domenica 25 febbraio 2024

Torna l'avventura - 25 febbraio 2024

Da molto tempo non dedicavo una trama intera ai romanzi d’avventura, altra serie minore ma non di nicchia, con molti estimatori. Io lo sono per alcuni autori, di cui ho quasi le intere produzioni, ma non di tutti. Qui abbiamo due buoni risultati e tre discreti. Tra i buoni, per interesse e scrittura, indicherei la saga giapponese di Clavell e una delle ultime fatiche di Wilbur Smith. Tra le altre, un libro in spagnolo del finlandese Waltari, ma non sull’Egitto, uno sull’Egitto del francese Jacq ed uno dei nuovi episodi della serie della “Cussler factory” dedicata a Isaac Bell.

Mika Waltari “El Aventurero” Éxito s.p. (regalo di Alessandra)

[A: 01/10/2021 – I: 01/02/2022 – T: 13/02/2022] - && e ½

[tit. or.: Mikael Karvajalka; ling. or.: finlandese; pagine: 372; anno 1948]

Un libro entrato in maniera alquanto strana nella mia biblioteca. Si era in visita allo stupendo giardino botanico “La Concepcion” di Malaga. Mentre aspettavo sorseggiando un caffè, Ale mi porta un regalo: la botanica aveva messo dei libri incartati, da prendere insieme ad un fiore. Regalo nascosto, da cui sbuca questo libro. Del grande scrittore finlandese Mika Waltari, una delle sue grandi opere storiche. Ovviamente tradotto, ma, traduzione per traduzione, si può leggerlo in qualsiasi lingua, dato che il finlandese ancora mi è decisamente ostico.

Libro di avventure, come riporta il titolo in inglese (“The Adventurer”), in italiano (“L’avventuriero”) o questo in spagnolo. Anche se il titolo originale riporta solo il nome del protagonista (o un’indicazione come “Michael der Finn” in tedesco), che tra l’altro, essendo ambientato nel 1500, usa spesso un cognome significativo, essendo “Karvajalka” in finlandese “Piede Peloso”. Seguiamo così, attraverso lo scritto, le vicende di Michele dal 1502 (quando nasce) al 1527 (dove termina questo libro, per proseguire poi nel successivo “Mikael Hakim”, che tuttavia non credo leggerò).

Anche l’edizione spagnola è ben datata del resto, visto che è l’edizione del ’56, e se ne sente il peso, che la lingua non è particolarmente scorrevole (d’altra parte, provate a leggere libri coevi italiani, e non sempre saranno di facile lettura). Motivo per cui il testo mi ha impegnato più a lungo del consueto, obbligandomi a riprendere la mia natura antica di leggere più libri in parallelo, altrimenti mi avrebbe bloccato l’andatura.

Waltari è uno dei più popolari scrittori finlandesi, e di sicuro il più venduto, soprattutto per il suo libro più conosciuto, “Sinhoué l’egiziano”. Qui, invece dell’antico Egitto, ci porta nel 1500, coprendo un arco di 25 anni circa, e terminando il testo in una data eponima, quel 6 maggio 1527 che secondo Bertrand Russell ed altri studiosi, è la data conclusiva del Rinascimento.

Mikael nasce a Turku (al tempo chiamata Abo) nel 1502, e lo incontriamo quando, ancora bambino, la sua famiglia viene sterminata e lui è accolto da Pirjo, una zitella in odore di stregoneria. Mikael è dotato, studioso, tanto che dopo le scuole clericale locali, riuscirà ad andare a studiare a Parigi. Prima però incontrerà l’amico di tutta la vita, Antti Tykinvalaja, forte, leale, gran bevitore, più dedito alle spedizioni militari che ai fini ragionamenti.

Ma prima di arrivare a Parigi, molte saranno le peripezie del giovane Mikael, che parte dalla Finlandia nel 1517 e solo tre anni dopo arriverà in Francia. Partendo squattrinato, ricco solo della raccomandazione del vescovo Arvid, si dà a mille mestieri: marinaio per traghettarsi in Germania, orafo in terra tedesca, dove ha la sua prima storia d’amore, spia a Lubecca per il re danese Cristiano II, contattato da tal Didrik, con la cui sorella ha la prima storia di sesso (molto casto nella descrizione, ovvio), in fuga con cavalli ed altri mezzi, attraverso Amburgo, Colonia, e finalmente in terra di Francia. Qui si unisce ad un mercante d’arte, ma viene sedotto dalla di lui moglie, per cui si vede costretto a fuggire.

Ripreso da Didrik, si unisce ai soldati per la battaglia che porta alla conquista di Stoccolma da parte di Cristiano II. Che, non rivelandosi clemente, uccide i nemici, attuali e potenziali. Mikael è disgustato e fugge con Antti (ogni tanto si perdono poi si ritrovano). Dopo varie ed alterne vicende, i due si vedono costretti a fuggire dalla Finlandia, riparano nuovamente in Germania dove, a Memmingen, Mikael rimane quasi ucciso. Sarà la giovane Barbara a salvarlo. Ma costei, pur bruttina ma con la quale avrà una intensa storia d’amore, è vista in odore di stregoneria. Tanto che finirà sul rogo, e Mikael giura che andrà a Roma ad uccidere il papa.

Nel frattempo, incontra Paracelso, da cui imparerà arti mediche. Discute con i religiosi tedeschi che stanno vivendo la controriforma luterana, si unisce alle truppe di Carlo V contro il re di Francia, fa una puntata a Madrid, ma poi deve tornare in Italia. Dove, con i lanzichenecchi, partecipa nel maggio 1527, al sacco di Roma. Waltari ben descrive questa parte, con tutto l’orrore della guerra, ma anche della peste, degli stupri, e di tutta le barbarie conseguenti.

Mikael, pentito e disgustato, decide di andare con Antti a Gerusalemme per espiare i suoi peccati. Così finisce il libro avventuroso.

Due sono le cose che mi hanno colpito: l’insistenza dello scrittore nei rapporti d’amore sfortunati del protagonista e l’inserimento, nel corso della narrazione, di personaggi storici. Mikael incontra Anna, Veronica, la sorella di Didrik, Geneviève, Barbara, Lucrezia. E tutte o muoiono malamente, o lo tradiscono. Fosse un po’ misogino, il nostro finlandese?

L’altra parte mi ha divertito, nella scansione di persone, alcune ben note a tutti, altre note forse nei mondi scandinavi. Cose, elencando alla rinfusa, ricordo: i militari, Carlo di Lannoy, stratega di Carlo V, Georg von Frundsberg, comandante dei lanzichenecchi che saccheggiano Roma; i religiosi rivoluzionari, Sebastian Lotzer, leader della protesta contadina di Memmingen, Thomas Müntzer, leader del Cristianesimo rivoluzionario tedesco; i religiosi studiosi, Arvid Kurck, l’ultimo vescovo cattolico finlandese, Martin Lutero e Erasmo da Rotterdam; regnanti, sacri e profani, Cristiano II, re di Danimarca (noto come Cristiano il Tiranno dopo i massacri di Stoccolma), Carlo V d'Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero Germanico, Francesco I re di Francia, il papa Clemente VII; artisti e letterati come Tintoretto, Tiziano, Ludovico Ariosto. Nonché un personaggio che incise molto nella crescita di Mikael, e nei suoi studi, il millantatore medico Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim, detto Paracelso.

Ultimo punto stimolante nell’excursus storico avventuriero di Waltari, sono appunto i vari momenti storici che si attraversano: la conquista danese di Stoccolma ed i massacri di Cristiano II, la vita studentesca alla Sorbona di Parigi, la caccia alle streghe da parte dell’Inquisizione, la riforma luterana, i disordini contadini che ne seguirono, le guerre europee del XVI secolo, la lotta con l’Impero Ottomano, il sacco di Roma.

Insomma, una lettura di medio gradimento, che tuttavia è servita a rinverdire uno spagnolo un po’ troppo arrugginito. Sul testo, forse è troppo datato per divertire come al tempo della sua pubblicazione.

Clive Cussler & Justin Scott “Il contrabbandiere” TEA euro 9,90

[A: 25/01/2022 – I: 29/08/2022 – T: 31/08/2022] - && --   

[tit. or.: The Bootlegger; ling. or.: inglese; pagine: 366; anno 2014]

ISAAC BELL07

Entrato da poco in libreria, rispetto ad altri libri del maestro, ma solo perché non usciva l’economica. Quindi si legge prima, e, purtroppo, non lascia una grande impressione.

Intanto, rimarcando che Cussler ci ha lasciato da xx anni, continua il pendolo temporale delle avventure del detective Isaac Bell e dell’agenzia Van Dorn (modellata, come ho già scritto, sulle gesta della famosa Pinkerton). Così, mentre il sesto episodio si concludeva nel 1912, qui facciamo un balzo in avanti verso il 1921. Ovvio che è un salto pericoloso, visto che nove anni non sono pochi. E che anni! Prima Guerra, Rivoluzione Russa, fermenti tedeschi e proibizionismo.

Notiamo di passaggio che, dopo sei puntate, si è deciso di non intervenire sul titolo, lasciando il termine “contrabbandiere” che ben caratterizza l’anima del libro. Che cerca sì di muoversi su due linee, una politica ed una economica, ma la prima risulta un mero pretesto, per concentrarsi presto sulla seconda. Altro dato, negativo invece anche questa volta, è la sovrabbondanza, di nomi, di città, di persone. Se uno volesse seguire anche brevemente le vicende narrate, potrebbe che so fare un ripasso delle grandi e piccole città coinvolte: New York, Detroit, Miami, Amburgo e Berlino si ricordano, poi Patchoque e Bayport (New York) Hoboken e Asbury Park (New Jersey), Windsor (Connecticut), Ecorse (Michigan) per sconfinare nelle Bahamas ed in Canada. Ed anche i personaggi sono troppi. Tutti i sodali dell’agenzia Van Dorn, che entrano ed escono dalla storia. Quindi, facciamo tagli secchi e concentriamoci su Van Dorn, Bell e le loro signore, nonché l’emergente Pauline Grandzau. Per gli avversari avremmo modo di parlarne.

Come detto, l’azione si sviluppa nel 1921, ed è importante che ne dà una ben precisa connotazione. A gennaio del ’20, infatti, un emendamento costituzionale aveva vietato la vendita di alcolici, dando inizio al periodo, che durerà sino al ’33, denominato “proibizionismo”. Periodo che permise alla malavita organizzata di radicalizzarsi sul territorio americano e di trarne profitti enormi. In parallelo, finita la guerra, tutto il mondo ribolliva di fermenti nuovi. La Rivoluzione russa aveva suscitato grandi speranze. Ed il partito comunista, ancora sotto l’ala di Lenin e Trotskij, usando l’organizzazione di respiro internazionale, figlia del Comintern, cercava di portare fermenti rivoluzionari, spesso violenti, dove fosse possibile. Non entreremo qui sui dibattiti politici, che sarebbero interessanti ma fuori luogo. Quello che è pur vero è che, nei momenti di crisi, c’è spazio per le menti rapide, e capaci di azioni anche ardite. Bisogna vedere quanto poi queste siano al fin di bene. Ma questo è un altro discorso.

Qui, il cattivo di turna, è tal Marat Zolner, alias Dmitri Smirnoff alias Principe André. Inviato dal Comintern in America per fomentare una rivoluzione anticapitalista. Il nostro Marat comincia abbastanza bene, collegandosi con il sindacalismo di sinistra (per chi volesse saperne di più, invito a cercare l’IWW), con gli scioperi e con la nascita del CPUSA. Ma le rivoluzioni hanno bisogni di fondi, e Lenin & co. non è che avessero risorse infinite. Quindi Marat pensa bene di inserirsi nei due filoni forti del periodo: entrare nel contrabbando ed investire sui mercati azionari. Per il primo, fa in modo di avere molta immigrazione russa clandestina al suo servizio, usandola come “esercito nascosto”. Per la seconda sfrutta il suo fascino verso le donne, in modo da essere presentato nei salotti buoni.

Tutto andrebbe a meraviglia se, durante un assalto per “rubare” alcool e rivenderlo con profitto, la barca di Marat incappa nella guardai costiera. Nel conflitto a fuoco che ne segue, sfortunatamente, Marat ferisce Joe Van Dorn, il capo dell’Agenzia Investigativa di cui seguiamo le tracce in questi libri. Ovvio che a Isaac Bell, il James Bond dell’Agenzia, salta la mosca al naso e comincia una guerra senza quartiere per stanare Marat ed i suoi complici.

Mentre Cussler sviluppa questo filone, il suo scrittore in seconda, Justin Scott, infarcisce tutto il romanzo di sparatorie, lotte, inseguimenti ed altre ricercatezze poco allettanti (per me). Una parte notevole viene anche svolta dalla nuova entrata in agenzia, la tedesca Pauline che tra la Germania e la Florida, riesce a trovare i punti deboli di Marat.

Dopo pagine e pagine di scazzafrulli intorno al contrabbando, c’è la solita lotta finale, con la solita vittoria dei buoni. Ovvio che tutto l’interesse del libro è il modo di arrivare a questa lotta, il modo di stanare i cattivi attraverso i meno buoni, ed altre amenità.

La “Cussler factory” funziona, anche se c’è qualche passaggio ardito e qualche dimenticanza. Mentre sulla seconda sorvolerei, sulla prima farei soltanto menzione sull’improbabilità che un idrovolante in avaria, durante un inizio di tempesta, riesca ad atterrare sulla tolda di una nave, per giunta sotto mitragliate di fuoco nemico. Non ci sono i soliti rimandi “culturali” che hanno fatto storie nel marchio Cussler. Rimangono qualche spicciolo, come le giacche sciancrate che si usavano al tempo (quelle strette in vita), i funzionamenti degli speakeasy (i locali dove “parlando piano” si poteva ordinare alcool illegale), nonché (ma questo è un pallino di molta produzione cussleriana) il funzionamento delle linee ferroviarie private, dove, con i soldi, potevi comprarti un treno ed una tratta di percorrenza.

Si capisce comunque che, a parte qualche velleitarismo storicistico, è un romanzo di basso profilo, ben realizzato, da leggere in una calda estate, sotto un ombrellone.

James Clavell “Shōgun” Bompiani euro 15 (in realtà, scontato a 12,75 euro)

[A: 25/12/2019 – I: 10/11/2023 – T: 14/11/2023] - &&& +

[tit. or.: Shōgun; ling. or.: inglese; pagine: 1094; anno 1975]

Avevo inserito questo libro tra le possibili letture, spinto dalle mie libropeute con le loro citazioni, anche se veniva inserito tra i “libri da leggere su di un’amaca”. Tuttavia, essendo in compagnia di “Norwegian Wood” di Murakami e “Vedrò Singapore?” di Pietro Chiara (due libri che mi hanno intrigato, anche se per motivi diversi), mi è sembrato che potesse valere la pena di leggerlo, prima o poi. Anche perché, come vedete in alto, non è che sia un vero e proprio tascabile (pur essendo questa l’edizione economica), ma un tomo da oltre mille pagine.

Clavell, intanto, inglese nato in Australia e naturalizzato americano è stato scrittore e sceneggiatore, quindi, come ci si aspetta, dotato di una proprietà di linguaggio visivo che permette ad un’opera storico-avventurosa-romantica di farsi leggere gradevolmente mantenendo (abbastanza) una sua visibilità quasi filmica. Per quanto poi questo venga considerato il primo capitolo (cronologico) dei suoi libri “asiatici”, non credo che, pur nella mia onnivora volontà di lettura, proseguirò nei suoi scritti. Questo mi è stato gradito, ma anche sufficiente.

Qui, intanto, abbiamo questo grande pastiche che mescola vicende storiche reali a raccordi da fiction che servono a collegare tra loro i momenti noti. In particolare, seguiamo due vicende parallele che si intrecciano assai, creando quella dicotomia oriente – occidente che era uno degli scopi dello scrittore.

Da un lato l’inglese John Blackthorne (William Adams, metto tra parentesi il personaggio storico, anche se su di lui e sul giapponese ritornerò), pilota di navi che naufraga sulle coste del Giappone. Dall’altra Toranaga (Tokugawa Ieyasu) uno dei cinque reggenti il Giappone al momento dell’arrivo di John e che seguiamo nella sua lotta e nei suoi intrighi per diventare feudatario principe dell’imperatore, e quindi proclamarsi Shōgun.

Parentesi. Il termine Shōgun è un'abbreviazione di sei-i taishōgun, che significa letteralmente “grande generale dell'esercito che sottomette i barbari”, e, pur essendo una carica militare, divenne poi sinonimo di capo del governo, di fatto estromettendo dal potere reale l’imperatore, che comunque c’era essendo di discendenza divina. Gli “shogunati” ebbero inizio con Minamoto nel 1192 (con capitale Kamakura), passando per gli Ashikaga (che portarono la capitale a Kyoto, fino al 1600) e terminando con Tokugawa Yoshinobu che, nel 1868, restituì il potere all’imperatore Meiji (intanto la capitale era stata spostata a Tokyo).

Ai due personaggi sopra citati si intreccia la storia di una donna che serve a Clavell da collante tra i due mondi, Toda Mariko (Hosokawa Tamako “Grazia”), una donna giapponese convertita al cattolicesimo e che parlava portoghese e latino, quindi, tra l’altro, utilizzata come interprete.

La storia, in breve, vede l’arrivo di John con la sua nave naufragata sulle coste. John è protestante e non potrà che entrare in conflitto con i gesuiti, allora unici occidentali sul suolo giapponese. Il generale che lo accoglie, Yabu, sobillato dai preti, cerca di ucciderlo, ma lui si salva, anche perché Toranaga pensa possa essere utilizzato per le sue conoscenze militari. Per questo lo prende sotto la sua protezione, chiedendo a Mariko di fare da interprete ed insegnargli il giapponese. Contemporaneamente, John comincia ad incontrarsi e scontrarsi con la cultura giapponese, ma, ovviamente, anche ad innamorarsi, senza futuro, di Mariko.

Nella seconda parte del libro (oltre pagina 500), entriamo più a fondo nelle lotte di potere all’interno dei clan giapponesi. Lo scontro, all’inizio solo di tatticismi verbali, tra Toranaga e Ishido (Ishida Mitsunari) è reso abbastanza bene da Clavell, con tutta una serie di decisioni e contro decisioni molto in linea con lo spirito nipponico. La chiave di volta del conflitto sarà proprio Mariko, che, confinata illegalmente nel castello di Osaka, ne vuole uscire ma, impedita in vario modo da Ishido, trova la maniera cruenta di farsi uccidere. Questo scatenerà tutta una serie di conseguenze che portano i due contendenti allo scontro aperto, che si concluderà con la Battaglia di Sekigahara (avvenuta realmente il 21 ottobre 1600), che vedrà la vittoria di Toranaga, il quale, rafforzando il proprio potere negli anni successivi, il 24 marzo 1603 si farà nominare Shōgun dall’imperatore Go-Yōzei.

Ovvio che questa è una sintesi delle linee principali, non volendo entrare nei mille rivoli della trama, interessanti alcuni, forzati altri. Certo, nella parte finale, un nuovo ruolo assume John, che vede distrutta la sua nave, ma che, dopo aver nella prima parte addestrato le truppe di Toranaga all’uso dei moschetti, userà il suo tempo per costruire un nuovo vascello con cui attaccare, se servisse, portoghesi ed altri cattolici. O sarebbe interessante seguire lo sviluppo degli intrighi di Genjiko (Oeyo) per realizzare un quartiere dedito al piacere a Edo (nome della residenza principale di Toranaga, prima che le venisse assegnato il nome di Tokyo; in realtà, approfondendo, in giapponese Kyoto significa “città capitale” e Tokyo “capitale orientale”).

Altri elementi toccati, sottesi, a volte forse troppo accentuati potrebbero essere le lotte senza esclusione di colpi tra cattolici e protestanti (cioè tra ispano-portoghesi ed anglo-indiani). Ma anche quelli tra gesuiti e francescani. Più coinvolgente, per i miei interessi, la contrapposizione tra le due culture. John viene forzato a fare il bagno (cosa che in patria faceva una o due volte l’anno!) perché puzza, e ne viene conquistato. Apprezzerà anche, ma con lentezza, a non vergognarsi del proprio e dell’altrui corpo, ad entrare in sintonia con la lealtà estrema della mentalità locale. All’importanza dell’essenza contrapposto all’apparenza.

È con uno sforzo mentale non banale che si può “giacere” con una persona amandone un’altra ed in quell’unione sublimare il vero rapporto. Un discorso complicato, ma molto giapponese.

C’è anche un discreto sforzo linguistico nella costruzione dell’autore, che lascia intere frase in traslitterazione giapponese, traducendone alcune o alcune parti. Restituisce un senso di estraneazione, simile a chi, realmente, si trova ad Osaka e cerca di comunicare con i locali (esperienza mia personale, bella e faticosa).

Di converso, ci sono alcune inesattezze (i tempi dell’introduzione delle armi da fuoco, alcune datazioni di battaglie, un giapponese che nelle prime pagine parla portoghese e poi lo dimentica) ed un po’ di confusione volendo mettere troppa carne al fuoco. Ed anche, ad essere un po’ “rompini” a voler a forza inserire storie romantiche. In parallelo, c’è un onesto tentativo di far comprendere la mentalità giapponese anche considerando che cinquanta anni fa il mondo del Sol Levante era di sicuro meno noto di adesso.

Come detto all’inizio poi, a parte che volendo si può trovare in internet un ricco parallelo tra i personaggi fittizi di Clavell e quelli reali, di certo è intrigante la storia die due personaggi principali (e mezzo).

William Adams fu realmente il primo inglese ad arrivare in Giappone, aiutò realmente il signore di Edo nelle sue vittorie, e rimase lì, costruendo navi ed aprendo la via al commercio della Compagnia delle Indie. Date le difficoltà linguistiche, venne chiamato Anjin (“pilota”) e la sua residenza a Edo era chiamata Anjin-chō, in una zona che ora è dentro Tokyo ed in suo onore è battezzata Chūō.

Tokugawa Ieyasu, come dice Clavell, divenne il primo Shōgun del periodo Edo, fu di rara astuzia, e di lunga preveggenza, decretando, pochi anni dopo la presa del potere, la chiusura del Giappone a tutti gli stranieri, eccetto che nel porto di Nagasaki, utile per i commerci. In ogni caso, è da visitare, a Nikko, il santuario dedicato allo Shōgun.

Hosokawa Tamako era una donna di alto lignaggio aristocratico, si convertì assumendo il nome di “Grazia”, e fu il perno della vittoria di Ieyasu ad Osaka, dove, commettendo il sacrificio rituale, costrinse Ishida a scoprire le sue carte, portando poi Ieyasu a sconfiggerlo nella battaglia sopra citata.

In fondo, più che del libro in sé, decente ma non esaltante, mi ha coinvolto il mondo che vi si rappresenta, e le lotte di potere che cominciarono 450 anni fa e per una trentina di anni attraversarono in lungo e in largo le isole nipponiche.

Wilbur Smith & Chris Wakling “Tempesta” HarperCollins euro 16

[A: 18/04/2021 – I: 18/12/2023 – T: 20/12/2023] - &&& 

[tit. or.: Cloudburst; ling. or.: inglese; pagine: 331; anno 2020]

(periodo: 2019) JackCourtney 01

Sono due anni e mezzo che non metto mano ad un libro di Smith, fors’anche per rispettarne la memoria, visto che ormai anche lui ci ha lasciato. Ho però alcuni libri dell’ultimo sequel del grande avventuriero, dedicati all’ultima stagione dei Courtney, ed in particolare rivolti ad un pubblico giovanile, essendo imperniati su Jack, il più giovane della stirpe della grande famiglia.

Intanto, come spesso nell’ultimo periodo delle sue scritture, Smith si fa “aiutare” da un giovane scrittore, Chris Wakling, autore di alcuni libri di viaggio, alcuni romanzi e da sempre ammiratore di Smith. Il tocco di Wakling si sente abbastanza pesantemente per la parte descrittiva delle interazioni tra i giovani protagonisti e per la loro descrizione ed approccio alla vicenda. Inoltre, è di sicuro frutto degli interessi di viaggio di Chris prendere in mano le parti naturaliste, che sicuramente Wilbur aveva immaginato, e trasporle con la dovuta cura.

La trama si sente frutto delle idee del grande vecchio, in particolare per quei tocchi di “ambientalismo” che da sempre punteggiano i suoi romanzi. Viene un po’ meno l’intreccio uomo-donna, o meglio ragazzo-ragazza, che il libro è rivolto ad un pubblico indicato come 13+, anche se gli adolescenti ben sanno già tutto. Pur con qualche velata freccia, che non scocca, il romanzo si mantiene nel solco del più puro politically correct.

Cominciamo allora con l’inquadrare i personaggi della vicenda. Il narratore e protagonista principale è Jack Courtney, nato nel 2005 e quindi quattordicenne durante la storia. Aveva un fratello, Mark, morto quattro anni prima in un incidente di cui Jack, erroneamente, si sente colpevole. Poi abbiamo i genitori: la madre Janine Ferdinand, di cui sappiamo poco, ed il padre, Nicholas Miguel de Santiago y Machado Courtney, di cui invece sappiamo molto. È infatti figlio di Ramon De Santiago y Machado, detto “Volpe d’oro”, un agente del KGB, che sposa fraudolentemente Isabella Courtney, solo per rapire Nicholas ed usarlo come arma di ricatto. Ricatto che non va a buon fine, e Ramon rimane ucciso nel 1977. Isabella si risposa con Jeffrey Smile con cui ha un figlio, Langdon. Il quale sposa Alice Adams con cui ha Caleb, nel 2004.

In questo primo episodio vediamo coinvolti Nicholas, Janine e Jack, oltre al fratellastro Langdon ed al cugino Caleb. Ci sono poi due personaggi “esterni”, che però mi dicono nel sito di Wilbur rimarranno nella serie: Amelia e Xander. La prima è nata insieme a Jack, nello stesso ospedale, ed i due si frequentano da sempre. Xander è un nigeriano che studia nello stesso collegio di Jack.

La vicenda, come vuole la tradizione di Smith, ha un duplice aspetto: presentazione di terre e luoghi poco noti al lettore ed una vena di ambientalismo e cura della terra. Quindi ci trasportiamo nella Repubblica Democratica del Congo (ex-Congo Belga) uno dei territori più ricchi in risorse estrattive (diamanti, rame, uranio, tantalio) ed uno dei più poveri in assoluto (si colloca al 184° posto dei 193 paesi censiti dal Fondo Monetario Internazionale. Questo dovuto alle ruberie endemiche del monarca Mobutu che vi regnò sino al 1997, ed allo sfruttamento delle sue risorse, prima e dopo, da parte delle multinazionali straniere.

La vicenda vede la famiglia Courtney recarsi a Kinshasa per partecipare ad una conferenza che deve deliberare sulla limitazione dello sfruttamento della foresta pluviale congolese da parte delle industrie estrattive. Ovvio che Janine è la paladina della crociata anti-sfruttamento. Alla conferenza partecipano anche le industrie, e tra queste c’è Langdon, il fratellastro, proprietario di diverse miniere sul territorio, e fortemente ostile al progetto di Janine.

Fatto sta che mentre i ragazzi (Jack, Amelia, Xander e Caleb) partecipano ad uno sfortunato safari per fotografare i gorilla, Janine e Nicholas vengono rapiti affinché non portino i loro dossier alla Conferenza. Da qui parte l’avventura dei ragazzi che, soli contro tutti, o con pochi aiuti, cercano di ritrovare le tracce dei rapiti, in questo ostacolati, più o meno scopertamente, da Langdon. Ben descritte nelle parti naturalistiche, le varie vicende che si alternano non lasciano gran che alla suspense, forse anche per il pubblico primario cui si rivolge.

Certo, vediamo Jack esibirsi in due o tre episodi positivi e a volte divertenti, vediamo Amelia, la banca dati del gruppo, fornire dati ed informazioni utili, vediamo Xander sfruttare le risorse paterne per aiutare il trio, vediamo Caleb prima antipatico, poi sempre più coinvolto nella lotta ai cattivi (forse anche per un suo interessamento ad Amelia). La soluzione da una parte è scontata, che Langdon non può non essere dalla parte sbagliata. Ma il finale riserva qualche sorpresa non scontata e che rende interessante il finale stesso.

Anche se Janine non farà in tempo con i suoi dossier, un memorandum fotografico di Jack permetterà in extremis di ottenere il voto sperato. Con un epilogo che non può che fare da apripista al secondo episodio.

Insomma, scrittura giovanile gradevole, alcuni tratti ben disegnati (Jack e Amelia in particolare) ed una lettura che scorrevole piacevolmente.

Un solo appunto “semantico”. Ad un certo punto, di una agenzia da coinvolgere in un certo affare, viene detto che su di lei è stata fatta una “dovuta diligenza”, maldestra traduzione di una attività di selezione dei dati detta “due diligence”, che serve all’analisi delle informazioni relative ad un dato soggetto. È uno strumento molto utilizzato nelle grandi aziende, e viene sempre riportato in inglese. La traduzione italiana, pur corretta, porta un po’ fuori strada l’attenzione del lettore.

Infine, la solita domanda sul titolo, che in inglese sarebbe nubifragio piuttosto che tempesta. Ma tant’è.

Christian Jacq “La regina d’oro” tre60 s.p. (Prestito di Alessandra)

[A: 25/12/2023 – I: 20/02/2024 – T: 22/02/2024] - &&

[tit. or.: La femme d’or. La vie miraculeuse de la reine-Pharaon Hatchepsout; ling. or.: francese; pagine: 311; anno 2021]

In gioventù, al ritorno dai miei primi viaggi francesi, mi innamorai della scrittura egizia di Jacq, per cui comprai, lessi ed apprezzai la sua pentalogia su Ramses. Poi ritornai sulla sua scrittura quindici anni fa, con un altro libro egittologo, anche se ambientato nell’Ottocento londinese. Erano comunque tutte letture in originale. Prendendo invece spunto dal grande viaggio celebrativo del Capodanno 2023, ho regalato ad Alessandra questo libro sull’importante figura della regina faraone Hatshepsut, che ora leggo anch’io, per la prima volta tradotto.

Anche ben tradotto, rimane un testo agevole, che si fa leggere senza troppi intoppi, anche se, per le conoscenze egizie di Jacq, a volte sorvola su passaggi che ad un neofita risultano oscuri. È vero che l’Antico Egitto era un mondo complesso, dove realtà e culto degli dèi (un numero enorme) si intrecciano e si mescolano. Talvolta anche gli stessi dei prendono nomi diversi per funzioni diverse, si incarnano in animali e sembrano intervenire di persona nella vita quotidiana. Un mondo che a noi risulta alquanto lontano, così che, per seguire il testo ed i suoi messaggi, sono rimasto fedele alla lettura delle parti storiche e sociali.

Essendo un libro di fanta-biografia, molta parte è pur sempre legata alla realtà della vita di Hatshepsut, ma un grosso filone è utilizzato dallo scrittore per tener viva l’attenzione del lettore, imbastendo un filo rosso di intrighi tendenti all’uccisione della regina, e legati ad alcuni personaggi fittizi. Questo consente di avere un filo conduttore, dall’inizio dei primi tradimenti fino alla sconfitta dei cattivi ed alla vittoria della regina. Il tutto condensato nei primi nove anni di regno, anche se poi lei visse fino a cinquant’anni raggiungendo, unica tra le regine d’Egitto, ben ventidue anni di regno.

Una parte fiction che si lega in modo naturale al momento storico dell’inizio della XVIII dinastia egizia. Che da non molti anni erano stati sconfitti gli invasori Hyksos, e quindi quanto di meglio imbastire una trama di tradimenti ed inganni da parte dei discendenti degli invasori uniti a personalità che non digerivano la presenza sul trono di una donna, magari contrapposto ad un uomo, anche se, all’epoca, ancora bambino.

Questa è la parte che serve a tenere il lettore vicino alla pagina, mentre in parallelo, e più interessante dal punto di vista della ricostruzione storico-ambientale, viene la parte legata agli avvenimenti “reali” ed ai personaggi che vengono poi segnalati sia sulla mitica tomba della regina, che visitai trentacinque anni fa in quella che, appunto, si chiama Valle delle Regine (in arabo Deir el-Bahari, ora chiusa al pubblico dopo gli attentati del 1997) sia nell’unica cronaca arrivataci, pur frammentaria, quella dello storico Manetone.

Vediamo così Hatshepsut più o meno quindicenne aspirare al trono del padre Thutmose I, essendo figlia del Faraone e della sposa Reale. Ma essendo donna, gli viene preferito il fratellastro Thutmose II, figlio del Faraone e di una sposa secondaria (pratica molto in voga al tempo avere più mogli). Quando però Thutmose II deve scegliersi una sposa Reale, avendo la sua concubina rifiutato, sposa Hatshepsut. Ma il Faraone è cagionevole e muore presto, così che a venticinque anni la nostra può aspirare al titolo, ma il Gran Consiglio le preferisce il figlio maschio della concubina, che tuttavia, avendo solo quattro anni, viene associato al Regno, lui Faraone e lei Regina.

Intanto lei si era costruita un entourage forte, associandosi al potere l’amico d’infanzia Senenmut, architetto, astronomo e poi gran consigliere, e scegliendo Hapuseneb come Primo Sacerdote, carica che equivale ad un Capo di Stato di quel tempo. Loro tre introducono una rivoluzione sociale, imbastendo una sequenza di avvenimenti che portano Hatshepsut ad essere dichiarata figlia di Amon, e quindi incoronata Faraone a trent’anni. Inciso: nella sua tomba c’è tutta la storia di questa costruzione inventata, molto interessante.

Ma sappiamo anche che, seppur il suo regno fu di soli venti anni (morì quindi a cinquanta), in questi nove anni che ci narra Jacq instaurò una grande pace sociale, affrontò e superò una crisi derivante da una inondazione del Nilo, nonché riuscì a importare l’incenso dal Corno d’Africa, che da allora orna e profuma tutto l’Egitto.

Nel frattempo, aveva generato una figlia, Neferura, che morirà a venticinque anni, essendo ancora viva la madre, ma che darà inizio alla scalata al potere del cosiddetto Faraone legittimo, Thutmose III.

La scrittura e le descrizioni di Jacq sono efficaci, anche se, come detto, poco si addentrano sui sistemi di potere vigenti all’epoca, pur restituendoci una non facile pittura degli usi e dei costumi degli antichi egizi.

Un’ultima notizia: la tomba di Hatshepsut fu scoperta da Howard Carter nel 1916, sei anni prima che il “tombarolo” americano scoprisse quella di Tutankhamon, che lo renderà immortale nell’universo degli archeologi.

Visto che abbiamo trattato avventure, vi girerei alcune frasi dell’epopea romana di Giulio Valerio Maggiorano narrata da Giulio Castelli nel suo “Imperator”:

“Thea aveva la facoltà di scovare un’altra persona in me.” (146)

“Con un gioco di parole potrei dire che era un profondo conoscitore delle cose superficiali e un superficiale conoscitore di quelle profonde” (192)

“La verità è che tu mi ami e non mi ami… Forse sei un po’ geloso. Ma non bruci di passione.  ... Non ami le persone. Ami le idee, non gli esseri umani.” (196)

“Avevo cominciato a pensare che la decadenza è una lenta spirale. Dapprima gli uomini non la avvertono. Poi il movimento si fa sempre più rapido fino a divenire inarrestabile. A quel punto tutti ne diventano consapevoli ma ormai è troppo tardi.” (346)

Si avvicina la fine del mese bisestile, nonché un compleanno gradito di un “anziano” amico, per non scordarsi che manca poco ad imbarcarsi. Quindi, poche parole e molti abbracci.

domenica 18 febbraio 2024

Meglio l'America del Sud - 18 febbraio 2024

Ancora, stranamente, una settimana senza titoli inglesi. Anzi con libri e romanzi molto “latini”, anche se lo spagnolo è quello dell’America del Sud. Luogo dove fiorisce il migliore della settimana, l’opera complessa dell’argentino Ricardo Piglia, unico oltre la sufficienza. Poi abbiamo l’uruguayano Onetti (d’origine irlandese come dice il nonno O’Nety) ed il francese Pennac (d’origine italiana, come dice il cognome Pennacchioni) con delle prove oneste e con qualche spunto. In fondo, purtroppo, gli italiani. Sia Bajani, con un libro che ha fortunatamente alcuni spunti, sia Bocci, che di spunti non ne ha ed è forse meglio lasciar da parte.

Daniel Pennac “Capolinea Malaussène” Feltrinelli s.p. (Regalo di Raul&Viviana)

[A: 07/05/2023 – I: 21/05/2023 – T: 23/05/2023] - &&

[tit. or.: Terminus Malaussène – Le Cas Malaussène 2; ling. or.: francese; pagine: 395; anno 2023]

La scrittura iperbolica di Daniele Pennacchioni, in arte Daniel Pennac, non ci lascia neanche in questo che, per stessa ammissione dell’autore, dovrebbe essere l’ultimo libro della saga di Belleville. Ho sempre voluto bene a Daniel, da me incontrato più di trent’anni fa all’uscita del primo libro della saga (“Au bonheur des Orges”), l’ho addirittura amato in “Come un romanzo”. Poi ne ho notato la ripetitività, la voglia quasi di “épater les bourgeois”, l’invenzione per l’invenzione. E me ne sono allontanato.

Ho voluto tornare sui miei passi proprio qui, per seguire le ultime vicende di Benjamin Malaussène e famiglia (allargata), facendo anche un’operazione rischiosa. Che in realtà l’ultimo atto è cominciato nel libro precedente a questo, che non a caso si sottotitola in francese “Le Cas Malaussène 2”, essendo una diretta conseguenza di “Le Cas Malaussène 1”, che ha par titolo “Mi hanno mentito”. Rischiosa perché la storia fluisce tra i due romanzi, e la mancata lettura rischia di dare una visione monca alla fine.

Fortunatamente, non è stato proprio così. Certo, qualche passaggio è saltato, ma i rimandi ci fanno ricostruire tutta la storia. Sfortunatamente, le invenzioni, i mascheramenti, i “sono io ma forse sono altro”, non prendono. E l’unica cosa che si salva è la sarabanda finale, con tutti gli attori sulla scena, più uno. E non vi dirò certo chi sia questo più, che potrebbe rischiare di smentire la volontà di Pennac.

Come al solito, tuttavia, molte sono le letture degli scritti di Pennac. Che c’è la storia che si snoda tra le pagine. Poi ci sono le storie dei vari personaggi, le digressioni, i proclami sottesi e le affermazioni palesi. Ma di tutta questa parte non si può parlare se non facendo quell’operazione alla Borges, dove per essere precisi nella descrizione di un paesaggio, per farne una mappa, non si può che riproporla in grande 1:1. Cioè, leggetene.

Io brevemente accenno alla prima parte. C’è un rapimento, sparatorie tra poliziotti e finti poliziotti, un contro-rapimento, ed una serie di smascheramenti vari. Tutto incentrato sulla figura di tal Nonnino, un super cattivo capace di svuotare le persone di qualsiasi identità per trasformarle in un esercito votato al crimine. Che riesce a rapire il rapito, in quanto questi ha molte informazioni su tutti i potenti. E chi ha le informazioni, ha il potere (questa l’ho già sentita).

Poiché i Malaussène si mettono di traverso, Nonnino è deciso a farli fuori tutti. Insomma, un duro senza pietà, che ha solo un punto debole: una passione sconfinata per un piatto della cucina francese, le “gratin dauphinois” (in Italia talvolta mal tradotto come “patate al gratin”).

E per la trama, questo è tutto.

Non per la tribù, che visto siamo all’ultima puntata, tanto vale farla uscire in passerella, almeno nei suoi componenti di famiglia, che indico con i nomi usati nella traduzione, indicando in parentesi quello originale francese.

Si comincia con Benjamin Malaussène il punto centrale, colui che veglia su tutta la famiglia, in special modo quando si eclissa “la madre”; è il Capro Espiatorio (Bouc Emissaire) per antonomasia, ed è così utilizzato sin dal primo libro, quando lavoro all’Ufficio Reclami di un Grande Magazzino. Libro in cui incontra e si innamora di Julie Corrençon, con cui farà un figlio. Per la sua vocazione, finisce sempre nei guai, e sono gli altri membri della famiglia che, a turno, dovranno salvarlo. Ed a ruota c’è Mamma (“La mère”) verso i 50, rimane incinta sette volte, sempre di uomini diversi con cui fa fughe d’amore; solo a Venezia con l’ispettore Pastor non produrrà prole. Nessuna sa come si chiama, è sempre e solo "graziosa come una mamma".

Vengono quindi gli altri sei figli. Louna la sorella maggiore, prima infermiera, ora consulente matrimoniale, vive un gran rapporto d’amore con il dottor Laurent con cui farà due gemelle. Il solo membro della tribù che non vive con il resto della famiglia. Clara la sorella mezzana, dedita alla fotografia, dove immortala l’esatta realtà del soggetto nel momento della foto. Avrà un figlio da Clarence (che possiamo ignorare) ed è la sorella prediletta di Benjamin. Thérèse la sorella minore, la Cassandra della famiglia, anche se poi tutti credono alle sue predizioni. Che però finiranno quando farà l’amore, e si consolerà con la nascita di una figlia. Jérémy turbolento, vivace sin dall’infanzia (è lui che risolve il mistero del primo libro). È il “Battista” della famiglia, dando nomi a tutti componenti della famiglia nati dopo di lui; attualmente neurochirurgo. Il Piccolo (Il piccolo) ha solo sei anni nel primo libro, ma ora è un famoso astrofisico alto quasi 2 metri; ha soventi incubi che si placano solo quando mette gli occhiali. Verdun l’ultima figlia diretta della famiglia, ha il potere di urlare a perdifiato, calmata solo prima dalle braccia dell’ispettore Thian, poi da quelle della figlia di lui Gervaise; ora è giudice istruttore.

E poi ci sono i nipoti È Un Angelo (C'Est Un Ange), figlio di Clara, Maracuja (detta Mara) figlia di Teresa e Signor Malaussène (Monsieur Malaussène) figlio di Ben e Julie soprannominato Sigma (Mosma). Un inciso che il soprannome venendo dalla crasi del nome si è dovuto in italiano modificare il Monsieur con SIGnor.

La fine sfortunata del libro non è poi dovuta al suo contenuto, ma alla mia imperizia. Lo stavo leggendo a colazione, quando un’improvvida mancanza di presa ha fatto saltare una buona parte del caffellatte nella parte inferiore del libro, rendendolo di un poco grazioso color brunito.

In fondo, io mi sono divertito più a scriverne che a leggerlo, e di questo non posso che essere grato all’autore.

Andrea Bajani “Il libro delle case” Feltrinelli euro 17 (in realtà, scontato a 13,60 euro)

[A: 07/05/2021 – I: 03/11/2023 – T: 04/11/2023] &&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 251; anno: 2021]

La curiosa storia personale di questo libro nasce da una serie di accidenti e da qualche dimenticanza. Segnalato al premio Strega nel 2021 (che poi fu vinto da Emanuele Trevi con “Due vite” che ho letto e giudicato migliore di questo), entrò anche nelle segnalazioni che seguivo al tempo nelle pagine di Robinson, il supplemento letterario di Repubblica (che poi ho gradualmente abbandonato, insieme al giornale madre), decisi di comperarlo con gli sconti ricevuti per il mio compleanno di quell’anno.

Rimase però a lungo (due anni) sugli scaffali non avendo trovato la spinta a leggerne. Ora, venuto il suo tempo, ho scoperto che era anche un libro fallato, saltando da pagina 125 a 146. Fortunatamente, Feltrinelli ha provveduto a cambiarlo con una copia integra, che ho quindi letto, gradito nella facilità di idee, ma che, alla fine, non ho trovato di un livello sufficiente ad un giudizio totalmente positivo.

Certo, l’idea di base, quella cioè di raccontare la vita di un uomo attraverso le case della sua vita, è senza dubbio stimolante. Come anche alcuni passaggi in alcune situazioni, su cui tornerò. Di gratitudine media l’uso dell’impersonalità dei personaggi, che non vengono chiamati per nome, ma per funzione. C’è Io, il protagonista-narratore. E poi ci sono Padre, Madre, Sorella, Nonno, Moglie, Bambina. Quello che mi è rimasto estraneo del tutto è l’inserimento di due personaggi storici nel flusso narrativo, dove capisco possano aver segnato anche profondamente lo scrittore, ma che, in questo contesto, ogni volta mi apparivano come elementi aggiunti, senza però aggiungere nulla al corpo del romanzo. Per essere precisi, questi erano il Prigioniero (Aldo Moro) e il Poeta (Pierpaolo Pasolini).

La narrazione, quindi, procede entrando e uscendo da una quarantina di “case” sparse nei 78 frammenti che costituiscono il testo. Con una struttura che ci rimanda, bene o male, la vita di Io dalla sua nascita, 1975, all’oggi. C’è qualche salto indietro inessenziale, ed uno in avanti, verso il 2048, anch’esso per me poco utile al corpo narrativo.

Ovvio, che una narrazione piana, una cronologia consequenziale, poteva essere un resoconto banale di una vita altrettanto banale. Ecco allora che i quadri si scompongono in un su e giù temporale che serve a tenere sveglio il lettore, che è sfidato a ricordarsi i collegamenti tra i vari momenti vissuti da Io. Che forse così risulta più interessante per alcuni, che sembra doversi ricostruire un disegno unendo i puntini, come nella “Settimana Enigmistica”. Io, inteso come lo scrivente di questa trama, avrei preferito seguire l’evoluzione del protagonista, al fine di capire, azione dopo azione, come raggiunge (se la raggiunge) la sua maturità.

Faccio un esempio. Ad un certo punto, verso i tre quarti del libro, c’è un capitolo che narra una forte crisi tra Padre e Madre, forse (se ho capito bene) dovuta ad un qualche tradimento paterno. La scena è forte in sé, ma se collocata temporalmente avrebbe potuto spiegare alcune decisioni di Io (il narratore) che, magari, decide di andare via di casa, di andare a Parigi, di sposarsi o altro. Così, solo alla fine abbiamo una fotografia migliore della vita di Io, ma se chi legge si distrae un pochino, finisce che questa foto risulta sfocata.

Rimane l’idea delle case e della loro collocazione temporale, aiutata dalle date postevi accanto. Abbiamo così la “casa del sottosuolo” (questa e le seguenti sono alcune delle case ricorrenti) che descrive l’appartamento romano dove Io passa l’infanzia, la “casa sotto la montagna”, situata a Torino dove si è trasferita la famiglia di Io, oppure la “casa dell’adulterio”, luogo degli incontri di Io con la sua amante sposata.

Poi ci sono le case che entrano una volta sola per indicare momenti “topici” di Io: la “casa della felicità”, la “casa di Nonno mai esistito”, la “casa del gasometro”. E ci sono luoghi che sono case solo come contenitori o indicatori, ma che sono altro: la “casa della voce” è la cabina telefonica da cui Io telefona a Donna sposata, la “casa del risparmio” indica un conto corrente.

Se osassimo fare un sunto, direi che Io, nato nel 1975, ha un buon rapporto con la famiglia, eccetto che con il Padre, non accetta il trasloco a Torino, dove però si laurea, ha una storia con una donna sposata, poi si reca (per studio, credo) all’estero, spesso a Parigi, si sposa con una donna che ha già una figlia, divorziano (per motivi a me ancora oscuri), ed infine ritorna verso Roma, dove succede altro, ma non interessa la mia narrazione.

Una sola casa a me rimane nella memoria, e li resta. La “casa del persempre”, una casa tonda, senza spigoli, lucente, senza nessun mobilio, solo un graffito interno, con un nome ed una data. Spero che sia anche la mia, quella di quel per sempre, che Bajani non consente ad Io di seguirla sino in fondo.

Forse troppo innamorato dall’idea scatenante, il libro si attorciglia in po’, e non sfrutta a pieno le possibilità concesse dall’idea stessa. Interessante, ma non stravolgente.

Marco Bocci “A Tor Bella Monaca non piove mai” Dea Planeta euro 12,90 (in realtà, scontato a 10,95 euro)

[A: 27/01/2020 – I: 11/12/2023 – T: 13/12/2023] &   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 219; anno: 2013]

Marco Bocci nasce attore, raggiungendo una buona popolarità interpretando il commissario Nicola Scialoja in Romanzo criminale, per poi scoprirsi una vera libraria riversando in questo libro pensieri e ricordi della periferia romana, povera e degradata, e riuscendo a tradurre il libro in un film di cui è regista. Tuttavia, e non parlo del film che non ho visto, il libro pur presentando situazioni reali e concrete, non riesce ad entrare nel cuore del lettore.

Forse perché non c’è nessuna empatia con i vari personaggi, e nessuno assurge al ruolo di nostro contraltare, uno che speriamo possa avere uno scatto positivo e dare una svolta al dramma che si costruisce pagina dopo pagina. Sono tutti dei perdenti, e, con molto realismo, tutti in verità perdono. Si mettono in situazioni difficili, fanno scelte sbagliate, e non possono che ricevere bastonate dalla vita.

Con poca fantasia onomastica il personaggio principale si chiama Mauro Borri (stesse iniziali e stessa lunghezza di nome e cognome dell’autore). Uno che avendo poca voglia di studiare, ha deciso di tentare la strada dei concorsi pubblici, sperando, tra fortuna e raccomandazione di riuscire che so ad entrare in qualche ramo comunale o postale. Intanto, per sbarcare il lunario, fa il distributore di volantini e l’attacchino per uno squallido del quartiere, non a caso soprannominato “lo Sciacallo”.

Stava con Samantha (con l’h, mi raccomando), che lo lascia in quanto senza prospettive (anche se non smette di frequentarlo intimamente) e si piazza con una persona d’età, che almeno le garantisce un tetto stabile e soldi non tanti ma sicuri.

C’è Romolo, il fratello di Mauro. Ha fatto qualche sbaglio (del genere rapine) ed è in libertà condizionata. Vive con moglie e figlia di due anni nella casa di famiglia (dove sono in realtà un po’ stretti, genitori Borri, famiglia di Romolo e Mauro), lavora in fabbrica e deve presentarsi periodicamente ad un colloquio in carcere per controllare il buon andamento del recupero sociale. Cerca di rigare dritto, anche se i soldi sono pochi, e viene anche ricattato dal capoccia della fabbrica che lo vorrebbe delatore per licenziare qualcuno (in particolare il cinese Liun) ed assumere persone a lui gradite.

C’è la madre Borri, perennemente colpita da una “cipolla” al piede che le impedisce di camminare correttamente, ma non ha soldi per l’operazione. C’è il padre Borri che ha una piccolo seminterrato affittato al faccendiere Ciro, che però da nove mesi non paga l’affitto ma che non si riesce a sloggiare. C’era la nonna Borri, ma è appena morta, togliendo quel poco di serenità (e di piccola pensione) a tutta la famiglia.

Poi ci sono i due sbandati amici di Mauro, Fabio e Domenico, sempre un po’ sballati di fumo, che intravedono una possibilità di “svoltare”. Hanno visto girare buste piene di soldi la domenica sera, in un capannone, il tutto gestito da un cinese (casualmente il padre di Liun), senza nessuna protezione. Un colpo assai semplice, che consente ai tre di mettere le mani su un buon bottino tutto in banconote da 500 euro.

E con i soldi, Mauro si rimette con Samantha, Romolo compra un televisore, la mamma si opera e il padre fa finalmente sloggiare Ciro. Ma sarà vera gloria? A voi la lettura per scoprirlo.

La domanda che sottende tutto il romanzo è se cattivi si nasce o si diventa? E come si vede un futuro sereno all’ombra di questi casermoni di periferia che un futuro sembra non farcelo mai vedere?

La scrittura però è molto semplice, priva di spunti, che ci fa seguire le vicende senza mai darci uno slancio affettivo verso i protagonisti. Tra l’altro, la mia “innocenza” da lettore di centro città, non mi aveva fatto intuire che la mancanza di pioggia del titolo non era un fenomeno atmosferico, ma un riferimento sociali, laddove “piovere” significa letteralmente che non si vedono guardie in giro.

Il tarlo positivo che mi ha messo la lettura riguarda invece la natura del nome della borgata. Ho scoperto, in rete, che tutto nasce nel 1300 quando in quella località un tal Paolo Monaca fece costruire una torre, che per brevità e contrazione del nome divenne nei documenti del 1600 una “Torre Pala Monaca”, divenendo il secolo successivo “Torre Bella Monaca”. Un nome alimentato dalla leggenda che, per il giubileo del 1450, Santa Rita da Cascia fece una sosta in quella torre prima di arrivare dal papa. Divenendo così ufficialmente all’inizio dell’Ottocento quella che noi ora conosciamo: Tor Bella Monaca. Spigolature, ma niente più.

Juan Carlos Onetti “Il cantiere” Repubblica Latino-americana euro 9,90

[A: 19/08/2020 – I: 05/01/2024 – T: 06/01/2024] - && -   

[tit. or.: El Astillero; ling. or.: spagnolo; pagine: 185; anno 1961]

Juan Carlos Onetti è uno dei pochi scrittori sudamericani che, sfuggendo a classificazioni e schemi vari, può dire di aver avuto un’ampia consacrazione fuori dal mondo di lingua spagnolo. Di certo è noto, di certo se ne parla come uno scrittore ed una persona degna di interesse, ma che poi scompare, purtroppo, all’apparire di un Borges o di un Garcia Marquez.

Scrittore uruguaiano, con i nonni di origine irlandese (il nome originario era O’Nety, poi modificato, al tempo della cittadinanza, nel più sudista Onetti), costruttore di un suo mondo immaginario (come vedremo) un po’ come Faulkner, ma anche come un Haruf ante-litteram, comunque attento indagatore della realtà in cui vive. Tanto che viene imprigionato per sei mesi dalla giunta militare argentina, per poi allontanarsi per sempre dal Sudamerica, e trasferirsi a Madrid nel ’76 dove rimarrà fino alla morte nel ’94 a 85 anni.

La genesi dei libri più importanti di Onetti è appunto l’intrecciarsi delle trame verso una città immaginaria, emblema fittizio di tutte le città rioplatensi che si possono immaginare. Santa Maria, il “suo” luogo nasce dalla sua prima e più nota opera, “La vita breve” del ’51, quando il protagonista, Brausen, immagina di scrivere una storia ambientata in questa cittadina sulla riva del fiume. Una storia nella storia, dove Brausen narra le avventure del dottor Diaz Grey, e dove compare di sfuggita un tal Larsen.

In questo “cantiere” è proprio Larsen ad essere il personaggio principale, narrato da un “io” onnisciente ma con qualche intervento del dottor Grey. Larsen che viene etichettato con il suo soprannome Raccattacadaveri (“Juntacádaveres”), che diverrà il titolo di un successivo romanzo dove si narra la storia di Larsen prima di questo libro. Ma dove l’altro protagonista muto è la decadente cittadina di Santa Maria, in cui, nella piazza principale, compare la statua del Fondatore della città, Juan María Brausen.

Qui vediamo Larsen tornare dopo cinque anni in città, dopo che ne era stato allontanato per motivi che solo nel libro successivo capiremo. Vediamo solo che Larsen ha voglia di rivincita e pianifica tutte le sue azioni per tornare ad avere un ruolo di primo piano come era un tempo.

Pianifica quindi, ed ottiene, di farsi assumere come direttore generale del cantiere navale di Jeremias Petrus. Pianifica inoltre una corte spietata, ma che non riuscirà a coronare di successo, verso la figlia di Petrus, Angelica Ines, con lo scopo finale di sistemarsi ed ottenere l’eredità del vecchio, se e quando questi deciderà di morire.

Ma il cantiere è un “buco immondo”, un ammesso di cose in rovina, pieno di scartafacci che Larsen comincia a consultare per capire cosa realmente sia salvabile ed utilizzabile. In questo aiutato da Kunz il contabile e Galvez il tuttofare. Ma Angelica Ines è una demente che agisce come una bambola viziata, non comprendendo una sola delle cose che va tramando Larsen, ma che, nella sua lucida pazzia, respinge inconsapevolmente.

La lotta di Larsen rappresenta un tentativo di redenzione di un personaggio eternamente sconfitto, come sarà anche lui alla fine. Tenta di inserirsi nel tessuto sociale, nella tribù di Kunz e Galvez, cerca la solidarietà anche della donna di Galvez, cercare di capire i buchi economici nei conti di Kunz. Tutto inutilmente. Fino al precipitare degli eventi. Galvez denuncia Petrus per un titolo d’acquisto falso, ed il castello del cantiere e della vita di Larsen si sgretolano sotto i nostri occhi. Il cantiere è in perpetuo fallimento, e lui Larsen non è altro che il guardiano finale di un regno che è già un ammasso di macerie in rovina.

Fin dall’inizio tutti sanno come andrà a finire, e tutti, ma soprattutto Larsen, non riesce a far nulla per evitare la sconfitta finale. Onetti inanella un gioco di scrittura magistrale, utilizzando tutte le scritture che conosce per farci arrivare alla fine note. Il racconto si frammenta in piccoli racconti, i punti di vista cambiano senza apparente motivo, vengono chiamati in causa i personaggi del fittizio passato. Tutto per comporre la figura dell’eterno sconfitto.

Ci sono poi tre luoghi eponimi che accompagnano il cantiere nella sua rovina: il bersò, quel pergolato rivestito da rampicanti ornamentali dove Larsen tenta inutilmente di sedurre Angelica Ines; la casupola dove trascorre le sue giornate; la bettola dove entrerà per accompagnarsi a Galvez e che sarà testimone della sua discesa verso il nulla.

Di certo è un viaggio dolente, forte, che colpisce. Ma che purtroppo non prende, e non credo che sia soltanto per i sessant’anni della scrittura. Rimane un qualcosa di sospeso che non mi ha permesso di andare oltre ad un apprezzamento cerebrale del testo, senza emozionarmi.

Un ultima osservazione mi sorge dagli approfondimenti in rete. Perché al titolo originale che si riferisce ad un cantiere navale è stato tolto l’aggettivo qualificativo? Mistero, anche perché, in tutte le traduzioni le navi scompaiono.

Ricardo Piglia “Respirazione artificiale” Repubblica Latino-americana euro 9,90

[A: 06/05/2020 – I: 15/01/2024 – T: 18/01/2024] - &&&& --   

[tit. or.: Respiración Artificial; ling. or.: spagnolo; pagine: 219; anno 1980]

Piglia ti prende sempre in contropiede, o lo fa verso chi dice di conoscerlo e non lo conosce. Avevo letto credo un anno e mezzo fa “Solo per Ida Brown”, che qualcuno aveva inserito in una collana di gialli, mentre è un romanzo a tutto tondo. Al contrario, questo che Repubblica giustamente pubblica nell’ambito di un panorama sulla letteratura latino-americana, i critici in rete lo consideravano un giallo, e così pensavo io. Ma a valle della lettura è invece anche questo un romanzo duro e puro, con un andamento tortuosamente interessante e stimolante. Al limite della comprensibilità.

Non per lo scritto in sé, né sulla storia, o almeno sulla storia superficiale, che poi ce n’è un'altra sotterranea tutta da interpretare, quanto nella sovrabbondanza di riferimenti interni al mondo dello scrittore. Una somma di rimandi a uomini politici e uomini di lettere argentini dove non basterebbe una Treccani locale per venirne a capo, anche se, in questa edizione, è presente un corredo di note che tentano, per i non informati come me, di chiarire alcune dinamiche ed alcuni riferimenti.

Purtroppo, noto l’erroneità dei rimandi che sarebbe stato meglio inserire in modo intertestuale. Al contrario le note fanno riferimento alla pagina in cui il nome, l’avvenimento è citato, così che, ad essere precisi, bisognerebbe leggere il libro, e poi rileggerlo con le note a fianco, per interpretare meglio quanto scritto.

Vediamo allora i vari piani di lettura. C’è la storia che ho chiamato superficiale: la ricerca di un incontro tra Marcelo Maggi ed Emilio Renzi, entrambi scrittori, zio e nipote. Si scambiano informazioni, si mandano lettere e messaggi, combinano un luogo di riunione, dove converge Emilio ma dove non trova e non troverà mai lo zio. Qui scatta il meccanismo che Piglia mescola sempre facendo sembrare il romanzo un giallo alla ricerca dello zio scomparso. Ma non è così.

Perché questo è un romanzo sulla scrittura e sulla politica. Infatti, comincia tutto dalla stanza da dove l’autore scrive. In quella stanza, che affaccia su Plaza del Congresso, Ricardo, dal luglio ’77 al marzo ’80, compone questo suo “grido di dolore” per la sua patria occupata dai militari. Vede le parate sfilare nella piazza, riflette sui desaparecidos e sulla “Guerra Sporca” e, attraverso iperboli e rimandi, denuncia lo stato del paese (ecco perché lo ritengo un libro difficile, che non è che tutti siamo preparati sulla storia locale). Tant’è che il libro è dedicato a due fra i suoi tantissimi amici scomparsi.

Entrando ancora più in dettaglio nella costruzione, il libro è diviso in due parti. La prima parte comincia con un epistolario tra Marcelo ed Emilio. Il primo sta scrivendo un libro su un tal Enrique Ossorio, elemento ottocentesco della storia argentina, suicida ed additato come traditore ma di cui Marcelo vuole riabilitare la memoria. Anche perché ne ha sposato una discendente ed è in possesso di carte che nessuno conosce.

D’altra parte Emilio Renzi, il nipote, ha appena scritto un romanzo proprio sullo zio e sulla di lui carriera politica e sociale. Motivo per cui Maggi lo cerca. E dopo queste lunghe lettere di scambio già piene di nomi per loro illustri: generali, capi di stato, rivoltosi, politici, attivisti, nonché di una nutrita schiera di intellettuali, scrittori, poeti, alcuni dei quali notissimi, ma molti oscuri o quasi, lo zio invita il nipote ad incontrarsi nella cittadina di Concordia.

Dove Emilio si reca e non trova lo zio, ma un esule polacco, di nome Tradewski, amico di Marcelo e custode delle carte che Marcelo vuol far recapitare al nipote. E qui c’è tutta la seconda parte, piena di dialoghi tra i due, di altre lettere, di frammenti di un libro anch’esso in forma epistolare, ma soprattutto da lunghi e tortuosi monologhi del polacco.

Tardewski era stato allievo di Wittgenstein (e chiuderò con il filosofo questa trama), e da questa seconda parte, e dalle sue parole si avvia una serie di incontri a due (anche non fisici) che danno corpo al testo. C’era stato il dittico Maggi/Renzi, e narrato il rapporto Maggi/Tardewski. Ora in questo Renzi/Tardewski, si innescano tanti altri: Borges/Arlt (sulla letteratura argentina), Cartesio/Hitler (sul metodo e la pazzia), e Kafka/Hitler con un passaggio di un’invenzione sublime.

Senza entrare in tutti i meandri delle invenzioni di Piglia, non posso non entrare nel dettaglio in quella che per me rappresenta il fulcro della trasposizione e della denuncia velata. Il polacco sta facendo ricerche nel British Museum per la sua tesi su Ippia. Ricordo ai meno adusi sui sofisti greci, che Ippia era noto poiché si vantava che, avendo una prodigiosa memoria, poteva parlare con cognizione di qualsiasi argomento. In questa sua ricerca gli capita per errore tra le mani una copia annotata del “Mein Kampf” di Hitler che legge e confronta con un testo che per lui è l’inizio della modernità, il “Discorso sul Metodo” di Cartesio. Piglia qui ci porta con mano alla sua tesi sul fatto che il Mein Kampf è il perfetto rovesciamento del pensiero di Cartesio. In Hitler il dubbio non ha diritto di esistenza, è solo un segno di debolezza.

Non solo, ma studiando le note Tardewski scopre un buco nella biografia hitleriana: dall’ottobre del 1909 all’agosto del 1910 Hitler non è a Vienna, ma per sfuggire al servizio militare si rifugia a Praga, dove frequenta il caffè Arcos. Che non è altro che il caffè dove spesso capitava Franza Kafka, trascinato lì dal suo amico Max Brod. Ed il nostro ricercatore polacco (altra bella invenzione di Piglia) immagina due lettere di Kafka ai suoi amici, in cui narra gli strani discorsi del pittore in fuga. Discorsi che lo colpiscono portandolo, nelle sue riflessioni letterarie, a costruire quei mondi allucinanti e pieni di angosce dei suoi scritti.

Ora non intendo proseguire oltre nelle descrizioni, che altrimenti dovrei parafrasare tutto il testo. Ma da qui, e da tutte le elucubrazioni dei due dialoganti, esce fuori il succo del romanzo: un libro sulla scrittura, sulla difficoltà di rappresentare compiutamente i propri pensieri in parole. Illuminante una frase di Renzi a Maggi “Sento una musica e non posso suonarla, diceva, credo, Coleman Hawkins”. È difficile dire, ed impossibile dire bene.

Alla fine è una costruzione globale che, come una matrioska, contiene tante cose: un romanzo sull’esilio, sulla solitudine, sui fallimenti, sulla casualità delle vite, sulla ricerca delle proprie radici, sul bisogno di far ordine nel passato per capire il presente (da qui tutte le critiche trasversali alla dittatura), e sulla scrittura che, in realtà è sempre una riscrittura. Quindi con una intrinseca difficoltà propria dello scrivere.

Vorrei però permettermi un’altra citazione interna che tenda a dare esempio sia delle idee di Piglia che del modo di comporre questo libro. Scrive infatti ad un certo punto il nostro autore: “Il teorema di Gödel, per cui nessun sistema formale può affermare la propria coerenza, secondo Brecht, dico a Tardewski, è più bello del più bel sonetto di Baudelaire”. Cioè si scrive citando una citazione di un altro discorso e così in una discesa quasi infinita. Laddove, ed è qui che nasce l’idea del titolo, bisogna operare una respirazione artificiale sulle sequenze piatte degli eventi per poter trasformare la pura e semplice cronaca in Storia.

Riassumendo così il libro con una affermazione secca, diciamo che la realtà è di cero una faccenda complicata. Quindi, concordiamo con Piglia e con Wittgenstein sulla proposizione 7 del “Tractatus” del grande logico e filosofo: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”.

Buona e proficua lettura a tutti.

“La sua aspirazione è di scrivere un libro interamente composto da citazioni.” (20)

Ed allora anche qui, continuiamo senza citazioni in inglese. Anzi, solo in italiano. Da “La donna di scorta” di Diego De Silva un inno alla riflessione verso di sé nel rapporto di coppia: “A che serve sapere tutto dell’altro? Guarda che nessuno è un gran che, una volta che lo conosci” (45). E dal libro culinario-riflessivo di Sapo Matteucci “Q.B. la cucina quanto basta” un esortazione a non tirarsi indietro in cucina, come nella vita: “Il primo tentativo, forse non solo quello, sarà per voi, come è stato per me, un mezzo fallimento. Ma non desistete: coraggiosi, verso un prossimo e trionfale successo. In fondo non esistono piatti difficili, o, senza un po’ di passione-attenzione, lo sono tutti” (164).

Auguri a tutte le decine di persone amiche mie e parenti vari che fanno gli anni in questa prima metà di febbraio. Per ora, ci si concentra sempre più sulle isole nordiche, sul freddo colà e sul caldo costì (ho fatto lo scientifico ma ho letto molto…). Allora un abbraccio quaresimale.

domenica 11 febbraio 2024

Whitout thriller - 11 febbraio 2024

Visto che è sempre più invalso l’uso negli annunci di lancio, uso anch’io l’inglese per annunciare una trama senza autori inglesi. Cosa non molto usuale. Ma ci sono due francesi che seguo da anni e con buone riuscite: Musso e Bussi (c’è un po’ di origini italiane, penso che lo abbiate colto). Altrettanto interessante l’ultimo libro in lingua preso in una bella e storica libreria di Bordeaux. Del solito livello di media grandezza le due donne, la svedese Läckberg e la spagnola Redondo.

Guillaume Musso “Angélique” La Nave di Teseo s.p. (Prestito di Alessandra)

[A: 30/04/2023 – I: 30/07/2023 – T: 31/07/2023] - &&&  --

[tit. or.: Angélique; ling. or.: francese; pagine: 268; anno 2022]

Pubblicato solo l’anno scorso, visto che Alessandra è diventata Musso-addicted, l’ultimo libro dell’italo-francese è entrato subito nel giro dei libri da leggere. In poco tempo è balzato sulla mia scrivania, ed eccoci qui, a palare del solito grande giro di giostra che Musso organizza intorno ai suoi personaggi.

Devo dire che ho gradito molto un cambio di passo, rispetto agli ultimi scritti, che qui abbiamo poco a che fare con elementi al limite della comprensione umana, quei viaggi temporali, quelle agnizioni che vengono da altre dimensioni mentali. Qui, tutto si spiega, tutto è a portata di comprensione anche a noi poveri lettori. Anche se, usando le sue solite tecniche di andare su e giù nel tempo, narrando prima avvenimenti che avvengono dopo, e poi togliendo il velo che ce li fanno comprendere, non sempre riesce ad essere così lineare come potrebbe. Questo porta a quei piccoli meno nel giudizio finale.

La trama in sé sarebbe “quasi” riorganizzabile in momenti temporali susseguenti uno all’altro, con un piccolo omaggio a “sliding doors”, film inimitabile e da rivedere prima o poi.

Il poliziotto Mathias Taillefer, mentre sale su una metropolitana, sceglie a caso un vagone, e lì c’è la svolta della sua vita. Dei ragazzi importunano una signorina, Alice, lui la salva, nasce una breve storia che porta poi Mathias lontano ed Alice ad una gravidanza che non confessa al marito Laurent.

Anni dopo Mathias ha un infarto, e necessita di un cuore nuovo che viene trovato con difficoltà, data la particolarità del suo gruppo sanguigno. Ma il cuore c’è, e durante la convalescenza conosce la misteriosa Lena, di cui si innamora, ma il loro rapporto, per le reticenze di Lena, si arena miseramente.

Mathias, sbandato e disgustato, si dimette dalla polizia e viene ingaggiato da un gruppo di “aggiustatori”, spesso ai limiti della legge, composto da un nucleo duro di famiglie influenti in giro per tutto il mondo. Quando qualcuno subisce un torto, si rimette al giudizio del tribunale del gruppo, e, se nella ragione (almeno secondo il gruppo), qualcuno si incaricherà di aggiustare il torto.

Noi iniziamo a leggere la storia con Mathias nuovamente in ospedale, cullato da una musica proveniente da una violoncellista che si occupa di “Music therapy”. Si chiama Louise, e, scoperto Mathias essere un poliziotto, gli chiede di indagare sulla morte di una ex-ballerina, Stella Petrenko, un tempo étoile dell’Opera de Paris. Indagando, ora in solitaria, ora in coppia, i due mettono in luce tuta una nuova storia.

Pochi giorni prima di Stella, nello stesso edificio, si ammala di Covid un pittore italiano, Marco. Che viene salvato, inizialmente, da Angélique, l’infermiera che periodicamente va a visitare Stella ed a curarla. Angélique è incinta e cerca anche lei di uscire dalle ristrettezze, e trova in Marco una via d’uscita. Per una serie di coincidenze, può farsi passare da “amichetta” di Marco. Prima che Marco si svegli, da infermiera, riesce ad indurgli un coma irreversibile. Ma Stella è sul chi vive, sa cosa sia realmente successo, così che Angélique non può che sbarazzarsi anche di lei.

In questo modo, entra senza ostacoli nella famiglia Sabatini, convincendoli che porta in grembo l’erede della dinastia.

Tutto collasserà in un finale a più livelli tra Venezia e Beirut. Venezia dove accorrono Mathias e Louise, per smascherare Angélique. Beirut dove si precipiterà Mathias avendo avuto notizia della presenza in Libano di Lena. Tutti i frammenti combaciano, i cattivi pagheranno, anche se non per la giustizia ordinaria, almeno per quella di ordine superiore che serva ad aggiustare la vita di ognuno, come direbbe il buon Maigret. E nel caleidoscopico finale capiremo appunto i rapporti tra Louise e Mathias, tra Alice e Stella, tra Louise e Alice, tra Mathias e Lena. Insomma, di tutto e di più.

Quindi, e mi ripeto, una bella caratterizzazione dei personaggi, a supporto di una trama un filino troppo complicata, ma non ci possiamo aspettare niente di diverso da Musso. Personaggi al bivio che scelgono (quasi) sempre una scorciatoia per migliorare la loro vita, ma non sempre questa è la scelta migliore. Personaggi che costruiscono la vita su menzogne, e che difficilmente aderiscono agli stereotipi cui siamo abituati. Mathias è un poliziotto balordo, Stella è marcia nel profondo, Louise, forse, non è chi dice di essere, e Angélique si giocherebbe un bel posto in un pantheon delle efferatezze degno della penna di Patricia Highsmith.

La fortuna è che tutto si spiega, e non è poco nei libri di Musso.

Resta da citare due cose che mi restano in testa. Baptiste, figlio di Lena, gioca con le figurine Panini. Ora, siamo nel 2021 (data dell’azione) e per me, Panini è sempre indice dei miei anni Sessanta, e delle figurine sportive. Che salto all’indietro.

Infine, Musso, nel ricostruire tutti i fili spezzati delle varie persone, fa riferimento ad una tecnica di cui ho già parlato in occasioni giapponesi, e che ho visto in una bottega a Kyoto. Il kintsugi, l’arte cioè di ricostruire una cosa rotta evidenziando con laccature dorate i punti di rottura. Non possiamo riportare all’origine qualcosa che orami è diverso, ma possiamo sottolinearne i punti deboli, per poterli rafforzare e farne dei punti di forze.

Tutto bene allora Guillaume, ed aspettiamo un nuovo libro, presto.

Camilla Läckberg “Il figlio sbagliato” Marsilio s.p. (prestito della sig.ra Laura)

[A: 16/08/2023 – I: 18/08/2023 – T: 20/08/2023] - &&&   

[tit. or.: Gökungen; ling. or.: svedese; pagine: 446; anno 2022]

FJÄLLBACKA11

Ho letto tre anni fa il precedente episodio de “I delitti di Fjällbacka”, intramezzato dalla lettura poco coinvolgente dei due episodi di “Faye” e di quello di “Hämndserien”. Avendo constato un costante declino della scrittura di Camilla, ho perciò saltato i due libri scritti a quattro mani con Henrik Fexeus. Approfittando però di un gentile prestito intrafamiliare, ho deciso di darle una nuova chance per questo undicesimo episodio.

Come al solito cominciamo con le lamentale sul titolo. Ora, ci può stare che si parli di figlio sbagliato in un giallo in cui i rapporti familiari sono oltremodo complicati. Ma il titolo originale si riferiva al “cuculo”, che, se non lo sapete, ha la particolarità di essere refrattario ad accudire la prole. Per cui, prodotto un uovo, lo deposita nel nido di qualche altro uccello, che provvederà a fare il “genitore vicario”, almeno fino a che non si accorge della diversità. Poi il cuculo si deve arrangiare. Cosa che imparerà presto a fare.

Quindi proseguiamo con le vicende personali del gruppo che costituisce il nocciolo duro delle storie di Fjällbacka. Abbiamo Erica e Patrick, i due elementi centrali delle storie. Ora hanno finalmente ben tre figli (Maja la grande ed i due gemelli). Erica sempre al centro delle storie, con le sue intuizioni, con le sue ricerche e con le sue scoperte. Non ultima la scoperta di essere nuovamente incinta e di dover decidere cosa fare. Patrick in qualche modo a capo delle indagini, ma, come avevo accennato anche nel decimo episodio, è come se si mettesse in seconda fila, ad aspettare gli eventi piuttosto che a dirigerli.

C’è Paula con la sua compagna Johanna, ma interviene solo in modo marginale. Così come marginale è Gosta. Più presente è Martin che, superato il dramma della morte della prima moglie, sembra in grado di ricostruirsi una nuova vita. Infine, c’è Bertil, che smette finalmente i panni del giullare, per assumersi le proprie responsabilità private, visto che alla nuova compagna, Rita, viene scoperto un grave tumore.

La storia “gialla” invece ruota intorno agli ambienti letterari e mondani dell’alta borghesia svedese. C’è Henning il grande scrittore che è anche in corsa per il Nobel. C’è Elizabeth, la moglie, nonché editrice delle sue opere. E c’è la festa per il loro cinquantesimo anniversario di nozze. C’è Rolf, il grande fotografo, in procinto di inaugurare una grande mostra fotografica, dal titolo ambivalente di “Innocenza e Colpa”. C’è Vivian, la sua seconda moglie, che lo ama, ma che non riesce a fargli dimenticare la morta Ester. Ci sono Suzanne e Ole, che insieme ai precedenti hanno creato un club esclusivo, il Blanche, per lanciare promettenti esordienti.

Infine, ci sono i figli di Henning ed Elizabeth: il cadetto Rickard (con inutile moglie Tilde) sempre a corto di soldi ed in cerca di aiuto, in particolare dalla madre, ed il maggiore Peter, con i figli Max e William, e la seconda moglie Louise, che è anche amministratrice del Blanche.

La prima svolta delle indagini che seguono alla prima morte (quella di Rolf, mentre esamina le foto della colpa) viene data da Vivian, che ricorda la morte di Lola e della piccola Pytte, un trans che era, negli anni ’80, al centro della vita del Cenacolo. Lola che di sicuro amava qualcuno del cenacolo; amici dove Elisabeth e Rolf erano qualcosa in più, visto che Rickard era figlio loro e non di Henning; Ole che continua a mettere le mani su tutte le persone di qualsiasi sesso e Suzanne che lo copre. Ma Lola muore per due colpi di pistola e Pytte soffocata. Gli amici decidono allora di fondare il Blanche, in onore di Place Blanche, il centro della vita notturna di Parigi (c’è il mitico Moulin Rouge), nonché cuore delle fotografie LGBT del fotografo svedese Christer Strömholm.

Dopo la morte di Lola, le vite dei “blanchistes” hanno un balzo. Sempre più belle le foto di Rolf, Suzanne entra nel giro dell’Accademia di Svezia, ed escono gli scritti di Henning che gli procurano una fama solida e costante.

Ma dopo la morte di Rolf, viene ucciso a sangue freddo anche Peter con i due figli. Panico, paura e sgomento. Possibilità multiple di scoprire chi ha fatto fuoco. Dubbi se tutte le morti hanno la stessa mano assassina. Ovvio, che saranno le ricerche di Erica che riveleranno tutte le connessioni presenti, e porteranno ad un finale finalmente chiarificatore di tutti gli aspetti. Che ci siamo stufati di finali veloci, che lasciano qualcosa in ombra.

Prima di un commento generale, toglierei dall’ombra un elemento di “errore di citazione”. A pagina 315 si parla dell’atleta Lars-Erik Skiöld e si dice che soffiò il bronzo ad un altro atleta, anche lui svedese (e che ora fa il detective). Ora, Lars-Erik Skiöld prese realmente il bronzo alle Olimpiadi di Mosca nel 1980. Ma in lotta greco-romana e non in lotta libera. Nella categoria fino a 68 kg, che sembra un po’ sottopeso per il robusto detective. Infine, in quelle Olimpiadi c’era un solo atleta nella categoria indicata, quindi era difficile che Skiöld soffiasse il bronzo ad uno svedese. Tutt’al più, lo aveva soffiato all’armeno Suren Nalbandyan. Ma forse lo sport merita altre narrazioni.

Dicevo, Camilla torna, dopo passaggi poco esaltanti, ad uno stile vivace, coinvolgente, e decisamente scorrevole. Inoltre, affronta al solito una svariata messe di problematiche, di grande attualità. La sessualità ed il mondo dei trans, i rapporti tra letteratura e arte, il rapporto dei bambini con la realtà che li circonda, l’amore-odio tra fratelli. Un buon libro che ci riporta la buona Camilla quasi ai livelli dei primi libri della serie.

“La letteratura è questione di vita o di morte. Le persone vanno e vengono. Noi viviamo e moriamo. Invece la letteratura che creiamo ci sopravvive.” (164)

Martial Caroff “Ne me remerciez pas!” Fayard s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 06/12/2023 – I: 14/12/2023 – T: 16/12/2023] - &&&

[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 283; anno 2023]

Tutti (o quasi tutti) sanno che, durante i miei viaggi, tento di riportarmi a casa un libro locale. Tentativo che ha buona ragione di riuscita quando viaggio in paesi in cui riesco a maneggiare la lingua (francofoni, anglofoni o ispanofoni). Quindi, in questa trasferta-regalo in quel di Bordeaux, non poteva mancare un libro-regalo (così è stato un regalo a tutto tondo).

Non siamo riusciti a trovare un libro che mi piacesse e basato nella città dei vini, abbiamo quindi ripiegato su un libro parigino, che ha vinto il “Prix du Quai des Orfevres 2024” dedicato ai migliori inediti di ambiente “noir” e selezionati da una giuria composta da poliziotti e magistrati. Incontrando qui un autore bretone nato ad un tiro di schioppo da Brest. Caroff, pur avendo scritto diversi “polar”, è soprattutto noto come geologo (tiene un corso di geologia all’Università di Brest) materia cui ha dedicato molti dei suoi libri scientifici.

Qui, pur essendo un noir, si sente, e molto, questa sua passione, dato che non solo il libro è ambientato nell’ambiente di ricerca geologica, ma altresì alcuni elementi sono molto prossimi alla sua specializzazione. Fortuna che la sua capacità divulgativa ci consente di seguire (abbastanza) agevolmente anche la parte scientifica. Parte su cui tornerò in seguito che ha un elemento di riflessione interessante.

Comunque, la difficoltà maggiore nella lettura del testo non è tanto derivata dall’ambientazione scientifica, quanto dall’uso di un linguaggio molto “francese”, con abbreviazioni ed espressioni gergali, certo di uso corrente, ma non sempre decifrabili a prima vista. In ogni caso, un buon esercizio di ripasso di una lingua viva, a contatto con la vita quotidiana, in particolare parigina.

Il nucleo centrale dell’attività investigativa si concentra poi sulla brigata criminale (il nome francese della squadra poliziesca) capeggiata del commissario Kestner. Ci sono Varenne, Manuel e Lèa, ma soprattutto lui, Kestner, uno che sente il bisogno di far quadrare la scena criminale, in un modo che mi ricorda il commissario Buonocore di Enrico Luceri. Sarà proprio un elemento “fuori posto” come vedremo che condurrà Kestner verso un fine ragionamento che lo porterà alla soluzione del caso.

Tutto inizia dalla morte per avvelenamento di un esperto paleogeologo e dall’indagine che ne consegue. Seguendo un filo rosso che parte dai ringraziamenti singolari di un articolo scientifico (come analizzo meglio in seguito) che mettono alla berlina Colin un ricercatore dell’Istituto in cui lavora Gaubert. Il filo, partendo da Colin, coinvolge molto personale direttivo dell’Istituto. Vincent che, accusato da un foglio manoscritto, ha un collasso nervoso. Pauline cui viene sottratto un documento privato compromettente e che viene anche lei uccisa. Piera, una ricercatrice italiana, allieva di Gaubert, che vede sparire i fossili delle sue ricerche. Isabelle, amica e qualcosa in più di Pauline, che viene trovata suicida in un torrente, dopo che molte prove convergono sulla sua colpevolezza.

Il fatto è che Kestner ed i suoi sembrano sempre un passo indietro rispetto al colpevole, come se questi sapesse le loro mosse in anticipo. Ma proprio il suicidio di Isabelle mette un tarlo nella mente di Kestner: la ricercatrice non sarebbe potuta passare con la macchina là dove poi si è gettata in un torrente. Come dice il commissario: non si riesce a far entrare una tovaglia rettangolare in un cassetto quadrato. Da qui, ripercorrendo passo dopo passo tutti gli avvenimenti, usando intelligentemente l’adagio di Conan Doyle (“Quando hai escluso l’impossibile ciò che resta, per quanto improbabile, è la verità”) Kestner ed i suoi arrivano alla soluzione del caso.

Con un epilogo che sembra promettere altre avventure della brigata.

Dicevo dei giochi di parole. Ora il motore della prima ricerca dei nostri sono i ringraziamenti che Gaubert pone in epigrafe ad una ricerca firmata da lui e dai maggiori ricercatori dell’Istituto. È una pubblicazione scientifica, quindi scritti in inglese, e recita: “The authors thank the CLIMATGATE research group for the useful discussions. They also thank Jean Paffavec de Paulin, Zette Fiotedeux, Colin Eckomssa, J. Le Nicollin for their technical assistance”. Ora i nomi citati sono palesemente falsi, e l’ultima frase, letta in francese ed interpretata, si può riproporre come: “J’enpaffe avec deux poings cette fiotte de Colin et comme ça, j’le nique, Colin”. Che, volendo riportarla in italiano, suona: “Schiaffeggerò quel frocio di Colin con due pugni in faccia e poi ti manderò a fare in culo, Colin.”

Capite bene come questo scambio di “gentilezze” possa generare rapporti problematici in Istituto, coinvolgendo appunto Gaubert, Colin e le altre persone dell’articolo (appunto Vincent, Isabelle e Piera, nonché Pauline come capo dell’Istituto stesso).

L’altro punto cui accennavo all’inizio riguarda l’ambiente di indagine dei paleogeologi, le diatomee e la loro trasformazione fossile in diatomiti. Primo perché la polvere delle diatomee è un elemento altamente velenoso ed è la causa della morte di Gaubert. Secondo perché, una volta fossilizzatesi in diatomiti, il loro studio permette di analizzare lo stato del clima al tempo della loro vita acquatica. Essendo le diatomee organismi alghiformi unicellulari fondamentali nella produzione dell’ossigeno nell’atmosfera (pare ne producano il 25%).

L’affermazione interessante di Caroff riguarda la possibilità che le diatomee, comparse nel Cretaceo, indichino un possibile riscaldamento del pianeta avvenuto 145 milioni di anni fa. Elemento che serve a confutare l’idea dell’unicità del nostro riscaldamento attuale. Non viene analizzato però dagli studiosi presenti in questa fiction, cosa successe dopo. Cioè un periodo di innalzamento delle acque, con conseguenti stravolgimenti dei cicli delle stagioni, che portarono 60 milioni di anni fa all’evento noto come “estinzione di massa del cretaceo”, dove scomparvero l’80% degli esseri viventi, non sopravvivendo nessuna specie di peso superiore ai 25 kg.

Riflettiamo anche sul clima, dopo aver concluso che, pur con qualche zoppicamento, è stata una bella lettura.

Michel Bussi “Non lasciare la mia mano” E/O euro 10 (in realtà, scontato a 9 euro)

[A: 30/08/2022 – I: 22/12/2023 – T: 23/12/2023] - &&& e ½

[tit. or.: Ne lâche pas ma main; ling. or.: francese; pagine: 354; anno 2013]

Terzo libro che leggo dello scrittore francese ritenuto il secondo scrittore francofono per numero di vendite, nell’ambito degli scrittori viventi, essendo il primo (almeno così mi risulta) Guillaume Musso.

Sarà che ho letto solo libri di una decina di anni fa, all’inizio della scrittura di Bussi, ma tutti si sono rivelati di un buon se non ottimo livello. Certo, “Ninfee nere” letto in lingua mi ha colpito, anche se (purtroppo) alcuni punti “dialettali” mi hanno dato filo da torcere. Come qui, per alcune frasi e/o citazioni in “creolo della Riunione”, una lingua basata sul francese ma con molti prestiti ed influenze delle differenti etnie che abitano l’isola (creoli, malgasci, indiani, malesi ed altri). Non per un caso, ma perché l’azione si svolge proprio sull’isola territorio d’oltremare francese.

Dico subito che, seppur incalzante e ben costruito, con un sapiente dosaggio di colpi di scena e di situazioni annunciate e poi stravolte, quello che mi ha un po’ frenato è l’aver messo, in ogni svolgimento d’azione, un riferimento temporale, preciso in ora e minuti. Peccato che, nella lettura, uno non tenga a mente esattamente l’istante dell’avvenimento, e laddove ci sono momenti quasi contemporanei, e Bussi, per aumentare la tensione, salta dall’uno all’altro, magari tornando indietro di qualche minuto, io, povero lettore, mi trovo in difficoltà.

Se però ce ne freghiamo e leggiamo il libro ignorando tutto ciò, l’azione scorre, le fasi del thriller si incastrano, ed il libro raggiunge una sua leggibilità e gradevolezza di sicuro pregio.

Intanto, il primo punto è l’ambientazione, esotica in un certo senso, come si diceva sopra, ma gradevole per la descrizione dei luoghi, delle persone e della fauna. Siamo infatti, nell’isola “la Réunion”, questa che sarebbe la dicitura esatta, con l’articolo minuscolo, e l’azione ci fa esplorare i più pittoreschi siti dell’isola: la spiaggia di Boucan-Canot (attualmente Saint-Paul), le scogliere dell’Anse des Cascades (tra Sainte-Rose e Saint-Philip), ma soprattutto il Piton de la Fournaise, uno dei vulcani più attivi del pianeta (primato che contende periodicamente all’Etna) e da una geotermia impressionante per cui, repentinamente, nel primo pomeriggio a volte si ricopre di nuvole di vapore che impediscono la visuale già a due metri di distanza.

Il marchingegno thriller di Bussi (fatte salve le indicazioni orarie di cui ho detto) è di certo ben congegnato. Comincia in sordina: c’è la famiglia Bellion in vacanza sull’isola, composta da Martial, Liane e dalla piccola Sofa (sei anni, diminutivo di Josepha). Senza motivi apparenti, Liane scompare, e Martial è forzato a denunciarlo alla polizia, ed in particolare alla comandante Aja Purvi, una mista creola, brava ed ambiziosa. Compaiono subito delle crepe, che la stanza d’albergo è macchiata di sangue e che Martial mente alla polizia.

Dopo un centinaio di pagine in cui siamo indotti a credere Martial essere l’assassino, c’è una svolta improvvisa: Martial fugge dall’albergo con Sofa, e sparisce nei meandri della pur piccola isola. A questo punto Aja, ed i suoi aiutanti, sono indotti ad approfondire le notizie su Martial, scoprendo una storia che viene da lontano.

Martial aveva vissuto a lungo nell’isola una quindicina di anni prima, sposando la bella Graziella e avendo con lei un figlio, Alex. Martial, bello e giovane, era un insegnante di surf, Graziella gestiva un albergo. Martial non disdegna la compagnia femminile, per cui si allontana dalla moglie, finendo in un divorzio, con affido alternato di Alex. Un brutto giorno, in seguito a disguidi e ripicche, Alex viene lasciato solo in spiaggia, e finisce per morire affogato.

Martial se ne addossa la colpa e abbandona l’isola, tornandoci appunto solo quindici anni dopo con una nuova moglie ed una figlia che, all’epoca del racconto, ha la stessa età di Alex.

Si capisce bene, da questo punto in poi, che il presente è molto condizionato dal passato, laddove molti abitanti sanno ma non parlano. C’è anche Graziella, pur essendosi spostata nella non lontana Mauritius. Seguiamo, minuto dopo minuto, la lotta contro il tempo di Martial per ritrovare e liberare Liane, che non era morta ma rocambolescamente rapita. La parte migliore è proprio nel finale incandescente come il vulcano della Fournaise, uno degli scenari principi della risoluzione finale. Finale in cui c’è molto altro, oltre quello che ho descritto, e che risolleva l’andamento di un romanzo che inizialmente sembrava moscio ed un po’ lento.

Ma Bussi ha una buona penna, e non fallisce di certo il colpo, pur con le piccole riserve che ho detto.

Terminerei con due notazioni di carattere naturalistico. Ad un certo punto si parla del “Dodo bianco”, come possibile specie endemica dell’isola, parente del Dodo delle Mauritius. Ora il secondo è certamente dimostrato aver abitato l’isola, il primo, probabilmente, era un parente ma non un vero e proprio Dodo. Ricordo, di passaggio, che il nome all’animale venne dato dai primi scopritori dell’isola come storpiatura del termine portoghese “doudo” che significa “inetto”, in quanto, pur uccello, il Dodo non volava.

Infine, l’operazione poliziesca che la polizia (ma non Aja) inscena per catturare Martial viene chiamata “Operazione Papangue”, senza spiegarne il nome. Sarebbe stato facile invece chiamarla con la traduzione italiana del termine avicolo francese, in quanto l’autoctono Papangue non è altro che l’Albanella. Allora, forse, meglio “Operazione Albanella” con una nota a piè di pagina.

Dolores Redondo “Inciso nelle ossa” TEA euro 12

[A: 28/09/2019 – I: 26/12/2023 – T: 28/12/2023] - && +    

[tit. or.: Legado en los huesos; ling. or.: spagnolo; pagine: 475; anno 2013]

Meno di un anno dopo la scrittura del romanzo che le ha dato fama, la scrittrice basca Dolores Redondo mette in uscita il secondo episodio di quella che, con il terzo libro uscito l’anno seguente, è conosciuta in Spagna come la “trilogia di Baztán”, dal nome della regione montuosa della provincia di Navarra, strettamente confinante con la Francia.

Il nome deriva appunto dal luogo, e dalle sue mitologie, ma poteva anche chiamarsi la “trilogia di Amaia Salazar”, dal nome dell’ispettore capo protagonista dei romanzi. Circa quattro anni fa avevo letto il primo libro, e spero di far passare meno anni per leggere il libro conclusivo.

A parte alcuni personaggi di contorno, il centro della scena, oltre ad Amaia, è preso dalle sue sorelle, Ros e Flora, dalla zia Engrasi, e dal marito James, un artista americano di cui Amaia si è innamorata ed ha sposato nel primo libro, nonché, nell’intervallo tra i due, fatto un figlio che, all’inizio del volume viene alla luce. Dalle ecografie sembrava una bambina, invece è un bel maschietto cui viene dato il nome di Ibai (fiume in basco).

Amaia è un poliziotto capace, di buona carriera, con buoni successi investigativi alle spalle, ma è anche una donna, che si innamora di James, avendo con lui una relazione di forte complementarità. Ed è anche piacente come vedremo (lo accenno ma non ha importanza qui) quando compare sulla scena il bel giudice Xabier Markina. Infine, è anche una figlia, che non ha ancora risolto il suo rapporto con la madre Rosario. Abbiamo infatti visto nel primo libro i suoi sogni ricorrenti di Rosario che tenta di ucciderla (e qui ne scopriremo nuovi episodi), sogni tra la finzione ed il reale, tanto che la madre viene rinchiusa in un ospedale psichiatrico.

L’altro elemento centrale in tutta la saga è la mitologia basca. Una mitologia in cui tutte le divinità si trovano nella terra e non in cielo, governata da una donna, la dea Mari, e dove le creature maschili servono a farle un contorno di paure e di difesa. Non vediamo, fino ad ora, Mari in prima persona, ma nel primo libro c’era il Basajaun, una divinità maschile in parte anche buona, che deve difendere la natura, e per far questo può diventare cattivissimo. Qui, fin dalle prime battute incontriamo cenni e rimandi a Tarttalo (spesso indicato anche con Tarta), un ciclope monocolo simile a Polifemo, cattivissimo e dedito al cannibalismo, soprattutto verso i giovani. Motivo per cui, per rabbonirlo, gli si fanno offerte, anche umane, in termini femminili.

Che c’entra tutto ciò con il nostro romanzo? È che fin dall’inizio ci sono misteriosi suicidi di persone che hanno trattato male o ucciso donne giovani, fidanzate, ragazza in età da marito, ma anche adolescenti. Suicidi inspiegabili, dove, prima della fine, il morituro scrive in qualche modo la parola “Tarttalo”. Amaia viene coinvolta nelle indagini, anche per altri accadimenti poco inerenti la trama principale. Quello che vediamo è la sua ricerca di un elemento comune, oltre al fatto che i suicidi, poco prima dell’ultima mossa, in qualche maniera cercano di coinvolgerla, di chiamarla, quasi a voler indicare un elemento di vicinanza.

Elemento che convergerà sulla figura della madre. Amaia non ha mai risolto i suoi problemi con Rosario, ma queste casualità la spingono ad indagare sul passato familiare, scoprendo così di aver avuto una sorella gemella, vittima sacrificale di quelle morti nella culla di cui abbiamo letto già in alcuni romanzi di Simonetta Agnello Hornby. Cercando di stanare la madre su questo terreno, scopre che non solo è fuggita dall’ospedale psichiatrico, ma che lo psicologo della madre era anche in contatto con molti (o forse tutti) i suicidi.

Arriveremo alle scene finali con un po’ di fiato sospeso, visto che viene anche rapito Ibai. Ma lo spirito investigativo di Amaia e la sua convinzione di essere sempre dalla parte giusta, porterà allo scioglimento della trama. Con alcuni ovvi punti in sospensione, visto che ci sarà il terzo e conclusivo episodio, che dovrebbe chiudere tutte le porte.

Seppur molto intrigante nelle parti riguardanti il folclore vasco-narravino, il libro risulta un po’ fragile nella parte investigativa. Certo, di interesse l’intreccio con le vicende personali della famiglia Salazar (non ultima e non dimenticabile la figura della zia Engrasi). Tuttavia mi aspettavo qualcosa di più dalla scrittura e dalla trama. Vedremo prima o poi di tirarne le file dopo la fine della serie.

“Quando uno decide di amare una persona al punto di rinunciare a chiunque altro, non diventa cieco e neppure invisibile, continua a vedere ed essere visto. Non c’è nessun merito a essere fedeli quando quello che vediamo non ci tenta o quando nessuno ci guarda. Il vero banco di prova è quando si presenta una persona di cui ci potremmo innamorare … una persona che fa per noi, che ci piace e che ci attira. Una persona che sarebbe perfetta se non avessimo già scelto un’altra persona perfetta. Questa è la fedeltà.” (275)

Continuiamo anche la chiusa senza inglesi, con alcune frasi tratte da “Marina” di Carlos Ruiz Zafon. Forse un po’ estreme ma realistiche: “La verità non si trova, è lei che trova noi.” (132); “Chi non sa dove è diretto non arriva da nessuna parte” (152); “Il nostro corpo comincia a morire nel preciso istante in cui nasciamo” (248).

E con una frase da un libro del francese Christian Jacq che abbiamo apprezzato in passato per i libri su Ramsete II, ultimamente per la biografia di Hatshepsut, ma che era di buona lettura anche in un giallo archeologico, “Le procès de la momie”, dove troviamo questa bella sentenza: “Ciascuno può essere felice, se vuole; poiché la felicità dipende certamente da noi. L'uomo che si accontenta di ciò che la sorte gli dà è felice, soprattutto se è bene persuaso che quello è tutto ciò che potrà ottenere.” (277)

Per il resto sapete bene che è un febbraio di quiete e di attenzione, in preparazione di una, si spera, più rigogliosa e produttiva primavera. E cercheremo di mettere in cantiere più viaggi possibili, che è sempre una buona soluzione. A parte il fatto di dedicarvi un abbraccio.