlio piccolo da crescere. Da lì continuerà per sessanta anni a fingere di essere Miriam. Perché anche nella progressista Svezia, i “roman” non sono ben visti. Preferisce rimanere nella menzogna, anche se ne soffre per tutta la vita.

Solo ora, e solo a Camilla, confessa: “Io non mi chiamo Miriam”.

Majgull avvince nella sua scrittura, coinvolge nella pena di una persona che si vede privare più e più volte della propria esistenza, e che per vivere, o sopravvivere, deve inventarsi una vita diversa. Gli strali della scrittrice, come detto sempre attenta alle marginalità della vita, vanno allora, e potentemente, contro i turpi stermini nazisti, riuscendo a farci partecipe alle assurde vicende (assurde per noi ora) cui Malika assiste. Ma Majgull vuole anche colpire la Svezia perbenista, che non consente a Miriam di palesarsi come Malika. Uno strazio infinito, ben reso dalla alternanza di sogni e flashback e racconti nel presente in un libro che sicuramente mi avrebbe comunque colpito, ma che letto in prossimità della visita ad Auschwitz mi ha lasciato forse segni più profondi di quanto pensassi.

Kader Abdolah “La casa della moschea” Corriere della Sera Boreali 11 euro 8,90

[A: 07/05/2018 – I: 27/10/2020 – T: 31/10/2020] - && e ½  

[tit. or.: Het huis van de moskee; ling. or.: nederlandese; pagine: 396; anno 2005]

Sono rimasto un po’ sorpreso da questa lettura, per almeno un paio di ragioni. La collana è dedicata, come dice il suo sottotitolo alla “Grande Letteratura del Nord”, dove io avevo interpretato il senso del “Boreali”, come di scritture provenienti dalla fascia scandinava (Islanda, Norvegia, Svezia, Finlandia, magari con l’aggiunta della Danimarca), mentre qui lo scritto è in olandese, di uno scrittore che lì vive. Ovvio che scritture come quella di Nooteboom hanno comunque una loro dignità in questo contesto, ma qui non ne sono convinto. Quasi che si mascheri in ogni caso la “borealità” con qualsiasi cosa pubblicata dall’ottima casa editrice “Iperborea”.

Certo, infatti, che, dal nome, si capisce subito come l’autore abbia qualche provenienza da immigrazioni o emigrazioni. In effetti, Kader è iraniano, più o meno mio coevo, fuggito dal paese natio nel 1988, per rifugiarsi in Olanda, dove vive tuttora.

Il secondo motivo viene dal testo, che, interessante come andremo a sottolineare più avanti, parla e si svolge tutto proprio in Iran, prendendo le mosse alcuni anni (o decenni) prima dell’avvento di Khomeini per protrarsi, all’incirca, qualche anno dopo l’ascesa al potere degli ayatollah. Una storia, quindi, interessante, ma che ha spiazzato le mie aspettative.

Pur con queste premesse limitanti, appesantito purtroppo dalle considerazioni finali che non vi anticipo, è in ogni caso un testo interessante, strutturato, mai banale, che prima avvince, poi ti porta ad una esasperazione infinita. Per finire, almeno nella penna di Kader, con un suono di speranza, che tuttavia io, ora, qui non vedo.

Seguiamo nel corso di tanti anni la vita della famiglia di Aga Jan nella cittadina di Senjan, città reale, situata circa 300 km a sud di Teheran, su di una strada che a metà incrocia la città santa di Qom. E non è una scelta casuale, anche perché (e si capirà meglio nel corso della lettura) molta parte della storia della famiglia di Aga Jan adombra la storia personale di Kader, che metterà molto del suo vissuto nelle vicende di Shahbal, l’uomo che narrerà la storia.

Aga Jan è il capo della casa, il personaggio più importante del bazar con il suo negozio di tappeti, ed il responsabile della moschea del “Venerdì”, che è collegata, anche fisicamente alla casa. Intorno a lui vivono e agiscono una notevole massa di personaggi, alcuni più altri meno decisivi, ma tutti incarnanti momenti ed espressioni dell’islam, del passato e del presente.

Ci sono i personaggi di contorno, come lo zio Kazem, il poeta grande fumatore di oppio, come le “nonne”, che nonne non sono solo due ormai anziane ragazze che da cinquanta anni portano avanti la casa, instaurando un rapporto anche sessuale con Kazem, e, lui morto, andando in pellegrinaggio alla Mecca per morirvi in santità. C’è lo storico imam della Moschea, Alsaberi, sposato con Zeynat, la donna che racconta le storie. I due hanno una figlia femmina, Seddiq, ed un maschio, Ahmad, che studia per succedere al padre. C’è Muezzin, di cui non sappiamo il nome, visto che viene chiamato con la sua funzione, che è anche il padre di Shahbal. C’è Faqri Sadat, la moglie di Aga Jan, cui ha dato due figlie femmine ed un maschio Javad, che dovrebbe prendere le orme del padre. Infine, ci sono Nasrat, il fratello di Aga Jan, che con le foto e la cinepresa, rende la storia disponibile a tutti in immagini, e Ghalghal, l’imam che viene da Qom e che sposerà Seddiq.

La capacità di Kader è di portarci dal mondo rurale, contadino, e di cooperazione della città, attraverso tutta una serie di passi logici, a seguire l’evoluzione storica dell’Iran. Dai tentativi di modernizzazione dello Scià e di Farah Diba, alla rivolta ed alla presa del potere di Khomeini. In questa evoluzione, che Aga Jan capisce poco, e poco segue, si cristallizzano le due fazioni antagoniste: da una parte Ghalghal, divenuto capo delle Guardie dell’Islam, e Zeynat, l’indottrinatrice delle donne con il chador. Dall’altra Javad e soprattutto Shahbal, vicini ai “comunisti”, perseguitati, alcuni uccisi, altri dediti ad attentati e fughe.

Quello che Kader fa risaltare è la contrapposizione tra un islam pacifico ed un islam combattivo e vendicativo, impersonificato dagli ayatollah e dai loro seguaci. Con sgomento vediamo accadere quello che sappiamo: sì, la cacciata dello Scià, ma poi la presa del potere dei barbuti, le donne che non possono girare da sole e via accentuando tutte le possibili storture dell’islam di quella zona del mondo.

Kader pensa, tra le righe, che ci siano possibilità e speranze. Noi, qui, dubitiamo.

L’elemento cui facevo riferimento sopra, e che rende alla fine poco fruibile gran parte del testo, è l’uso di citazioni coraniche ed islamiche, dotte, ben fatte, appropriate. Ma, come ci dice sia l’autore che la traduttrice, sapientemente modificate per portare acqua al mulino delle tesi di Kader. Cosa legittima, e di grande impatto, ma solo per chi conosce l’esatto dettato delle citazioni stesse. Oppure se, nella riproposizione fuori dai contesti islamici, fosse stata fatta un mi rendo conto assai difficile inserimento di annotazioni esplicative al testo.

Ultima nota, il testo fa comparire una critica neanche tanto velata a Khomeini, e mi domando come mai non sia caduto negli strali dei fondamentalisti. Ma chi riesce a leggerne estraniandosi dalle mie paturnie, trova comunque un testo epico, ed una vicenda tragica che non si scorderanno.

Non solo è la quinta domenica di gennaio, ma è anche già la sesta trama di questo denso mese. Non avendo allora particolari recuperi da fare, vi “delizio” con qualche citazione derivata dalle mie letture del 2006. Che molti non ricorderanno e molti neanche pensavano a leggermi.

Intanto, pur con qualche apertura, continua la semi-clausura, la totale mancanza di viaggi, e la speranza che queste note riescano, almeno, a farci sentire vicini. Preferisco non commentare altro, che il panorama, sia italiano che mondiale, mi pare troppo fosco, ad ora. Quel che non si oscura è, spero, la nostra amicizia “di penna” (come dire Charlie Brown), per cui continuo ad abbracciarvi.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Vediamo allora di colmare il vuoto di una settimana in più riandando, con calma e con qualche revisione, a citazioni che si sono stratificate negli anni intorno alle mie letture.

Torniamo intanto a quelle accumulate nei mesi di fine 2006.

Nel saggio “Stronzate. Un saggio filosofico” il filosofo americano Harry G. Frankfurt riporta un’affermazione tratta dal libro “Storie sporche di Eric Ambler: “Mai dire una bugia, quando puoi cavartela a forza di stronzate”. Praticamente una citazione di citazione.

Volendone ricordare il contenuto, che mi sembra ancora attuale, lascio la parola a chi ne sa meglio di me.

“Nel saggio, Frankfurt delinea una teoria della nozione di "stronzata", definendone il concetto e analizzandone le applicazioni in vari contesti. La motivazione dello studio è chiara dall'incipit del saggio:

«Uno dei tratti salienti della nostra cultura è la quantità di stronzate in circolazione. Tutti lo sanno. Ciascuno di noi dà il proprio contributo. Tendiamo però a dare per scontata questa situazione. Gran parte delle persone confidano nella propria capacità di riconoscere le stronzate ed evitare di farsi fregare. Così il fenomeno non ha attirato molto interesse, né ha suscitato indagini approfondite. Di conseguenza, non abbiamo una chiara consapevolezza di cosa sono le stronzate, del perché ce ne siano così tante in giro»

Frankfurt distingue il "dire stronzate" dal semplice mentire. Mentre, infatti, un bugiardo fa deliberatamente un'affermazione falsa (quindi, conoscendo egli stesso la verità), colui che dice una stronzata ("bullshitter", in inglese) è semplicemente disinteressato alla verità stessa.

I "bullshitters" mirano principalmente a impressionare il proprio pubblico. Mentre il mentitore deve conoscere la verità per poterla meglio nascondere o contraffare, il "bullshitter" non fa uso alcuno della verità o della nozione di verità. Per questo motivo, Frankfurt afferma che "la stronzata è un nemico della verità più grande della menzogna".

Per Frankfurt la pericolosità della "stronzata" è appunto nel diffondere l'idea che è impossibile sapere come stanno veramente le cose. Ne consegue che qualunque forma di argomentazione critica o analisi intellettuale è legittima, e vera, se è persuasiva. Tutto questo, secondo l'autore, è effetto di una forma di vita culturale in cui le persone sono sovente chiamate, o si sentono chiamate, a parlare di argomenti di cui sanno poco o nulla. In particolare, Frankfurt porta ad esempio due conoscenti che discutono sulla necessità o meno di passare 2 settimane di vacanza in Portogallo e l'aneddoto si conclude con la parola usata poi come titolo del saggio pronunciata da uno dei due interlocutori per epitetare le frasi argomentate dall'altro.”

Dopo un saggio, ecco un’altra forma di scrittura non tanto presente nelle mie letture. Si tratta di Adonis un poeta siriano ora novantenne che vive, rifugiato, in Francia. Ne avevo sentito parlare spesso, anche come candidato al Nobel. Finalmente sono riuscito a leggerlo. E devo dire di aver intuito (non dico compreso) a valle dello studio della lingua araba, la potenza innovatrice e talvolta "eversiva" delle sue poesie. Sono poesie dove c'è vita, vita con le sue parole, senza travestimenti. Capisco anche la difficoltà che a volte si ha perché intuisco che nella traduzione queste parole perdono parte della loro forza.

Mi sono rimaste alcune rime, tratte dalla sua collezione di poesie “Memoria del vento”. La prima viene dalla poesia intitolata “Dialogo”: “Quale luce piange sotto le tue ciglia?”. La seconda invece da “Origine della strada”: “Il nostro silenzio – non ha una strada / così come il nostro amore”.

Poi devo fare un tributo alla maestra torinese Paola Mastrocola, di cui molto ho letto, ma che non avrei cominciato senza l’impulso della mia amica Chiara. Soprattutto pensando ai suoi anni torinesi, e ritrovandone il gusto in quello che ritengo tuttora il miglior libro della scrittrice. Mi riferisco a “Una barca nel bosco”, dalla cui lettura è rimasta questa frase, che suona un po’ ad epigrafe di tutte le idee che ci facciamo in solitaria, avendo paura di confrontarci con l’esterno: L’esattezza delle cose che ti aspetti, la perfetta coincidenza di ciò che hai immaginato con ciò che è, la felicità di vedere che le due cose si sovrappongono esattamente… Non è facile. Quasi sempre ti fai un’idea delle cose che poi non è mai quella”.

Molto collegato al tempo di quelle letture (era il 2006), ed a quel tempo soggettive, è anche la nascita del mio interesse per il priore di Bose Enzo Bianchi. Che mi ha sempre, in ogni suo scritto, dato modo di riflettere su di me e sul mio essere nel mondo. Come nel primo libro letto allora “La differenza cristiana”. Lì c’era questa frase, che idealmente collego alla precedente, pur nella loro diversità: “Ascoltare è ospitare l’altro dentro di noi, ritirarsi per lasciare campo libero anche all’altro”.

Il tema dell’ascolto dovrebbe essere un tema su cui aprire una discussione tra noi. Quante volte sentiamo e non ascoltiamo. Quante volte le parole arrivano a noi e noi le usiamo in modo altro. Quanti libri ho letto in cui mi innervosivo perché i personaggi immaginavano storie invece di fare domande ed ascoltare risposte.

Vorrei finire con un tocco di leggerezza passando ad un autore di cui molto mi intrigò questo primo libro letto, ma che non sempre ha mantenuto quello che io speravo in successive letture. Parlo di Jonathan Safran Foer e del suo “Ogni cosa è illuminata”.

Una delle frasi migliori sullo straniamento, viene da questo dialogo che mi immagino “alla Buster Keaton”: “Ti sei mai innamorato? - Non credo. Credo che se mi fosse successo lo saprei”.

Chiudo con un'altra sua frase che sposo in pieno:

“Mi chiedo se riesci ad immaginare la mia vita senza di me. - Certo che riesco ad immaginarla, ma non mi piace”.


domenica 24 gennaio 2021

Riscoperte del Duemila - 24 gennaio 2021

 Ecco altri libri che vengono pubblicizzati come vecchie letture riscoperte negli ultimi venti anni. In effetti, partiamo dall’yiddish di Singer del ’43 (il migliore del lotto, da leggere in questa settimana dedicata alla memoria), poi il russo emigrato di Gazdanov del ’40 (il peggiore), risaliamo con i racconti sparsi nel tempo di Scott Fitzgerald, e finiamo con l’interessante Connell del ’59.

Israel J. Singer “La famiglia Karnowski” Repubblica Duemila 2 euro 9,90

[A: 15/01/2018 – I: 28/06/2020 – T: 30/06/2020] - &&&&

[titolo: Di mishpokhe Karnovski; lingua: yiddish; pagine: 500; anno: 1943]

Non vorrei sbagliarmi, ma credo sia il primo libro in yiddish che compare nelle mie letture degli ultimi quindici anni. Poiché, ricordo ai pochi smemorati, sono questi gli anni in cui ho cominciato a tenere un conto esatto di tutte le mie letture. Guardando le mie note, vedo che negli anni ’90 lessi qualcosa del più famoso fratello, il premio Nobel Isaac B. Singer. Qui, invece, abbiamo un puro esempio di letteratura yiddish, il cui autore, Israel Joshua Singer (il cui nome in yiddish dovrebbe essere Yisroel Yehoshua Zinger) è il fratello maggiore di Isaac. Per non fare confusione, quindi, lo chiamerò per nome.

Benché comunque non abbia scritti tradotti dall’yiddish, ci sono molti autori di lingua inglese che hanno una formazione yiddish, e si sente. Tanto per citarne alcuni, abbiamo Bernard Malamud, Philip Roth, e Jonathan Safran Foer, tra gli altri. Israel mi sembra ben dotato nella scrittura e nelle idee. E questi Karnowski, pur nelle ovvie diversità, sembrano parenti dei più tardi Muskat di Isaac. Intanto, il libro è uscito alcuni anni prima, ed entrambi i fratelli erano da anni negli Stati Uniti, per cui è probabile che si scambiassero opinione. Ma la possibile similitudine è solo nell’idea, quella di seguire l’evoluzione di una famiglia nel corso degli anni.

Poiché infine, non ho letto i Muskat, mi concentro su questa lettura, che ritengo degna di alti onori. Ha di certo i segni dell’età. Non sempre ottanta anni passano senza lasciare traccia. Tuttavia, la capacità di Israel di darci pochi elementi cronologici fa in modo che alcune tematiche possono essere sentite senza tempo. Ovvio non quella di fondo, che da ebreo ha sentito sulla propria pelle: la fuga dalle sue radici e l’oppressione nazista.

In queste cinquecento dense pagine, Israel riesce a rappresentarci un mondo che cambia ed una sconfitta dalla parte degli sconfitti, ma senza né consolazioni né tinte fosche. Ne esce un orrore forse anche maggiore. Vediamo scorrere le tre generazioni della famiglia Karnowski, dal capostipite David al nipote Jegor passando per l’intermedio Georg. La saga ha origine a Melnitz nella Grande Polonia (ora Mel'nytsya in Ucraina), dove il commerciante di legnami e studioso della Torah, David, entra in contrasto con i rabbini locali, conservatori e testardi, poiché segue la lezione innovatrice dei commentari biblici di Moses Mendelssohn (nonno del compositore Felix). Per questo abbandona tutto e si trasferisce a Berlino, ipotizzando che nella grande metropoli, agli albori del nuovo secolo, ci sia più libertà di pensiero.

Farà carriera, si troverà una posizione, ma entrerà ben presto in contrasto con il figlio Georg. Che non vuole studiare, che soprattutto è refrattario all’ebraismo ed alla rigidità ortodossa del padre. Si lega con una famiglia comunista, padre e figlia medici. Soprattutto con Elsa cercherà di trovare la propria strada. Abbandona così gli studi di filosofia, per passare a medicina e stare con Elsa. Anche se di seconda mano, fare il medico si rivela un mestiere a lui consono. Ed anche se partirà per la Grande Guerra, lo farà da medico. Non trova sbocchi con Elsa, comunista dura e pura. Dopo la guerra, nel clima difficile della Germania sconfitta, con qualche aiuto, riesce ad entrare nella clinica ginecologica di maggior prestigio di Berlino. Dove si innamora dell’infermiera cattolica Teresa, che sposa e da cui avrà il figlio Jegor.

Mentre David rimane nell’ombra, vediamo Georg e Jegor attraversare con diverso passo gli anni della crisi. Georg fa carriera, fino a che l’avanzata dei nazisti e le leggi raziali lo costringeranno ad una dura scelta. Jegor, invece, è spaccato a metà tra l’esteriorità che lo relega tra gli ebrei, e la sua interiorità, che lo fa ritenere più tedesco dei tedeschi. Purtroppo, il padre e tutta la famiglia rifiutano di affrontare il problema, ed il giovane si trova dilaniato tra i suoi sentimenti pro-hitleriani, ed il fatto che i nazisti lo isolano, lo dileggiano, insomma lo trattano da ebreo.

Come lo stesso Israel, la famiglia Karnowski decide allora di emigrare negli Stati Uniti. Dove, in ogni caso, si troveranno ad affrontare gli stessi conflitti. Il medico Georg non troverà lavoro come dottore, e dovrà cercare di arrangiarsi con mille mezzucci. Il giovane Jegor si troverà risucchiato dalla parte degli emigrati “tedeschi puri”, finendo anche a fare la spia ed il delatore. Il tutto verso un quarantacinquesimo ed ultimo capitolo che da tempo aspettavo, e che Israel risolve con maestria ed anche con un barlume (ma quanto fioco) di speranza.

Israel riesce a condensare un mondo in queste sue pagine. Che non sono solo la famiglia Karnowski, ma tutto quanto le ruota intorno. Il commerciante Solomon sempre allegro, il rabbino polacco e quello tedesco, lo zio ariano di Jegor. E tanti altri, disegnando tipologie che diventano esempi di modi di vivere, a volte caricaturali, ma che per questo rimangono meglio impressi. A volte crudi e reali, come la spia nazista a capo dei Servizi Segreti in America. Si capisce il retroterra dell’affabulazione ebraica ashkenazita, si capisce (meglio) il fratello Isaac, e dispiace che Israel non abbia avuto uno spazio proprio di visione letteraria. Anche se, ora, a settant’anni dalla morte, se ne recuperano felicemente alcuni scritti. Come questa famiglia, che va letta, ripeto, con tutte le piccole ragnatele del tempo che passa.

“Ciò nonostante … li classificavano tra le persone poco affidabili, come gli attori, che si possono ammirare ma dai quali è sempre bene stare lontani.” (149)

“Il saggio è colui che vede ciò che accadrà … Tu, con il tuo cervello da femmina non puoi capirlo. Io lo vedo.” (197)

“Come accade alle persone di mezza età rifletté su quanto gli anni passassero in fretta. Non molto prima era stato un giovane in conflitto col padre per questioni di cattiva condotta, e oggi era lui steso padre di un ragazzo che si rendeva colpevole di qualche scappatella.” (414)

Gajto Gazdanov “Strade di notte” Repubblica Duemila 22 euro 9,90

[A: 05/06/2018 – I: 22/09/2020 – T: 23/09/2020] - && e ¾

[tit. or.: Ночная дорога - Nochnaia doroga; ling. or.: russo; pagine: 205; anno 1940]

[tit. or.: Ночные дороги - Nochnye dorogi; ling. or.: russo; pagine: 205; anno 1952]

Spieghiamo subito i due titoli. Il libro venne scritto e pubblicato nel 1940, per poi essere rivisto con il titolo posto al plurale nel 1952, quando Gazdanov cessò la sua attività di tassista notturno, che era stata l’ispirazione di molte pagine del libro. Come si evince dal titolo e dal nome completo (Georgi Ivanovitch Gazdanov detto Gajto) era di origine russa, ed in particolare osseta. Nasce nel 1903 a San Pietroburgo, e prende parte giovanissimo alla guerra civile russa, schierandosi nell’armata del generale Pëtr Nikolaevič Vrangel', cioè dalla parte dei Bianchi. Sconfitto, nel 1920 fugge dalla Russia attraverso la Turchia ed altre nazioni, per approdare nel 1923 a Parigi. Non tornerà mai in Russia, ed i suoi scritti verranno pubblicati in patria solo dopo il 1990. Infine, pur vivendo a lungo in Francia, e parlando correntemente il francese, scrisse tutte le sue opere in russo. Si parla di una scrittura intima, piena, al solito, di domande sui grandi sistemi, sempre con un qualche sentimento di rimpianto verso il passato, ma mai traspare un antisovietismo, pur sempre presente nel fondo degli scritti.

Gajto frequenta tutti i bassi strati del mondo parigino, diurno e notturno. Fa l’operaio alla Renault, frequenta la Sorbona da studente – lavoratore, poi dagli anni 30 in poi fa il tassista di notte (e lo scrittore di giorno).

In questo romanzo, al fondo autobiografico senza essere un memoir, descrive la vita di un colto tassista notturno di origine russa che osserva, tra indignazione, indifferenza e rassegnazione, le avventure e le disavventure dei suoi connazionali e dei personaggi che popolano la variegata fauna notturna della città. Oltre al sé stesso tassista, pochi sono i personaggi veramente rilevanti, ma nel flusso narrativo dei giorni, compaiono una moltitudine di comparse, atte a descrivere i momenti di una vita (la loro e quella di Gajto). Alcuni personaggi entrano anche solo per un paio di pagine, ma Gajto li utilizza per fissare sulla carta momenti, sensazioni, idee che senza loro svaniscono con la nebbia del mattino.

Gajto utilizza il taxi come elemento di incontro della sua clientela, variegata come lo sono le notti parigine. Ubriaconi che non riescono a tornare a casa, persone che vanno alla stazione, piccoli e grandi borghesi che aspettano la notte per tuffarsi dentro i night club. Ma anche i poveri, i diseredati, le prostitute. Non è un samaritano che aiuta tutti, ma un empatico che vede, annota, aiuta talvolta, ma è anche duro con le persone sgradevoli.

Poi ci sono invece quelli che ricorrono, che danno una parvenza di ossatura al testo.

C’è una donna un tempo bellissima, desiderata, amata e osannata: la Raldi. Ora è caduta nel più profondo baratro, costretta alla strada, pur con un’età ormai non più consona. Gajto è affascinato dai racconti della Raldi ai tempi dei fasti, e la accompagnerà fino alla sua miseranda fine, lì sì commosso e partecipe.

Vediamo Alice, donna bellissima e giovane, inizialmente protetta dalla Raldi, ma che si rivela di scarsa intelligenza e nulla compassione. Abbandonerà la sua protettrice per una sistemazione semilussosa scatenando l’ira funesta del tassista.

La storia più lunga ed intrecciata coinvolge la prostituta Suzanne che tramite lui incontra, e sposa, un emigrato ucraino Fedorčenko. La cui utilità è per Gajto il fatto di farne l’incarnazione di quel termine di gogoliana ed intraducibile memoria: un esempio preclaro di “pošlost’”. Che, secondo saggisti di madre lingua (spero in un aiuto da Nico), potrebbe essere tradotto come “meschinità auto soddisfatta, morale e spirituale”. Ma serve anche ad introdurre lo strano Vasil’ev, schizofrenico inventore di oscuri complotti di matrice bolscevica.

Fino alla figura quasi di alter ego “diverso” di un altro emigrato russo, indicato solo con il soprannome di Platone, che serve a Gajto per imbastire alcune utili riflessioni filosofiche notturne. Per tratteggiare nel fondo la Russia: quella prima e dopo la rivoluzione, quella reale e quella idealizzata dagli emigrati. Fino alla Russia letteraria, identificata da Gajto nella descrizione della morte del principe Andrej di Guerra e pace. Alzando il velo su quell’insieme di russi bianchi che si costituirono comunità in quegli anni parigini.

Non sempre scorre la penna, a volte si intreccia, e blocca la mia empatia, ma, pur non amandolo tutto, l’ho trovata una lettura stimolante, anche per quei rimandi notturni ad una Parigi che è stata ed è anche mia.

“La maggioranza del genere umano non è in grado di compiere lo sforzo titanico necessario a comprendere una persona di un altro ambiente, con altre origini e con un cervello diverso da quello cui si è abituati.” (64)

“Lo voglio sapere, e voglio che sia lei a spiegarmelo. Primo: perché esisto? Secondo: che cosa succederà dopo la morte, e se non succederà niente, a che serve tutto questo?” (192)

Francis Scott Fitzgerald “Per te morirei e altri racconti perduti” Repubblica Duemila 3 euro 9,90

[A: 07/05/2020 – I: 13/11/2020 – T: 15/11/2020] - &&& --- 

[tit. or.: I’d die for you, and other lost stories; ling. or.: inglese; pagine: 465; anno 2017]

Non meravigli la data dell’edizione, che in effetti questa è una raccolta di racconti, sceneggiature e spunti vari, che escono dal fondo del lascito di “F. Scott Fitzgerald” curato da Anne Margaret Daniel, e che sono inediti.

Anzi, più che inediti sono testi, che per ragioni diverse, furono a suo tempo rifiutati dagli editori del grande romanziere americano. A volte perché realmente incompiuti, più spesso perché non in linea con la tipologia editoriale che si associava a Fitzgerald. Era il “cantore dell’età del jazz”, ed allora stonavano testi che si occupavano di momenti altri.

Il libro comprende 18 storie inedite (per lo più scritte negli anni Trenta), in quel periodo dove il nostro cominciava un inesorabile declino: la moglie Zelda entra ed esce da cliniche psichiatriche, lui sotto pressione finanziarie e sempre più attaccato alla bottiglia. Disperato è lui, e disperate sono queste storie. A volte anche poco riuscite, e spesso respinte dagli editori con richieste di modifiche che Scott rifiutava sempre di apportare.

Un grazie sentito va alla curatrice che ha organizzato i racconti in ordine cronologico con delle piccole ed utili introduzioni. Nella mia memoria ne rimangono però solo alcuni.

Il primo racconto di questa raccolta, “Il «pagherò»” (1920) è una parodia del mondo editoriale, scritto quando Scott era ancora sulla cresta dell’onda, dove si prende anche in giro (“Pubblico romanzi torrenziali sul primo amore scritti da vecchie zitelle del South Dakota … Non pubblico romanzi di autori sotto i quindici anni"). “Le donne di casa” (1939) e “Un saluto a Lucy ed Elsie” (1939) sono delle piccole parentesi di serenità, scritti in un momento fertile, quando Scott a Hollywood aveva smesso di bere. Stava scrivendo anche al suo grande romanzo incompiuto, poi pubblicato postumo (“Gli ultimi fuochi”).

Spesso, in controtendenza, ci sono al centro personaggi femminili dal carattere forte. Giovani donne che, tra problemi e pensieri, cercano l’uomo giusto. Il racconto “Fuorigioco” (1937) ad esempio è un tentativo di tornare alle storie che il suo pubblico (non lui) gradiva. Fra tradimenti, menzogne, sesso e corruzione vediamo Kiki una ragazza bionda dagli occhi azzurri attratta da una discutibile star del football di Yale dopo che il fidanzato l'ha lasciata.

Il racconto che dà il titolo alla raccolta “Per te morirei” (1935-36) ha molte risonanze con le atmosfere ed il modo di porsi che avevano fatto eccelso “Il grande Gatsby”. Al centro c’è Carley Delannux, un uomo sinistro e destinato a una fine tragica. Carley è un corruttore, con una striscia di sinistre situazioni, una storia in cui è inserito anche un suicidio. E gli editori non se lo aspettavano, tanto che il suo agente lo fece girare a tante riviste. Ma nessuno lo volle pubblicare.

Come detto, poi, la maggior parte dei testi vengono dagli ultimi anni di Scott, ridotto al verde, alcolizzato, solo. Racconti cupi, rifiutati perché “non sono il tuo stile, Scott”. Ma quale dovrebbe essere lo stile di un autore? Quello del successo, o quello che lui sente nello scrivere?

Si parla, tra giovani uomini ma anche tra giovani donne, di matrimonio, di amore, si sesso. Senza censure. Si parla di cliniche psichiatriche, eco di quelle dove visse a lungo Zelda. C’è l’eco della grande depressione e il ricordo della Guerra Civile, in “Pollici in alto” (1936), senza fare nessuno sconto alla violenza presente in quello che viene considerato un momento fondante della storia americana. Ci sono le montagne del North Carolina, dove Scott cercava di rimettersi in salute, e c’è la sua New York, amata anche in questa rappresentazione periferica, e per questo anche più vera. Ma ci sono anche ritratti di straordinaria modernità, come le signorine “che possono fare tutto da sole” di “La perla e la pelliccia” (1936).

Tanti sono i mondi scritti, sempre con maestria, anche nei racconti meno riusciti. C’è il suicidio, come detto, la miseria, l’alcolismo, la pazzia, la corruzione. Insomma, l’America, com’è, non come vorrebbe Trump fosse. C’è il mondo scintillante del cinema, nella sua profonda malinconia. E come nel migliore Fitzgerald, ci sono i ricchi, accanto ai poveri, sempre più poveri ed emarginati.

Una raccolta didascalica, non sempre riuscita, ma che spinge a ritornare ai suoi libri, che forse da troppo tempo ho anch’io dimenticato.

“Devono essersi scordati di fornirmi di gelosia. Probabilmente hanno rimediato con una dose doppia di illusioni.” (151)

Evan S. Connell “Mrs. Bridge” Repubblica Duemila 17 euro 9,90

[A: 07/05/2018 – I: 28/11/2020 – T: 30/11/2020] - &&& e ¾ 

[tit. or.: Mrs. Bridge; ling. or.: inglese; pagine: 223; anno 1959]

Ecco un altro autore poco noto (almeno a me) ed a quanto leggo poco tradotto in Italia. Quasi fosse autore di un solo significativo libro. Questo. Che in effetti, è interessante, ben scritto, con una lettura che nonostante l’età prende. Se poi pensiamo che ha scritto un libro parallelo a questo (“Mr. Bridge”) e che dai due venne tratto un bel film di James Ivory, per l’interpretazione di Paul Newman e Joanne Woodward, direi che c’è abbastanza da scriverne.

Evan Shelby Connell jr. nei suoi quasi novant’anni di vita (muore a Santa Fè nel 2013) ha scritto in effetti diciotto romanzi, ed altre opere minori. Tipico esempio di scrittore noto ma non famoso, letto ma messo poi in qualche recesso mentale.

Peccato, perché pur non essendo un capolavoro, questo suo romanzo illumina in maniera chiara e preoccupante tutto quanto sappiamo (e magari noi che ne abbiamo girato molto, anche visto) di quell’americano medio e conservatore che è l’asse portante dell’esistenza americana non esteriorizzata. Che, probabilmente, è il tipico prodotto che ha votato, vota e voterà i Trump di quella terra.

Con tocco lieve, Connell ci descrive la vita di una famiglia di Kansas City (sua città Natale) essenzialmente dipinta nell’epoca tra le due guerre Mondiali. Al centro, come dice il titolo, c’è India Bridge. Che seguiamo come principale attrice della vicenda dalla dichiarazione di matrimonio di Walter Bridge sino ad una vecchiaia, non certo serenissima, ma di certo tipica.

La vediamo nella vita familiare, negli affetti, nelle amicizie, nelle frequentazioni. E vediamo intorno a lei girare il piccolo mondo del Country Club District di K.C. C’è Mr. Bridge, avvocato in carriera, legato, indissolubilmente, ai valori tradizionali. In particolare, ai soldi, ossessione americana. Ed allo status quo.

Ci saranno i figli, tre, concepiti senza trasporto, seguiti e cresciuti nei valori tradizionali, conflittualmente vissuti. Ruth, la maggiore, la più bella, conscia della sua bellezza, che se ne andrà appena possibile a New York, nel mondo delle riviste di moda. Carolyn, la seconda, che deciderà di sposare uno spostato, farci un figlio, per poi gravitare sempre nell’orbita materna. Douglas, il minore, solitario, introverso in casa, esternante fuori. Figli che né India né Walter capiranno mai. Che non seguiranno le loro idee. Creando nel tempo una conflittualità mai palese (non si fa così nelle cittadine dell’interno).

Ci saranno le amiche di India (che Walter compare sempre poco qui, teso a far soldi per rendere agiata la famiglia). Di vario aspetto, intelligenti, limitate, modaiole. In particolare, Grace, quella che India ritiene la sua migliore amica. E forse la più intelligente. Che si domanda cosa ci facciano lì, quale sia lo scopo della loro vita, non trovandone, ed entrando così in una depressione fatale.

Ci sono i tanti elementi presenti nel Club, dipinti anche con pochi tratti. Ma li vediamo bene, vuoti, che parlano per sentirsi parlare, che pontificano laddove non sanno. Ah, quanta gente anche voi conoscerete in simili atteggiamenti.

Sono tutti elementi che, ora qua ed ora là, sembrano dare spunti di vita ad India (ricordiamo che è lei il fulcro del libro, come Walter lo sarà del sequel uscito dieci anni dopo). Che inizia a leggere libri impegnati, che inizia a studiare spagnolo, che accetta la presenza della gente di colore, ma che di certo non la frequenta. Connell riesce, attraverso capitoli più o meno agili, a farci progredire nel tempo, ogni volta accumulando piccole pietre di dolore. I rapporti, i pranzi inutili, i ritorni a casa di Walter senza che mai si senta un briciolo di empatia tra lui ed i figli. O tanto meno tra lui e India.

Unico momento che sembra rinverdire i fasti giovanili, è la decisione di un grande viaggio in Europa per celebrare un rotondo compleanno di India. Anche lì, pieni i due WASP di contrasti con i londinesi, i francesi, i romani. Viaggio che decidono di interrompere anzi tempo, nel settembre del ’39, alla notizia dell’invasione tedesca della Polonia.

India, per tutto il libro, è attratta dalle cose minute, coinvolta nelle incombenze quotidiane, dato che è una casalinga. Si direbbe una “casalinga disperata” senza però la coscienza che sia possibile una ribellione.

Pur con alcuni limiti temporali, l’ho trovato un libro di interesse, che riporta la voglia di leggere e di esplorare l’animo umano. E poi, sapendone i due interpreti del film, ne leggi e ne vedi la faccia mentre ne leggi. Lettura direi altamente consigliata.

Siamo già alla quinta di gennaio, che solitamente viene dedicata ai libri curativi letti non in sincronia con l’andamento della libropedia.

Ci sono novità nei viaggi? No. Ci sono novità nell’uscita dal coprifuoco? Nemmeno, e si trovano anche difficoltà ad andare a riposarsi in campagna. C’è solo tanta voglia di sentirvi, tanto che con queste mie mi sembra di esservi sempre vicino. E per continuare nel filone delle citazioni, eccoci ad una che sembra essere in linea con i nostri tempi: “Devi parlare della paura… se la paura diventa un’oscurità inespressa che cerchi di evitare e che forse riesci persino a dimenticare, ti esponi ai suoi attacchi futuri.” Viene dal libro “Vita di Pi” di Yann Martel.

Pensiamoci, e non facciamoci prendere da nessuna paura. Anzi continuiamo ad abbracciarci seppur virtualmente. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

Dopo Sant’Agnese 2021

Come sapete, se ci sono cinque domeniche, provo a recuperare cure passate o saltate.

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE

Sessant’anni, avere

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER SESSANTENNI

Chinua Achebe         “Il crollo”

Elias Canetti              “Auto da fé”

Federico De Roberto  “I viceré”

Charles Dickens        “Il circolo Pickwick”

Natalia Ginzburg       “Lessico famigliare”

Agota Kristof            “Ieri”

Philip Roth               “Il teatro di Sabbath”

Graham Swift           “Ultimo giro”

Tiziano Terzani         “Un altro giro di giostra”

Ivan Turgenev          “Padri e figli”

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE PASSATE

Carne, mangiare troppa

Michael Faber           “Sotto la pelle”

Quando andate in campagna, a primavera, vedete agnellini che giocano o altrettanti arrosti per il pranzo della domenica? Oppure, ahi voi, entrambe le cose? Come la pensiate sul consumo di proteine animali – qualunque sia la vostra posizione politica, etica o religiosa – questo libro vi farà gettare qualunque maschera abbiate messo tra voi e la fetta di carne che avete sul piatto.

Ancora una volta, svelare perché questo romanzo – con cui Michael Faber sfida ogni genere letterario – serva a curarvi dall’eccessivo desiderio di mangiare carne rovinerebbe tutto il piacere di gustarlo. Possiamo accennare qualcosa, tuttavia. Ambientato in Scozia, la bellezza spietata del paesaggio, con i suoi “scorci di pioggia a due o tre montagne di distanza”, è l’unica presenza positiva nella serie di eventi profondamente inquietanti che si raccontano. Isserley è una donna attraente ma strana che passa le giornate a guidare in giro per la campagna. Fa un lavoro misterioso, che sembra portarla a raccogliere autostoppisti, con un’auto appositamente modificata per le sue esigenze. E curioso, Isserley pare a disagio sul sedile e viaggia con il riscaldamento al massimo. Le persone con cui vive, inoltre, sembrano avere paura di lei.

Il romanzo è una lettura essenziale per chiunque abbia a cuore la dimensione etica del cibo che mangia; per quelli che stanno pensando di andare a convivere con un vegetariano e vorrebbero evitare litigi in cucina; per coloro, infine, che soffrono di attacchi di senso di colpa ogni volta che mordono quella che una volta era una simpatica, morbida creatura innocente. “Sotto la pelle” rimarrà con voi per molto tempo dopo che lo avrete finito, e anche molto tempo dopo che avrete imparato ad apprezzare il tofu.

Costipazione

Gregory David Roberts           “Shantaram”

Certi romanzi fanno venire voglia di tenere tutto dentro, altri fanno venire voglia di buttare tutto fuori. Questo corposo romanzo ambientato nei bassifondi di Bombay e scritto da un ex rapinatore di banche australiano riuscirà a sbloccarvi in un attimo. Leggetelo per il grande calore del suo narratore, per come abbraccia tutto ciò che è pieno di ardore e privo di regole. Leggetelo per la facilità con cui escono le parole, evocando questa città di venti milioni di abitanti con il suo caldo soffocante e i suoi sporchi miraggi e gli ettari di baraccopoli costruita con la spazzatura dove la gente vive la propria vita: mangiano, fumano, litigano, copulano, mercanteggiano, cantano, si fanno la barba, partoriscono, giocano, cucinano e muoiono, tutto sotto gli occhi di tutti. Leggetelo per lo splendido elenco di frutti di bosco che sapranno sciogliere il vostro intestino come un lassativo lessicale: Paw paw, papaia, annona, mosambi (lime dolce), uva, anguria, banana, santra (arancia), mango. Soprattutto, leggetelo per la descrizione che Prabaker fa dei “movimenti” mattutini degli abitanti delle baracche, tutti insieme lungo un molo, giovani e meno giovani accovacciati con le natiche rivolte all’oceano in conviviale armonia, che assistono ai reciproci progressi e difficoltà. “Oh, sì!” dice Prabaker, l’amico del narratore, che lo invita ad andare al molo, sapendo che altre persone li aspettano. “Ti trovano affascinante. Per loro sei come una stella del cinema. Muoiono dalla voglia di vedere come te la cavi coi movimenti”.

Con questa immagine di natiche scoperte che fanno il proprio lavoro in pubblico scolpita nella memoria, sarete per sempre riconoscenti a nome del vostro bagno privato, e desiderosi di usarlo. Se poi, al momento opportuno, i tanto attesi “movimenti” tardano ad arrivare, questo romanzo grosso come un fermaporte vi terrà splendidamente occupati.

Bugiardino

Nell’ottobre del 2019 parlai di questo elenco di letture per sessantenni, lasciando in alto a tutti il mio amato Terzani. Come dicevo allora, avevo Achebe e Canetti in lista d’attesa. Ne lessi poco dopo ed ora ne riporto. Saltai invece l’inno ai carnivori per farci diventare vegetariani, ma Faber non mi è mai piaciuto granché. Finiamo questo recupero con un libro sull’India, che speravo migliore, e che invece non mi ha fino in fondo riportato al subcontinente che conosco.

Chinua Achebe “Il crollo – Ormai a disagio” Mondadori s.p. (Biblioteca di Proba Petronia)

[tramato il 27 settembre 2020]

Un altro libro della biblioteca genitoriale, recuperato dalla memoria e letto con interesse. Un libro doppio, che contiene i primi due capitoli della trilogia fondamentale dello scrittore nigeriano. Una bella scrittura che riesce a riportarci in Africa, e ben dal di dentro. Si sente l’amore per la sua terra e l’odio per chi l’ha fatta diventare una colonia, terra bruciata di conflitti insanabili. Achebe è duro, inflessibile, e forse per questo, come dice la sua biografia, non fu mai premiato con onori internazionali. Mostra troppo il suo astio verso l’Occidente per poter ambire a suo tempo a Nobel ed altro, così come invece successe al suo connazionale Wole Soyinka. Anche se connazionale fino ad un certo punto, che Achebe è stato sempre più biafrano che nigeriano. Ma veniamo ora ai testi, i cui titoli entrambi derivano da brani di poesie di Yeats.

“Il crollo”

Il titolo originale, come dalla recente ripubblicazione nelle edizioni “La Nave di Teseo” recita in effetti “Le cose crollano”, ripreso dal brano della poesia di Yeats “The Second Coming”, dedicato dal poeta irlandese al crollo del suo vecchio mondo, quello cristiano, corrotto e superato dall’avanzare del mondo stesso. Achebe ne prende lo spunto, per descrivere quello che fu in verità un crollo. Quello del vecchio mondo pervaso dalla cultura del suo popolo (gli “igbo”) frantumato dall’avanzata del colonialismo inglese.

La scrittura di Achebe segue la parabola di uno dei maggiorenti locali, Okonkwo, che, in alcuni tratti, sembra ripercorrere la vicenda ancestrale della famiglia Achebe, quasi ne rivedesse il nonno paterno. Okonkwo è fortemente legato alla cultura igbo, ne segue le leggi, ne percorre, nel bene e nel male, le parabole di vita. È un uomo che si fa da sé. Vediamo infatti nella prima parte il conflitto con l’ignavo padre, che si comporta come una cicala, dissipando al sole le sue scarse fortune, per bere e cantare con gli amici. Fino a morire povero e solitario.

Okonkwo invece è un gran lavoratore, è stato il re dei lottatori al culmine dell’adolescenza. E si capisce dai cenni alla vita locale quanto la lotta sia uno strumento di innalzamento sociale degli igbo. Si sposa, ha tre mogli e tanti figli, anche se è fortemente legato solo al suo primogenito Nwoye. La scrittura di Achebe ci porta dentro questa vita rurale, con tutti i suoi riti: le chiacchiere nella piazza principale, la semina delle piante sostentamento e nutrimento del popolo igbo, i rapporti con le mogli, sempre improntati alla supremazia maschile. Strano mi fa leggere che Okonkwo aspetta il cibo dalle tre mogli, e mangia da tutte e tre, in ordine di anzianità di sposalizio. Bello è anche l’inciso sulla terza moglie e sulla sua unica figlia femmina. Poi avvengono due fatti che segnano la vita del nostro eroe.

Il debito di sangue di un villaggio vicino, che per riscattarsi dà in pegno al villaggio di Okonkwo un ragazzo, che diventa il miglior amico di Nwoy. Per tre anni il ragazzo cresce con la famiglia, poi l’oracolo del villaggio, non si sa in base a quale legge ancestrale, ne decreta la morte. Sarà proprio Okonkwo che dovrà eseguirla, e questo fatto comincia a segnare il crollo dei valori su cui il nostro fonda la sua vita.

Il secondo fatto è l’uccisione, pur casuale, di un membro del villaggio durante una festa da parte dello stesso Okonkwo. In base alle leggi interne, la famiglia subisce un esilio di sette anni dal villaggio. Sette anni che vivranno in ristrettezze, che l’esilio comporta l’abbandono di tutti i beni posseduti. Sette anni che vedono l’ingresso dei missionari protestanti nel paese. Missionari che cominciano a distruggere tutti i valori delle loro pur semplici esistenze.

Qui, Achebe ha un grosso scatto di scrittura, riuscendo a farci percepire lo scontro tra le due culture. La differenza, anche, tra alcuni missionari, empatici delle situazioni locali, ed altri che vengono con la presupponenza dell’uomo bianco che vuole imporre la propria democrazia. Vediamo tutta la cattiveria dell’oppressore. Vediamo anche come, per diverse ragioni, i locali “cadono” nelle trappole dell’occidente. E per sventura di Okonkwo, uno dei primi a “passare al nemico” è proprio suo figlio Nwoye. Altro colpo fatale al nostro eroe. Che tornando dopo sette anni al villaggio natio, ne vede la degradazione da parte dell’uomo bianco, cerca di opporsi, finendo con l’uccidere un soldato inglese. Questo porterà al crollo finale di Okonkwo e del suo credo, con un finale duro e spietato, che però mette di nuovo a confronto i valori ancestrali con le affettate maniere degli inglesi invasori.

Non vi porto sino alla fine, se non per rimarcare come anche la scrittura stessa di Achebe sia parte integrante di questo processo di sconfitta. Achebe scrive in inglese, ma (e l’ultima versione de “La Nave di Teseo” meglio ne riporta), gran parte dei dialoghi tra i nativi è scritta in “igbo”, facendo quindi risaltare la differenza, linguistica ma anche mentale tra i due idiomi. Molto si perde nella traduzione, e molto se ne recupera leggendone commentari, soprattutto in alcuni siti africani. Seppur con qualche lentezza (in particolare nei primi capitoli) è un documento forte, pieno di pugni allo stomaco.

“Ormai a disagio”

Anche il secondo capitolo della trilogia di Achebe riprende un verso di una poesia di Yeats. Questa volta è “The Journey of the Magi” i quali, al ritorno nelle loro terre, diranno: “Non siamo più a nostro agio”. Ed è così che gli igbo si sentono dopo i primi anni di colonizzazione inglese.

Per farci sentire continuità nel tempo, e discontinuità nei comportamenti, seguiamo ora le vicende di Obi Okonkwo, il nipote dell’eroe del primo capitolo, nonché figlio di quel Nwoy che primo si unì ai missionari protestanti, in aperta sfida del padre, uccisore del suo amico fraterno di gioventù. Siamo quindi alla seconda generazione, Nwoy cambia il suo nome in Isaac, e diventa un prelato della chiesa protestante. Il figlio Obi, educato dalla rigida disciplina paterna, è sempre nella pattuglia di testa degli studenti locali, tanto che, finite le scuole secondarie, i maggiorenti igbo gli danno una borsa di studio per laurearsi in Inghilterra. Cosa che Obi farà, ma in inglese e non in legge come gli aveva chiesto la sua tribù.

Certo, al suo ritorno, con una laurea inglese, potrà trovare un buon posto, anche se non così remunerativo se avesse fatto l’avvocato. Il dipinto che Achebe ci fa di Obi è tuttavia, pur se con qualche condiscendenza, di una persona ormai non più attaccata ai valori ancestrali, ed anche (o forse per questo) debole e indecisa. Si sentirebbe meglio a rimanere ad Oxford, fra i suoi libri e i suoi pensieri, ma la borsa è un prestito, e lui deve restituire quanto ricevuto, seppur con tutti i tempi del mondo.

Ma una volta nuovamente in patria, la sua supponenza di laureato, lo pone, intimamente, al di sopra delle miserie locali. Non si adatta, presuntuoso e poco combattivo, ad essere una ruota qualsiasi. Cerca protagonismo che non è capace di gestire. E viene anche preso da ingranaggi più grandi di lui. L’amore con Clara, certo, ma il loro matrimonio è osteggiato per il fatto che lei è una “osu”, che nel sistema tradizionale delle caste degli igbo, è una persona reietta e che non può uscire da quel sistema. Tanto meno sposarsi con un “non-osu”.

Obi prova a portare avanti la relazione, ma anche la sua famiglia, benché cristiana, lo isola e maledice. Così, quando Clara rimane incinta, non resta che l’aborto. Ed il conseguente allontanamento tra i due. Così che i debiti aumentano: per la sua scarsa oculatezza, ad esempio per pagarsi una macchina per andare a lavorare, e poi per pagarsi l’assicurazione. Per restituire il prestito, come detto, ma anche per dare i soldi ai suoi fratelli al fine di pagarne gli studi. Si trova così a lavorare in un posto di non grande reddito, ma di certo prestigioso, perché si trova a selezionare i candidati per le borse di studio all’estero, come quella da lui ricevuta. Un posto che è facilmente al centro di corruzioni più o meno grandi. Che lui, tra la ferrea dottrina paterna e una giusta rigidità verso gli anziani già inseriti nelle leve del potere inglese e già (come ben sappiamo) corrotti e corrompibili, osteggia. Rifiuta regali e servigi vari, ma lo stipendio limitato non gli consente di essere all’altezza economica della situazione. Cadrà così in uno stupido tranello della polizia coloniale, e cadrà miseramente in basso anche da quel poco da cui si era elevato.

La ferocia di Achebe nel dipingere le sventure della sua Nigeria è qui molto forte. Non usa più la lingua degli antenati, come nel primo libro. Ora è solo inglese, ed è verso gli inglesi corruttori ed imbarbaritori delle tradizioni che lancia i suoi strali. Ma anche contro l’ignavia delle nuove generazioni. Purtroppo, la tensione verso la costruzione di un’idea e di una denuncia viene a scapito della piena caratterizzazione dei personaggi, che invece era ben presente e di forte impatto nel primo libro. Tuttavia, si capisce perché l’Occidente, pur considerandolo uno scrittore di livello molto interessante, l’ha sempre lasciato in disparte. Troppo africano e troppo poco occidentale. Ma forse proprio per questo a me più gradito. Devo dire infatti che mi ci ero accostato un po’ dubbioso. Seppur non facile, alla fine, la ritengo una lettura fondamentale per capire il continente ad un passo da noi.

Elias Canetti “Autodafé” Adelphi euro 15

[tramato il 19 luglio 2020]

Primo e unico romanzo pubblicato dal premio Nobel bulgaro naturalizzato inglese che scrive in tedesco. Non un libro facile, per la scrittura, per l’epoca dello scritto e per l’autore stesso. Un intellettuale a tutto tondo, sodale di tanti circoli importanti, che legherà la sua vita e la sua opera alla ricerca di un nesso e di una spiegazione dello stesso che condenserà nel suo libro summa “Massa e potere”. Ma qui parliamo del romanzo ed a lui torniamo.

Uno scritto che vede la sua gestazione tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, quando l’autore, venticinquenne, vive a Vienna, ed entra in contatto con il fecondo mondo degli intellettuali tedeschi, da Schnitzler a Kraus, passando anche per Freud (che però non amava tanto). Che non sia un libro facile lo mostra anche il fatto che dal suo completamento, nel 1931, alla sua pubblicazione passano ben 4 anni. Altro punto nodale per la comprensione del testo stesso è la gestazione del titolo. Che in tedesco suona “Il bagliore” o “L’accecamento” (non ho una conoscenza tale del tedesco da entrare in una traduzione più fine, ma mi attengo a quanto ne ricavo da Wikipedia). Mentre, quando comincia ad essere tradotto all’estero, lo stesso Canetti chiede venga utilizzato il titolo con cui lo conosciamo. Titolo derivato dai processi dell’inquisizione, dove l’accusato, se riconosciuto colpevole, veniva condannato in generale al rogo, consentendogli una dichiarazione finale, che in spagnolo si chiamava “acto de fé”, cioè “atto di fede”, e che passando per il portoghese da “acto” ad “auto”, arriva all’attuale dizione di “autodafé”.

È sempre Canetti che ci permette anche, nella sua nota finale, di capire meglio il romanzo stesso. In realtà Canetti aveva l’idea ambiziosa di scrivere otto romanzi sul tema di una rappresentazione grottesca ed ironica del mondo, e del momento di crisi che stava attraversando. Otto romanzi che poi condensa in questo, facendo confluire più voci nel flusso narrativo. Non entro nel merito se questo abbia appesantito il romanzo stesso. Certo, visto così come viene terminato, se ne risaltano i rimandi alle grandi opere dei russi ottocenteschi (che non a caso ho sempre avuto difficoltà a leggere), da Nikolaj Gogol' a Fëdor Dostoevskij.

Per parte mia, devo dire che ho apprezzato e seguito con piacere la prima parte, o meglio, le prime cento pagine, in cui vediamo delinearsi la personalità e la vita del sinologo ed intellettuale Peter Kien (il cognome in tedesco vuol dire “legno resinoso”, ed anche questo ha un senso). Ed in modo analogo e in un certo senso reciproco, la parte finale, nel rapporto tra Peter ed il fratello Georg, dove esce fuori da un lato l’embrione del pensiero che segnerà tutta la vita di Canetti, quel rapporto tra massa e potere di cui porto una citazione in fondo. Dall’altro i discorsi eruditi e trasversali nelle varie materie, che saranno anch’essi l’ossatura del suo pensiero, come l’antropologia, la sociologia, la mitologia, l’etologia, la storia delle religioni. Quest’ultima accennata in una serie di dotte citazioni tra Confucio, Buddha, testi talmudici e religiosi.

Di converso, tutte le 400 pagine intermedie mi sono state di difficile lettura, tanto che ne ho letto anche con insofferenza, cosa a me non molto usuale.

La storia, in sé, è in realtà un apologo abbastanza poco mascherato. Seguiamo l’ascesa e la caduta del protagonista, Peter, letterato, autore di saggi che magari non pubblica che nessuno li capirebbe, tanto sono elevati. Ci sarebbero tanti piccoli avvenimenti che in un saggio aulico andrebbero analizzati, ma qui si va di grandi linee. Il secondo libro che si intreccia con Peter è la storia di Thérese, che inizia da governante ed amante dei libri (almeno formalmente), per poi trovare il modo di farsi sposare, ed iniziare una carriera da “femme fatale”. Prima, mossa dopo mossa, relega il povero Peter in una delle quattro stanze originarie. Poi lo mette alle strette per cercare di estorcergli un testamento a suo favore, e quindi lo caccia di casa. Dopo un periodo di assestamento, pensa bene di circuire il portiere dello stabile, di utilizzarlo per vendere la biblioteca enorme di Peter a poco a poco al Monte di Pietà. Ma lì trova, o ritrova, Peter, che riprende il suo posto nel palazzo, ma non nella casa. Sostituendosi al portiere che lo sostituisce nel letto matrimoniale. Fino a che il fratello Georg viene da Parigi, lo libera, e caccia Thérese e il portiere. Il fratello era venuto da Parigi a seguito di un telegramma inviato dal nano Fischerle (da Fischer à pesce e suffisso vezzeggiativo -le, quindi pesciolino), co-protagonista di tutta la parte centrale libro. Dove Peter, cacciato di casa, va in giro con i suoi libri sulla testa (immagine grottesca del sapere), dormendo in alberghi sordidi, frequentando bar malfamati, dove appunto incontra il nano. Grande appassionato di scacchi, che vuole sfidare l’allora campione del mondo José Raul Capablanca (cosa che quindi colloca la vicenda tra il 1921 ed il 1927, periodo del regno del cubano), ma che è soprattutto autore di raggiri, e legato ad una grassa prostituta. Per uno strano senso di solidarietà intellettuale, il nano decide di prendersi cura di Peter. Un po’ lo aiuta, un po’ lo raggira, per avere i soldi con cui andare in Americas, che otterrà come soldi ma che poco gli serviranno. A parte il ruolo da quasi chaperon che consente a Fischerle di far rincontrare Thérese e Peter, sono duecento pagine inutili.

Come detto sopra, tuttavia, il nano ha il pregio di far intervenire Georg, che libera Peter, che caccia Thérese e il portiere (quindi ecco che dopo la storia di Peter, la storia di Thérese, con il nano, la governante e il fratello abbiamo almeno cinque delle otto storie di Elias). La fine sarà come da copione già spiegata nel titolo. Peter, intellettuale e poco legato alla realtà, dalla realtà uscirà sconvolto, senza punti di orientamenti, tanto che si immaginerà cose che non esistono, e finirà come Sansone, dove i libri saranno i suoi filistei (che per chi ha percorso quei luoghi sa bene essere l’antico nome degli attuali philistin, cioè palestinesi).

Un appunto di “storia e preveggenza”: nel 1972 divenne campione mondiale di scacchi Bobby … Fischer, come il nano di Canetti. Per tornare al libro, forse ha ragione la lunga citazione autoreferenziale: i romanzi scritti come questo di Canetti andrebbero proibiti. In tutte e quasi le seicento pagine, rimangono solo gli appunti sull’amore per i libri, sulle citazioni incrociate, nonché tutta una parte misogina sulle attività femminili nei secoli, di cui non è chiaro l’intento ironico. Io, al fine, preferisco il Canetti autobiografico, e tutt’al più descrittivo come nel bellissimo “Le voci di Marrakech”. Confesso che ho dei dubbi se e quando leggerò il volume sulla nascita della massa, sulla sua psicologia, sull’influenza per l’ottenimento ed il mantenimento del potere.

Magari in questo potrebbe aiutarmi il mio amico Pietro.

“Quanto a lui, possedeva la più importante biblioteca privata di quella grande città.” (15)

“Il piacere che … offrono [i romanzi] lo si paga a carissimo prezzo: essi finiscono per guastare anche il carattere più solido. Ci si abitua ad immedesimarsi in chicchessia. Si prende gusto al continuo mutare delle situazioni. Ci s’identifica con i personaggi che piacciono di più. Si arriva a capire qualunque atteggiamento. Ci si lascia guidare docilmente verso le mete altrui e per lungo tempo si perdono di vista le proprie. I romanzi sono dei cunei che un attore con la penna in mano insinua nella compatta personalità dei suoi lettori. Quanto più precisamente egli saprà calcolare la forza di penetrazione del cuneo e la resistenza che gli verrà opposta, tanto più ampia sarà la spaccatura che rimarrà nella personalità del lettore. I romanzi dovrebbero essere proibiti per legge.” (48)

“Di una sola scoperta … menava vanto … l’azione della massa nella storia e nella vita dell’individuo, il suo influsso su certi mutamenti dello spirito.” (470)

Michel Faber “Sotto la pelle” Einaudi euro 13,50 (in realtà, scontato a 3 euro presso il “Mercatino di San Giovanni”)

[tramato il 27 ottobre 2019]

Ci sono momenti in cui mi capita la lettura di una serie di libri che non mi soddisfano, e che porto a compimento solo per parlarne (male) con voi. Sperando, magari, che la vostra percezione, se li avete letti, sia diversa dalla mia, e mi possiate convincere che no, ne vale va la pena, era un libro non dico capolavoro, ma con almeno dei punti di interesse.

Peccato allora mi sia capitato in un momento poco propizio questo libro dell’olandese-australiano-scozzese Faber. Di cui avevo letto, e con interesse quello che viene considerato il suo libro migliore (“Il petalo cremisi ed il bianco”), seppur ne avevo letto una decina di anni fa. Girovagando in attesa di Alessandra presso il Mercatino, ho invece scovato questa copia in ottimo stato del suo primo libro. Beh, prendiamolo, che prima o poi si legge. Purtroppo, si legge e si esce dalla lettura dicendo: ma cosa diavolo ha scritto?

Una storia in cui vediamo una bella donna, Isserley, andare su e giù per le campagne scozzesi, prendere ogni tanto degli autostoppisti, e far loro una specie di terzo grado. Chiede la provenienza, la famiglia, se c’è qualcuno che li attende, poi com’è la loro vita, qualcuno che possa notare la loro scomparsa. Dopo l’interrogatorio, se si ritiene soddisfatta, li droga e li rapisce. Dopo aver subito un inizio spaesante, quasi fossimo sulle soglie di un giallo, Faber ci porta con un salto mortale in un racconto di Arthur C. Clarke (quello di 2001 per chi non fosse fantascientifico).

Perché Isserley è sì bella, ma anche un po’ strana. Ha una scollatura profondissima, ma vestita con abbinamenti improbabili. Certo gli autostoppisti sono perplessi, che al posto di Isserley non avrebbero preso nessuno. Ma qui si scopre il mistero: Isserley è un’aliena con il corpo modificato per sembrare una donna attraente in modo da poter svolgere bene il suo lavoro di rapitrice. C’è tutta una banda di alieni che si è trasferita sulla Terra, in quella fattoria scozzese, ma solo lei ed il suo capo, che deve andare in giro, hanno il corpo modificato. Questa banda aliena, in realtà, seppur evoluta, viene da una razza quadrupede, vagamente canina. Nel pianeta natale, il cibo comincia a scarseggiare, ed allora, per rifornirsi di proteine, i quadrupedi prendono gli umani, li mutilano, li mettono all’ingrasso, e, una volta bistecchizzati, vengono spediti al pianeta d’origine.

Tutta la storia, in sé, si trascina ripetitivamente su questo filone. Isserley va in giro, c’è la storia con l’autostoppista, a volte liscia, a volte con qualche problema, che magari l’incauto passeggero vorrebbe fare delle avances alla bella guidatrice, ma alla fine questo viene drogato e portato nella fattoria. Isserley ha qualche pensiero di ribellione, a questa routine immutabile da troppo tempo, anche perché soffre spesso di dolori articolari (d’altra parte ha subito modifiche profonde).

Ci sono poi due crepe, nella banale routine. Viene il figlio del capo dallo spazio, che incautamente libera degli autostoppisti, che però vengono presto presi, e subito uccisi. La polizia, inoltre, comincia a domandarsi, anche se i rapiti sono pochi, dove finisca la gente. Il tutto porterà ad un collasso, anche perché Isserley ha dei problemi con la macchina, forse ha un incidente. Mentre arriva la polizia deve solo decidere se farsi curare o far saltare tutto in aria.

Questa storia bislacca, che si legge fino alla fine senza troppa partecipazione, nella mente “politica” dell’autore, probabilmente doveva servire ad innescare appunto problemi politici: l’identità e l’autonomia corporea, sessismo e genere, rapporto uomo – animale da macello. Sul primo tema, ci si domanda quanto il corpo governi il modo di essere, la vita nostra. Se quindi ci possa essere una corrispondenza tra corpo e identità percepita.

Il secondo tema riguarda l’esterno. Isserley è vista come una donna, ed allora Faber si chiede: è possibile diventare donna? Una domanda che molti di genere incerto si domandano, senza, io credo, una risposta certa. Infine, c’è l’orrore della mutilazione e dell’ingrasso. Se i bovini fossero senzienti (o i maiali o le oche o qualsiasi animale allevato in attività), come reagirebbero al fatto di diventare carne da macello? Quello che fa la razza di Isserley agli uomini non è altro quello che noi facciamo alle vacche. Ma se Isserley ed i suoi ci indignano, quanto ci manca per diventare vegetariani?

Il libro alla fine pone molte domande, e Faber evita accuratamente di fornire una sola risposta diretta. Ma la sua lettura è faticosa, non si empatizza né con Isserley né con gli umani. Si arriva in fondo a fatica e si spera di leggere qualcosa di meglio nel futuro. Come direbbe un critico migliore di me, “un libro serenamente evitabile”.

Gregory David Roberts “Shantaram” Abacus euro 8,75

[tramato il 29 marzo 2020]

Ne avevo sentito tanto parlare, magnificare, fare dotte discussioni, che prima o poi dovevo senz’altro leggerlo. Capita così che in febbraio (2019) mi reco nell’India del Sud per fare un giro guidato dalla solerte Patrizia. Capita inoltre che ci si fermi nel rilassante centro di Varkala, nel Kerala. Una mega spiaggia con faraglione prospicente dove si affacciano bungalow e ristoranti, nonché bancarelle ed altro. Due giorni di grande riposo e pace, dove, girando tra i banchi, ti vedo proprio questo “uomo della pace” (questo il significato di “Shantaram” in lingua Marathi, la lingua di Mumbai). Mi sembra un’ottima congiuntura.

Ora, dopo sette mesi di attesa, ne leggo, con molta fatica. E sebbene si riesca (ma solo nella prima parte) a tornare con la mente e lo spirito alla mia amata India, alla fine, devo riconoscere che l’autore ed il libro sono largamente sopravvalutati. Certo, un discreto fascino è dato dal fatto che, seppur con trasfigurazioni varie, il libro è fortemente autobiografico. Perché in effetti, l’autore, australiano, ha realmente avuto una giovinezza anarcoide, per poi passare, dopo la fine del suo matrimonio, verso un atteggiamento pseudo-rivoluzionario alla “Cesare Battisti” (l’attuale, non l’irredentista), dove, seppur senza spargimenti di sangue, si occupa di furti e droghe, finendo arrestato. Riesce a fuggire sia dalla prigione che dall’Australia, finendo nell’India che ci racconta. Dopo la fine del libro, Roberts intorno al ’90 (a quasi 40 anni) viene arrestato in Germania, decide di scontare la pena australiana, in carcere scrive questo romanzone, e nel 2003, libero da pene giudiziarie, lo pubblica con successo.

Dicevo, la prima parte è coinvolgente. Ci porta a Mumbai, facendocene riscoprire le bellezze intime. Ma anche le degradazioni infime. Mi ero quasi emozionato all’inizio, ripensando al mio primo sbarco a Bombay, alla visione della Porta delle Indie e del Taj Mahal Hotel. Ma anche alle passeggiate nelle stradine tra Victoria Terminal ed il porto, i ristorantini con le loro spezie, ed il giorno di monsone che subii. Il nostro fuggiasco, un po’ per non mescolarsi troppo con gli occidentali, giustamente temendo possibili tradimenti, si accompagna con più trasporto con i locali. Sia gli indiani indù, con il simpaticissimo Prabaker (il Prabu che diventerà suo mentore ed amico) sia con i mussulmani, anche se all’inizio c’è del timore nell’approccio. Timore che viene fugato dalla visione della bellissima Karla, un’americana fuggita dagli States per qualche motivo oscuro (che scopriremo alla fine), che per Gregory, che si fa chiamare Linley, subito abbreviato in Lin, è la donna più bella che abbia visto, e di cui si innamora, e rimarrà innamorato nonostante tutto.

Ed è altrettanto bello e coinvolgente il racconto della sua calata negli slum, nella parte povera della città, dove si vive di niente e per niente si muore. Dotato comunque di grande vivacità e capacità espressive, ha il dono di imparare presto i vari dialetti locali. Sia di hindi che di urdu ne mastica ben presto. Ma soprattutto, con Prabu impara il Marathi, la lingua di Mumbai. Lingua che gli aprirà molte porte chiuse ai forestieri. Lì nello slum, con quanto appreso in carcere, ed altre piccole nozioni, mette su una specie di dispensario per i poveri, che per due-tre anni cura vivendo con loro del poco che hanno.

Poi cominciano le svolte. Il capo mafia locale, un profugo afghano di grande cultura ed esperienza, lo prende a ben volere, lo convince ad uscire dallo slum, lo riporta nel “gran mondo”. Qui comincia la seconda, lunga parte che realmente, alla fine, è stancante e poco coinvolgente. Assistiamo a tutte le vicissitudini del mondo fuori le regole indiano, ma non solo. Cambio nero, vendita di passaporti contraffatti ed altre azioni non proprio regolari. Il suo nuovo mentore Khader, però, non si mescola mai né con la prostituzione né con la droga. Roberts ricalca un po’ ricamando la rettitudine del suo passato banditesco. Era infatti noto in patria come il bandito gentiluomo, che salutava prima e dopo le rapine, che rubava ad istituti di credito che avevano grosse assicurazioni a copertura dei furti, ed altre galanterie. Tanto che si vanta di non aver mai ucciso nessuno.

Qui, è tutto un fiorire di nuovi personaggi, europei e mussulmani, i primi che si riuniscono al Leopold’s bar, con intrecci di vita complicati e poco coinvolgenti. Mi rimane in mente solo il simpatico Didier, un gay francese che vivacchia facendo da intermediario: non si sporca le mani, ma sa a chi chiedere, e ci fa il suo margine. Ci sono belle donne (Ulla, Lisa ed altre). Poi c’è la mafia di Khader, dove il nostro Lin riesce ad arrivare in posizioni preminenti, soprattutto nelle forniture di passaporti falsi. Tanto che il capo mafia decide di portarlo con sé nella terza parte del libro. Dedicata alla missione di Khader in Afghanistan a supporto dei mujaheddin contro gli invasori sovietici. Una parte di una pallosità stratosferica. Dove ci sono tradimenti a tutto spiano, voltafaccia, persone che appaiono e scompaiono.

Poi, nel ritorno a casa, Khader muore, e nell’ultima parte vediamo le lotte tra le varie fazioni. Ma anche tutte le agnizioni di Lin sui vari personaggi incontrati lungo le 900 pagine. Capiamo finalmente chi ha fatto cosa, e perché. E capiamo perché, alla fine, Lin (al contrario di Gregory) decida di tornare dai suoi amici indù e nello slum che aveva visto tutta la sua parte di serenità all’inizio di questa avventura.

Ripeto, sarà la faticosità dell’inglese, ma la prima parte (l’arrivo, la conoscenza di Mumbai ed il dispensario nello slum) è bella ed avrebbe meritato un bel voto. Finendo lì ci sarebbe stato, anche se non integralmente, un ripasso della “Città della gioia”, con una bella storia dietro. Tutte le altre 650 pagine si trascinano stancamente. E sebbene si sia curiosi di capire perché e se Lin e Karla finiscano o non finiscano insieme, questa curiosità non giustifica tutta la lettura. A me rimane il senso dell’India, delle mie passeggiate, solo o con Alessandra, tra il Taj Mahal e le piccole taverne. Aspettando di tornare ancora laggiù.

“In matters of food I am French, in matters of love I am Italian, and in matters of business I am Swiss.” [Per il cibo sono francese, per l’amore sono italiano e per gli affari sono svizzero] (49)

“A friend is anyone you don’t despise.” [Un amico è chiunque tu non disprezzi] (58)

“One of the reasons why we crave love, and seek it so desperately, is that love is the only cure for loneliness, and shame, and sorrow.” [Uno dei motivi per cui bramiamo l'amore, e lo cerchiamo così disperatamente, è che l'amore è l'unica cura per la solitudine, la vergogna e il dolore] (124)

“I sometimes think that the size of our happiness is inversely proportional to the size of our house.” [A volte penso che la dimensione della nostra felicità sia inversamente proporzionale alla dimensione della nostra casa] (244)

Conclusioni

Non torno sui vegetariani (e se volete ridere invece che essere troppo pensosi, meglio “Ho sposato una vegana” di Brizzi), e neanche sull’India, che sarei troppo triste. Per l’età, ripeto e sottolineo, non è certo una malattia da cura, ma una cura per la nostra vita.