martedì 28 agosto 2012

Leggerezze di fine estate - 27 agosto 2012

La breve ma intensa vacanza portoghese, pur con qualche strascico aeroportuale, si è ben conclusa. Prima di tornare a grandi letture, alcuni passaggi se vogliamo estivi, ma con delle punte di attenzione. Autori italiani, punte di giallo, un buon ritorno di Sandrone e del suo gorilla, una non molto convincente prova di De Cataldo, una fuga nel nuorese con il buon Fois, finendo al rione Monti, o caso, con Ricciardi e il commissario Ponzetti.
Sandrone Dazieri “Il Karma del Gorilla” Mondadori euro 9 (in realtà, scontato 7,20 euro)
[A: 11/06/2011 – I: 13/04/2012 – T: 14/04/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 293; anno: 2005]
Certo ho impiegato del tempo, dopo aver chiuso il libro, per capire che volesse dire con il titolo, il nostro amico Sandrone. Perché il libro è interessante, scorrevole, ed anche non privo di spunti qua e la coinvolgenti – interessanti. Ma Karma? Alla fine, dopo una piccola indagine wikipediana, mi sono risposto (e spero sia quello il senso iniziale) pensando proprio all’origine della parola, lì nella religione vedica che prima la usò. Per indicare la concatenazione di causa – effetto che vincola l’individuo al ciclo di morti e rinascite (vere e/o fittizie). Ed in effetti, il nucleo duro del romanzo ci porta a questo ciclo. Perché dai fondi delle storie giovanili, emergono (rinascono) storie, personaggi, situazioni, che hanno portato il Gorilla ad essere quello che è. Sperando che non abbiate visto l’orrendo film tratto dalle storie del Gorilla, vi devo anche spiegare che il protagonista dei romanzi di Dazieri è uno strano personaggio, da definire “schizofrenico reale”. Cioè quando il Gorilla dorme, si sveglia il suo alter-ego interiore chiamato il Socio. E viceversa. Con il risultato che l’essere-Sandrone (unione di Gorilla e Socio) non dorme mai. Dopo una gioventù arrabbiata passata tra i centri sociali milanesi, il Gorilla si adatta a mille mestieri (privilegiando quello di buttafuori). Ma viene spesso richiesto per indagini varie (come sappiamo dai precedenti libri), tanto che alla fine si mette a fare più o meno l’investigatore. Usufruendo di quella rete di conoscenze ai limiti (della legge) che sfrutta un po’ come l’Alligatore di Carlotto. E qui dal passato viene fuori Samuele detto Sammy, ex-leoncavallino poi dirigente d’industria che lo incarica di ritrovare una comune amica, Sabina. Anzi più che amica, visto che era la donna di Sammy una dozzina di anni prima. Il Gorilla si attiva, e cominciano anche ad arrivare morti ed altro poliziesco di contorno (che poi riprenderò). Cercando i bandoli di queste matasse, Gorilla e Socio si ficcano in situazioni complicate, andando fino in Argentina alla ricerca dei nodi primari (pare che Sabina sia fuggita con un anarchico argentino). Un po’ di folklore alternativo su Buenos Aires (piacevole per chi ha freschi i ricordi di Boca e Palermo). Una rocambolesca fuga su di un cargo, il cui capitano Sandrone battezza Juan Sasturain (in omaggio allo scrittore che ho casualmente letto poco tempo fa in una delle sue prose minori, e mi dispiace). Per poi arrivare alle rese dei conti finali. Solito cascatone di possibili finali, dove veniamo portati ad individuare di volta in volta possibili colpevoli, che poi non lo sono. Ma eliminati tutti, qualcosa ne rimane. Dazieri si ingegna in un bel colpo di testa, ma noi che abbiamo seguito la storia con attenzione, non ci siamo lasciati ingannare ed abbiamo capito che eliminati tutti i possibili, rimane un unico colpevole. E così sarà. Spero di avervi ingarbugliato per bene la trama, tanto da invogliarvi a leggerne che è sempre piacevole. Anche per quel colpo da prestigiatore che fa trovare il modo al Gorilla di entrare nudo in una stanza portando con sé un’arma, che anche la perquisizione corporale non aveva individuato. Questo sì un bel colpo. Riprendendo l’accenno di sopra, tra i vari co-racconti, quello più efficace riguarda il coinvolgimento di servizi segreti americani nel rapimento di possibili (ma non accertati) terroristi. È vero che siamo nel post-2001, ma questa pratica (chiamata “rendition” e tradotta con “detenzione illegale”) è come dice il termine illegale. Usata nel famoso caso dell’imam milanese, pare sia stata più volte utilizzata in Europa, con la connivenza dei servizi segreti locali. E siamo solidali con Dazieri nel trovare il modo di denunciarla. Perché poi è questa l’empatia che ci lega all’autore: uno stesso disincanto sulle attuali possibilità ma una strenua lotta a tutte le illegalità, soprattutto quelle coperte dal potere politico. E qui mi fermo. Aspettando una nuova puntata del nostro beneamato Gorilla.
“C’è sempre una scelta. Solo che non è detto che sia quella giusta.” (23)
“Se stai invecchiando, inutile nasconderlo.” (287)
Giancarlo De Cataldo & Mimmo Rafele “La forma della paura” Repubblica Noir euro 6,90
[A: 06/08/2011 – I: 28/04/2012 – T: 29/04/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 284; anno: 2011]
Si legge d’un fiato, perché scorrevole e poco impegnativa. Ma come, direte voi, un libro che parla di criminali slavi, di servizi segreti deviati ed altre amenità, poco impegnativo? Purtroppo sì. Che si fa di molta erba un fascio, si veleggia a basso ritmo tra secche note di guasti italici, senza affondare coltelli, senza colpire duro. Da un lato si vede la mano di De Cataldo, con il presentare personaggi e situazioni, ricostruire, far attendere qualcosa. La mano insomma che sapientemente ci portava pagina dopo pagina verso l’amara conclusione di “Romanzo Criminale”. Dall’altro quella di Rafele, sceneggiatore più aduso a parlar di mafia, dove si fanno guazzabugli appunto di servizi segreti, teorie sulla verità palese o nascosta. Infarcendo il tutto con un po’ di sesso, belle donne, potere. Ceto la capacità di scrivere per la tv, gli da del ritmo, ma non molto di più. E proprio come i serial televisivi, l’inizio sembra promettere chissà quali intrecci. Si comincia addirittura nella Serbia del ’95, con massacri ed altro. E qui conosciamo i due poli della vicenda. Il Comandante, un mercenario italiano, e Lupo (non di soprannome, ma Nicola Lupo), un ‘problem solver’. Sono già dalle due parti del contendere. E lì li ritroviamo una quindicina d’anni dopo. Ma sono di molto cresciuti. Il Comandante è stretto alle leve del potere, circondato da vassalli e fascistoni, blaterando di un ordine globale e di ricchezza personale, una specie di Putin in salsa italiana, tant’è che si contorna di brutti ceffi slavi (che faranno ovviamente brutta fine, come gli sprovveduti para-terroristi arabi) ed ha dalla sua una sezione dell’anti-terrorismo, dedita più a costruire trame nere che a risolvere problemi reali. Lupo è un alto papavero della Polizia, con una sua sparuta ma efficiente squadra, il suo numero due, ovviamente una donna (ci vogliono un po’ di quote rose), ed una conoscenza dei meccanismi del potere e della corruzione che lo mette spesso sulla buona pista, ma che, proprio perché ne conosce i meccanismi, non riesce a debellare. Poi ci sono i co-protagonisti. Daria, il numero due di cui sopra. Marco, un ex-sbandato pieno forse inconsapevolmente di problemi di violenza (cioè sa della violenza, ma quanto sa che deriva dalle angherie subite dal patrigno in gioventù?). Guido, un rampollo di buona famiglia, che rinnega per passare organico ai movimenti alternativi, con mire para-rivoluzionarie (un mini-brigatista in salsa di caramello). Alissa-Rosanna, la donna del Comandante, una specie di vedova nera dei cattivi, usata sia come killer alla Uma Thurman di “Kill Bill” che come reclutatrice di sbandati alla Guido, con le sue arti femminili (una prostituta di classe insomma). Ed assistiamo alla lotta delle due fazioni. Quella palesemente cattiva, che cerca di creare confusione perché la dove c’è fumo ci può essere arrosto. E quella buona che sembra avere alcuni punti a suo vantaggio. Per ribaltare il tutto, Alissa circuisce Guido, lo costringe ad uccidere un poliziotto buono, che aveva preso sotto la sua protezione la furia Marco. Che trovatosi solo, viene reclutato, sempre con la complicità di Alissa, nella squadra del Comandante. Ma il Comandante commette l’errore di non uccidere Guido, che, benché dopo due mesi di coma, si salva. Fugge in Francia sulle labili tracce di Alissa (di cui non sa il ruolo reale). Intanto Lupo muove le sue piccole pedine per mettere le zeppe ai cattivi. Ma sarà Daria, che anni prima ha avuto una storia con Marco, a trovare il bandolo della matassa. I cattivi di primo livello non potranno non fare una brutta fine anche loro. Ma i burattinai, al solito, si salveranno. Insomma… leggerino. Con solo un paio di pagine di riflessione sulla nascita del terrorismo globale e sul ruolo che anche gli americani hanno ed hanno avuto. Un po’ poco e già di molto sentito. Speriamo che i due tornino sapientemente ai loro mestieri migliori (intendo gli scrittori, ovviamente).
Marcello Fois “L’altro mondo” Einaudi euro 10
[A: 31/01/2012 – I: 06/06/2012 – T: 08/06/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 156; anno: 2002]
Ancora Sardegna, quando si dice che si imboccano delle strade e poi capita che si percorrano anche un po’ più dell’usuale. Dopo il giovane Soriga (letto pochi giorni prima anche se non ancora recensito), ritorno ad uno scrittore che non dispiace, alternandosi anche con prove “continentali”, ma di cui ricordo sempre con piacere quell’esegesi sarda per Laterza (“In Sardegna non c’è il mare”) che vale una bella lettura. Qui torniamo invece ad una delle sue scritture iniziali, il capitolo finale dedicato alla trilogia di Bustianu. Questo nome sardo indica “s’aboca”, l’avvocato, che aveva colpito la fantasia del trentenne Fois. Infatti, in tre libri, dedica qualche bella pagina in onore dell’avvocato Sebastiano Satta, vissuto alla fine dell’Ottocento. Avvocato e poeta, spirito libero che cerca di scardinare i luoghi comuni e le corruttele dell’epoca, che si batte per venti anni in prima linea. Poi, colpito da paralisi alle corde vocali, dedica gli ultimi anni a scrivere poesie, rimanendo per sempre nel cuore dei nuoresi, ed a cui il nostro appunto dedicata qualche volume romanzato. In cui rimane lo spirito, se non la lettera di Sebastiano. Che lotta per ribadire principi di legalità in una terra, ormai annessa all’Italia, ma che dell’Italia non si sentiva (e forse si sente ancor oggi poco) partecipe. Una terra piena di problemi d’ordine, che i grandi latifondisti del Nord, in combutta con gli agrari e benestanti isolani, colonizzano con la forza, espropriando ed emarginando i pastori locali. Ed anche i possidenti locali. Che si danno al brigantaggio, favoriti da una natura che solo loro conoscono. La denuncia di Fois è verso quel periodo che fece nascere intrecci malsani tra interessi pubblici e privati. Mescolati alla natura ritrosia sarda, al fatto di essere isola, e di usare il mare a difesa della terra e non come tratto di unione con il resto del mondo. E l’avvocato è anche uomo di principi, innamorato della bella Clorinda, ma che vuole sposare perché ama, non perché si debba combinare il matrimonio tra famiglie. Questi due impulsi, anche qui, pubblici e privati, sono l’ossatura del romanzo. Dove vediamo Bustianu indagare sulla morte di una donna, di cui si accusa un brigante alla macchia. Ed è proprio il brigante che chiede aiuto all’avvocato per trovare “la verità”. Bustianu comunque, pur fidandosi poco del bandito Mariani, rimane colpito da una serie di incongruenze. Il corpo che scompare e riappare. La facilità con cui i carabinieri sembrano archiviare il caso. L’arresto, anch’esso troppo facile, di un altro bandito, con la conseguente morte dell’unico che, si dice, avesse visto la morta prima della scomparsa del cadavere. Ritrova pezzi di armi ignote qua e là, animali che muoiono senza un perché, erba che non cresce. Siamo pochi anni dopo la sconfitta pesante degli italiani ad Adua, e la ricerca del Governo di avere “un posto al sole”. Ed un governo pronto a tutto per averlo. Anche a sperimentare nuove modalità di guerra. E quale miglior posto della Sardegna per farne terreno di prova. Temi che, attualizzati e scritti posteriormente, mi sembrano riapparire in “Perdas de Fogu” di Carlotto e Mama Sabot. Aiutato dal fido Zenobi, sventa alla fine sia il tentativo di depistaggio (trovando i veri motivi della morte di Eléne), sia le trame di Mariani che tentava di usare questa morte come elemento di trattativa con lo Stato. Più altre trame minori, che lasciamo all’inclito lettore di scoprire. Sull’altro versante, ancora più aspra è la lotta di Bustianu con le tradizioni locali, incarnate anche dalla madre che non accetta una nuora che non abbia scelto lei. E le maldicenze del paese. E via discorrendo, che siamo nell’Ottocento deleddiano. Vincerà su tutta linea, anche se, come spesso in Fois, la vittoria lascia un po’ d’amaro in bocca. Un libro onesto, con belle visioni interne del panorama sardo, qualche incomprensibile parola in dialetto, e qualche accenno a questioni”alte”, e che non sono ancora state risolte.
“Tu credi che io sia stato un buon fratello? … Con te, dico, sono stato un buon fratello?” (82)
“Io capisco bene solo quello che vedo. Non è che mi consola il fatto che stiamo tutti male.” (93)
“Far vivere agli altri la propria vita è una possibilità che non si dovrebbe dare, anche se quegli ‘altri’ sono persone che si mano davvero.” (114)
Giovanni Ricciardi “I gatti lo sapranno” Fazi euro 9,50
[A: 04/12/2011 – I: 09/06/2012 – T: 11/06/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 153; anno: 2008]
Ecco un nuovo autore, non particolarmente prolifico (mi risultano tre romanzi), che aggiungo di buon grado alle buone letture di quest’anno. Sgombriamo subito il campo alle illusorie definizioni delle copertine varie. Il commissario Ponzetti, protagonista ed io narrante dei romanzi, non è “il Montalbano romano” che si vuol far credere. Non basta essere commissario per diventare un epigono del vigatese. E Ponzetti non frammischia lingua e dialetto, anche per non cadere in indebite citazioni gaddiane. Al più potrebbe essere un epigono del commissario Laurenti, protagonista triestino dei romanzi di Heinichen. Stessa pacatezza, famiglia normale alle spalle (moglie e due figlie, tra l’altro con circa otto anni tra loro, che mi fa sentire quasi a casa). Ma le assonanze finiscono qui. L’empatia del romanzo la ritrovo più che altro nell’atmosfera romana che si sente in ogni pagina (e qui si che ci sarebbe un parallelo, ma con il commissario Maré di Quartucci). Che il nostro commissario opera nel quartiere Esquilino – Monti. Si aggira intorno a Piazza Vittorio, andando magari a prendere un gelato al Palazzo del Freddo di Fassi. Si muove intorno all’Acquario di Piazza Fanti. Va su e giù per via Principe Amedeo, non disdegnando però salite per via Cavour, discese per via Urbana, frequentazioni con la chiesa della Madonna ai Monti. In questo triangolo delle Bermuda romano, ormai diventato quasi terra straniera, con l’invasione cinese a capeggiare i nuovi affittuari, il commissario Ponzetti si trova a riproporci una vicenda che gli sta a cuore. Inizia in sordina, fa un po’ fatica a carburare, ed i primi capitoli sono un po’ appiccicati, che servono ad introdurre l’atmosfera, ma è come se l’autore, professore di greco e di latino, abbia timore di calarsi “in media res”. Poi si butta, ed anche il romanzo lievita. E cresce intorno alle vicende della “gattara” Giovanna, investita ed in coma. Così, insieme al commissario, ricostruiamo la vita della “sora Giovanna” e degli abitanti del suo palazzo. Il nipote Aldo, giornalaio di giorno e netturbino di notte. I conviventi Martina e Matteo, lei incinta e disoccupata, lui impiegato del comune forse in necessità oncologiche. La loro padrona di casa, la finta maga Olga, che utilizza la sua scarsa arte per circuire persone credulone. Tra un cappuccino ed una passeggiata per chiarirsi le idee, nonché attraverso l’osservazione di cose e fatti, aiutato al fine dall’ottuagenaria suor Elvira, il commissario ripercorre la vita della gattara. Fuggita dalla natia Calabria sedicenne in cinta, aiutata da Elvira a far adottare il figlio ad una famiglia tedesca, sposa di ripiego di un fioraio vedovo con figlio, che dopo i primi anni di “pace”, non fa altro che bere e picchiarla, con il figlio invece sempre più dedito a droghe ed analoghe fughe. Muore il marito, muore il figlio, Giovanna si dedica anima e corpo ai gatti, con la speranza, un dì, di ritrovare il figlio perduto. Su questo farà leva Olga la maga, per imbastire un raggiro, aiutata controvoglia da Matteo e contrastata con forza da Aldo. Tutto alla fine si raccorda, non essendoci un vero e proprio omicidio, attraverso una punizione dei colpevoli, più fattiva che giustizialista (vedete voi se vi convince). La realtà rimarrà un po’ defilata, come dice il commissario, che forse solo i gatti della sora Giovanna ne conoscono lo svolgimento reale. Insomma un buon romanzo, forse a volte divaga un po’, forse a volte sembra voler fare un po’ il colto. Ma nel complesso non dispiace, anzi piace per chi vuol bene a questa città.
“Ripenso a quando mi accorgevo solo di me e non sapevo più guardare negli occhi le persone che amo.” (153)
Come detto, bella e felice vacanza portoghese, contornata da merluzzi, castelli, monasteri e “pasteis de nata”. Ora si torna nel vivo delle cose, al caldo, al lavoro, ed altre settembrine amenità. Ma si affronteranno con calma e pacatezza, così come il nostro status esige. Per ora, a tutti
Un bacio

domenica 5 agosto 2012

Saggi di fine stagione - 04 agosto 2012

Non perché siamo in saldi, ma perché siamo in partenza. Tra una domenica e l’altra, passando per il ferragosto, credo che ci ritroveremo verso la fine del mese. Anche perché il vostro fedele lettore si prende anche lui un po’ di riposo. Allora ecco alcuni libri per pensare a lungo (così almeno il cervello non va in vacanza). Si parla di etica, di rapporti tra le persone, ed anche, grazie al suggerimento della mia amica di scrittura docente, di sé e del tempo che passa. Libri facili (l’ultimo) o difficili (il primo) che non lasciano indifferenti. E visto che tra poco è anche il compleanno di Moretti (classe di ferro, quelli del ’53), facciamo anche un po’ di dibattito su chi siamo, per gli altri e per noi stessi.
Zygmunt Bauman “Le sfide dell'etica” Feltrinelli euro 10
[A: 02/06/2011 – I: 11/02/2012 – T: 04/03/2012]
[titolo: Postmodern Ethics; lingua: inglese; pagine: 288; anno: 1993]
Un libro veramente difficile (avrei detto ostico, se no volessi molto bene a Bauman) che mi ha accompagnato per le vallate e le montagne laotiane, dandomi agio di leggerne e pensare in un ambiente ove la riflessione era invitante in ogni passo. Intanto (al solito) non capisco perché un titolo che induceva alla riflessione sull’etica postmoderna sia stato trasformato in uno sulle sfide dell’etica. Il discorso di Bauman invece è proprio (e per la prima volta) teorico sulla costruzione dell’etica, per arrivare ad un’analisi del momento attuale (anche se il libro ha quasi venti anni) e sulla difficoltà di avere un’etica “fissa”. Sono i prodromi del suo discorso del mondo come entità liquida, dove nulla è fissato, ma tutto è variabile e rapportato al contingente. Per cui uno stesso comportamento acquista significati differenti in momenti e contesti differenti. Al fine di arrivare a questa conclusione, l’autore ci fa fare un lungo e periglioso viaggio, partendo dal sé, passando dal rapporto a due e terminando con l’apertura agli altri, al mondo, alla società. Belle le pagine sul noi, e sul fatto che non sia il plurale di io, ma si riferisca a moltitudini di rapporti. E se si segue passo dopo passo il suo ragionamento non si può non convenire che il mondo attuale, post-moderno derivante dal superamento (temporale) del mondo moderno che era caratterizzato dalle conquiste industriali, sia un mondo di difficile vita. Perché ora si passa dall’industria alla tecnologia, che diventa una bestia difficile. Il tecnologo, infatti, non pensa più in termini “questo serve, quindi uso la tecnologia per arrivarci”, ma rovescia il discorso dicendo “la tecnologia lo può fare, quindi lo faccio e farò in modo che serva a qualcosa”. E noi pensiamo subito a tutto quanto ci viene imposto da cellulari e iPod – iPad e pensiamo se veramente serva… Un’ultima riflessione mi è nata leggendo il passo della definizione degli altri. L’altro come qualcosa che definisco (che faccio esistere) in quanto ha un significato per me. Esiste perché ha un rapporto con me, e potrebbe essere ben diverso da quanto lui, l’altro pensa di se e della sua vita. Ed allora pensiamo anche al contrario: cosa sono io per quell’altro? Come sono definito nella sua costellazione di vita? Quante belle riflessioni possono scaturire da questo passo. Vedremo di portarle avanti, prima o poi. Comunque, come tutti i libri di Bauman, mi porto dietro una grande massa di frasi che sono rimaste appiccicate alla mia memoria, soprattutto quelle finali, dove si adombra una metafora a me ben vicina. Affrontare la vita da turista, vedere tutto, andare ovunque rimanendo in se. Fisicamente vicini! Ora lasciamo da parte Bauman per un po’ in modo da far sedimentare queste riflessioni.
“Si può aver fiducia che i saggi … facciano del bene autonomamente; ma non si può aver fiducia che tutti siano saggi.” (36)
“Lukačs à amare: essere sempre dalla parte del torto, e à amare così tanto che l’oggetto amato non intralci il mio amore.” (102)
“La sola medicina preventiva efficace contro la morte è la vita.” (107)
“La relazione amorosa non può essere creata se entrambi i partner non lo vogliono; ma per porvi termine è sufficiente la decisione di uno solo dei partner.” (110)
 “Io vivo in un mondo popolato di Tutti, Alcuni, Molti e dei loro compagni. Vi sono anche Differenza, Numero, Conoscenza, Adesso, Limite, Tempo, Spazio, anche Libertà, Giustizia e Ingiustizia, e, certamente, Verità e Falsità. Questi sono i protagonisti della rappresentazione intitolata Società … La Ragione ragiona, l’Immaginazione immagina, la Volontà vuole e il Linguaggio parla. Ecco come i personaggi diventano attori a pieno titolo.” (117)
“Kundera: nessuno … può garantire che un avvenimento del tutto episodico non serbi in sé una forza che un giorno, inaspettatamente, lo farà diventare causa di ulteriori avvenimenti.” (161)
“La proteofobia consiste nell’avversione per le situazioni in cui ci si sente smarriti, confusi, impotenti.” (169)
“Il flâneur della città è il giocatore-viaggiatore. … Il suo gioco è far giocare gli altri, vedere gli altri giocare, fare del mondo un gioco.” (177)
“Vogliamo più macchine, e macchine più veloci, per raggiungere le foreste alpine, solo per scoprire alla fine del viaggio che non esistono più, che sono state distrutte dai gas di scarico [delle nostre macchine veloci].” (209)
“Ma c’è un'altra metafora adatta alla vita postmoderna, quella del turista. … il turista sa che non rimarrà a lungo dove è arrivato. … egli dispone soltanto del suo tempo biografico per seguire un percorso; nient'altro può ordinare le sue mete in una successione temporale. … È la capacità estetica del turista – la sua curiosità, il suo bisogno di divertimento, il suo voler vivere, e l’attitudine a vivere, nuove, piacevoli e piacevolmente nuove esperienze – a possedere una libertà quasi totale di costruire lo spazio del suo mondo della vita… I turisti pagano per la loro libertà; il diritto di ignorare gli interessi e i sentimenti dei nativi, di tessere la loro propria rete di significati, lo ottengono compiendo una transazione commerciale. La libertà si accompagna alla stipula di un contratto, il grado di libertà dipende soltanto da quanto la si può pagare e, una volta acquistata, essa diventa un diritto che il turista può apertamente rivendicare, cercare di farsi riconoscere per legge e sperare che venga accordato e protetto. …  il turista è extraterritoriale; ma … vive la sua extraterritorialità come privilegio, come indipendenza, come diritto di essere libero, libero di scegliere; come autorizzazione a ristrutturare il mondo. Quella che può essere (che probabilmente è, quando si pensa a essa, ma poi perché si dovrebbe pensare a essa?) la routine quotidiana per i nativi, è per il turista una serie di emozioni esotiche. I ristoranti con i loro piatti dai profumi strani; gli hotel con le cameriere abbigliate in modo strano; i monumenti dall’aspetto strano, testimonianze della storia di altri; gli strani rituali delle routine quotidiane di altri, tutto attende docilmente che il turista ne sia attratto, vi presti attenzione, ne tragga piacere. Il mondo è l'ostrica del turista. Il mondo è lì per essere piacevolmente vissuto e quindi dotato di significato. Nella maggior parte dei casi il significato estetico è il solo di cui abbia bisogno e che possa avere.” (246)
“Idealmente, si dovrebbe essere turisti ovunque e sempre. Fisicamente vicini, spiritualmente lontani.” (248)
Enzo Bianchi “Per un’etica condivisa” Einaudi euro 10
[A: 18/03/2012 – I: 10/04/2012 – T: 12/04/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 126; anno: 2009]
È sempre un piacere leggere uno scritto di Enzo Bianchi. Si può o meno essere in accordo con quanto scrive, si può condividerne parte. In ogni caso scrive in modo partecipato e ti fa partecipare. Non è un caso che è sempre foriero di tanti frasi su cui meditare, e che al solito riporto in calce. Questa volta mi aveva attirato il titolo incentrato sull’etica, e mi ha preso dopo che, in poche pagine, ha in pratica rivelato come fosse una specie di seguito (logico) della “Differenza cristiana” che primo lessi tra i suoi scritti. Non siamo più sui ricordi personali dell’ultimo scritto letto sul pane di ieri. Siamo di nuovo sul fronte dell’impegno civile. E soprattutto su quanto possa girare intorno alla domanda: siamo tanti al mondo e siamo diversi, possiamo trovare una strada per condividere un’etica al di là delle differenze esistenti? Credo che non si possa che condividere con lui, che si, credenti di credi diversi e non credenti possono condividere un’etica di vita, nel rispetto (reciproco) di alcune regole fondamentali. Prima, la non demonizzazione dell’altro. Non perché sei diverso puoi e devi essere “tolto di mezzo”. Bianchi per primo dice (e credo con profonda convinzione) che non è su questo terreno che si gioca il rapporto reciproco. Cioè non è sul fatto che tu devi avere la fede per condividere la mia etica, o tu devi “dimenticarla” per poter fare un percorso comune. Siamo diversi. Manteniamo e rivendichiamo queste diversità. Ma l’etica, il convivere civile, è al di là ed al di sopra delle nostre istanze individuali. Ad esempio, lo stato non può che essere laico, che se (come riporto sotto) si arrivasse ad una legislazione che tenga conto solo delle istanze dei credenti si arriverebbe ben presto ad uno stato teocratico, in molta parte ingestibile. Come lo furono gli stati teocratici del cristianesimo medioevale o alcuni stati islamici o ebraici contemporanei. Solo bilanciando le varie esigenze, si può arrivare a quell’etica che non può essere che un’istanza superiore. Nella città comune dobbiamo vivere insieme. E qui, Bianchi riprende alcuni temi a lui cari e che mi toccano (mi hanno sempre toccato). L’altro, lo straniero, che non deve essere foriero di paure, ma portatore di confronto e di sintesi in avanti. Bianchi parte sempre dalle parole del vangelo, ove si diceva (e questo era fortemente vero nei primi tre secoli dell’era moderna) che il cristiano era uno “straniero tra le genti”. Straniero perché portatore di istanze interiori che non erano condivise. Portando tutto all’estremo, per dire (con la modernità) che siamo sempre stranieri a noi stessi. Certo, alcune parti mi convincono meno (vedo ad esempio i pericoli di certi obiezioni di coscienza che, pur giustificate, non possono essere generalizzate), altre fatico a seguire (al solito, alcune referenze al Concilio Vaticano II, di cui so ma non conosco), altre mi pongono dubbi (laddove mi sembra che affiori l’impegno attivo, tipo convenuti al convegno di Todi). Ma è il complesso dello scrivere che mi avvicina. Quello scagliarsi contro le mode di assurdi revival minimalisti, o il testimoniare urlando, per poi negare nella pratica quotidiana quanti si è appena testimoniato. Se in tanti si avesse un’oncia dell’etica descritta da padre Bianchi, quanto (e tanto) meglio staremmo tutti.
“Bauman descrive giustamente la nostra società come società di ‘turisti consumatori’ … una società … senza la preoccupazione della solidarietà.” (7)
“I cristiani … devono lasciare che sia il gioco democratico a determinare le leggi all’interno di una stato … la chiesa non può imporre che le proprie visioni etiche e morali siano tradotte in leggi dello stato.” (17)
“L’esperienza umana mostra che siamo ‘stranieri a noi stessi’ … come ci ricordano … le voci della cultura del XX secolo, dalla psicoanalisi alla filosofia, dalla letteratura alla poesia.” (31)
“L’uomo può essere umanamente felice senza credere in Dio, così come può esserlo un credente: non è la fede in Dio a determinare la felicità o l’infelicità di un essere umano.” (47)
“Un mondo in cui regni finalmente il rispetto dell’altro, il riconoscersi fratelli, l’armonia con il creato, la giustizia, la pace e la vittoria della vita sulla morte.” (62)
“L’umanità è una, … di essa fanno parte religione e irreligione, e che è possibile, per credenti e non credenti, la via della spiritualità … intesa come vita interiore profonda, come fedeltà-impegno nelle vicende umane, come ricerca di un vero servizio agli altri.” (65)
“Per alcuni cristiani persiste la tentazione di imporre le proprie idee agli altri, contraddicendo così lo stile cristiano autentico che sempre ‘propone’ il suo messaggio attraverso il vangelo, cioè lo offre come ‘buona notizia’ che si indirizza sempre alla libertà degli interlocutori, considerati capaci di riflettere, degni di quella fiducia necessaria a ogni confronto e dialogo.” (103)
“L’uomo è capax beni” (copertina)
Marc Augé “Diario di un senza fissa dimora” Raffaello Cortina Editore euro 9,50
[A: 04/12/2011 – I: 19/05/2012 – T: 21/05/2012]
[titolo: Journal d’un SDF. Ethnofiction; lingua: francese; pagine: 128; anno 2011]
Ho comprato questo libretto perché Marc Augé è una di quelle firme saggistiche che fanno parte del mio personale pantheon di stelle. Come Bauman o come Barbero. Incuriosendomi inoltre l’idea che non fosse un pamphlet, ma un racconto a tesi, come quelli che, nelle prime uscite, mi piacquero molto pubblicati da VerdeNero per Lega Ambiente. Augé è un fine etnologo, che mi ha rapito in alcune sue pagine sull’etnologia della metropolitana o sulle popolazioni che transitano nei non-luoghi (dagli aeroporti ai centri commerciali). Ed in effetti questo libro è duplice: da un lato pone un forte quesito etnologico, su alcuni comportamenti attuali dell’umanità cui cercheremo di discorrere più avanti. Dall’altro tenta di farne una storia. Questa, devo subito dirlo, è la parte meno riuscita. Dovendo solo giudicare il testo fuori dal contesto, direi che come romanzo non mi è piaciuto. Il protagonista attraversa tutte le pagine scrivendo note del suo diario, ma la sua storia, dopo la “rottura” iniziale è moscia. Frequenta i suoi luoghi rimanendone sempre ai margini. Parla con gli altri, ma sempre con la sua reticenza dell’alienità. Anche la sua storia con la bella di turno non ha l’epos che potrebbe avere o meritare. È certamente conseguente. Il suo filo prosegue e si dipana ed anche se ci piacerebbe vedere finali diversi, è conseguente a tutta l’impalcatura precedente. Ma come romanzo non prende. Probabilmente, come lui stesso dice nella premessa, non è quello che vuole. Non vuole farci identificare con il protagonista. Quindi non ce lo rende bello e simpatico. Questa è la “fiction”. Ma è l’assunto etnologico che invece ci prende e ci fa pensare. Perché il protagonista è travolto dalla crisi. Due divorzi sballati, alimenti da pagare, affitti, forse pensionamento al limite. Fatto sta che non ce la fa più a mantenere tutto in piedi. Decide allora di mollare qualcosa. E l’unica cosa che riesce a mollare è la casa, la dimora. Si trasferisce quindi a vivere nella sua macchina. Qui avremmo avuto il piacere romanzesco di vedere come se la cava: con le strisce blu, per cui si deve spostare; con il bagno, dovendosi pur lavare e fare pipi ed altri bisogni corporali. Ma lui non è un poveraccio che viene costretto a vivere “sotto i ponti”. Lui coscientemente decide di vivere “senza fissa dimora”. Ma non è a secco totale. Per cui mangia (seppur non tanto) in qualche bettolina di banlieue. E decide di andare, una volta a settimana, in un albergo economico (35 euro la notte) per dormire in un letto e fare una doccia “seria”. Non si bilanciano queste due facce, per cui l’andamento quotidiano del senza fissa dimora risulta una peregrinazione di visite nei luoghi della sua esistenza. Certo con qualche messaggio interessante. Non ha più il vincolo del tempo, per cui parla, anche se poco, con tanti, con i negozianti, con le persone, insomma comunica. Ma poiché Augé non ha la stoffa del romanziere tutti questi passi “dentro il nulla della vita” rimangono sempre delle descrizioni esterne da entomologo piuttosto che da scrittore. Rimane l’assunto di come, per resistere alla crisi, una persona decida di usare una serie di risorse anche minime. E di scoprire di cosa si possa fare a ameno. Devo dire che un po’ mi ha ingannato inizialmente il termine “senza fissa dimora” che pensavo proprio a quel popolo errante (che vidi in America già tanti anni fa) che portava tutte le sue cose in un carrello della spesa, compresi cartoni per potersi costruire un giaciglio notturno. Qui siamo su altri registri. Ma l’etnologo è lì, pronto a registrare un possibile comportamento. Una possibile via d’uscita. Una sopravvivenza per usare tutto quello che si ha, al meglio. Manca (volutamente?) la speranza. Manca una volontà di uscire da questa condizione errabonda. Come se il protagonista un po’ se ne crogiolasse. Questo mi ha un po’ disturbato. Anche se la domanda che pone, sull’affrontare la crisi che avanza è forte, potente e induce grande spavento. Rimango così, a pensare quanto questo fenomeno sia diffuso. E forse lo è più di quanto io pensi. Riflettiamoci.
“La solitudine… non ha niente di insopportabile. Il silenzio è meno imbarazzante degli sforzi che facciamo per dissimularlo, ed è infinitamente meno penoso stare zitti da soli che in due.” (27)
Françoise Héritier “Il sale della vita” Rizzoli euro 6 (in realtà, scontato 4,80 euro)
[A: 24/07/2012 – I: 25/07/2012 – T: 26/07/2012]
[titolo: Le sel de la vie; lingua: francese; pagine: 92; anno 2012]
Me ne aveva accennato Luciana in una sua mail, dicendo “è utile dopo (averlo letto) per l'uso personale che se ne può fare”. Visto mentre tornavo dal lavoro, preso, incominciato a leggere in metro, e divorato in 24 ore. In effetti, come libro in sé è facile, e discretamente veloce. Non si legge in 15 minuti, come dice Luciana, ma certo non è un libro da settimane. Qual è il succo? La Héritier è una brava antropologa, che prese la cattedra di Claude Levi-Strauss quando questi si ritirò dall’insegnamento. Sollecitata da un avvenimento privato, comincia a ragionare (la immagino ad alta voce, passeggiando pigramente per qualche stanza parigina), e poi a buttare su carta una serie di pensieri, un po’ a ruota libera, su tutti quegli elementi (piacevoli e non) che si sono impigliati nella sua memoria, e che, affiorandone, danno appunto “sale” alla sua vita. Non è un tentativo furbetto alla Delerm e la sua “prima sorsata di birra”. Quelli erano elenchi di piaceri, che poi venivano approfonditi, amplificati, in un certo senso serviti e degustati (o viceversa, ma va approfondito…). Qui si parla di sensazioni, immagini piacevoli, ma anche di momenti dolorosi (malattie, ospedali, morti), senza che vengano approfonditi. Non se ne fa una disamina. Se ne fa una specie di lunga lista ininterrotta. Come dice l’autrice, un po’ ad associazione di idee, quando una ne tira appresso una seconda, e via così come le ciliegie. Tutto per convincere il suo amico medico che una settimana di vacanza in Scozia non è rubata ai pazienti (vero Emilio?), ma è e sarà parte della vita. Se poi rimarrà impigliata nella memoria, ne sarà quel sale che ci fa dire che la nostra vita ha un sapore. Alla fine, proprio come un dipinto puntillista esce dalle pagine un ritratto a tutto tondo di chi ha vissuto quelle sensazioni. Pudicamente (ma forse è giusto così nell’era dell’esibizionismo) non parla di sesso o di amore. Anche quello porta sale (e pepe e peperoncino) alla vita. Ma qui si parla di pennellate. Di momenti. Anche di istanti. Non ne ripercorro molti, che in realtà sono dell’autrice, anche se alcuni li condivido, li sento miei. Immagini di cinema, righe di lettura, paesaggi, odori, sapori. Non sono questi gli elementi che mi hanno fatto innamorare dell’idea del libro. È proprio il suo impianto. E quella frase che riporto in calce. E l’idea, come si diceva all’inizio, di cosa ci si può fare. Io ne ho cominciato una seconda lettura, sottolineando (a matita!) quelle sensazioni, quelle frasi che mi fanno sentire all’unisono con la scrittrice. E mentre ne rileggo, la testa comincia a partire, a fare associazioni altre. Camminare con un amico a piedi scalzi in un tempio indù dopo una pioggia tropicale. E continuare a piedi scalzi fino all’albergo. Le lacrime di mio padre dopo l’infarto. Un abbraccio sulla spiaggia di Forte dei Marmi fuori stagione. Un pacco di viveri davanti la porta di casa al ritorno da un lungo viaggio. La prima volta che ho sentito Keith Jarrett da solo. L’attacco del sassofono di Jan Garbarek in “My song”. Il secondo film della pantera rosa, con alcune scene (quasi tutto il primo tempo) che potrei citare a memoria. Le puntate di Friends viste con Sara. Una mangiata di more al Salinello, e la foto sul ponte che crolla (e soprattutto quella tutti in acqua). Una stretta di mano in un cinema al buio in una pellicola che non ricordo più (ma ricordo il bacio). Un panino con la meuza la prima volta alla Vucciria. Girare per le strade di Gerusalemme e passare in pochi minuti dal Muro del Pianto al Santo Sepolcro. Verrebbe quasi voglia di copiare la nostra amica Héritier, e di continuare a scrivere. Il mio suggerimento, per ora, è di leggerlo, farsi affiorare le bolle di memoria, e gustarle a poco a poco, e, perché no, condividerle. Magari sorseggiando un liquore appropriato alla stagione, seduti comodamente con dei buoni amici intorno per spartirsi e il bere e il sapere.
“Ho cercato di descrivere per approssimazione quella forza impercettibile che ci muove e ci definisce. Questa forza dipende naturalmente dalla nostra storia, dal nostro vissuto, ma non è certo un inno al passato, anzi: è l’essenza stessa e la giustificazione di tutte le nostre azioni presenti e future, anche se non lo sappiamo. L’”io” non sarebbe quello che è se certi avvenimenti che hanno incanalato la nostra vita in certe direzioni non si fossero prodotti, ma non lo sarebbe neppure se questo “io” non avesse avuto occasione di provare questa o quella emozione, di vibrare in questa o quella occasione, di sperimentare questo o quello per mezzo del corpo.” (88)
Ed ecco la tassa della prima domenica del mese: i libri di maggio, un mese direi sostanzialmente di letture positive, illuminate da Saviano con a ruota Fortunato e la Gamberale. E con solo un paio di letture poco sotto la media. Un buon mese (d’altra parte…).

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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Cormac McCarthy
Suttree
Einaudi
15
3
2
Aldo Nove
Elegia
Repubblica Amore
3,90
3
3
P. D. James
La stanza dei delitti
Repubblica Giallo
5,90
3
4
Jonathan Coe
Circolo chiuso
Feltrinelli
8,50
3
5
Massimo Vitali
L’amore non si dice
Fandango
13
3
6
Elizabeth George
Dicembre è un mese crudele
TEA
9
3
7
Mario Fortunato
Il viaggio a Paros
Repubblica Amore
3,90
4
8
Roberto Saviano
Vieni via con me
Feltrinelli
13
4
9
Banana Yoshimoto
N.P.
Feltrinelli
7
2
10
Milena Agus
Ali di babbo
Beat
7,50
3
11
Alan Bennett
La pazzia di Re Giorgio
Adelphi
11
3
12
Marc Augé
Diario di un senza fissa dimora
Raffaello Cortina Editore
9,50
3
13
Andrea Camilleri
Il gioco degli specchi
Sellerio
14
3
14
Andrea Vitali
Il segreto di Ortelia
SuperPocket
5,90
3
15
Clive Cussler & Jack Du Brul
Skeleton Coast
TEA
8,90
3
16
Elsa Morante
La storia
Repubblica Novecento
4,9
2
17
Chiara Gamberale
Una via sottile
Marsilio
7
4
18
Francesco Matteuzzi
Philip K. Dick
Beccogiallo
s.p.
3

Se a luglio faceva caldo, agosto non si tira indietro. Comunque si prendono due settimane di riposo, che se ne ha bisogno. Poi si vedrà.
Un bacio
Giovanni