domenica 26 febbraio 2017

Fakeide - 26 febbraio 2017

Una settimana dedicata agli amici, cominciando con i sempre interessanti prestiti/regalo del grande Fako. Che questa volta ha superato sé stesso riuscendo a rifilarmi quattro libri praticamente illeggibili. Tre “vecchi” Sellerio, che, come dice il primo, dopo aver fatto “passi nella memoria”, sono scomparsi verso un giusto oblio. L’ultimo sarebbe anche riuscito interessante, per il tema in sé. Purtroppo la resa stilistica dello stesso tema mi ha lasciato freddo e distante. Nonostante questo, spero che Fako continui a rifornirmi, che, pur nella disparità, sono libri che si possono leggere (con buona pace di Pennac).
Antonio Castelli “Passi a piedi passi a memoria” Sellerio euro s.p. (regalo di Fako)
[A: 30/08/2016 – I: 30/08/2016 – T: 31/08/2016] - & +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 90; anno 1985]
Benché sempre grato a Fako, per la sua paziente opera di distribuzioni di libri, questo suo recente omaggio è stato preso, cotto, letto e mangiato in un battibaleno (come vedete, iniziato lo stesso giorno in cui è entrato in casa, e presto terminato). Purtroppo non è stato ben digerito, forse non ne ho capito le motivazioni, forse la frammentarietà del testo stesso lascia il lettore con un sentimento di attonita incompiutezza. Come vedete dalla data di pubblicazione è uno dei non dico primi ma sicuramente poco dopo pubblicati della collana “La memoria”, quella che permise a Sellerio, sotto la spinta di Sciascia, un recupero di libri ed una sua collocazione in un mercato che allora era di nicchia, ma che si andò ben presto allargando. Per poi, ingaggiato Camilleri nella squadra, cominciò a correre ed a mietere indicibili successi. Quelli erano invero i primi passi, cominciati con “Dalla parte degli infedeli” di Sciascia stesso, proseguiti con libri particolari come “Il procuratore della Giudea” di Anatole France o come “Delitti esemplari” di Max Aub (un libro che ricordo con affetto). Castelli era uno scrittore siciliano, in quella fila di eruditi marginali alla cultura imperante, che arruolava elementi poco noti al grande pubblico, ma di spicco come Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo, anche prima dei loro boom editoriali. Castelli è erudito, avvocato, ma soprattutto collaboratore di Panunzio sul settimanale “Il Mondo”. A 40 anni pubblica il suo primo libro (“Gli ombelichi tenui”) e cinque anni dopo il secondo (“Entromondo”). Poi più nulla. Ovvero, più nulla se non questa invenzione di Sciascia, che prende alcuni racconti del primo libro (passi a piedi) e li unisce a pezzi scelti espunti dal secondo (passi a memoria) confezionando un libro omaggio. Cui Sciascia teneva molto, volendo ripagare il suo colto amico dello sgarbo a lui inflitto nel ’68 quando al libro di Castelli, la giuria del Premio Brancati preferì “Il mondo salvato dai ragazzini” di Elsa Morante. E tanto brigò Sciascia da far avere nel 1998 a questo libro l’omaggio postumo (Castelli era morto ormai da dieci anni) con l’assegnazione del Premio Recalmare. Chiudendo l’inciso di cui sopra, però, poco prima di questo (che porta il numero 106), nella collana di Sellerio, escono altri libri, per me memorabili: con il 93 “Notturno indiano” di Antonio Tabucchi e con il numero 95 “Assassinio al Comitato Centrale” di Manuel Vázquez Montalban. Tornando al libro, a questo libro, devo invece dire che mi ha lasciato abbastanza e congruentemente freddo. Nella prima parte ci sono alcuni piccoli racconti, nella maggior parte ambientati nella città d’elezione di Castelli, cioè Cefalù. Se ne respirano i passi e gli umori, se ne intravedono le possibili percorrenze come elementi che spiccano da una tela altrimenti bianca. C’è il gusto della frase, della parola, si nota anche la fatica che ognuna di queste parole ha fatto soffrire all’autore per uscire, per cristallizzarsi nella pagina. La seconda parte, questo “Entromondo” che ogni tanto muove verso la natia Castelbuono, è ancora più rarefatta, tanto che ne riporto una frase, per mostrare come scriveva Castelli. Per mostrarne l’indubbia bellezza nella scelta delle parole. Ma anche per mostrarne l’inutile espressione. Non muove sentimenti, muove sinapsi cerebrali forse, fa fare piccole connessioni. Ma non riesce ad avere la compiutezza di quegli altri autori siculi di cui citavo sopra. Non riesce in nessuna breve frase (od anche in quelle lunghe) a farmi avere quel brivido che ad esempio provo leggendo questa riga di Giorgio Caproni: “Buttate pure via / ogni opera in versi o in prosa. / Nessuno è mai riuscito a dire / cos’è, nella sua essenza, una rosa”. Sciascia ed i suoi postumi rivendicano la bellezza e l’asciuttezza dello stile di Castelli, espostosi alla luce quando lo stile non era un elemento di distinzione. Io, con molta umiltà, ne ho letto, ma non ne ho tratto nessun benefico effetto. Pur essendo molto cerebrale, non lo sono forse abbastanza, qui.
“Una vasta nuvola funerea sporcherebbe il cielo, se il sole non provvedesse ad essiccarla, mungendone la pioggerellina che porta in grembo.” (44)
Max Beerbohm “Storie fantastiche per uomini stanchi” Sellerio s.p. (prestito di Fako)
[A: 30/08/2016 – I: 31/10/2016 – T: 31/10/2016] - & e ½  
[tit. or.: vedi sotto; ling. or.: inglese; pagine: 159; anno 1897-1919]
Seppur devo ancora ringraziare il mio amico Fako che mi fornisce sovente libri che non avrei mai pensato di acquistare, questa volta il suo prestito è caduto malamente. Un libricino di quattro racconti, che si leggono velocemente e che velocemente si dimenticano. Tanto che avrei dato al massimo mezzo libricino di gradimento, se non avessi approfondito la personalità dell’autore che, seppur non mi sia simpaticissimo, comunque ha un suo interesse e delle curiose particolarità. Ma prima dell’autore, veniamo alla confezione. Che qui Sellerio stava agli albori della sua collana dedicata a “La Memoria”, essendone questo il volume 41 (e ricordo che ora si avvia oltre i mille esemplari). Per cui venivano fatte operazioni un po’ troppo intellettuali, come riunire quattro racconti di questo esimio caratterista nato a Londra nel 1872, coevo e sodale di personaggi come Aubrey Beardsley, o Oscar Wilde o William Rothenstein (che tra l’altro compare nel secondo scritto). Non solo, ma come titolo di questo compendio viene preso il sottotitolo del primo racconto, “A fairy tale for tired men”, facendo lievitare “tale” in “tales”. Perché? Misteri editoriali. Beerbohm, per l’appunto, è un uomo di punta di penna, che riempie i suoi scritti, come al tempo si usava, anche di disegni (tanto che è noto anche come caricaturista). Pare fosse anche omosessuale, benché inconfesso, tanto che si sposa almeno due volte. E, per la gioia degli scopritori di elementi “altri”, muore di infarto ad 83 anni, in quel di Rapallo. Come autore, pubblica una serie di piccole raccolte di racconti, da dove provengono queste. Il primo, in realtà, pur nella sua brevità, ha avuto anche una pubblicazione autonoma. Scritto nel lontano 1897, dal titolo “The Happy Hypocrite”, reso in italiano con l’ottimo “L’ipocrita felice”. Ma che direi è l’unico elemento di interesse dello scritto. Per il resto seguiamo la vicenda di George Hell (Giorgio Inferno, se lo vogliamo tradurre), un cattivo gaudente, che, colpito dalla freccia di cupido, cada innamorata della giovane Jenny. Per conquistarla si fa fare una maschera di cera con la faccia innamorata, la conquista, vanno a vivere in campagna, e lui si redime. Restituisce soldi e ruberie perpetrate, e l’amore lo cambia talmente che quando, e non vi diciamo come, la maschera cade, Jenny lo vede come realmente è diventato. Buono e innamorato. E vissero felici e contenti. Bah, niente di particolare. I due centrali provengono dalla raccolta di scritti del 1919 “Seven Men”, e non si è avuta difficoltà nel lasciare il nome di questi brevi assaggi di personaggi, “Enoch Soames” e “James Pethel”. Il primo ha un qualche interesse, mentre il secondo è assolutamente inutile. La storia di tal James, conosciuto dall’autore per due giorni di convivenza con moglie e figlia. Poi perso di vista, e scoperto anni dopo morto di infarto. Aveva sempre avuto il cuore debole, ma nelle poche ore che vediamo descritte, cerca sempre emozioni a tutto campo. Ma non si sa perché né come. Altro grande bah. Dicevo che Soames ha invece qualche interesse. Più per l’impianto generale che la res specifica. Storia di uno scrittore senza arte né parte che pensa di essere un “grande”, scrive delle poesie illeggibili (e Max ce ne dà un esempio), ed alla fine fa un patto con il diavolo per andare a vedere cento anni dopo cosa sarà di lui nella British Library. Ovviamente tornerà sconfitto, nessuno ne sa niente. Anzi si conosce solo Beerbohm, l’io narrante, che viene ricordato per un suo racconto basato proprio su “l’inventato” Soames. Questo tocco è magistrale. L’ultimo, scritto nel 1918, era incluso nella sua ultima raccolta “And Even Now”, ed anche qui con un titolo che ci viene rimandato intonso. “A relic” in inglese, che l’ottima traduzione di Mario Praz porta in “La reliquia”. Dove poi è lo stesso Praz che ce ne fa un’analisi tutta da leggere, anche se, personalmente, l’ho trovata molto letteraria e poco avvincente. È il più breve dei racconti, e nella sua brevità ha un suo fascino. Il narratore tra le vecchie cose della sua soffitta, ritrova un ventaglio rotto. Che lo rimanda al momento che lo ebbe in mano, assistendo ad una scenata tra due persone, una giovane signorina, padrona e distruttrice del ventaglio, ed un signore di mezza età che la blandisce. E ricorda, il nostro, come abbia pensato di scrivere un racconto su questo episodio, come più volte abbia tessuto nella sua testa una trama che pensava fosse bellissima. E di cui, ora, non gli rimane che l’attacco: ‘Down below, the sea rustled to and fro over the shingle.’ [Giù in basso, il mare frusciava avanti e indietro sopra la ghiaia, nella bellissima traduzione di Praz]. Racconto che si chiude sul malinconico ricordo di questo tentativo. E come fa risuonare le corde di quegli scrittori, piccoli o grandi, che rileggessero le loro prime prove. Ma il nostro Max è morto da sessanta anni, ed il suo periodo più fulgido risale a cento anni fa. La sua scrittura, adesso, è solo un reperto storico. E non incide, né fa sorridere, noi uomini stanchi del qui ed ora.
Friedrich Glauser “I primi casi del sergente Studer” Sellerio s.p. (prestito di Fako)
[A: 30/08/2016 – I: 05/11/2016 – T: 06/11/2016] - & --   
[tit. or.: Wachtmeister Studer erste Fälle; ling. or.: tedesco; pagine: 203; anno 1933-1989]
Con questo terzo libro si conclude la trilogia dei tomi prestatami (o regalatami o altro) dal mio amico Fako. Che sempre ringrazio per la sua attenzione di attento lettore e promettente scrittore di racconti. Ma che non posso non rilevare come questi tre “Sellerio” siano alle punte più basse dei miei gradimenti. Anche questo Glauser, da cui mi aspettavo di più, ricordandomi dell’unico libro che di lui lessi dalla biblioteca materna. Quel “Sergente Studer” che, nel respiro a me più congeniale del romanzo, presentava caratteri e tipologie interessanti per una descrizione degli ambienti elvetici degli anni Trenta. Qui, invece, siamo ad un’operazione di recupero ed integrazione, che poco ha a che fare con Glauser e, soprattutto, con Studer. Glauser, pur nato a Vienna, divenne ad un certo punto cittadino svizzero, e come tale è ricordato negli annali letterari. Oltre al fatto che, più che le sue opere, in realtà, la sua stessa vita è un romanzo. Senza entrare nello specifico, dopo non aver conseguito nessun diploma, comincia a fare mille mestieri: garzone di un lattaio, giornalista tirocinante, legionario per due anni, poi subacqueo, minatore, orticoltore. Da sempre questi mestieri gli servono per alimentare la sua passione di scrittore, che sarà a vita marcata anche dalla morfina che comincia a prendere a 22 anni per curarsi dalla tubercolosi. Solo a metà degli anni Trenta comincerà a poter vivere del proprio lavoro, quando i “casi del sergente Studer” gli daranno soldi ed un inizio di fama. Che terminerà poco dopo, a 42 anni, quando viene stroncato da una crisi cardiaca, il giorno prima delle nozze. Perché allora questo libro mi ha così innervosito? Come detto, è un’operazione postuma che recupera tre racconti con Studer da protagonista, aggiungendone altri nove di diversa fattura. E soprattutto senza Studer. I curatori, per sfruttare il nome a cui più di tutti è legato Glauser, ci appiccicano quel titolo anodino. E noi siamo lì, a cercare di capire qualcosa del perché. Arrendendoci all’evidenza. Sono pezzi che vanno su e giù. Alcuni momenti felici. Ma altri illeggibili, almeno per noi che lo prendiamo 80 anni dopo che l’autore ne narra. Come ad esempio i due ambientati nella legione straniera. Ma che poco ci portano di nuovo o di intrigante della stessa. Sarebbero quasi da saltare a piè pari, se non ripercorressero, ad esempio, alcuni passi della vita stessa di Glauser. Dove, infatti, lui fu allontanato dalla Legione Straniera in seguito ad una denuncia per appropriazione indebita, vera o falsa che sia. E che lui ripercorre, piattamente, in “Il caporale veggente”. Mentre parla di altre storie di cui venne a conoscenza in “La morte del negro”, che non avvince, né si capisce bene perché il negro del titolo muoia. O in “Assassinio”, dove descrive l’uccisione di una recluta appena arrivata in Legione, solo per farci capire come sia dura la vita laggiù in Marocco. In altri, Glauser tenta approcci diversi al genere, ma sempre con poca presa: descrizione di un interrogatorio “alla Maigret” dove parla solo l’imputato che alla fine non può che confessare (“Interrogatorio” e “Sfortuna”), tentativo di descrizione di una situazione criminale attraverso le lettere (“Fine del mondo”), un gioco su nomi e scacchi dove una variante di una difesa ad un gambetto descritta dallo scacchista polacco Zuckertort porta all’arresto dell’assassino (“Re Zucchero”). Più simpatici il lamento della donna che “suicida” il vecchio amante (“Lamento funebre”) o il modo di salvarsi della bella Hilde prendendo in giro l’ispettore con le sue stesse armi (“Criminologia”). E viene anche ai tre “Studer”. Inutili. Un lungo panegirico della campagna elvetica per trovare un vecchio contadino che vuole uccidere sette mogli per avere l’immortalità (“Il vecchio mago”). Un doppio suicidio fallito (“La coppia discorde”). Una lunga malattia del sergente Studer che dal letto, riconoscendo le tipologie di scarpe che passano vicino al suo posto di dolore, risolve il mistero dell’uccisione di una dodicenne (“Scarpe che scricchiolano”). Tutto, come detto, senza mordente, senza enfasi. Scritture forse degne di esegesi se si volesse fare un’analisi della vita e delle opere di Glauser. Cosa che non è né nelle mie intenzioni né tanto meno nelle mie capacità. C’è anche una postfazione sulla criminologia, poco avvincente anch’essa, anche nella confutazione che ne fa Glauser. Dove l’unica cosa che avrei sensatamente risposto e rimandato al mittente sono i punti 4 e 5 del decalogo della buona letteratura poliziesca. Dove mai si può affermare e sostenere senza pena di ridicolo che “l’assassino dev’esser un uomo” o “anche l’investigatore dev’esser un uomo”. Se volete, leggete il primo romanzo di Glauser su Studer. E poi passato ad altro.
Bernardo Kucinski “K o la figlia desaparecida” Giuntina s.p. (regalo di Fako)
[A: 24/11/2016 – I: 11/12/2016 – T: 14/12/2016] - && e ½  
[tit. or.: K. Relato de uma busca; ling. or.: portoghese; pagine: 174; anno 2011]
Devo dire che mi aspettavo di più, dopo averne a suo tempo letto sulle pagine librarie di Repubblica. Anche se mi ero fermato, e non lo avevo comperato, quindi c’era comunque qualche campana che suonava. Ringraziamo allora il sempre attento amico Fako che mi ha fatto colmare questa lacuna. Anche perché, rispetto al testo, il contesto del libro è forte, interessante, e mi ha spinto a recuperare la storia del Brasile nei suoi venti anni terribili, dal 1964 al 1985. Venti anni di dittatura militare, venti anni di repressione, soppressione dei diritti umani, uccisioni e sparizioni. Come nel Cile di Pinochet (ma solo dal ’73) o nell’Argentina di Videla (ma qui a partire dal ’76). Mentre queste però sono vive e ben presenti (sarà la memoria di Allende o quella delle “madri di Plaza de Mayo”), le vicende brasiliane, ai più, scivolano via come se non fosse successo niente. Ben venga quindi un libro che cerca di sollevare il coperchio a questo vaso di Pandora. Un libro che sicuramente ha un bel piglio di scrittura. Non è un caso che l’autore (benché laureato in fisica) sia un giornalista. Anche di spicco, che oltre al giornalismo di protesta (ma solo a partire dal 1986, al ripristino di un minimo di libertà personali), è stato anche consigliere alla comunicazione del primo governo Lula. Fino al 2008, quando, settantenne, si ritira in pensione. E da pensionato, categoria da tenere in grande considerazione, ripensa agli anni bui, sia socialmente, ma anche, e soprattutto, personalmente. Visto che nel 1974, la sorella Ana e suo marito Wilson, “spariscono”. Su questo ricordo, costruisce questa relazione di una ricerca (come dice mirabilmente il titolo portoghese “Relato de uma busca”, mentre fuori dal Brasile, per prendere il lettore, viene aggiunto quel “figlia desaparecida”, molto marketing, anche se reale). La costruisce ribaltando la visuale dai suoi occhi, a quelli del padre. Costruendo così un castello (mi si perdoni il parallelo kafkiana, visto che il personaggio viene indicato per tutto il libro con l’iniziale “K.”) di memorie che va letto e si legge su diversi livelli. La capacità giornalistica di Kucinski si esprime infatti alternando i capitoli, uno dedicato a K. ed alla sua ricerca, l’altro dedicato ad una pluralità di voci che da diverse angolature serviranno a delineare i contorni, atroci, della vicenda. Da un lato quindi il padre, non avendo da dieci giorni notizie della figlia, professoressa associata all’Istituto di Chimica, comincia a chiedersi dove sia. Passo dopo passo scopre che la figlia si è sposata (e con un non ebreo, che un altro elemento della vicenda è proprio l’appartenenza, benché lasca, alla comunità ebraica), e che era un membro attivo dell’opposizione al regime. Tanto attivo che (ma questo lo scoprirà molto dopo) faceva parte del gruppo armato Aliança Nacional Libertadora (noi lo scopriremo solo a posteriori, nella mia ricerca, che nel libro compaiono pochi nomi, e tutti dei torturatori). Comincerà quindi a domandarsi come abbia potuto non conoscere la propria figlia. Ma come non conosce gli altri due figli maschi: il primogenito, che prima di tutti gli avvenimenti si trasferisce a vivere in Israele, e l’ultimo, Bernardo appunto, che alcuni anni prima (nel ’70 per l’esattezza) si rifugia in Inghilterra dove vive fino all’86. Si interroga sulla propria vita, lui scappato dalla Polonia nel ’35 a seguito dei primi pogrom anti-ebrei. Si interroga sul proprio essere ebreo, e sulla vocazione ebraica alla sofferenza (“dove potevo intervenire perché non succedesse tutto questo” si chiede K. come se lo chiedono i superstiti della Shoah). Si interroga sul proprio lavoro, lui che si era dedicato, oltre ad un onesto lavoro di commerciante, a sviluppare la letteratura yiddish (e qui ci sarebbe un nuovo capitolo da aprire ed approfondire). Prosegue comunque a testa bassa, cerca aiuti dove può. Nelle lobby ebraiche americane, presso i cattolici che aiutano le famiglie degli scomparsi, guidati dal cardinale Evaristo Arns. Cade in trappole tese dai militari che vogliono fermare tutte le fughe di notizie. Non si rassegnerà mai, anche se, anno dopo anno, si ritirerà in sé stesso, guardando, ora a trenta anni dalla scomparsa di Ana, le lettere annuali di una banca che continua a proporre investimenti alla figlia. Ma si sa i computer non hanno notizia delle morti delle persone. Dall’altro, i capitoli duri, dove vediamo l’agire dei cattivi, dei militari, dei torturatori. Sentiamo voci, immaginarie ma fino ad un certo punto, di un amante del famigerato Sergio Fleury, il capo delle squadre della morte, di una tossicodipendente che faceva da secondina nelle carceri militari e che esce da questa esperienza segnata nel corpo e nella mente. Vediamo, in un momento di epica rabbia, i professori del collegio di chimica che “licenziano” Ana in quanto assente ingiustificata. Insomma vediamo tante cose che sappiamo esserci state, che ne sottolineano l’atrocità. Ma se forte e dolente è tutto il contesto, il libro non sale mai di tono, non prende allo stomaco. Ci sono pugni, ma sono piccoli buffetti che non ci fanno barcollare. Questo alla fine mi fa porre il libro poco al di sotto del mio gradimento medio. È servito ad aprire delle pagine che non conoscevo, come ho detto. Non è servito come libro in sé stesso, con la sua scrittura, a farmi appassionare alla vicenda.
“Benché tutte le storie di vita siano uniche, ogni superstite soffre in misura diversa.” (151) [vogliamo pensare ad Anna Karenina?]
Secondo appuntamento di febbraio, e come ormai sapete, ecco una nuova puntata dei libri “curativi”, che questa volta riguardano il mal di denti, ed ancora, come per due righe sopra, con citazioni da Tolstoj.
Dicevo amici, che ci sono, e che si sono addormentati. Poiché non è facile staccarsene, anzi impossibile, leniamo il possibile ricordandone parole affettuose che mi dedicò anni fa, in una prefazione commossa ad un florilegio delle mie trame. Un viaggio nella carta diceva. Continuando: “Dunque viaggio. Meglio, viaggi. Come quelli, reali, che da sempre scandiscono la vita di G. Che da anni attraversa le terre, le genti e le storie dei luoghi del mondo con inesausto stupore - e passione ed amore - per le vite e le culture che incontra. Ancora capace di incanto. Di curiosità per la vita … dunque … acuto sguardo su come le parole costruiscono il mondo. E ci aiutano ad abitarlo.” Grazie Carlo.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

FEBBRAIO 2017
Eccoci qui allora, in questi giorni di Carnevale, a girare e rigirare con libri e pensieri. Sapendo i dolori che può causare il mal di denti. Ma sapendo anche come cavarsene, magari senza leggere Tolstoj.

MAL DI DENTI

Lev Tolstoj                  “Anna Karenina”
Ennio Flaiano               “Tempo dì uccidere”
Il mal di denti è un dolore dei più squisiti - uno dei peggiori, perché è dentro la testa - e chi ne soffre sarà solidale con Vronskij, il personaggio, Anna Karenina di Tolstoj: «L’attanagliante dolore al dente robusto, che gli riempiva di saliva la bocca, gli impediva di parlare. Tacque, esaminando le ruote di un tender che scivolava lento e scorrevole sulle rotaie...».
Ciò che cura Vronskij, un attimo dopo, è la sostituzione del dolore fisico con un fortissimo disagio interiore -un ricordo che gli provoca un «dolore tormentoso e complesso» che gli fa dimenticare completamente il suo mal di denti. Guardando le rotaie si ricorda improvvisamene di lei, o almeno di «quello che rimaneva ancora di lei» quando l’aveva trovata distesa sul tavolo del guardaroba della stazione, in mezzo agli estranei, il corpo insanguinato e scomposto, la testa reclinata all’indietro con le trecce pesanti, gli occhi ancora aperti e spaventosi nella loro fissità, la bocca socchiusa come se stesse per pronunciare «quella frase terribile» che gli aveva detto durante il litigio: che se ne sarebbe pentito.
Se questa immagine del corpo martoriato di Anna non ha funzionato, pensate a qualche altro pugno allo stomaco della letteratura (se volete sapere i nostri preferiti, fate riferimento alla cura per il singhiozzo ed a “The Fit” di Philip Hensher). Poi rifletteteci sopra, mentre telefonate al dentista.
Se Anna Karenina non basta e volete un’altra storia che vi aiuti a sopportare stoicamente il dolore senza cercare scorciatoie, allora non potete che leggere o rileggere uno dei romanzi più europei della narrativa italiana del dopoguerra: Tempo di uccidere di Ennio Flaiano. Prima di affermarsi negli anni Cinquanta come sceneggiatore, soprattutto dei film di Fellini, Ennio Flaiano pubblicò questo suo libro d’esordio nel 1947 vincendo il Premio Strega. La temperatura esistenziale e l’ambientazione africana affratellano questa storia a Lo straniero di Camus. Tutto comincia con un camion rovesciato durante la campagna di Abissinia, lo «sgabuzzino delle porcherie» del mondo, e con un terribile mal di denti che spingeranno un giovane tenente a intraprendere un viaggio in cerca di un dentista. Dovrà seguire un sentiero di muli morti, cercando di non perdere la pista. Ma il destino e il gioco del caso lo gettano in una boscaglia, dove il tenente incontra una donna nuda che si lava in una pozza. Il tenente ci farà l’amore e da lì in poi sarà un susseguirsi visionario e delirante di sciagure: l’accidentale uccisione della donna sparando a un animale notturno, l’occultamento del cadavere, la possibilità di avere contratto la lebbra, l’accusa di essere un disertore... Ogni cosa tornerà al suo posto, come dopo un’allucinazione, ma al prezzo della coscienza che la vita è «un dado senza punti», nessuno vince, ci precede soltanto una scia di fiori inaciditi. È probabile, a questo punto, che la vostra soglia del dolore si sarà alzata.

Bugiardino

Confesso che non ho (ancora) letto Tolstoj. Come non ho letto molti autori russi, quasi avessi un rifiuto inconscio di quella scrittura. E credo che la mia amica Nico mi tirerà a lungo le orecchie per tutto ciò. Ma ho letto, e non da molto, l’unico libro del buon pescarese. Che dalla sua terra natia mi riporta (molto) ai natali di Luciana, al vissuto di Ulisse, al lavoro di Cristina. Mentre dal suo vissuto ad altro vengo ricondotto. Ai sodalizi con Fellini, alle belle scritture cinematografiche, nonché, e con passione e sorriso, a tutte quelle piccole righe, che sempre ne hanno costellato gli scritti (per non dimenticare le funambolerie del mio amico Jacob nel teatro romano a lui intitolato).
Ennio Flaiano “Tempo di uccidere” BUR euro 10,50
[trama pubblicata il 11 dicembre 2016]
Unico libro scritto dal mago della penna di Pescara, che preferiva (ed io con lui, di quello che ho letto) l’aforisma, la corta battuta, al massimo l’elzeviro. Come dimenticare la caustica brevità di “Si arriva a una certa età nella vita e ci si accorge che i momenti migliori li abbiamo avuti per sbaglio. Non erano diretti a noi.” (dal “Diario degli errori”) o di “La stupidità degli altri mi affascina ma preferisco la mia.” (dal “Frasario per passare inosservati in società”). O meglio ancora quando si nascondeva dietro un regista per stendere una sceneggiatura (come dimenticare la collaborazione con Fellini in “La dolce vita” o in “8 e ½”?). Ma qui siamo di fronte al suo unico romanzo e di questo vogliamo parlare. Romanzo strano, complesso nella genesi, fulminante nella riuscita. Dopo aver scritto brevi racconti sulla sua esperienza di guerra africana, viene stimolato dall’amico Leo Longanesi a raccordarli in una trama unica, ed a farne un libro. Con l’idea, visto che Flaiano era già discretamente noto per scritti su vati giornali e riviste, di usarlo per lanciare un premio letterario che nasce proprio all’uscita del libro. E che viene vinto proprio da Flaiano con questo libro pubblicato da … Longanesi. Torniamo allora al testo. Un libro sulla guerra, ed in particolare sulla guerra di conquista in Etiopia, quella del 1936, quella della fondazione dell’Impero, secondo Mussolini. Un libro però in cui non si parla direttamente della guerra (o se ne parla poco e di sfuggita). La guerra c’è, ci sono morti, odi, attacchi narrati, ed altro. Ma mai direttamente. Si vede più il quotidiano del protagonista, con tutte le sue avventure, con tutte le sue peregrinazioni mentali che lo postano spesso e volentieri fuori dal seminato. Mi ha ricordato talvolta il film di Scola “Il mondo nuovo” (che spero avrete visto, un film fondamentale per leggere la Storia dalla parte della storia). Pur partendo dalla propria esperienza etiopica, e dai brevi racconti che ne aveva già tratto, quando si avventura nel complesso del romanzo, il tutto viene avvolto da un’atmosfera surreale, da una concatenazione di eventi che rischia di travolgere il protagonista (e forse lo fa). Tutto comincia con un mal di denti che il nostro soldato, anzi un tenente, vuole curare. Per questo chiede una mini-licenza per andare da un dentista normale e non dal cavadenti della compagnia. Durante il viaggio, rallentato da camion che saltano in aria ed altre vicissitudini simili dovute alla guerra in corso, decide di proseguire a piedi. In una valle, di una calma altrettanto surreale, incontra una donna bellissima con un turbante bianco in testa. Dato che, come diceva Villaggio in “Carlo Martello”, “più che l’onor poté il digiuno”, sappiamo come va a finire. Ma nella notte africana, riposando accanto alla bella, sente i rumori che tutti noi, passati per il continente nero, abbiamo imparato a sentire. Ha paura, spara, ed una pallottola vagante accidentalmente uccide la donna. Qui cominciano le “follie” del nostro. Seppellisce la donna, fugge, comincia a sentire male ad una mano, viene informato che le donne con turbante bianco sono bandite dai villaggi in quanto portatrici di lebbra, si convince che ha la lebbra lui stesso. Cerca di farsi curare da un medico senza scoprirsi, ha paura della reazione di questo, gli spara ma lo manca. Continua a fuggire raggiungendo Massaua, dove pensa di potersi imbarcare clandestinamente per l’Italia. Ma non ha i soldi, si lega ad un maggiore che si sta arricchendo con traffici illegali, lo deruba, e tenta di uccidere anche lui (togliendo i bulloni ad una ruota del camion). Il tenente continua ad accumulare paure: che si trovi il cadavere dell’africana, che il dottore ed il maggiore lo denuncino, che abbia seriamente la lebbra. Si rifugia allora nel bosco, presso il nero Johannes, che, dopo lunghi momenti di reciproca insofferenza (muta che nessuno parla la lingua dell’altro) arrivano ad una convivenza (quasi) pacifica. Tanto che Johannes lo cura, ed una volta guarito e stanco, il nostro eroe decide di tornare al comando per costituirsi. Ma dove scopre che nessuno lo ha denunciato, che la licenza non è scaduta, e che potrà tornare in Italia e riabbracciare la moglie. Sostenuto da lirismo surreale nella prima parte (stupenda la scena in cui il tenente mette una sigaretta in bocca ad un caimano), ad un certo punto Flaiano si rende conto che non può continuare ad accumulare storie su storie e deve avviarsi verso la fine. Scendendo dal surreale al reale si perde di slancio, di compattezza, e tutta la parte in cui l’antagonista non è più il tenente con sé stesso, ma si presenta nel nero Johannes, la trovo lenta e poco felice. Per questo non sono stato soddisfatto della lettura di pancia. Rimane quella di testa, rimane un libro che deve essere letto se si vuole entrare nei meandri di un’epoca che spesso viene poco seguita in libri e testi e romanzi ed altro. Ma un voto di testa a me non basta per arrivare ad una piena sufficienza. Mi dispiace per Flaiano, e tornerò a rileggere (e lo consiglio) solo l’appendice finale, quella “Aethiopia”, diario scritto durante la guerra dove vengono alla luce, direttamente, i pensieri e le sensazioni di un tenente a contatto con quello strano continente. Dove si capisce anche la nascita dell’antifascismo di Flaiano. Che qui saluto con un’altra sua frase “Da ragazzo ero anarchico, adesso mi accorgo che si può essere sovversivi soltanto chiedendo che le leggi dello Stato vengano rispettate da chi governa” (da “La solitudine del satiro”).
“Sessanta [chilometri], insomma dodici ore di marcia di buon passo [cioè cinque chilometri all’ora, sotto il sole africano, mi sembra una buona prova… nota mia].” (229)

Conclusioni

Non so, non mi pronuncio su Anna Karenina, e sulla sua capacità di far passare (o alleviare) i dolori dentali. Di certo Flaiano mi farebbe dimenticare i denti, ma solo in quelle solitudine del satiro che ben lontane sono da questi tempi africani. Che solo mi riportano ad un paesaggio forse da troppo tempo lasciato nell’oblio della memoria. Ma cui si spera di tornare presto.

domenica 19 febbraio 2017

Ritorno in Italia - 19 febbraio 2017

E già, visto che da poche ore sono sbarcato a Fiumicino dopo tre lunghe, belle ed intense settimane in Indocina, parliamo di libri italiani. Tropi gironi a dover combattere con lingue ostiche. Abbiamo inoltre tre buoni libri, di Recami, che seguo da tempo e che approfondirò nelle sue storie di ringhiera, di Robecchi, una “new entry” che probabilmente farà strada, e del primo libro di D’Andre, magistrale prestito/regalo dell’ottimo Fako. In sottordine, un po’ defilato, un libro, pur interessante anche se non riuscitissimo, di Cassani.
Francesco Recami “Gli scheletri nell’armadio” Sellerio euro 13
[A: 01/08/2015 – I: 14/08/2016 – T: 20/08/2016] - &&& +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 219; anno 2012]
Recami è uno dei tanti autori italiani che seguo con abbastanza assiduità. Certo non come Camilleri o Vitali, ma di sicuro come Pandiani, Piccolo, Fassio, Mastrocola, e tanti altri che l’elenco è lungo (e forse poco interessante). Ne avevo seguito le orme sulle prime uscite, il mirabile errore di Platini piuttosto che il gradevole ragazzo che leggeva Maigret. Non avevo ancora avuto modo di dedicarmi invece alla serie della casa di ringhiera. Per una serie di disguidi, inoltre, ho lisciato il primo volume (che sta bene in caldo nella mia libreria in attesa di essere letto), e sono caduto su questo secondo episodio. Dove pare ci siano tutti (molti?) dei personaggi del primo volume, ma che, ed è qui la bravura di Recami, sono ben presenti e non fanno rimpiangere, come spesso accade ai personaggi di libri-seriali, di non aver letto il primo. Forse ne avremmo saputo di più. Ma ci sta bene e ci basta. Che tanto anche qui facciamo la conoscenza di tutti gli “eroi” della casa. A cominciare dal protagonista indiscusso, Amedeo Consonni, ex-tappezziere ed appassionato di cronaca nera. Tanto che si reinventa non dico un lavoro da investigatore, ma quanto meno uno straccio di professione, che tutti quelli che ne hanno bisogno lo coinvolgono nelle loro trame, grandi o piccoli. Come in questo caso l’ex-collega Barzaghi che, ristrutturando una casa in campagna, trova delle ossa nell’intercapedine di un muro. Amedeo indaga, scartabella il suo enorme archivio di cronaca nera. Trova anche possibili riscontri. Come la scomparsa dell’ingegnere Viganò o quella altrettanto misteriosa di tre scout. Di certo non vi dirò la soluzione di questo piccolo mistero, che poi è il filo nero del libro. Che, appunto, intreccia tutte le altre storie della casa. Quella di Angela, che ha una storia con Amedeo, e che cerca a più riprese di narrare una sua avventura all’amico-amante. Ma Angela non è dotata del dono della sintesi, ed ogni volta che inizia il racconto, ad Amedeo viene un sonno micidiale. Per cui forse… Quella di Caterina, la figlia di Amedeo, che vede con occhio storto questo rapporto tra i due (ah, gli amori degli anziani…), anche se ha bisogno del padre per badare al figlio. Amedeo tra l’altro è “innamoratissimo” del nipotino Enrico, tanto che casca nella depressione che Enrico stesso ha per la scomparsa dell’orsetto Bubu. Scomparsa di cui è colpevole Caterina. Ricerca che Enrico fa per tutta casa, dove scopre anche le ossa degli scheletri di Barzaghi. Soluzione che troverà alla fine Amedeo, con grande soddisfazione di Enrico. Le storie anch’esse intrecciate di Erika, lasciata inopinatamente dal marito, che si consola con Claudio, un alcolista non pentito, che, per aver dato uno schiaffo ai figli (e capiremo leggendo che, benché contro la violenza, forse lo schiaffo ci voleva), viene lasciato dalla moglie. Claudio che medita vendetta con una strana bottiglia di whiskey torbato. Infine c’è il signor De Angelis, il cosiddetto “anziano” con la passione della auto. Passione che cerca di sfruttare il nipote con un raggiro che si avviluppa intorno ad una BMW Z3 3.2. Su tutto e tutti, poi, come una punteggiatura delle diverse avventure, e quasi a mo’ di raccordo, abbiamo la signorina Mattia-Ferri, che tutto osserva dalla sua finestra sulla ringhiera, che tutto ascolta, e che, come i migliori comic di un tempo, tutto interpreta in modo sbagliato. Quello che mi piace è proprio l’afflato da piccolo mondo che si respira nelle porte che si affacciano sulla ringhiera, quell’intreccio da piccolo paese, quelle gelosie, quegli amori, quegli aiuti che ci si dà. Un palcoscenico da microstorie, che però si accavallano nel testo senza perdere il loro filo, temporale e personale. Qualche volta Recami ha forse il vezzo, solito in chi usa questo tipo di scrittura, di andare avanti ed indietro nel tempo, anche se di poco. Elemento che rallenta il ritmo. Ma che, nel complesso, del ritmo e del testo, risulta marginale. Esce fuori una bella scrittura, un testo che si segue con affetto, ed anche con qualche sorriso. E con quel finale che lascia intravedere altre possibili puntate della gente di ringhiera. Continuo a mettere questo libro tra gli “atipici” del noir italiano, anche se non è un noir, né tanto meno un giallo, pur avendo una trama che utilizza degli spunti investigativi. So che Recami non sarebbe contento di questa collocazione, ma lo preferisco qui, che trovo sia in buona compagnia e che ci faccia la sua più che onesta figura.
Alessandro Robecchi “Questa non è una canzone d’amore” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 11,90 euro)
[A: 01/09/2015 – I: 24/09/2016 – T: 26/09/2016] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 420; anno 2014]
Si nota ed è piacevole ritrovarlo che Robecchi non è uno che scrive parole a caso. Vogliamo dimenticarci gli esordi su “Cuore”? O le scritture per gli spettacoli di Maurizio Crozza? Per non dimenticare che è stato anche critico musicale su “Il Mucchio selvaggio”? Con tante buone presentazioni, mi aspettavo un libro gradevole. E, miracolo, lo è davvero. In genere, quando mi aspetto qualcosa da un libro, spesso le mie aspettative sono un po’ gonfiate dal desiderio. Qui, pur con distinguo, attenzioni ed altri diminutivi, la resa è stata buona, la lettura gradevole ed il libro risulta in una buona posizione di gradimento. Veniamo anche subito alla parte musicale di questo libro, che io continuo ostinatamente a mettere tra i “noir d’autore” anche se forse non lo è (non è noir, che d’autore lo è). Al fatto che sia farcito di amore per Bob Dylan (e scritto in periodo non sospetto, cioè due anni prima del contestato Nobel). Al titolo, che riprende quello di un disco (“This is not a love song”) grande successo del 1983 della banda post-punk PIL. Che tutti voi conoscete, ma per quei pochi che ne sono ignoti, è una band fondata da John Lydon quando decise di lasciare i Sex Pistols, dove cantava con il nome di Johnny Rotten. Lydon la scrisse per rispondere a chi lo accusava di essere diventato commerciale (e venduto). Ovviamente è stato il più grande successo dei PIL. Questa è la storia parallela del protagonista del romanzo di Robecchi: Carlo Monterossi. Carlo è l’ideatore (quasi per caso) di un programma televisivo bomba: “Crazy Love”, modellato sui milioni di programmi di Maria de Filippis, dove appunto si raccontano i tradimenti, i sotterfugi inscenati, gli odi che si scatenano, insomma tutta la gamma dei sentimenti di gente comune sotto lo slogan “anche questo fa fare l’amore”. Dopo stagioni di successo decide di abbandonare il programma per smettere di speculare sulla pelle della “gente qualunque”. Ma non riesce a godersi la tranquillità (ipotetica): i media ed il suo agente lo assillano, ma, soprattutto, un killer cerca di ucciderlo, riuscendo solo (con suo grande dolore) a rovinare un bellissimo poster di Bob Dylan. La polizia avvia le indagini, ma anche Carlo non sta proprio fermo, ingaggiando la detective informatico-lesbica Nadia ed il segugio tuttofare Oscar. Così, tra un ritornello del grande Bob e qualche battuta più da Cuore che da Crozza, la storia si dipana e si complica. C’è un imprenditore cui serve un terreno per le sue speculazioni edilizie che contratta un avvocato per tirarsi fuori dalle secche, visto che il terreno è adibito a campo nomadi. L’avvocato, avventatamente, coinvolge tal Sergio, un elemento di destra estrema, ma veramente poco abile in tutto quello che fa. Tanto che l’assalto al campo nomadi finisce con un rogo in cui muore un bambino rom. Peccato, inoltre, che fuggendo dal luogo Sergio investa ed uccida una signora che tornava a casa in motorino. A casa dal marito, dopo aver fatto una visita all’amante. Due testimoni sono presenti, ma Sergio ed i faccendieri vari li convincono a tacere (in cambio di denaro). Comincia così una sarabanda di agnizioni, di inseguimenti e di morti. Il marito e l’amante fanno comunella per vendicare la “loro” donna, uccidendo i testimoni reticenti, e cercando di uccidere (ma questa volta per errore) il Carlo centro della vicenda. Due zingari sinti vengono ingaggiati dai nomadi per vendicare il bambino. Abili e/o fortunati risalgono la catena delle casualità, arrivando al famoso Sergio, e lasciandosi dietro una striscia di morti, specialmente nazisti in revival o nostalgici di ogni genere. Dimenticavo, che l’avvocato di cui sopra ingaggia anche due killer per cercare anche lui Sergio che ne combina una più dell’elefante in un negozio di porcellana. Che intanto negli ultimi anni aveva instaurato un commercio di reperti nazi-fascisti con un losco figuro di Sirmione. Ma questa è un’altra storia. I morti si accumulano sui morti. Dopo i due testimoni di cui sopra, i killer uccidono il duo marito-amante. Sia i sinti che Nadia trovano Marzia, l’ex-donna di Sergio. I sinti ricavano notizie per trovare Sergio, innescando la lunga catena di morti violente (compagni della band, il vecchio di Sirmione, e così via). Nadia ricava una nuova amante ed inizia una nuova grande storia d’amore. Che Carlo pensa di sfruttare per trovare Sergio, mandandola in onda nel suo ex-programma “Crazy Love”. Tutto riesce, anche se non proprio in modo dritto. Carlo ha una nuova luminosa carriera davanti. Nadia un nuovo amore. I sinti la loro vendetta. I killer muoiono anche loro. E muoiono tanti altri. Insomma se non fosse ironico, sarebbe un noir splatter alla francese. Ma Robecchi riesce a farci sorridere, anche usando stereotipi. Killer dall’animo filosofico. Televisione tra Castagna e De Filippis. Amori dritti, rovesciati, incrociati. Battute. Qualche tirata su televisioni commerciali, nomadi e sinti, nazisti ed ebrei, ed altre frecciate. Insomma, un piccolo equilibrismo con qualche affermazione da condividere condita da qualche sorriso, cosa che non fa mai male. Credo che si tornerà su altre prove dello scrittore milanese. Tra l’altro, proprio per la sua milanesità ci restituisce non solo le case di ringhiera come Recami, ma posti milanesi che i non autoctoni non conoscono o dimenticano. Che la Milano di Robecchi è quella di oggi, degli studi televisivi, delle villette dell’hinterland, fino a luoghi come Rozzano e Samarate. Bravo!
“Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con un bicchiere di whisky … beh, non ci vuole Sergio Leone per capire chi vince” (34)
Massimo Cassani “Sottotraccia” TEA euro 9
[A: 01/11/2014 – I: 03/11/2016 – T: 04/11/2016] - && e ¾  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 295; anno 2008]
Anche qui, scelta sfortunata degli editori (o mia che ne seguo le orme). Uscito un episodio del commissario Micuzzi sui Noir del Sole, letto e piaciuto, ecco che ne esce un libro nelle edizioni (strane perché non si riesce a trovarne un catalogo serio) TEA, collana Mystery Tea. Ovviamente è un episodio precedente a quello già letto, e qualcosa si ingarbuglia (oppure da qualcosa mi aspetto già dei ritorni positivi, anticipando la trama). Intanto, e fuor di trama, da questo primo episodio scopriamo alcuni perché: Micuzzi viene messo in disparte perché, forse senza sua colpa, durante una colluttazione uccide un balordo. Legittima difesa, ma palla al balzo per metterlo defilato. In un commissariato dove conoscerà la bravissima agente Rosaria Della Vedova, che diventerà parte della sua squadra futura. E viene anche a conoscenza di Corinna, la moglie dello scomparso scrittore venezuelano Arau, che anche qui, come nel successivo romanzo, fa una comparsata breve ed una scopata (lunga?) con il commissario, per poi rifugiarsi a Parigi, e rimanere avvolta in qualche mistero. Comunque, anche in questa prima storia, Cassani non sembra in grado di reggere con la stessa intensità le 300 pagine, e soprattutto, cerca forse di ingarbugliare troppo le storie, facendocene seguire due in parallelo, e mettendo molti (e giusti) accenti sull’una, per poi risolvere la prima in due paginette. Capisco la necessità di fare una fotografia della realtà che in genere è più complessa di quanto ci si aspetta. Ma forse si poteva seguire la storia principale, lasciando il serial killer dei travestiti ad altre e più agili romanzate. Che prima vengono uccisi quattro travestiti e/o gay, poi, mentre l’indagine principale langue (e lo fa per 4 mesi) nessuno muore. E nel momento in cui si riprende la lena, ricominciano i morti gay. Quasi a volerci spingere a fare un collegamento, che fin dall’inizio è inesistente. Il nostro Micuzzi, pur defilato, mette subito (almeno subito relativamente a quando riesce a ragionare senza pressione) la parola fine al serial killer. Appunto, però, questo è il contorno. Il piatto forte è dato dalla morte del professor Susanni. E dall’intreccio che se ne ricava. Un poco abile presunto scrittore a corto di soldi accetta l’ingaggio di un piccolo malavitoso per una facile rapina (che è facile in quanto pilotata ma lo sapremo poi da come e da chi). Nella casa rapinata, Xavier (lo scrittorucolo) nota un bel quadro di El Greco, e, senza che nessuno lo veda, ruba anche alcune chiavette USB. Mentre il ladruncolo lo paga, salta in aria la macchina del malavitoso. Xavier pensa sia morto, e fugge, eclissandosi, e riapparendo solo 4 mesi e 200 pagine dopo. Ovviamente (ma noi s’era capito subito), avendo scoperto un grande romanzo nelle chiavette rubate. E decidendo di pubblicarlo a suo nome. Peccato che nella rapina doveva scomparire altro (che scopriremo poi essere cocaina), che non si sa che fine abbia fatto, e che doveva essere nascosto per poco tempo dal professore, per un compenso che lo avrebbe risollevato dall’aver perso 200.000 euro nel crack Parmalat (ci vuole un po’ di contestualizzazione al reale, no?). Per questo il cattivo di turno lo uccide. E sulle piste della morte, cercando di aiutare al 50% il commissario, si mette anche la giovane Asia, laureanda di Susanni. Ci si dilunga e ci si incarta, perché oltre a Xavier scompare lo scrittore venezuelano Arau, sopra menzionato. La cui bella moglie è appunto la Corinna di cui sopra e di cui al secondo episodio (cui rimando senza tornarci sopra). quando poi, dopo 4 mesi, ed essendo Micuzzi emarginato come già accennato, Xavier decide di pubblicare il libro, tutto esce allo scoperto. Micuzzi legge il libro e si appassiona al prete-investigatore che fuma toscani. Corinna, intervistata perché lo stile di Xavier ricorda Arau, parla di sigarette. Su questa debole traccia, Micuzzi risale le fila del giallo principale. Scoprendo che Asia è… Scoprendo che le chiavette sono di… Scoprendo che il programma Word è di proprietà di … (ma questo qualsiasi persona assennata avrebbe provveduto a far scomparire le tracce). Scoprendo che se nel libro di Xavier si parla di Rosacroce, se Susanni aveva (o si suppone avesse) una collezione di libri sui Rosacroce. Se Arau era fissato con i Rosacroce. Se il conte Colonna, amico del professore, sembra fissato sui Rosacroce. Beh, qualche legame ci sarà. E molto si risolverà, anche se, al solito i questi autori che non riescono a gestire troppe pagine e troppe storie, la fine è troppo veloce. Non si sa il seguito della vicenda Xavier. Non si capisce se il ladruncolo sia realmente quello che dice di essere. Non si capisce (o si intuisce solo) chi possa aver voluto incastrare Micuzzi. Non si capisce il ruolo di Corinna (se c’è). Non si capisce l’evolversi della figura di Asia (se si evolve). Insomma, un Van Dine avrebbe tagliato molti fili, e ricucito i rimanenti alla meglio. Cassani ci lascia con un po’ troppo di non detto, anche se le passeggiate serali nella Milano “non da bere” rimangono un ottimo elemento delle sue storie, e che non dimenticheremo.
“I ricordi sono come i tatuaggi. Nel bene o nel male non te li scrolli più di dosso.” (71)
“E or veniva scaricato per sms … Forse una telefonata avrebbe rimesso in discussione una decisione sofferta, alla quale era arrivata dopo una notte insonne … e della quale non era neppure tanto convinta.” (194)
“Eppure … doveva aver capito che le cose non potevano andare avanti sempre così … andavano anche un minimo forzate, guidate. Non era forse quella la prerogativa dei maschi? … Le occasioni vanno indirizzate.” (209)
“Ho avuto paura che innamorandomi di te non avrei avuto abbastanza energie per affrontare la situazione. Voglio ancora bene a mio marito, ma con te non è stata solo un’avventura. Non ci sono tagliata, io, per le cose così.” (237)
Luca D’Andrea “La sostanza del male” Einaudi s.p. (prestito di Fako)
[A: 27/09/2016 – I: 25/11/2016 – T: 28/11/2016] – &&& e ½    
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 451; anno 2016]
Avendo deciso di leggere prima possibile i libri prestati (o regalati), ecco che questo giallo italiano esce subito allo scoperto. Una buona scoperta ed un ringraziamento ai (quasi) sempre felici passaggi del mio amico Fako. La scoperta è questo scrittore altoatesino che scrive, bisogna ammetterlo, un libro onesto e leggibile. Non travolgente, ma ha delle parti che prendono, una trama adeguata, ed alcuni momenti di felice ispirazione. Soprattutto quando parla d’altro. Quando parla della montagna, delle montagne, del camminarci, del ritrovarcisi. Quando narra del clima del Trentino, con la sua dipendenza dalla complessa orografia del terreno, con quel suo variare da continentale a mediterraneo, tanto che ci si domanda se possa essere un territorio anomalo. Ma questo lo lascio ai geo-meteorologi, che è pasta di altri cibi, non dei miei. Quando parla del Bletterbach (che non conoscevo) e che risulta un canyon molto interessante, nonché (aldilà della finzione del libro) un parco geologico pieno di sorprese (e di fossili). Quando parla infine della storia del Soccorso Alpino Dolomitico (nome che adombra l’esistente, ben noto e sempre da ringraziare per il suo intervento nei casi di soccorso dell’”Aiut Alpin Dolomites”). Meno coinvolgente è invece la scrittura quando, per dare enfasi al racconto, scivola in “lamentazioni” degne più di horror di seconda mano, che per fortuna rimangono speso tali. O nella parte storica precedente della vita del protagonista Jeremiah Salinger, della sua storia di fortunato sceneggiatore di un serial di successo, dell’incontro con Annalise. Insomma di tuta la prima parte del libro, fino ad arrivare al primo punto cruciale. Una catastrofe di montagna (che vi lascio gustare in lettura) da cui si salva miracolosamente il solo Salinger (lo chiamo così perché per tutto il libro preferisce farsi chiamare per cognome, anche se questo rimanda ad un ben noto scrittore). Che, ovviamente, rimane scioccato. E che continuerà, lui americano, a vivere la sua convalescenza lì in Trentino, dove l’ha portato la moglie Annalise, insieme alla simpatica figlia Clara. Dove vive il padre di Annalise, Werner. Tutti sanno che le vittime di una catastrofe hanno decisi strascichi psicologici. Per cercare di superarli, il nostro non trova di meglio che attaccarsi ad una storia incompiuta di un’altra tragedia che si è svolta proprio nei dintorni. Anzi proprio nel Bletterbach. Dove trenta anni prima furono trucidati Kurt con la moglie Evi ed il fratello di lei Markus. Mentre tenta di risalire ai fatti di quella tragedia, Salinger si imbatte in tutta una serie di rivoli, che, devo dire, D’Andrea riesce a gestire discretamente. Non è facile, lo sappiamo tutti, mettere molta carna al fuoco senza farne bruciare un po’. Ma il nostro ne inventa di tutti i colori per farci stare sulle spine e sopravvivere per 450 pagine. Abbiamo quindi la storia di Werner, Max, Günther e Hannes, valligiani e montanari. Gli ultimi due morti (forse suicidi) poco dopo la tragedia (ed erano stati loro a ritrovare i corpi, essendo Hans il padre di Kurt). Werner uno dei fondatori dei fondatori del Soccorso di cui sopra. Max ora capo forestale e qualcosa di più. Evi che diventa geologa, che va ad Innsbruck, dove la raggiunge Kurt. Markus che ogni tanto li va a trovare, accompagnato da Max in quanto minorenne. Evi che distrugge la carriera di un ricercatore austriaco, Oswald, pubblicando un libro di smentite alle folli teorie di questo sul Primiano (era giurassica) e sui suoi fossili. Oswald che sparisce contemporaneamente alla morte dei tre. Evi che pubblica una memoria per sventare la costruzione di un eco mostro nel canyon, il prototipo del futuro Geoparc. Che sarà realizzato dal fratello di Günther. Werner che pochi giorni dopo la morte dei tre, va via dalla valle, per tornare solo anni dopo, con la moglie e la figlia Annalise. Max che ha, in un suo maso nella foresta, un archivio completo della vicenda. E Salinger che mette continuamente in pericolo sia la sua storia con Annalise, sia la vita stessa della figlia Clara per la continua ossessione della vicenda dei tre. Bella la maestria del narratore nella parte finale, dedicata ai complessi sottofinali della vicenda. Dove uno dopo l’altro possono diventare colpevoli Werner, Max, Oswald, altri… Dove, alla fine uscirà il vero colpevole, che ovviamente è uno dei nomi citati in questa trama. Ed anche se con le ossa rotte (non solo metaforicamente) ne usciranno Salinger, Annalise e Clara. Devo anche dire che i colpi finali sono discretamente ben tirati, e conseguenti. Si poteva capire, ma D’Andrea è stato bravo a nascondere il tutto (o io non sono stato bravo a capirlo). Quindi, certamente qualcosa in più della sufficienza, anche per avermi fatto ricordare qualche campeggio alpino di quasi quaranta anni fa, con la mia incapacità (allora come ora) di saper far qualcosa con le mani (beh, disastri tanti, e non solo con le mani). Meglio che io continui a fare quello che so fare in montagna. Come direbbe Clara, con felice intuito, undici lettere.
“Se ci lasciamo non saremo mai più felici in tutta la nostra vita!” (329)
“Si diventa adulti quando si impara a chiedere scusa.” (331)
Essendo, anche se siamo oltre la metà, alla prima trama del mese, veniamo alla riproposizione del lungo elenco dei libri letti nel novembrino mese di pausa e riflessione. Tanti, anche se di una qualità media, senza nessun particolare acuto, e con due libri decisamente sottotono, una poco eccelsa prova del pur bravo Vitali ed un inutile libro italo-spagnolo di Alberto Marini.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Hallgrìmur Helgason
101 Reykjavik
Faber & Faber
20
3
2
George Pelecanos
Non temerò alcun male
Repubblica MondoNoir
7,90
2
3
Massimo Cassani
Sottotraccia
TEA
9
3
4
Friedrich Glauser
I primi casi del sergente Studer
Sellerio
s.p.
2
5
Andrea Franco
L’odore dell’inganno
Mondadori
5,90
2
6
José Saramago
La zattera di pietra
Feltrinelli
9,50
3
7
Andrea Vitali
Un bel sogno d’amore
Garzanti
9,90
2
8
Andrea Vitali
Biglietto, signorina
Garzanti
9,90
2
9
Sue Grafton
S is for Silence
Putnam
10
3
10
Andrea Vitali
Quattro sberle benedette
Garzanti
9,90
1
11
Alberto Marini
Bed Time
Mondadori
5,90
1
12
Andrea Camilleri
Il casellante
Sellerio
11
3
13
Andrea Camilleri
I sogni di Andrea Camilleri
Sellerio
s.p.
2
14
Qiu Xialong
Le lacrime del lago Tai
Marsilio
12
3
15
Marcello Fois
Memoria del vuoto
Einaudi
12
3
16
Luca D’Andrea
La sostanza del male
Einaudi
s.p.
3
17
Clive Cussler & Justin Scott
Sabotaggio
TEA
9,90
3

Come dicevo all’inizio, eccoci di ritorno dopo un nuovo viaggio, tutto sommato non difficile, anche perché ero contornato da amici, che hanno reso queste settimane lievi. Pur nel dolore, intenso e non eliminabile, seguito alla notizia dell’ultimo viaggio del mio amico Carlo. Cui dedico i miei pensieri in queste ore, unito nei giorni luttuosi ai mancamenti, recenti e meno recenti, del padre di Alessandra e di mio padre. Per questa settimana, il mio unico bacio andrà verso Carlo.