domenica 27 gennaio 2013

Investigando - 27 gennaio 2013


Tra Milano e Roma, ma fermandoci con piacere in Toscana. Altre trame italiane, di autori vecchi e nuovi. Di pronta lettura, come si dice di vini buoni anche se non di corpo. E rovesciando l’inveterata abitudine di cominciare dai vini più leggeri, cominciamo invece con il testo più riuscito, quello che ci riporta nella pineta versiliana, a far tifo per i vecchietti del BarLume e del suo proprietario Massimo (con una chicca sul caffè che vi lascio gustare goccia a goccia). Poi, purtroppo, caliamo. Sia con lo stesso Malvaldi, in una vicenda che poco avvince, sia con il giornalista Foschi (anche se il commissario Attila mi sta simpatico), per risalire un po’ nella vicenda imbastita da Grazia Verasani per il detective Giorgia.
Marco Malvaldi “La carta più alta” Sellerio euro 13 (in realtà, scontato 9,75 euro)
[A: 19/01/2012 – I: 01/11/2012 – T: 03/11/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 198; anno: 2012]
Ho già detto e ripetuto che trovo i romanzi di Malvaldi gradevoli e con una serie di elementi che me li rendono cari. L’autore, simpatico chimico pisano. Il protagonista, barrista (come ci tiene a sottolineare) nonché matematico mancato, ma per scelta. Il coro dei vecchietti, contraltari di Massimo e sempre pronti a dargli una mano (in genere per farlo cadere). La location (come dicono gli sceneggiatori), quella Pineta in quel della Versilia che ognuno si immagina dove vuole, ma che comunque non dista mai troppo da Forte dei Marmi. Nonché, appunto, alcuni particolari, posti qua e là, che forse ai più non dicono, ma che a me suscitano risonanze varie. Come in questo caso (del romanzo poi se ne parla più in là), l’accenno al Kopi Luwak, il più costoso caffè al mondo. Per chi non lo conoscesse è un tipo di caffè prodotto in Indonesia con le bacche di caffè, ingerite, parzialmente digerite e defecate dallo zibetto delle palme. Io l’ho assaggiato in uno strano bar di Bruxelles, che ha praticamente tutte le miscele prodotte al mondo. In effetti, ha un gusto particolarmente morbido ed accattivante (anche se si vende a prezzi esorbitanti, lì ad esempio a 9 euro la tazzina). Malvaldi ne fa un accenno, ed a me suonano le campane del ricordo. Ma veniamo ora al romanzo. La storia è abbastanza semplice, anche se il nostro buon chimico riesce ad imbastirla bene. Ora vi ricordo che ci sono i famosi “anziani” dediti alle briscole al bar. Tra questi Aldo, il ristoratore cui bruciò il locale ed è in cerca di nuove sistemazioni. Vorrebbe accettare l’offerta del Foresti ma vuole notizie sull’affidabilità del posto. Posto ottenuto a prezzi stracciati da tal Carratori, poco dopo morto. Si attiva quindi la ricerca delle cause di tale morte, tra l’altro avvenuta una ventina di anni prima. E come in un cold case di televisiva memoria, si accumulano indizi. Si trova uno strano suicidio del dottore che aveva in cura il Carratori. Che muore sembra per un tumore. Poi si scopre che il tumore non c’era, ma che veniva curato con pesanti chemioterapie che ne hanno causata un’intossicazione chimica. E qui esce fuori il lato “chimico” del nostro scrittore. Che, in effetti, per la soluzione al problema usa tutte le armi del chimico. Ma non è poi quello ciò che intriga. Sì, è interessante il percorso che Massimo il barrista fa, ma anche l’indotto: la storia della famiglia Carratori che si intreccia con quella della Pineta. Le storie parallele ed intersecantesi: il commissario Fusco, l’incidente di Massimo, l’incontro con il simpatico ortopedico Cesare, la villetta bifamiliare con odore di fritto, il ritorno della bella Tiziana. Nonché, sempre, i vecchi giocatori. Nonno Ampelio e le sue letture (da non dimenticare l’Ecclesiaste tradotto da De Luca e lo stesso sentimento che sembra provare Malvaldi rispetto alla scrittura di Erri: scrittura difficile e da interpretare). Il Remediotti e il Del Tacca, e le loro partite a briscola. Il rifiuto di Massimo di servire cappuccini il pomeriggio (deontologia professionale del bar). Tra briscole, biliardi, discussioni ed agnizioni, si scorrono via via tutte le possibili soluzioni, per arrivare a quella giusta. Ma, ripeto, è tutto l’insieme quello che dà tono al romanzo. Insomma uno zibaldone pieno di spunti (e rimando sopra a quelli sul caffè indonesiano), scorrevole. Aspettiamo allora che i romanzi del BarLume si convertano presto in una serie televisiva (ne hanno tutte le caratteristiche positive). Ed aspettiamo anche l’ultimo romanzo in uscita in questi giorni di inizio novembre.
Marco Malvaldi “Milioni di milioni” Sellerio euro 13 (in realtà, scontato 11,05 euro)
[A: 01/11/2012 – I: 07/11/2012 – T: 09/11/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 196; anno: 2012]
Peccato. Una buona occasione un po’ sprecata che meritava qualcosa di meglio. Intanto, avendo visto l’avviso di uscita da Feltrinelli, l’ho comperato a scatola chiusa (come tutti i libri di Malvaldi sino ad ora). Purtroppo, non come speravo ed auguravo qualche riga sopra, non è una storia di Massimo Viviani e del BarLume. Sempre storia contornata di giallo, come le sue migliori, ma anche come l’unica finora senza i vecchietti a me cari (quella che per protagonista vede nientemeno che il Pellegrino Artusi). Sempre con battute o momenti che suscitano sorrisi ed ironiche riflessioni. Ma senza il BarLume c’è poco barlume (che finezza di scrittura, eh amici!). Qui si cerca di fare una qualche riflessione su qualche tema come dire “laterale” seppur presente nella cosmogonia di Malvaldi. Intanto la sempre presente, seppur latente, riflessioni tra scientifico e letterario. Qui cristallizzati nelle due figure centrali di ricercatori sul campo: Piergiorgio, genetista appassionato di Mendel, e Margherita, genealogista e filologa. Si incontrano – scontrano quando vanno appunto a fare una ricerca sull’origine della forza delle persone originarie nel piccolo paese immaginario di Montesodi Marittimo (apro una doverosa parentesi, di pubblicità trasversale: il paese in quanto Marittimo non esiste, ma esiste Montesodi ed è una riserva chiantistica della famiglia Frescobaldi, e ci si domanda perché ci sia il marchio del Chianti Gallo Nero in copertina, quando in tutto il romanzo il vino c’entra solo perché si fanno cene pantagrueliche, ma non ha nessun ruolo, neanche lontanamente marginale; forse i “milioni di milioni” del titolo sono anche parte degli euro di sponsorizzazione?). Piergiorgio fa ricerca sul DNA delle persone ed in parallelo Margherita cerca di rintracciare le vie di trasmigrazioni familiari attraverso l’archivio parrocchiale. In un piccolo paese, una piccola scintilla come questa genera subito discussioni ed ipotesi. Si vedono persone fisiognomicamente simili far parte di famiglie diverse. C’è poco per far accendere un fuoco. Aggiungendo a tutto, la presenza di un aitante prete di colore, di un sindaco tentato dalla carriera verso Roma, con moglie anelante alla fuga dall’ostico paese, della di loro domestica, bellina e organista di chiesa sopraffina. Nonché la vecchia maestra, che tutti conosce e che ospita il Piergiorgio. Visto che di giallo si tratta, un dì di tormenta nevosa che blocca il paese e la gente nelle case, viene uccisa l’anziana maestra. Si tratta quasi del famigerato “delitto in una stanza chiusa”. Perché poi tutti i (pochi) colpevoli hanno alibi, isolati e/o incrociati. Dalla presenza contemporanea in luoghi diversi dal delitto, alle certificate malattie, con tanto di medico attestante. L’unico che non ha un alibi è il nostro Piergiorgio, che ben presto viene sospettato dal solerte maresciallo. I due stranieri in Montesodi allora uniscono le forze e con indagini parallele, cominciano ad accumulare indizi. La tenuta di proprietà della maestra. Il figlio che ne vuole fare agriturismo. La concessione che ne vuole dare ad un suo compaesano, guarda caso con figlio di faccia identica a lui, e guarda caso con moglie figlia del maresciallo. La tenuta che il sindaco cacciatore voleva frequentare impedito dal giovane. La moglie del sindaco che lo vuole più deputato che bracconiere. La ragazza di casa invaghitasi del bel prete negro. Insomma tutti hanno un alibi ma tutti (sembra) abbiano interesse alla morte della maestra. I nostri smonteranno alibi fasulli e faranno una non ovvia luce su tutto. Sia sulla morte. E sia sulla genesi della forza paesana. Ci si aspettava di più nei rapporti tra i due, che non oltrepassano mai il livello di fantasia. Purtroppo senza spiegarne i motivi. Piergiorgio troppo timido? Margherita già impegnata? Tutte domande su cui il nostro autore sfortunatamente glissa. Lasciandoci un romanzetto dal sapore allegro, di facile lettura, senza che però ne rimanga troppa traccia nei nostri cuori. Tornando alle metafore vitivinicole, è come un rosso giovane di una tenuta antica. Prometterebbe belle bevute lasciandolo sapientemente invecchiare. Invece lo beviamo così, appena spillato. Un po’ di euforia vien fuori. Ma passa presto. Caro Marco, spero si torni presto in pineta! 
“La gente sono persone … Smetta di dire ‘la gente’. Dica ‘le persone’. Può sembrare una questione dialettica, ma non lo è. … La gente è stupida, le persone ragionano. La gente è indifferente, le persone ti aiutano. Oppure ti affogano, ma comunque interagiscono. Finché uno riesce a pensare agli altri come persone, a vederle come persone, riesce a non rimanere indifferente.” (139)
Paolo Foschi “Delitto alle Olimpiadi” E/O euro 14
[A: 10/11/2012 – I: 19/11/2012 – T: 20/11/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 169; anno: 2012]
Ancora un giornalista prestato alla scrittura ed in particolare gialla. Siamo sul versante del Corriere della Sera, ed il nostro giovane (sui quarantacinque) autore non ha (ancora) né il successo né il battage dei suoi colleghi di Repubblica (vedi ad esempio Colaprico su tutti, e Massimo Lugli in buona posizione). Sarà inoltre che scrive da poco (mi risultano due libri usciti), quindi ancora con della strada davanti. Una strada comunque che mi sembra possa essere interessante (stavo per dire in discesa, data la tematica affrontata). Foschi è un figlio dei tempi moderni, quindi niente commissari all’antica, o indagini fuori dai ranghi. Qui abbiamo un saldo ispettore di polizia, dal nome accattivante, Igor Attila. Per ribellione alla famiglia benestante, prima si dedica al pugilato, conquistando la medaglia d’argento alle Olimpiadi di Seul (ma doveva essere d’oro, che hanno fatto vincere un coreano; vicenda che prende in controluce lo scontro tra l’italiano Vincenzo Nardiello ed il coreano Park Si-Hun, dove il coreano fu scandalosamente fatto vincere), poi, presa la laurea in legge, invece di lavorare nello studio paterno, si arruola in Polizia. Dove, per una serie di circostanze strambe (all’italiana, direi), si trova alla guida di un reparto, Polizia Sportiva. Reparto simpatico, dove conosciamo i vari personaggi tutti ex-sportivi o para-sportivi. Che viene messo da parte in quanto le inchieste sul doping sembrano essere troppo scottanti. Il nostro Igor (che sta macerandosi nell’ultima delusione amorosa, e che ritorna periodicamente sui suoi tre amori: la moto, la chitarra, e le canzoni italiane, di cui canticchia ritornelli ad ogni piè sospinto) viene all’improvviso rimesso in pista, alla vigilia delle Olimpiadi di Londra, per la morte della bella Marinella, campionessa italiana e speranza dell’ostacolismo nostrano. Ed ovviamente anche i sospettati fanno parte degli olimpionici. In particolare i due “amanti” di Marinella, il precedente Antonio e l’attuale Francesco. Un tempo amici, ora decisamente in rotta. Anche se entrambi gareggiano negli 800 metri e con probabilità di successo, secondo il nostro autore (ora anche qui, il Foschi fa una bella forzatura, dato che un bianco europeo non gareggia a livelli di eccellenza mondiale nel doppio giro di pista da almeno 10 anni). I due sono abbastanza antipatici nel loro complesso e potrebbero aver commesso il fatto. Ma non ci sono (ancora) circostanze che incastrano. Si sviluppano storie parallele (il mondo intorno al commissariato che sta a piazza Vittorio, la solidarietà tra i poliziotti ex-sportivi, ma anche le loro rivalità, l’arrivo di una simpatica ispettrice che scombussola qualche ispettore, la storia d’amore che tritura il morale del nostro Igor, i rapporti con i superiori, e via discorrendo). Non ultima la trasferta di Attila a Londra al seguito della squadra, dove, se da un lato proverà i rinnovati dolori dell’immotivata sconfitta di 24 anni prima, dall’altra troverà il bandolo della matassa, tra doping e rancori. Ed avrà modo di riservarci anche una sorpresa finale, che dà un ulteriore tocco di simpatia al personaggio. Per questo attendiamo l’uscita di un nuovo episodio (che so dovrebbe essere forse già in libreria). E sottolineiamo la scorrevolezza dello scritto, dove le capacità giornalistiche sono un aiuto e non un freno allo scorrere della storia. O forse dovremo dire il contrario, se avessimo l’opportunità di leggere i suoi articoli. Perché quelli di Colaprico li leggo e sono piacevoli come i suoi scritti.
“Il [suo]dono naturale era il senso dell’orientamento. Poi qualche stronzo aveva inventato i navigatori satellitari. E il suo dono si era svalutato in un giorno del cento percento.” (101)
Grazia Verasani “Cosa sai della notte” Feltrinelli euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[A: 01/11/2012 – I: 16/12/2012 – T: 18/12/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 221; anno: 2011]
Direi di saltare a piè pari gli infausti commenti che ci rifila la quarta di copertina (Cantini vs Scarpetta? Ma siamo seri), e stendiamo un velo pietoso sulla commercializzazione del marchio FOX tramite Feltrinelli (operazione di mercato, per consentire anche un battage ai film-action basati sulle sue storie). Fatti questi due imprescindibili distinguo, direi che la nuova storia della simpatica emiliana si mantiene sui caratteri di gradevolezza anche se non di stravolgente intensità. Sempre discretamente piena di buone idee, anche allargando la ristretta sfera del filone di indagine, a volte (e questo è uno di questi casi) l’indagine stessa è prevedibilmente portata verso conclusioni già ipotizzabili. Qui, la nostra investigatrice è alle prese con un cold case di ingarbugliate origini. La morte di un giovane omosessuale avvenuta tre anni prima, di cui la sorella non riesce a darsi pace. Narrando quindi delle ricerche a ritroso della nostra investigatrice, Grazia Verasani ci racconta qualche settimana della vita emiliana dei nostri eroi. A parte le indagini, su cui si tornerà, c’è la sua segretaria, entrata nel gruppo all’ultimo romanzo, la giovane Genzianella detta Gen, volenterosa ed onnivora lettrice (citazione doverosa, che legge un libro di Giartosio mentre io ne ho appena letto l’ultimo), nonché contraltare in giovane età della disincantata Cantini. Salutiamo Lucio che ormai si è trasferito lontano. E in sottordine seguiamo le alterne vicende del possibile ma improbabile o futuribile amore tra la nostra investigatrice e l’ispettore di polizia, nonché sposato, Bruni, che si attraggono e si respingono già dal precedente libro. Qui la storia si intensifica, e forse si smuoverà dalle sabbie mobili in cui si è impantanata. Comunque, il fulcro della vicenda è la ricostruzione della personalità e delle gesta di Oliver, gay allegro trovato morto e pestato a sangue in una discarica bolognese. La Cantini comincia a ricostruire le mosse e le frequentazioni, e molto dell’ambiente gay emiliano, tra Bologna e Ferrara (che da lì, bassanamente muovevasi il buon Oliver). Conosciamo gli amici di Oliver, alcuni gay spagnoli, due simpatiche lesbiche bolognesi. Veniamo anche noi irretiti dal padrone di casa di Oliver, Simone l’attore ormai fallito, dotato di grande carisma, ma rovinato dalla droga, ed ora, a detta di tutti i conoscenti di Oliver, “uno stronzo”. Andiamo con Giorgia a Ferrara per conoscere l’amico di gioventù, Mario, uno dei pochi non gay della vicenda. E poi gli attori della fatiscente scuola di recitazione, da dove Oliver cercava di far sbocciare un talento che non aveva. Veniamo coinvolti mentalmente nelle sarabande notturne in cerca di corpi e di sesso, senza mai riuscire (o molto raramente) a trovare l’amore. E cominciamo a farci un’idea di questo ragazzo, generoso fino all’altruismo, ma senza mezzi ed affamato di amore. Che si dava per una carezza. Ma che alla fine si innamora, non ricambiato, del tenebroso Simone. E nelle sarabande notturne incappa anche nel cognato, omofobo all’ennesima potenza, che però rimorchia vagonate di giovani squinzie, utilizzando un appartamento bolognese ad Oliver destinato. Ed avviandoci verso il finale abbiamo queste strade da imboccare, ondivagando tra la freddezza e lo sfruttamento del bel Simone e le paure del cognato Cesare. Grazia Verasani conduce bene la danza verso il finale, che per ragioni ovvie passo sotto silenzio. Facendo solo rimarcare che la nostra rimane sempre fedele alla sua etica di fondo, che rimane anche la mia. Dove il più grande peccato è la mancanza di rispetto verso l’altro. Aspettiamo la prossima inchiesta, Giorgia Cantini!
“Sono stanca di gente che finge.” (91)
“Un’attrice straordinaria… Ma poi è caduta come altri nell’equivoco di scambiare l’ammirazione per una forma d’amore … Pensi che dare l’anima basti a farti sentire felice, ma dopo gli applausi la gente torna alla sua vita e tu cominci a chiederti dov’è la tua.” (129)
Grande rullo di tamburi, e settimana che inizia all’insegna di grandi impegni. Questa volta non di lavoro (per fortuna) né di viaggi (purtroppo), ma di casa. Sì perché il vostro tramatore ha deciso di metter mano a qualche (necessario) lavoro di rifacimento (l’arte della manutenzione rimane sempre un mistero). E non sappiamo ancora come ci si riuscirà ad organizzare con comunicazioni e computer. Vedremo. 

domenica 20 gennaio 2013

Viaggi italiani - 20 gennaio 2013


Tutti sanno che essendo un viaggiatore viaggiante (come direbbe Fossati) non solo adoro viaggiare ma anche parlarne e leggerne. E visto che la nostra Italia è tuttora (e speriamo ancora) un Bel Paese, non perdo l’occasione di leggerne, riuscendo ad infilare qui quattro libri degni di lettura. Due città e due regioni. Una Roma vista percorrendola a piedi (e dove mi ritrovo a guardare i posti che so e che rivedo ad ogni descrizione) ed una Torino descritta a mo’ di casa (e sebbene la conosca meno, la segue e ne capisco). E poi la Romagna, sul cui confine ormai spesso mi ritrovo in questi ultimi anni. Ed il Sud Tirolo, che mi riporta amicizie attuali e ricordi lontani (e mi ha ricordo quella bellissima gag che riporto in citazione).
Cristiano Cavina “Romagna mia!” Laterza euro 12
[A: 16/09/2012 – I: 22/09/2012 – T: 26/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 122; anno: 2012]
Intanto, cominciamo con delle scuse a Cavina: sono andato a rileggere la trama che avevo fatto del suo primo libro (“Alla grande” tramato a febbraio del 2011), dove avevo scritto che era Emiliano. No! Anche se Casole Valsenio è quasi a Castel San Pietro, siamo proprio in Romagna. E questo lungo canto d’amore per la sua terra ce ne porta gusti, radici, passati e possibili futuri. Secondo poi un plauso all’ideatore di questa collana di Laterza che continua a rendermi graditi i suoi scritti, a farmi conoscere piccoli e grandi scrittori, ed a farmi viaggiare e viaggiare ancora lungo rotte di questa nostra nonostante tutto bella Italia. O interessante. O comunque ed infine da conoscere. Come dissi altrove e ben volentieri ripeto (si sa gli anziani…), val certo la pena aver visto Timbuctù, ma vale di più se hai visto, prima o dopo, i sassi di Matera. Intanto torniamo a questo “luogo della mente”, a quest’isola non geografica che è la Romagna. Un quadrato, più o meno, tra l’Adriatico e il Falterona, tra Pesaro e Urbino e Ravenna. Cavina, fortunatamente, ci porta poco al mare, ai luoghi consueti, anche se fascinosi, come Riccione e Rimini (tra Barbara e Fellini), perché Romagna e anche (soprattutto?) entro-terra, cinghiali, monticelli, terme e castagne (tra Mariagiovanna e San Marino). Mescolando il tutto con sapienti tocchi auto e biografici. Ci parla di lui e della sua gente (e come non voler bene ad uno il cui nonno si chiama Giovanni e che Giovanni chiama il proprio figlio). Ma anche degli altri romagnoli, famosi o meno. Significativi sempre. Come Natale Zen, il primo morto della Prima Guerra Mondiale. Come Luigi Brighi detto Zaclen (che significa tacchino) l’inventore del liscio ed il padre musicale di Secondo Casadei. O come Gregorio Ricci Curbastro, che ai molti dirà poco, ma che per me è uno dei pilastri di un mio pantheon privato (è l’inventore  del calcolo differenziale assoluto che permise ad Einstein di sistematizzare matematicamente la Teoria della Relatività). Così mi risulta piena di colori e calori, questa scampagnata tra Ravenna (e come scordarsi le pagine di Barbero sull’Impero Romano d’Oriente e le sue appendici ravennati), Forlì e la sua architettura fascistizzante, Imola e i rombi dei suoi motori, su fino al Monte Falterona, tra Firenze ed Arezzo, là dove nasce il Tevere, ed ancora su verso il Monte Titano, che domina la piana digradante verso Rimini e il suo mare. Pieno di quello spirito indomito romagnolo, che fece dire a Mazzini che solo con loro avrebbe fatto l’Italia. Spirito ricco, anche, e contraddittorio, sempre tra Peppone e Don Camillo. Stupende le poche pagine, piene di ironia e frasi giuste, sul crollo della sinistra a Casole Valsenio, dove fino al ’93 aveva comandato con percentuali bulgare (si dice sempre così per un partito che viaggiava sull’80% dei consensi; e a me i bulgari stanno un po’ sui cabasisi). Ma è sempre e comunque pieno di ritratti e di storie. Dello zio Mario detto Tarzan. Della nonna Cristena e delle sue lotte infinite con il nonno Gianì (appunto Giovanni, che, tra l’altro, era l’unico socialdemocratico saragattiano del paese). Per finire anche e senza dimenticarsene, del cibo. Tortellini? Ma non proprio, che si è più verso l’Emilia. Meglio i passatelli. E tutta la scienza culinaria del figlio di Forlimpopoli, tal Pellegrino Artusi. Amici di lettura me lo avevano consigliato, forse enfatizzato un po’. Io l’ho trovato del giusto umore per sorridere un po’. E per ballare, senza timori e vergogne, quel “Romagna mia!”, dedicandolo, non so, alla soubrette di Bellaria (e se non sapete chi è, problemi vostri).
“Niente se ne va mai davvero; tutto gira, e prima o poi torna indietro da te.” (3)
“Non riordino più la mia camera perché quando raduno tutte le cose inutili che la ingolfano, poi scopro di non riuscire a separarmene, che siano vecchi biglietti d’aereo o lacci spaiati di chissà quali scarpe.” (73)
Alessandro Banda “Due mondi e io vengo dall’altro” Laterza euro 12
[A: 30/09/2012 – I: 08/10/2012 – T: 09/10/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 103; anno: 2012]
E non dimentichiamoci del sottotitolo: “Il Sud Tirolo detto anche Alto Adige”. Ma fatta questa premessa, su cui torneremo, il libretto “Contromano” (dal titolo della collana), mi è piaciuto anche se mi aspettavo qualcosa di più. C’è sempre presente ironia, visioni non convenzionali di luoghi e posti, ed altre analoghe caratteristiche tipiche della serie. Tuttavia è anche presente un po’ (e forse anche un po’ di più) dell’autore, e non sempre queste sortite personali hanno l’efficacia di altre analoghe dei precedenti libri della collana. Intanto diciamo che ci collochiamo per la maggior parte del tempo in quel di Merano. Ridente (più o meno) cittadina che ho visitato l’ultima volta in occasione del convegno del trentennale degli amici di Bologna, fine Novembre del 2010. Ed era una Merano in lustro: fioccava la neve, scorreva allegro il Passirio, risuonavano canti e luci dei mercatini di Natale. Banda mi riporta un po’ di tutto questo, passando per due punti fondanti del libro: il rapporto tra tedeschi e italiani e la geografia di Merano. Questa l’ho ben vista, e la condivido appieno. Quelle belle passeggiate lungo il Passirio. Quel giro a mezza costa del paese, che come apprendo da Banda si chiama “Tappeiner”. Ma soprattutto quel primo punto, che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro. Laddove qualcuno parlava di Alto Adige, cioè della zona sopra il grande fiume veneto, ed altri rispondeva con Sud Tirolo (o meglio Suedtirolen) indicando la zona sotto le montuosità ora austriache. Ed in mezzo cresce il giovane Alessandro, capitato in Merano per un’emigrazione decisa dal padre. Da dove cerca di sfuggire con un’onesta laurea in filologia a Padova (e qui ripenso al mio amico Panizza bibliofilo fiorentino) che, gira che ti rigira, l’unica cosa che gli porta è una cattedra di minoranza. Sì perché in questo mondo diviso in due, ci sono le quote da rispettare per salvaguardare le minoranze. Ed il nostro futuro scrittore riesce ad entrare come docente di “italiano come seconda lingua” in un liceo tedesco. E pur tuttavia, molla e vai, sempre lì ritornerai. Ad un rapporto con le lingue. Ad un chiamare le cose ognuna con un nome diverso, a volte simile, a volte completamente altro. C’è Merano – Meran, Terlano – Terlan, poi si passa a Castelrotto - Kastelruth, poi a Bolzano – Bozen, per finire a Isarco – Blumau o Vipiteno – Sterzing. E dai nomi di luogo, alle cose, financo alle persone. Laddove, da buon insegnante, non è spiacevole interrogare qualcuno che di cognome fa Marx o Heidegger. E poi Merano come luogo climatico, dove si va a cercare guarigioni (Kafka, ad esempio). Dove si aggirano poeti e letterati. Qui le parti meno felici, dove Banda si lamenta e si compatisce (certo a ragione) ma un po’ troppo. Dove compare qualche bozzetto poco riuscito nell’ironia e quindi inutilmente lungo (vedi quello di Citati). Per finire con quel forse un po’ troppo lungo capitolo, in cui non fa che lamentarsi di non essere preso in considerazione. Di essere trattato, proprio perché provinciale, come uno che non conti molto. Gli autori di città sono, quantomeno, riconosciuti, anche perché coinvolti sempre in qualche chiacchiera para-televisiva. Gli autori della provincia sembra che debbano sempre ricominciare da zero. Proprio perché ai margini, proprio perché della provincia. Ma non per questo, giocando sul doppio significato, provinciali. Mi verrebbe da rispondergli parafrasando Forrest Gump: “provinciale è chi da provinciale agisce”. Continua a scrivere invece, che lo sai fare, anche bene (e certo meglio di me, che scrivo solo piccoli pezzi, lunghi al massimo una pagina), e non ti preoccupare se qualcuno ti legge, o chi è quel qualcuno che ti legge.
“Strano come s’imprimano nella memoria certi dettagli apparentemente irrilevanti. E come poi vi permangano per anni.” (34)
“[ad un certo punto discetta di un suo amico chiamandolo amico del giaguaro, per poi, dopo quindici pagine, ricordarci l’origine del termine, ripreso da un vecchio sketch di un film di Walter Chiari del ’59:] un tizio racconta da un suo amico che ha intenzione di andare a caccia del giaguaro in Brasile; e con cosa lo vai a cacciare? Gli chiede l’amico. Ma con il fucile! E se il fucile non funziona? Ce ne ho un altro di riserva. E se non funziona nemmeno quello? Ho una pistola. E se s’inceppa? Ho qua un pugnale. E se non lo trovi? Se tu un po’, ma tu, dico, tu, sei amico mio o amico del giaguaro?” (95)
Giuseppe Culicchia “Torino è casa mia” Laterza euro 12 (in realtà, scontato 9 euro)
[A: 24/07/2012 – I: 18/10/2012 – T: 22/10/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 177; anno: 2005-2009]
Un nuovo libro dedicato allo spostamento (nello spazio, nella mente). Mi si ricollega idealmente al primo libro che, ben prima delle trame, lessi di questa benemerita collana. Trattavasi di una descrizione, accorata e partecipata, di una zona del quartiere San Giovanni in Roma (“Senza verso” di Emanuele Trevi). E a chi a Roma vuole bene, ed anche a San Giovanni, è consigliata la lettura. Qui il discorso si allarga, e di molto. Si passa da poche strade di quartiere ad un’intera città. Ed allora dedichiamolo a chi Torino ama, e di Torino sa. Certo meglio di me, che ne ho visti brandelli nel corso degli anni, senza mai dedicarmici troppo. Rimanendo tuttavia curioso su cosa fosse e come fosse. L’autore, che penso sincero amante della città, e ben disposto anche a sottolinearne i limiti (cosa che sa fare bene solo chi veramente ama), ci prende allora per mano e ce la fa visitare, questa città che lui tratta, appunto, come fosse la sua casa. Aiutati da una per me preziosa cartina inserita in seconda di copertina, possiamo allora fare il giro di questa casa, anzi, viste le dimensioni, di questo villino di stile antico e di sapore moderno. Casa colta in un momento di passaggio, che questo libro si colloca a cavallo delle Olimpiadi invernali del 2006, che per Torino e i torinesi sono stati un evento epocale. Si entra da un ingresso, non dico trionfale, ma certo aulico, come può essere la Stazione di Porta Nuova. E poi si fa il giro della casa. Si attraversa via Roma (il corridoio). Si entra a Piazza San Carlo (il salotto, cui mi ricordo pasticcini e creme inglesi da far invidia a chi ne sa). Ci si colloca degnamente nel Quadrilatero romano (la sala da pranzo), aspettando che arrivi qualcosa da Porta Palazzo (la cucina). Mestamente, attraversando Palazzo Nuovo (lo studio), si arriva a quel conglomerato di case veramente brutte, le Vallette (la camera da letto, infatti). Certo, uno dei punti alti è il Balon (il ripostiglio, dove c’è di tutto, anche se come tutti i mercati all’aperto sempre più invaso da etnie altre). Chissà se prima o poi si riusciranno a ripulire i Murazzi del Po (il bagno)? E lo chiede un romano che aspetta da troppi anni che sia ripulito il Tevere! Per gli amanti del verde e delle piante non ci si può non affacciare al Parco del Valentino (il terrazzo). Prima di fare un salto in via Barbaroux (la cantina), e scendere a Piazza Castello (il garage), ossessionato dal rumore e dal fumo delle auto. Io, da timido artigiano, vi ho solo descritto i contorni della casa di Culicchia, che lui invece vi ci porta per mano. Scoprendo pezzi, illustrando mura, locali ed azioni. Gentile anfitrione, rinvangante fasti di una città discreta, anche se “sostenuta”. Mescolando in bella grafia luoghi ed azioni. E dandoci anche quel senso del passaggio tra la città industriale della Fabbrica Italiana Automobili Torino e l’attuale città di non so cosa (io spero di arti, lettere e cinematografia). Ironizzando sul fatto che i torinesi si sentono sempre primi in (quasi) tutto (anche se la prima squadra di calcio è “l’altra” come dice da tifoso torinista). Peccato si scordi tra i tanti primati, di sottolineare che a Torino si installò il primo teatro wagneriano d’Italia, il Teatro Regio. Tra uno zabaione e l’altro, ricordando città che non dormono mai (o non dormono più), mi ha anche fatto fare un salto nella memoria, paragonando le attuali aperture di negozi per lunghi (e notturni) orari a quelli parigini. Facendomi fare questo bagno proustiano a cercare di notte sigarette al Drugstore Publicis di Saint-Gérmain! Purtroppo ora scomparso, e rimasto solo nelle memorie mie e sue… Scritto come detto in periodo pre-olimpico, l’autore ha giustamente voluto fare un commento ed alcuni aggiustamenti post. Lamentando la mancanza di respiro prospettico nelle pur lodevoli realizzazioni architettoniche. E dandomi l’idea che questi libri itineranti abbiano bisogno, di tanto in tanto, di una risciacquatura nel moderno, così da farli evolvere in sintonia con il luogo narrato. Peccato che la revisione poteva anche permettere di correggere qualche errore di pensiero o di battitura. Far tornare a Merlin la Legge di cui a pagina 128 sulla chiusura delle case, invece di lasciarla ad una non nota Merlini. O rivedere, a pagina 43, la discesa in un bagno turco, che dicesi hammam e non hamman. C’è sempre da migliorare, allora. Ma nel complesso, ho gradito Culicchia e la sua Torino. E chissà che non si riesca a tornarci per salutare i pochi amici lontani ivi rimasti?
Tommaso Giartosio “L’O di Roma” Laterza euro 12
[A: 23/02/2012 – I: 09/12/2012 – T: 13/12/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 276; anno: 2012]
Un’idea luminosa alla base di questa ennesima ottima prova della collana Contromano. Per narrare di Roma (ma anche di altro) il nostro Tommaso (nome omen) si pone un compito “alla Queneau”. Prende una mappa di Roma (qualche google di questi), prende un compasso, fa centro sul centro di Roma (Piazza Venezia), apre il compasso fino a casa sua (nei dintorni della Piramide) e traccia un bel cerchio. Anzi, come la definisce lui, una “O”. E decide di fare il giro di Roma seguendo il tracciato della suddetta. E noi lo seguiamo. Nella preparazione (cartine, suggerimenti, consigli di amici), nei vincoli (dove non si passa, si porta una palletta da gettare oltre l’ostacolo, che so, un muro, il fiume, i binari dei treni), nelle decisioni (quando si incontra un palazzo, cercare di convincere uno degli inquilini a farlo transitare). Così Tommaso parte. E ci narra di questa città, dei suoi luoghi, ma anche della gente. Chi lo fa passare, chi lo blocca. Delle istituzioni (vuoi Ministeri, vuoi Aziende private, vuoi spazi “osticamente chiusi”). Ce ne parla a lungo, che il periplo occuperà circa due anni di camminate (ne fa un tratto, poi torna, poi prosegue). Ma portandolo poi sulla carta, riesce a farne una narrazione continua e non noiosa. Parte quindi dalla Piramide, attraversa Testaccio, va di là dal Tevere verso Trastevere, il Gianicolo, villa Pamphilj. Poi scende verso il Vaticano, attraversa Prati, curvando di nuovo verso il Tevere, risalendo le Belle Arti, tagliando Villa Borghese, gironzolando tra Nomentana ed il Policlinico, passando oltre Porta Pia, per tagliare verso la Biblioteca Nazionale. Si scende a San Lorenzo e si attraversa l’impervia Termini, i quartieri ormai cinesi, Porta San Giovanni, verso il Celio e, traguardando Caracalla, scendere di nuovo verso la Piramide usando la grande arteria di Viale Aventino. E lo straniante ritorno a casa dove si accorge che il primo palazzo che aveva incontrato, un tempo occupato dalle Ferrovie, ora è la sede di … Lottomatica (un saluto a fratello). Pur non essendo un grande affabulatore (si sente un po’ di solitarismo nel suo andare) la narrazione prende. Si divaga sui nomi delle vie. Si divaga sui Palazzi e sulle loro storie. Si divaga sugli architetti dell’urbanismo romano, dal generone alla Federici a tutti i palazzi dei Busiri Vici. Diventando quasi una piccola guida ad alcuni luoghi di Roma. Ma poi ci prende anche con le piccole storie. Con i barboni incontrati sul greto del Tevere vicino all’ex-Mattatoio (ed un saluto anche al Macro, via). Con le persone che gli aprono casa per fargli seguire la sua “O”. Con gli scontri (come detto) con le istituzioni, o con le ambasciate, come Villa Abamelek impenetrabile ma dotata dell’imprevedibile cupola ortodossa di Santa Caterina. E le caserme nella zona Prati. Le storie della Biblioteca Nazionale di Castro Pretorio e della caserma Macao. L’incontro fortuito, che da lì passava la “O” con un suo sodale di gioventù. Sempre in bilico tra presente, momenti storici e l’idea del grande cerchio, di girare sempre in tondo senza fermarsi. Come un sogno infantile che finalmente si realizza. Qui ogni tanto Tommaso si incarta un po’ su questa forza che lo spinge a girare e sul sé bambino che ritrova ad ogni passo (e non a caso si porta la palletta). Ma alla fine rimane una bella camminata, quasi una guida alternativa a Roma ed alle sue contraddizioni: tra accoglienza e rifiuto, tra stranieri integrati ed ai margini, tra romani chiusi ed aperti. Io, che come si sa voglio un gran bene a questa città, l’ho seguito passo dopo passo. Che riconosco le strade ed i palazzi, magari i bar ed altri punti fermi della mia (e non di Tommaso) Roma. Venendo quasi la voglia di completarne a margine dei punti (soprattutto in questo mio quartiere di confine tra borghi e rioni, e nella mia via, questa Santamaura che non è dedicata alla martire cristiana, ma all’isola forse tomba di Saffo dove nel 1684 il veneto ammiraglio Morosini sconfisse i turchi). Ma tant’è, per ora si continui a girare in tondo con Giartosio.
“Identificandoci con le nostre difficoltà potevamo renderle nostre alleate. Non bisogna opporre resistenza né fuggire dal problema, ma entrare in esso, far parte di esso, usarlo come elemento di liberazione.” (90)
“Mi viene da pensare, come Pinocchio: questo paese non è fatto per me! Io non sono nato per lavorare!” (172)
“Mi fa pensare a qualcosa di Wenders … ‘Nel corso del tempo’, storia di un viaggio e basta:” (197)
 “Il desiderio di scrivere, penso, nasce dal gusto infantile di contare fino a mille, trattenere il respiro, bilanciarsi sulla ringhiera, scendere in cantina al buio, e fare altre cose difficoltose o faticose o pericolose o paurose ma soprattutto inutili.” (222)
“È vivo [solo] ciò che lentamente muore.” (240)
“Sono sconvolto. Come quando vedi di essere invecchiato. Lo sapevi, no? Come il nonno di Paul Auster che in ospedale si guarda le mani rugose: - Che strano che questo sia capitato a un bambino.” (266)
Settimana di preparazione, con un occhio ad Avventure che non avvengono ancora, e molte “mani” a pensar pacchi e studiare ristrutturazioni. Si riuscirà, di certo, e se ne vedranno delle belle. Attendiamo pazienti

lunedì 14 gennaio 2013

Insalata italiana - 13 gennaio 2013


Nel senso che sarebbe russa come fattura, cioè romanzi, racconti ed altro messi insieme a dar sapore, e legati tra loro magari da una splendida maionese fatta a mano. Ma non essendo russi, li prendiamo così come sono, cioè italiani. Due grosse delusioni: una perché di un libro regalato che speravo fosse migliore (ma poi conoscendo meglio l’autore non me ne sono meravigliato) ed una del mio caro psicologo ligure, che altrove mostra meglio di sé. Le altre prove, di autori noti, pur non eccelse, ne sono almeno meglio: le solite storie di Vigata senza Montalbano ed alcuni racconti del mio amato storico torinese, altrove meglio esprimentesi.
Massimo Gramellini “L’ultima riga delle favole” Tea s.p. (regalo di A)
[A: 15/08/2012 – I: 15/08/2012 – T: 23/08/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 259; anno: 2010]
Si può parlare male di un libro regalato? Secondo me, si può e si deve. Perché regalare un libro è sempre un atto d’amore, ed a me piace riceverli, irrilevantemente se piacciano o meno al donatore. La mia “onestà” di lettore mi costringe alla fine di dire cosa ne penso, sapendo che tutti (donatore, tramatore e destinatari) ne trarranno le personali conseguenze. Ora di questo libro di Gramellini io non posso parlarne bene. Non ho letto altro del plurilodato autore, né ho seguito le sue rubriche in televisione, quindi non posso dire di essere prevenuto. Ma questo libro mi ha profondamente deluso. È furbetto, cerca di ammiccare, ed è farcito di frasi ad effetto, quasi che Gramellini cerchi di fare il Coelho o il Redfield (quello della profezia dei celestini) di casa nostra. Tra l’altro mi si dice che più volte, nelle sue melensaggini scritte, il nostro è stato epigrafato come un Alberoni in salsa new age. L’unica idea interessante è il titolo e come potrebbe essere sviluppato. Perché tutti si domandano se l’ultima riga delle favole, quello sdolcinato “e vivessero felici e contenti” abbia un suo senso reale. Non poche ricordo di quasi - parodie dove si facevano continuare le suddette favole oltre la loro fine, per trovare principesse che si stufano di principi ranocchi o cenerentole che decidono di emanciparsi o altre facili ironie. Potrebbe essere una frase con un suo perché anche se si riuscisse a sviluppare bene il percorso per arrivarci. Poteva preludere ad un romanzo che ne approfondisse il senso, che distinguesse tra favole e realtà. Oppure, ed infine, poteva essere solo una frase di commento ad una storia che non è detto debba in ogni caso sviluppare un tema come se si fosse al liceo. Invece che fa il nostro? Parte da qui, per imbastire una “scalata verso la purezza” dell’eroe del romanzo, il bel Tomas, che, fallito un appuntamento con la bella Arianna, sta per annegare in mare. E come tutti sanno, quando si sta per annegare (o in genere per morire), tutta la tua vita ti passa nella testa. E ti domandi dove hai sbagliato, dove potevi fare scelte diverse. Gramellini, allora, come in mille e mille altri romanzi è già stato scritto e sviluppato, imbastisce una storia di un mondo dove i “quasi - morti” passano al setaccio la propria vita, per fare sette passi verso la perfezione. Qui vengono fuori tutta la serie di frasi fatte e ad effetto, sulla falsariga di alcune che riporto in calce. Con tutta una sequela di situazioni scontate, di pagine su pagine che non aggiungono nulla. Tomas non fa un reale riesame di se stesso (ed un bravo psicologo saprebbe consigliarlo sui passi da effettuare in questo caso). Così come non lo fanno gli altri quasi - morti, il negativo, che alla fine ritornerà all'inizio del gioco dell’oca perché non ha capito nulla, e la positiva - svampita, che in fondo, solidarizzando con Tomas, trova una sua via di uscita. Ed alla fine ci si aspetta una conclusione, ed invece no. Perché è molto più furbetto lasciare qualcosa di aperto. Quindi Tomas non si sa se farà colpo sulla bella Arianna. Ma ha fatto il suo percorso. Ora sa che la sua virtù, quella per cui vale la pena di vivere, è l’empatia con gli altri. E conosciuto se stesso, starà meglio. Indizi ci fanno capire che ritroverà la sua anima gemella, ma (e per fortuna) Gramellini si ferma prima. Se vi vengono in mente epiteti irripetibili fate pure. Io preferisco tacere, e gridar forte: non leggetelo! Non buttate via questi pochi euro, saranno comunque più utili altrove, magari con qualche gelato al cioccolato che ci rinfreschi nell'arsura estiva (come nel tempo della lettura) o del cioccolato caldo che ci riscaldi (come ora per voi che leggete).
“I se sono la patente dei falliti. Nella vita si diventa grandi nonostante.” (53)
“L’amore è una meta che si raggiunge in due, a condizione di aver trovato la strada da soli.” (106)
“Ho passato la vita a desiderare che fosse la persona giusta. Il guaio è che una persona non diventa giusta solo perché tu lo desideri.” (194)
Andrea Camilleri “La Regina di Pomerania e altre storie di Vigata” Sellerio euro 14
[A: 25/03/2012 – I: 17/10/2012 – T: 21/10/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 303; anno: 2012]
Ancora storie di Vigata, prima di tornare (si spera presto e con piacere) alle storie di Salvo Montalbano. Continua ad essere piacevole la scrittura del “vecchio di Porto Empedocle”, anche se queste storie hanno soltanto un’identità di luoghi, e non sempre di personaggi ed azioni. In fondo non sono altro che bozzetti, acquarelli del paesaggio dell’entroterra e della marina ragusana, in quell'ottimo posto inventato/incantato che è Vigata. Nonché il suo corrispettivo interno di Montelusa. Benché appunto di identità di luoghi si parla (e quindi spesso di modalità similari di approcciare le situazioni) non siamo in presenza di un affresco a grandi tinte di un luogo e dei suoi abitanti, come, ripeto, la serie pressoché innumerabile, delle storie di Andrea Vitali e della cittadina di Bellano. Inoltre, e non è un dettaglio minore, siamo anche in presenza di racconti e non di romanzi. Storie che si esauriscono al di sotto della cinquantina di pagine. Ed in questo numero esiguo devono far entrare la descrizione dell’atmosfera e dei personaggi principali, l’enunciazione dell’elemento specifico che scatena il racconto, e lo svolgimento dello stesso. Non sempre Camilleri ha interesse, o intenzione, di sviluppare tutti gli elementi della catena, perché si può anche lavorare per ellissi (non certo con quella prosopopea che descrive e presuppone l’estensore delle note, il da me sempre osteggiato Salvatore Silvano Nigro), l’importante è il messaggio che si manda. E non tutte le storie hanno la stessa solidità e presenza. Alcune sono anche sorrette da almeno un’idea non bislacca, altre scorrono un po’ così, lasciando non dico l’amaro in bocca, ma quanto meno un po’ di dubbi in testa sul senso e sulle intenzioni. Molto intelligente, ad esempio, l’idea di una Giulietta che ragiona rispetto ad un Romeo un po’ tonto. Ed anche sulle sedute spiritiche, dove ci s’immerge un po’ nelle credenze popolari, ed un po’ nella credulità, per sfruttarla verso propri fini (questa l’ho già vista anche altrove). E perché no, sui duellanti – gelatai, emblemi di una storia che vede acerrimi nemici combattersi con ogni mezzo, ma certamente nella scoperta di un reciproco rispetto. E sicuramente sulla storia della “santa – prostituta” e del figlio di padre ignoto, anche qui andando con l’ingenuità della verità a scoperchiare pentole da lasciar chiuse. Con un suo finale forse ingenuo o forse no. Discreta la storia delle scarpe, abile pittura di un mondo contadino nel trapasso verso “una” civiltà, forse solo un po’ scontato. Già sentita altrove quella delle lettere anonime, racconto anche qui teso alla dimostrazione della potenza della maldicenza (ma non porta tanti nuovi elementi). Meno intrigante la storia del marchese cinquantino che non si vuole sposare (idea di partenza buona, che si evolve in altro, perdendosi per strada, tanto che non sappiamo la fine della famosa eredità iniziale, per finire con un’inutile gelosia che porta ad un altrettanto inutile finale). Lascia un po’ senza un vero perché la storia del titolo, che già di partenza si capisce trattarsi dell’organizzazione di una truffa in grande stile, che ci aspettiamo solo di capire quanto grande. Che si rivela esattamente per quello che è, ma senza un rivolo di consequenzialità, soltanto per sottolineare quanto si possa essere creduloni se abbagliati da perle, lucette e, soprattutto, sorrisetti femminili. L’unica abilità di questo racconto, è quella di imbastire idee strampalate con fatti reali. Reali come l’esistenza della Pomerania, regione contesa tra Polonia e Germania, e per pochi attimi assurta a volere indipendenza (per chi ne fosse ignoto, le due maggiori città della Pomerania sono in italiano Danzica e Stettino). O come quella del volpino di Pomerania, cane pregiato ed ivi originario, or meglio noto perché docile e amato dalle star cinematografiche. Ma non graffia. Come purtroppo, non graffia tutto il libro del nostro autore. Rimane solo la “beltà” di leggere una scrittura in lingua, come se si capisse tutto. Non è vero, ma piacevolmente fluisce sotto i nostri cuori. Aspettiamo il ritorno di Salvo, allora.
Alessandro Barbero “New York, 14^” Barbera editore 7,90 (in realtà, scontato 6,72 euro)
[A: 01/11/2012 – I: 05/11/2012 – T: 05/11/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 76; anno: 2012]
Ho letto saggi del nostro autore di cui ho spesso parlato, ho iniziato a leggerne un romanzo di cui parlerò. Nel mentre mi è capitato questo libretto con 4 racconti. Preso, letto, digerito. Anche se non ha la profondità immediata delle sue esposizioni storiche, la scrittura di Barbero risulta tuttavia gradevole. Sembra aver appreso l’arte del raccontare, ed affabula senza sovraccaricare (troppo) il testo di altro. Non è, come altri, teso a dover dimostrare qualcosa, o a comunicare forzatamente un messaggio. Tuttavia la scrittura e la resa del testo sono di ben diversa intensità. Gradevoli ed anche piacevolmente coinvolgenti i primi due scritti. Scontato il quarto (di cui si immagina la fine fin dall'inizio, e scusate il bisticcio). Inutile il terzo, con quelle frettolose visioni di momenti di fuga, ambientandosi nel 1989 all'epoca della ritirata dall'Afghanistan dell’armata russa. E dove l’autore cerca di cogliere alcuni momenti del disfacimento al sole di quel rovinoso, per i sovietici, decennio. Ma queste appunto rimangono parole un po’ sospese, che neanche suscitano troppo sorriso. Forse pianto, ma non per loro, ma per quello che sarà poi. E questo non è merito del testo, ma delle vicende storiche. Non è così che si valorizzano le parole. Come nel quarto, dove l’aggirarsi di un potente per la Parigi deserta, ce ne fa cogliere elementi prefiguranti. Ma quando il potente si rivolge ad una chiromante già capiamo qualche retroscena, e immaginiamo il resto del racconto. Anche qui poco piacere di lettura. Meglio, come detto, i primi due. Quello che dà il titolo al libro, e che in realtà è il secondo, e che riesce, nonostante non vada nel profondo della vicenda, a darci una sensazione di un certo tipo di America, un po’ sbandata, molto ai margini, che si arrangia per sbarcare il lunario. E che accetta di tutto, anche di usare il proprio corpo senza sapere cosa possa succedergli. Il primo, invece, è quello che più mi ha soddisfatto, coinvolto ed interessato. Innanzi tutto, si svolge a Torino, e già si vede che parlando di casa propria, il buon Barbero ha più frecce al proprio arco. Ha più situazioni che conosce e di cui può parlare, svelandone i retroscena, o adombrandone possibili scenari. Seguiamo quindi nel breve volgere di una serata, le vicende di una senza casa, Heidi dai capelli rossi. Siamo a Porta Nuova alla stazione, e lì (come in tutte le stazioni del mondo) si svolgono momenti di vita e si srotolano microcosmi di avvenimenti. C’è il fast food, tra McDonald’s e Spizzico, con l’inserviente anziana e buonina, che riserva sempre un piatto di avanzi alla nostra Heidi. C’è il bar aperto sino a tardi, dove si attardano albanesi non tanto buoni, pronti ad eccedere nel bere e nel malaffare. C’è la ragazzina che si è persa, cui offrono aiuto sia Heidi che l’albanese. Ed indovinate chi avrà la meglio. C’è l’addetta ad un ignoto magazzino, che offre ad Heidi un posto per accoccolarsi la notte. C’è ancora Heidi che gira tutto il giorno vendendo il giornale dei senza tetto, per racimolare quei pochi spiccioli non per il futuro, ma per arrivare alla sera. Non ci sono giudizi, non ci sono moralismi. Una piccola dolorosa foto. Che non sappiamo cosa era prima Heidi e cosa sarà dopo la fine del testo. La vediamo lì, molto più umana di tanti umani. Ad esempio, nel chiedere elemosina, non millantando, come tanti profughi dell’Est che vediamo nelle nostre stazioni, un improbabile bisogno di spiccioli per un altrettanto improbabile biglietto del treno. No, lei ne ha bisogno per sé. E per sé lo chiede. Al massimo, appunto, vendendo il giornale. Ma questo è tutto quanto concede. Ecco questa prima scrittura è piena, e riesce in poche pagine, a coinvolgere e svolgere il proprio mestiere. Cosa che avviene meno e meno bene con gli altri, come già detto. Vedremo ora nei romanzi, quale sarà il modo narrativo di Barbero. Ma le premesse sono buone. (P.S. di natura filologica: i semi di girasole si sbucciano, come direi io, o si sgusciano, come dice Barbero?).
Lorenzo Licalzi “La vita che volevo” BUR euro 9,90
[A: 13/05/2012 – I: 20/11/2012 – T: 22/11/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 197; anno: 2009]
Altra cocente delusione: aspettavo di leggere la prosa del buon psicologo ligure passato ormai alla scrittura (e gliene siamo grati), e mi trovo davanti questo libretto. Dove non c’è un romanzo, ma alcuni racconti (prima delusione). A questo punto mi aspettavo qualcosa di “scoppiettante”, come il mitico “Apposta per te”, ed invece mi trovo una serie di racconti che oscillano tra il bruttino e l’appena decente. Unica consolazione, è che, come illustravo in un recente libro di Schmitt, si tratta di un libro di racconti e non di una raccolta. Che, infatti, questi testi hanno un loro filo che li lega, motivo per cui il nostro autore in premessa suggerisce (ed io con lui) di leggerli in sequenza, essendo ognuno portatore di qualche elemento di conoscenza in più. Ci sono personaggi che si ritrovano, situazioni viste da altri punti di vista. E soprattutto c’è un primo ed un ultimo che sono legati alle vicende personali dell’autore (oltre al fatto di avere lo stesso titolo tra loro e con il libro nel complesso). Infatti, la tematica è la vita che si fa. Se siamo contenti di quello che ci succede, che c’è successo e che ci succederà. Se volevamo altro, dove abbiamo fatto delle scelte che hanno modificato il corso delle cose. Insomma, interrogativi epocali, che tra l’altro sono sempre sottolineati da una domanda che Licalzi fa è che è bene tenere a mente. Le scelte che facciamo (consapevoli o inconsapevoli) ci portano ad essere quello che siamo. Ma che dire di quelle che altri fanno e di cui non sappiamo nulla noi e che (forse) hanno modificato la nostra vita. Che spaventoso abisso di possibilità si aprono in tutto ciò. Per il momento, seguiamo i diversi personaggi protagonisti delle micro-storie di Licalzi interrogarsi se quella che stanno vivendo è la vita che si voleva. Lo chiede il medico – imprenditore alle prese con traffico e malattie di infermiere. Lo chiede il marito che narra della morte della sua famiglia. Lo chiede l’infermiera che si trova sempre alle prese con amori sfortunati. Lo chiede la praticante allo studio notarile mentre attraversa la strada. Lo chiede l’avvocato che sta fermo al semaforo. Se lo chiedono i tossici, sia quelli che usciranno sia quelli che non usciranno dal tunnel delle loro abiezioni. Se lo chiedono i due ragazzi alle prese con le prime canne, pensando al loro futuro. Se lo chiedono i quattro giocatori di poker, mescolando le carte e la loro vita. Lo chiede la moglie di uno di loro, che si domanda sia meglio andare o restare, salvare il salvabile o tentare il gran colpo per migliorare la propria vita. Lo chiede il pescatore che aspetterà tutta la vita un improbabile ritorno. Lo chiede infine l’uomo di Neanderthal, il primo pensatore e gran filosofo, alle prese con il nuovo e rampante uomo di Cro-magnon (e sappiamo noi come andrà a finire, tra i due). E dopo tutte queste domande, Licalzi si ripresenta per tessere una sua micro-biografia ed imbastire le conclusioni a tutte queste domande. I racconti hanno una buona dose di scorrevolezza, soprattutto nel loro impianto di base, quasi sempre basato su dialoghi, che sono l’arma migliore di Licalzi. Che quando parte per la tangente a filosofeggiare rischia sonori sfondamenti di cabasisi. È sempre in bilico, tra la simpatia e la supponenza, anche se non cade mai in eccessi insopportabili. Però rimane tutto un po’ in superficie (anche se non superficiale). Con qualche punta di non detto di troppo (del tipo di imbastire una storia su di un indovinello, senza darne ipotesi risolutive). In realtà, come ben dice anche nelle sue chiose, lo scrivere racconti è quasi un suo modo di imbastire trame per dei romanzi, che le sue storie sembrano traboccare di possibilità. Così come successe al suo primo “Io no”, nato racconto e poi fortunatamente allungatosi nella sua giusta dimensione. Per ora ci lasciamo, amico psicologo. Spero di ritrovarti al meglio in altre prove.
“Di fatto ogni piccola decisione che prendiamo cambia la storia del mondo, e comunque il punto è sempre quello: quando ti va ti sfiga lo sai, invece quando ti va di culo, no!” (80)
“La vita che vuoi non la determina quello che fai ma quello che sei.” (184)
Trama italiana questa settimana, ma anche trama di viaggio non per il cosa ma per il come, inviata dall'eremo fucecchiese presso il mio amico Maurizio. In un giorno di pioggia, ma anche di solare rinvigorimento di scambi ed idee che vanno e tornano ma non fanno pesare i più di venti anni passati. Ora si prosegue sull'onda di idee di lavoro, e nell'attesa di viaggi ed altro.

domenica 6 gennaio 2013

Commissari - 06 gennaio 2013


Cominciamo ora, in questa epifania che tutte le feste si porta via, le trame del nuovo anno. E con due commissari: la ripresa, dopo tanti anni di purgatorio, del commissario Bordelli del fiorentino Vichi, e la nuova prepotente entrata del commissario Berté, per merito della penna di un poliziotto sotto pseudonimo, che si cela sotto il nome di Emilio Martini. Delle prove oneste, e molto leggibili (soprattutto quelle di Martini), anche se non eccelse. Ma segnano un buon inizio soft per questo 2013.
Marco Vichi “Una brutta faccenda” TEA euro 8,60 (in realtà, scontato 6,88 euro)
[A: 11/06/2011 – I: 13/09/2012 – T: 15/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 243; anno: 2003]
Dopo molti anni ritorno a visitare il commissario Bordelli, ed anche Marco Vichi, di cui per altro ho letto e tramato altre prove. In anni pre-trame lessi il primo episodio, carino, ben ambientato, ben scritto. Insomma piacevole. Poi percorsi altre letture, lasciando nel libricino delle ricerche la traccia di ritrovarne le fila. Ma ne saltai episodi, mi ritrovai a non avere più quel filo. E per un po’ è rimasto lì, ad aspettare di essere riannodato. Ora che sono diventato “reader addicted”, e che accumulo nella libreria libri e ordini di lettura, ho modo di ritornare su questo ulteriore esempio di buon giallo italiano. Questo è il secondo episodio, e, per chi non conoscesse il plot, cerchiamo di inquadrarlo. Il commissario si muove a Firenze (primo punto a favore), l’azione si svolge nei primi anni sessanta (primo episodio nell’estate del ’63, questo secondo nel ’64), Bordelli ha da poco superato la cinquantina (secondo punto a favore), guida uno scassatissimo Maggiolino Volkswagen (terzo). Ha una sua assidua confidente, donna del rilassamento e delle chiacchiere, nell'ex-prostituta Rosa, che forse vorrebbe qualcosa di più, ma per ora è e rimane una bella amicizia. Ben conosce il sottobosco della malavita fiorentina, che tratta con umanità, e ne è ricambiato. È stato soldato, e dopo l’8 settembre, partigiano. Ed in questi due primi episodi ogni tanto riaffiorano brandelli di guerra e di lotta. Anzi, qui le tematiche legate alla guerra assumono anche un ruolo interessante, motore e mentore della storia. Anzi delle storie. Che il commissario viene coinvolto in due indagini: da un lato, quella più dura e coinvolgente, laddove vengono uccise bambine tra gli 8 ed i 10 anni, strangolate, e segnate con un morso sulla pancia. Dall’altra, indagando intorno ad una strana villa sulle colline fiorentine, viene ucciso il suo confidente Casimiro. A lungo, Bordelli, aiutato dal fido Piras, una giovane recluta figlio di Gavino, commilitone di guerra e di guerriglia, rimastogli amico e sodale, cerca qualche bandolo nella matassa delle morti giovanette. Ma, a parte il modus operandi che ne indica un serial killer, non riesce ad andare avanti. Si consola allora con visite all’amica Rosa, e pranzi o cene dall’amico cuoco Totò (e poi dal suo sostituto pro-tempore, il fido Botta, di cui si riporta una succulenta ricetta di braciole di maiale al latte e pomodoro). Avanza invece nella ricerca dell’assassino di Casimiro, imbattendosi nei militanti ebrei della “Colomba Bianca”, un’organizzazione legata al Centro Wiesenthal e che si occupa delle ricerche di criminali nazisti sfuggiti alla cattura. Qui Vichi divaga un po’, andando verso quel tono minore che mi fa dare un giudizio complessivo solo sufficiente allo scritto. Ha una storia con la bella (e giovane) Milena, che farà ingelosire non poco la Rosa. Ma scavando a destra e sinistra, rinvangando, collegando, ed anche sbagliando, alla fine riesce a trovare il bandolo della matassona, che fa quadrare un po’ tutti i cerchi del romanzo (e questo lo sospettavamo già dal secondo omicidio). Vichi non è consolatorio, e non punta (giustamente) a facili happy end. Un piccolo spaccato di cronaca, la soluzione dei misteri (almeno per noi lettori, che per quelli dentro la pagina qualcosa rimane oscuro). Forse Bordelli fuma un po’ troppe sigarette (se ne rimane intossicati anche solo leggendole), ma a me è simpatico, perché pensa, legge. Così come legge il suo aiutante Piras, capace di citare Seneca (non usuale da poliziotto del ’64). Una piccola reprimenda all’estensore delle note: non è un romanzo sul boom industriale dell’Italia degli anni ’60, come viene sottolineato. Si parla soltanto, in una pagina e mezza, della lavatrice e del suo avvento nelle case italiane. Un po’ poco per farne un mini-saggio economico. Meglio rimanere sul lato umano. Ed aspettare altre letture del Commissario.
Emilio Martini “La regina del catrame” Corbaccio euro 8,90
[A: 04/10/2012 – I: 10/10/2012 – T: 11/10/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 125; anno: 2012]
Ho già detto che sono curioso? E soprattutto curioso di gialli ed affini? Ed in particolare di gialli ed affini italiani? Mi sa che ormai lo sapete a memoria. Tuttavia, nel momento in cui sullo scaffale della Mondadori (e solo lì l’ho trovato) appare questo libro, come resistere? Casa editrice: CORBACCIO, del gruppo GEMS. Cioè uno dei satelliti che compongono uno dei punti forti della mia libreria (in termini qualitativi sicuramente): Longanesi, Salani, Guanda, Garzanti, TEA, Ponte alle Grazie, Chiarelettere, Bollati Boringhieri. Insomma, già un passo avanti. Poi si parla di un nuovo commissario, ma prima di addentrarci nel protagonista, c’è da soffermarsi sull’autore. Il nome è ignoto. E tale rimarrà dopo lunghe ricerche. Che in realtà è uno pseudonimo, sotto qui si nasconde probabilmente (così dicono i blog letterari) un poliziotto (o categoria similare). Un bel gioco ad incastro, un poliziotto che scrive romanzi su un commissario che scrive racconti! Sembra di essere tornati al film da poco goduto, anche se non eccelso su uno scrittore che scrive un libro su uno scrittore che ruba un libro (“The Words” con un’ottima parte di Jeremy Irons). Veniamo allora al romanzo. Incentrato su di un poliziotto milanese, di origini calabre, trasferito (non si sa ancora perché, ma immaginiamo …) a Genova. Poliziotto, anzi vice-questore, strambo. Poco più che quarantenne, con capelli lunghi raccolti a coda di cavallo, da poco lasciatosi con la magrissima Patty (sì, perché a lui le donne piacciono “magre e stronze”). Buon mix, quindi. Amante della cucina (anche se non raggiunge le vette di Montalbano sul pesce o di Sarti Antonio sul caffè), lo seguiamo in alcuni abbordaggi della cucina ligure. Soprattutto la panunta, le trofie al pesto e le verdure ripiene. Già ci viene l’acquolina in bocca. Inoltre, tocco interessante, quando deve concentrarsi, tira fuori il suo computer e scrive racconti. Interessante, nella fattispecie, il romanzo che s’intreccia sulla morte di una sessantenne un po’ sopra le righe, avvenuta ai Bagni di Lungariva e la storia del capitano Vasco su di un porta-container oceanico, in balia della burrasca e di un maniaco assassino. È una storia breve, forse serve anche da inquadrare i vari “tipi” presenti. Il commissario, appunto. Poi il suo aiutante, il giovane Parodi, ben radicato nel territorio e nella sua “identità ligure”. La signora Marzia, dove il commissario sta a pensione e che forse cerca di “avvicinarsi” alle sue solitudini. Peccato che rispetto ai criteri di Berté, invece di essere magra e stronza, è grassoccia e simpatica. Vedremo gli sviluppi. E poi l’identità dei luoghi appunto. Tra l’altro, è un periodo (si sa che casi e coincidenze poi nascondono anche altro) che mi imbatto in saggi e romanzi che toccano proprio questo problema. Così pesantemente in Bauman, o in Maalouf che sto terminando in questi giorni. Ma anche, in modo leggero, nel Prévost da poco terminato. Qui di nuovo. Calabresi che emigrano a Milano. Milanesi che vengono trasferiti a Genova. Tanto per parlare dei protagonisti. E poi anche la storia, di questa ape regina dei poveri, che si dà a pochi momenti di felicità, con compagnie maschili anche poco rassicuranti. Senza parenti vicini, solo una nipote, che scopriremo essere un po’ sanguisuga ed anche scemetta, turlupinata da un bellimbusto che pensa solo a giocarsi i soldi che racimolano dalla vecchia (si fa per dire) zia. Ci sono tanti elementi che concorrono, e che possono dare una svolta alla vicenda. Martini ne sceglie uno (che non vi dico) ed alla fine chiude questo “aperitivo di commissario”. Che, nel complesso, non ci è dispiaciuto. Forse la parte meno sostenibile è quella dei racconti del commissario, che va bene ci siano, ma che, nei brani che ne riporta, non sembra abbiano tanta carne al fuoco. Salutiamo in ogni caso una nuova simpatica entrata.
Emilio Martini “Farfalla nera” Corbaccio euro 8,90
[A: 12/10/2012 – I: 26/10/2012 – T: 27/10/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 180; anno: 2012]
Subito cotta e mangiata anche la seconda puntata del vicequestore Berté, ed in attesa della prossima terza uscita (dove si spera si sciolga qualche nodo…). Intanto prosegue il calvario sul doppio piano personale e lavorativo del nostro commissario in coda di cavallo. Facile la descrizione del primo, che la grassoccia Marzia a lui sempre piace, ma la Marzia ha un marito, che benché marinaio, a volte ritorna. Come in questo caso. E per tutti i giorni dell’indagine il nostro Gigi continuerà ad avere gastrite e mal di testa. Sebbene all’inizio si allontani, poi verso la fine sembra si riavvicini. Insomma questo è uno dei nodi di cui sopra. A metà strada tra personale e lavorativo, il nostro commissario-scrittore continua nei suoi racconti, per allentare la tensione delle indagini. E qui, devo dire che, passando dai toni fantasiosi a narrativi più concreti, sforna un raccontino niente male. Interpuntato dall’indagine, si fa leggere e ne fa da contrappunto leggero ma bachianamente corretto. E l’indagine? Al solito, come sembra una cifra distintiva del Martini scrittore, c’è una morta, ma quello che più interessa, importa, si sottolinea, è tutto il contorno. Il mondo della vittima, che questa volta è della borghesia ligure, preside di un esclusivo liceo privato. Ben sposata, ma non con matrimonio d’amore. Per cui lei Adelaide cerca conforto tra le braccia dell’ingegnere Nardi, proprietario dell’Istituto scolastico, mentre il marito si consola con la reception – francese – forse escort dell’Hotel del paese. Poi c’è il genero, dissoluto giocatore di golf pieno di debiti ed amanti. Poi c’è il professore licenziato in tronco dalla preside perché sorpreso a baciare un’alunna, pur diciassettenne. Poi c’è l’alunna tipico esempio (a noi ben noto) di ragazzine viziate senza diritture e senza scopi. Poi c’è il ragazzo di Gaia, geloso e lasciato. E poi, tutto intorno, il mondo per bene e con la puzza al naso della borghesia liguro-genevose. Ma Berté si muove bene in questo mondo. Anche se non ci si ritrova (e non sappiamo ancora del perché del trasferimento, altro nodo da sciogliere al più presto). Ma almeno comincia a relazionarsi. Con il sovraintendente Parodi, che diventa il suo primo interlocutore. Con il quale fa un’epica mangiata in un ristorante sulla costa. E con l’agente Belli, Francesca all’anagrafe, che diventa il suo autista preferito, e che lo accompagna negli interrogatori più strani. Insomma, rispetto al primo romanzo, veloce e leggerino, questo secondo, pur mantenendo un tono di superficie, prende di più. Per la vicenda personale del commissario, in attesa che si decida tra magre e stronze o grassocce e sposate. Per i romanzi nei romanzi, o i racconti nei racconti. Insomma per tutta quella”discesa negli abissi” che fa piacere leggere e seguire. A proposito, dimenticavo la farfalla nera del racconto intarsiato, è come detto gradevole, e con un finale a sorpresa che non vi dico ma è da gustare. Così come non vi dico, ovvio, il finale a sorpresa della storia dell’assassinio della sessantenne Adelaide. Ma è ben congeniato, tanto che, benché volessi fare altro, mi ha lasciato inchiodato alla pagina per capirne i meccanismi e le peregrinazioni mentali del nostro vice-questore aggiunto.
Emilio Martini “Chiodo fisso” Corbaccio euro 8,90
[A: 10/11/2012 – I: 14/11/2012 – T: 15/11/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 150; anno: 2012]
Un, due, tre … stella! Come promettevano le pubblicità, ecco a stretto giro l’uscita del terzo romanzo delle inchieste del commissario Berté. Dati i ricordi ancora freschi degli altri, non s’è lasciata passare molta acqua sotto i ponti (pur in questo pre-inverno esondante romano). Subito preso, quindi. E subito letto. Purtroppo la speranza che manifestavo nel tramare il secondo, speranza è restata. Molti i nodi del nostro Berté che avranno tempo di sciogliersi in un (spero prossimo) futuro. Non sapremo ancora i veri motivi del trasferimento punitivo, anche se intuiamo essere legati all’irruenza irrituale del commissario. Già manifesta nel suo andare in giro con capelli lunghi legati a coda. E con lo scarso rispetto di procedure ed altri legami certo burocratici, ma anche salvaguardanti gli altri, i cittadini in primis. E ben gli dice, al nostro, che tra un mal di testa e l’altro, le indagini (sia che siano sue che di altri) le porta a compimento trovando colpevoli e motivazioni. Ma soprattutto continueremo a non sapere dove andrà a parare tra i corni relazionali che lo dilemmano. Tornare dalla magra Patty, verso cui ricade in un momento di solitudine sconfortante. O affrontare la carnosa Marzia, verso cui lo portano affinità di sentimenti, ma che è ben complicatamente messa (cioè sposata, anche se, forse, dubitativa). E questo romanzo, che lo porta di nuovo nella natia Milano, lontano dai placidi ritmi liguri di Lungariva, non aiuterà a portare avanti nessun disvelamento. Tra l’altro, sentiamo già la mancanza degli haiku di Marzia. Ma Bertè dovendosi prendere ferie, lo fa e ritorna nella sua casa milanese. Cercando di marcare con la distanza una voglia di comprendersi. E tornato in via Malpighi, si ritrova non solo in Milano, ma anche a fare i conti con la sua giovinezza. Che per caso si trova sul luogo di un delitto. E l’ucciso non è altro che la sua vecchia conoscenza, Valerio detto lo Svedese per i biondi capelli. Inoltre, sospettata del delitto è la donna di Valerio, anch’essa catapultata nel presente dai giardinetti di piazza Stuparich. È la bella Manuela detta Manu, che tutti in gioventù anelavano di conquistare. Tutti meno Valerio. Mentre lei sempre Valerio cercava. Berté è in ferie, quindi non indaga. Ma le coincidenze lo portano a ripercorrere tutte le tappe di quegli anni ’80, quando si passavano le serate in piazzetta. Là dove c’era appunto lo Svedese, la Manu. E poi Viviana, quella bruttina che non ebbe mai fortuna con gli uomini, e pochi anni dopo si toglie la vita. E Giulio, sempre con la sua mimetica, che ora è entrato in banca. E Gino, sempre serio, sempre un po’ triste, rintanato nel ferramenta dello zio. L’Alessandra, anche lei vistosa, ma sempre la numero due. E ripensa anche a quelli che non ci sono più: il Puccio patito delle moto, improvvisamente scomparso dopo la sparizione del suo mitico Gilera, Rosario, un po’ malavitoso ed un po’ fatto, trovato immerso in un lago di sangue proprio in piazzetta, e Isidoro, ladruncolo sfortunato, anche lui morto, ma in carcere. Le indagini proseguono guidate da altri, ma il nostro, immergendosi negli odori della sua Milano, annusa possibili piste. Scava, rimescola, sente che il nodo è la scomparsa di Manu. Manu di cui tutti erano innamorati. Anche qui c’è il solito contro-altare del racconto, che per concentrazione il nostro scrive quando cerca di sbrigliare il cervello e sbrogliare i nodi. Peccato che questa volta sia un racconto in minore, rispetto alla bella prova della Farfalla prendente. Qui racconta di un tizio che uccide per non separarsi o per accaparrarsi i quadri di un ignoto autore che si firma Soloski. Uccidere per un chiodo fisso che si incista nel cervello. Berté si aggira per i tristi caffè doppi di Milano, non ci porta in nessun ristorante per una delle sue mangiate che ci ristoravano il cervello. Alti e bassi. Ma l’ultima parte prende quota, e avvince il modo ed il perché che trova per risolvere i misteri. Non trova ancora (lo troverà?) i perché delle sue storie amorose. Ma, se vuoi un consiglio, caro commissario, ogni tanto, oltre che pensare, alza la mano, prendi il cellulare, componi un numero. E chiama. Perché come si è detto tante e tante volte, e ve lo ripeto anche in inglese: “If you don’t ask, the answer will be always NO!”. Alla prossima, scrittore Martini.
“Non aveva l’età per le pene d’amore. … Si ritrovava … senza sapere che fare di se stesso. Ora anche con la sensazione di aver trovato la persona giusta, peccato che non fosse la situazione giusta.” (12)
“Aveva ragione sua madre: quando uno nasce lamentoso … continua così anche se vince al totocalcio.” (89)
Si diceva di un inizio soft, per questo nuovo anno. E così sarà. Al ritorno di un piacevole tour nel veneto, tra una Verona shakespeariana ed una Vicenza palladiana, con il contratto terminato da qualche giorno, e con la testa tesa alle programmazioni dei prossimi mesi: impegni, viaggi, palestre, ed altre ludiche attività. Allora un soffice anno a tutti

martedì 1 gennaio 2013

Buon 2013 - 01 gennaio 2013


Augurandoci, come dice la mia amica Giuditta, che più che un buon anno, sia un anno BUONO. Per le cose che ci porta, per le cose che faremo, per tutte le tappe della nostra vita che ci aspettano, gradino dopo gradino.
Intanto, da parte mia, per cominciare lentamente, invece di partire in tromba con tornate su tornate di recensioni e parole, in questa prima trama faccio un po’ di conti delle letture passate. In un anno, il caro 2012, che ci ha lasciato forse con qualche rimpianto, ma che, per una serie di congiunture, ha visto innalzarsi il livello delle letture. Forse, il fatto di aver seguito un lavoro costante, con strascichi di corse mattutine e serali in metropolitana, facendomi saltare molti giorni di sano relax in palestra (ahi quanto dolente la schiena per queste mancanze), ha alzato il numero di pagine e di libri letti.
Vediamo allora di sunteggiare: nel 2012 ho letto 210 libri, per un totale di 54100 pagine (il numero delle pagine mi viene dal blog di anobii, non le ho contate tutte a mano!). Questi numeri portano come conseguenza il fatto di aver letto, mediamente, 17,5 libri al mese. Ogni libro è stato quindi, mediamente, di 258 pagine. Ogni giorno, mediamente, ho letto 148 pagine.
Sono numeri che mi hanno spaventato, ma poi ho cercato di fare un punto e due calcoli: leggo a colazione (e diciamo che per le mie colazioni abbondanti possiamo arrivare ad una trentina di pagine); leggo nelle due tornate in metropolitana (mezzora ognuna, diciamo una quarantina di pagine a volta); leggo durante la cena (altre trenta pagine); ed infine leggo quando vado a letto (e qui si legge alla grande, si arriva facilmente alle cento pagine). Ed ecco che i numeri tornano.
Non porto trame, qui, come detto, anche perché il 2012 è stato foriero anche di un elevato numero di recensioni. Ho pubblicato 55 trame, per un totale di 220 recensioni. E visto che, come detto sopra, ne ho letto “solo” 210, ho intaccato la mia riserva di scrittura.
Tra l’altro, per continuare con le analisi “storiche”, ho recensito nelle mie trame finora, dal 2006 ad oggi, 1132 libri, toccando ben 106 case editrici diverse. Ebbene più della metà provengono da solo 6 editori: Editoriale Repubblica, Mondadori, Feltrinelli, Sellerio TEA ed Einaudi. Ho recensito 90 libri avuti in regalo. Degli altri più di mille, posso dire che hanno avuto un costo medio di circa 8 euro l’uno (considerati i prezzi di copertina e non gli sconti, che mi hanno fatto risparmiare mediamente un 15%). Quasi la metà sono scritti originariamente in italiano (499) e più della metà (588) li ho letti in lingua originale (oltre agli italiani, 28 in inglese, 55 in francese, 5 in spagnolo ed 1 in portoghese).
Veniamo allora anche al gradimento. Quali sono i miei TOP 30 dell’anno?
Ricordo che (sempre seguendo il buon tarlo di lettura), metto voti da 5 (immancabili) a 1 (da saltare). E per quest’anno abbiamo, i due “top of the year”, il libro delle sensazioni della francese Héritier e l’analisi dell’evoluzione del carattere nell’ultima parte (ma non meno importante) della nostra vita dello psicologo americano:
#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Françoise Héritier
Il sale della vita
Rizzoli
6
5
2
James Hillman
La forza del carattere
Adelphi
12
5
E poi una lista di buone, degne, nonché consigliabili letture, in ordine sparso, senza particolari criteri di ordinamento:
#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Ian Rankin
Anime morte
Repubblica Giallo
5,90
4
2
Michela Murgia
Accabadora
Einaudi
s.p.
4
3
Jonas Jonasson
Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve
Bompiani
s.p.
4
4
Nadine Gordimer
Nessuno al mio fianco
Repubblica Novecento
4,90
4
5
Mariusz Szczygieł
Reality
Nottetempo
8
4
6
Michael Connelly
Il poeta
Piemme
12
4
7
Enzo Bianchi
Per un’etica condivisa
Einaudi
10
4
8
Alessandro Baricco
Mr. Gwyn
Feltrinelli
14
4
9
Roberto Saviano
Vieni via con me
Feltrinelli
13
4
10
Chiara Gamberale
Una via sottile
Marsilio
7
4
11
Donatella Di Pietrantonio
Mia madre è un fiume
Elliot
9,90
4
12
Roberto Alajmo
L’arte di annacarsi
Laterza
9,50
4
13
Alessandro Barbero
Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano
Laterza
10,50
4
14
Fabio Genovesi
Morte dei Marmi
Laterza
12
4
15
Carlo Maria Martini
Il Discorso della Montagna
Mondadori
9,50
4
16
Massimo Carlotto
Alla fine di un giorno noioso
E/O
9
4
17
Arturo Paoli
La pazienza del nulla
Chiarelettere
8
4
18
Zygmunt Bauman
L’arte della vita
Laterza
9
4
19
Massimo Carlotto
L’amore del bandito
E/O
9,50
4
20
Haken Nesser
Era tutta un’altra storia
TEA
9
4
21
Henning Mankell
L’uomo inquieto
Marsilio
14
4
22
Marco Malvaldi
La carta più alta
Sellerio
13
4
23
Mariapia Veladiano
La vita accanto
Einaudi
12
4
24
Amos Oz
Una pace perfetta
Feltrinelli
9
4
25
Tommaso Giartosio
L’O di Roma
Laterza
12
4
26
Elisabetta Rasy
Molta luce in pieno inverno
Repubblica Amore
3,90
4
27
Milena Agus
Sottosopra
Nottetempo
s.p.
4
28
Joseph Roth
La Cripta dei Cappuccini
Repubblica Novecento
4,90
4

Infine, essendo oltre che inizio anno, anche inizio mese, riportiamo anche le letture del mese di ottobre. 19 libri (un po’ sopra media, come tasso di lettura), dove a due prove da dimenticare (l’inutile Astori, almeno per ora, nonché la deludente Matteucci), fa riscontro un quartetto di moschettieri da tenere a mente: il saggio di Bauman sull’arte di vivere, la buona resa di uno degli ultimi Carlotto, un’inchiesta del commissario Barbarotti del buon Nesser, e l’addio del Commissario Wollander di Mankell.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Cristiana Astori
Tutto quel nero
Mondadori
4,90
1
2
Sandrone Dazieri
La bellezza è un malinteso
Mondadori
9,50
3
3
Zygmunt Bauman
L’arte della vita
Laterza
9
4
4
Alessandro Banda
Due mondi e io vengo dall’altro
Laterza
12
3
5
Guillaume Prévost
La valse des gueules cassées
10/18
8,65
3
6
Emilio Martini
La regina del catrame
Corbaccio
8,90
3
7
Amin Maalouf
Les Identités meurtrières
Livre de Poche
5,05
3
8
Massimo Carlotto
L’amore del bandito
E/O
9,50
4
9
Kathy Reichs
Corpi freddi
BUR
9,90
2
10
Rosa Matteucci
Le donne perdonano tutto tranne il silenzio
Giunti
12
1
11
Haken Nesser
Era tutta un’altra storia
TEA
9
4
12
Andrea Camilleri
La Regina di Pomerania e altre storie di Vigata
Sellerio
14
3
13
Giuseppe Culicchia
Torino è casa mia
Laterza
12
3
14
Erri De Luca
Le sante dello scandalo
Giuntina
8,50
3
15
Paolo Flores D’Arcais
Gesù
Add editore
5
2
16
Roberto Riccardi
I condannati
Mondadori
4,90
3
17
Emilio Martini
Farfalla nera
Corbaccio
8,90
3
18
Isabel Allende
L’isola sotto il mare
Feltrinelli
10
3
19
Henning Mankell
L’uomo inquieto
Marsilio
14
4

Diamo allora inizio a questo 2013, che si scompone facilmente nel prodotto di 33 e 61. 61 è un numero primo, che sommato da 7, mio numero totemico ed altro non ne dico. E 33 è un numero dalle tante ricorrenze: molti grandi sono vissuti 33 anni (Gesù ed Alessandro Magno), molti li vivranno per sempre (sono gli anni che si avranno in paradiso secondo l’islam), sono i canti di ognuno delle tre cantiche della Divina Commedia. Quanti simboli. Ma più che di simboli parleremo di speranze (e poi di fatti). È in fatti un anno che comincia con la voglia di fare e la speranza di andare, con la coscienza di aver fatto e la sicurezza di poter donare. Con i ringraziamenti speciali agli amici che mi hanno fatto auguri prima che io li facessi a loro.
Lasciatemi un po’ di mistero. Un appuntamento alla prossima trama ed a tutti un grande abbraccio ed un bacio