domenica 23 dicembre 2018

Mamma Natalina - 23 dicembre 2018


Perché dopo un’esaltante trama di saggi, ci volgiamo, per questa antivigilia di Natale, a scrittrici al femminile, che tuttavia non mi hanno molto rallegrato. Vanno da una possibile sufficienza, seppur ancora non piena, di Sue Monk Kidd e le sue storie anti-razziste, alla scarsa efficienza di Allison Pearson con il suo inno al femminile del mondo maschile, sino alla decisa insufficienza di Helen Fielding e gli ultimi epigoni di Bridget Jones (che era meglio restasse sullo schermo, dove, pare, abbia avuto più successo). Meglio babbo Natale allora.
Sue Monk Kidd “La vita segreta delle api” Mondadori euro 6,90 (in realtà, scontato a 5,18 euro)
[A: 12/04/2016 – I: 01/08/2018 – T: 03/08/2018] - && +
[tit. or.: The secret life of bees; ling. or.: inglese; pagine: 291; anno 2002]
Dovrò capire perché questo libro veniva consigliato dalle libroterapuete di “Curare con i libri”, perché, seppur non esaltante, ha comunque qualche punto a suo favore. Leggendolo in modo trasversale sembra quasi un fratello minore de “Il buio oltre la siepe” o un lontano cugino de “Il colore viola”. Eppur tuttavia, ha anche una serie di piccole frecce rivolte alla cristianità con qualche risvolto verso una “teologia femminile”, di cui conosco poco, ma che è, da come leggo, uno dei pallini dell’autrice. Sue Monk Kidd, iniziatasi come infermiera, svolge tutto il suo percorso di vita, ora che tra una settimana compirà settanta anni, seguendo una sua luce di misticismo cristiano. Sui trenta anni comincia a scrivere di percorsi cristiani, verso i quaranta si volge alla teologia femminile, e quindi, svoltati i cinquanta produce questo libro, che qualche freccia al suo arco ce l’ha. Ha però un andamento forse troppo “juvenilia”, quasi fosse quella la platea maggiore cui si rivolge. Dicevo molte frecce perché affronta i problemi della crescita di una circa quindicenne con padre violento e segnata dal fatto di aver, involontariamente, all’età di quattro anni, ucciso con un colpo di pistola la madre. Affronta i problemi dell’emancipazione negra, dato anche che l’azione si svolge nel 1964, quando il presidente Johnson firma il decreto sui diritti civili della gente di colore. Si impelaga nei rapporti bianchi – neri quando la protagonista Lily, scappando di casa con la tata negra Rosaleen, si trova a vivere le sue crisi presso la famiglia delle sorelle di colore August, June e May. Ed ancora di più quando Lily scopre la dolcezza e l’intelligenza dell’amico Zach, ovviamente anche lui di colore. E poi la devozione, cui viene dedicato forse troppo spazio, delle sorelle e delle loro amiche verso una Madonna Nera. Certo, ce ne sono molte in giro per il mondo, e questa, in particolare, è la Madonna Nera di Breznichar in Boemia, che è inventato come posto, ma che riflette l’iconicità delle Madonne di colore (vedi Chestokova, ma questo esula dal libro e dalle mie capacità). Per poi non tacere l’uso della metafora delle api come contraltare della vicenda (o forse della vita stessa): la regina triste, solitaria, ma indispensabile; le operaie, alacri e servizievoli; i fuchi; l’alveare senza regina muore; la dolcezza del miele; la sensitività delle api al mondo esterno, funerali compresi. Ma facendo un passo indietro, o ricominciando da capo, vediamo, o meglio seguiamo, la storia di Lily, madre scomparsa tragicamente come sopra detto, tata nera, padre manesco e meglio quando assente. Per salvare la tata da pestaggi bianchi stile KKK (ricordo che siamo nel 1964), e sé stessa dal padre, Lily fugge da casa con lei. Per andare a cercare un certo posto nella Carolina, trovato sul retro dell’unico ricordo lasciatole dalla madre: una scatola di miele con la faccia della Madonna Nera. Non facilmente, arriva lì, trova la famiglia delle api, dove lei e Rosaleen si installano. Da lì comincia tutto il percorso di crescita / maturazione di Lily. Inframezzato dagli inserti femministi, teologici e mariani che tralascio perché, per me, appesantiscono senza costrutto il racconto, seguiamo ancora Lily che apprende a curare le api, che, dopo una dura lotta, apre una breccia nel cuore di June, che ha un’empatia immediata per May che soffre “tutti i dolori del mondo”, che vede la bellezza negli occhi di Zach. E come motivo di fondo, il “duello” metaforico (forse avrei detto meglio, “ballo”?) tra lei ed August. Dove alla fine, ma noi lo si pensava dall’inizio, August rivela tutto quanto sa della madre alla sconcertata Lily. Cominciando dal fatto che August fu per alcuni anni proprio la tata della madre. Non entro nei particolari, né in quelli melensi né in quelli dolorosi. Non possiamo non aspettarci che, attraverso un percorso pur difficile, Lily comprenda il bene ed il male della propria vita. Coltivi il primo ed accetti che esista il secondo. Con un finale da impossibile happy end (cioè, l’autrice si ferma qualche passo prima del finale suggerendoci un lieto fine che noi, smaliziati lettori, sappiamo impossibile). Alcuni passi del romanzo possono essere utili a qualche “salviniano” per ripensare a prese di posizione che già erano da censurare 50 anni fa. Ma la confezione finale non mi lascia gran che soddisfatto.
“Le storie devono essere raccontate, altrimenti muoiono, e quando muoiono, noi non ricordiamo più chi siamo o perché siamo qui.” (109)
“Tutti … siamo umani. … Non c’è niente di perfetto … C’è solo la vita.” (248)
Allison Pearson “Ma come fa a far tutto?” Mondadori euro 6,90 (in realtà, scontato a 5,20 euro)
[A: 12/04/2016 – I: 05/08/2018 – T: 07/08/2018] - &&
[tit. or.: I don’t know how she does it; ling. or.: inglese; pagine: 376; anno 2002]
Tipico esempio di letteratura nata all’epoca dei “Baby Boomers” americani. Tipico esempio di scrittura anglosassone. Certo, non ha proprio solo elementi negativi, visto che, ogni tanto, mi ha fatto anche sorridere, anche se poco. Nella grande ondata delle idee alla Bridget Jones, all’inizio del nuovo secolo, molta letteratura di lingua anglosassone si interrogava sul rapporto tra vita privata e vita pubblica (detto così sembra quasi un argomento importante). E su queste tematiche escono film e libri che ne parlano. Con un piglio, come in questo caso, fintamente femminista, ma ancora pieno (anche se forse non colmo) di modi ed espressività più maschili che femminili. Si nota, dallo scrivere, la provenienza giornalistica dell’autrice. Che sicuramente dà un tono spigliato alla scrittura, ma che a me, a volte, lascia un tantino freddo. Il libro è una sorta di diario della protagonista, Kate Reedy, e delle sue vicissitudini familiari e lavorative. Ha un posto di responsabilità in una grande azienda di gestione fondi (mestiere tipicamente anglosassone anch’esso), con un alto grado di conoscenza del mercato, e con una grande abilità organizzativa e previsionale (non disgiunta da un po’ di fortuna che non guasta mai) che le consente di arrivare a posti di responsabilità aziendale. Fornendo molto materiale di invidia ai colleghi maschi. Con inoltre la necessità di frequenti spostamenti in giro per il mondo, al fine di seguire i suoi clienti. Una situazione che ho ben presente (anche se con molte responsabilità in meno) avendone avuto assaggi nella mia vita precedente. Ed avendo visto come, in situazioni analoghe, le donne abbiano (ed hanno) da superare enormi difficoltà: di credibilità, di disponibilità, ed altro. Insomma, tutto il bagaglio che è ben noto in ambienti di lungo corso maschile, dove le donne venivano (vengono) viste al massimo come segretaria di rara efficienza, non come colleghe a volte (spesso) più brave e capaci dei colleghi maschi. La nostra Kate è contornata da un marito architetto, che quindi avrebbe più facilità a disporre del proprio tempo. Ma che, come tutti gli ometti analoghi, si aspetta di essere servito e riverito. Non solo, ma non è in grado, non conosce, nessuno dei meccanismi di funzionamento di una casa moderna. Non sa fare lavatrici, non sa cambiare lampadine, non conosce i posti degli alimenti o dei vestiti. Per rendere il tutto più completo e complicato, alla famiglia si aggiungono due bambini: Ellen di cinque-sei anni e Ben di uno-due. Ovviamente, la gestione dei figli ricada tutta su Kate. E per fortuna che a sostegno dei fanciulli c’è la tata Paula. Certo anche lei con i suoi problemi, ma almeno presente (discretamente) quando serve. Al contorno familiare si unisce il contorno sociale di Kate. La collega Cole, single e sodale, che a metà libro rimane incinta. La neoassunta Maomao, di origini asiatiche e colma di illusioni lavorative. Seguiamo allora l’andamento di questo grande carrozzone, con tutte le crisi che possono capitare. Colleghi pseudo-pornografi con le loro battute insopportabili. Bambini da prendere a scuola, portare a feste. Bambini che si ammalano a Londra, sempre quando Kate magari è per lavoro a New York. Tutto quello che possiamo immaginare come difficoltà della vita di Kate si presenta, compresa la crisi coniugale con il marito Richard e l’innamoramento virtuale con l’americano Jack. Kate, da super-mamma e super-donna, affronta tutto l’affrontabile, riuscendo, con un filo di sorriso sulle labbra, a sconfiggere nemici e mulini a vento. Ma tutto ha un prezzo, e dopo un paio d’anni di questa vita, Kate getta la spugna sul lavoro. Tuttavia, dopo un po’ di casalinghitudine, eccola di nuovo sulla breccia, con nuove idee imprenditoriali, con nuove sfide. La morale, un po’ maschile (forse?), è che se Kate fosse un uomo avrebbe vinto sul fronte del lavoro, e si sarebbe trovato una donna per gestire la casa. Non ritengo che sia una morale vincente, come non la ritengo la morale opposta, che una donna per fare carriera e far valere le sue capacità debba negare il suo essere donna. Non conosco soluzioni, solo tentativi in cui una coppia cerca di gestire la propria vita paritariamente. Ci vuole coraggio e capacità da entrambe le parti, e qualche passo avanti si può fare. Ho tralasciato tutti gli episodi a margine della storia, il capo, le amiche, i colleghi. Ognuno con qualche elemento di riflessione. Ma mi premeva sottolineare il filone principale della storia. Ed il mio non concordare con le decisioni che prende Allison, la scrittrice, per descrivere e decifrare (anche) il suo mondo. Sono curioso, infine, di conoscere i motivi che ne consigliano la lettura, e per quale malattia.
Helen Fielding “Che pasticcio, Bridget Jones!” BUR euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,42 euro)
[A: 04/05/2016– I: 24/08/2018 – T: 27/08/2018] - & e ½
[tit. or.: Bridget Jones: The Edge of Reason; ling. or.: inglese; pagine: 396; anno 1999]
Tre anni dopo il successo planetario del “Diario”, Helen prova a rinverdire la sua fama con questo secondo capitolo della saga. Un tentativo veramente poco riuscito ed alquanto prevedibile. Se nel primo romanzo c’era la freschezza della novità, l’ingenuità delle situazioni (con Bridget sempre leggermente fuori fase rispetto a quanto le capita intorno), questo secondo romanzo, non variando molto lo stile, risulta ripetitivo ed anche un po’ noioso. La maggior parte dei protagonisti del primo si ripresentano qui con immutato stile, ripercorrendo senza troppe variazioni quanto di scellerato (dl punto di vista dell’attività umana quotidiana) facevano nel primo. Fortunatamente sparisce quasi del tutto “il bastardo Daniel”, con una puntatina dimenticabile. Dispiace invece la quasi totale assenza del “gay” Tom, troppo preso dai suoi amori americani. Invece le pagine sono piene di Jude e Shaz, con le loro improbabili ricette derivate dai libri di auto-aiuto (che la quarta di copertina lascia nell’inglese self-help). Sempre pronte a dare il consiglio sbagliato nel momento giusto. Precipitando sempre più in basso la stima e l’autocomprensione di Bridget. Grande spazio, invece, prende l’odiosa Rebecca, subito pronta a cercare di soffiare il buon Mark alla nostra. Organizzando cene, viaggi, e quant’altro riesca a mettere in difficoltà la nostra eroina. Ma prima di passare a Mark, c’è la solita tirata sui genitori di Bridget. Con la madre con non vuole crescere, e questa volta passa dall’improbabile indiano al fasullo keniota. Fortunatamente non viene ripreso a lungo, anche perché ripercorrerebbe la stessa solfa del primo. Wellington invece appare, fa delle stupidate, dice cose sagge inascoltate e se ne torna tranquillo e felice nella sua Africa. Lasciando mamma Jones alle prese con l’alcolismo di papà Jones. Unico momento esilarante: il rifiuto di rinnovare il passaporto da parte di mamma Jones, perché dovrebbe mettere una foto aggiornata, quindi “più matura”. Mark, per riprendere il filo, sembra sempre uguale a sé stesso. Molto imbranato, molto innamorato, ma incapace a) di mostrare a Bridget quanto la ami e b) altrettanto incapace di capire il modo di comportarsi di Bridget. Ma se ami qualcuno, non puoi stare solo lì sulla porta a vedere passare quello che succede, senza mai una volta intervenire, dire, fare qualche cosa. Solo quando Bridget passa un brutto momento sembra rinsavire e capisce che sia bene fare qualcosa. E facendolo, tira finalmente fuori dai guai la nostra eroina. In tutto questo Bridget prende al solito il centro della scena, ma continua a ripetere i suoi stereotipi: ingrassare/dimagrire, fumare/smettere di fumare, ubriacarsi, avere una fiducia cieca dell’altro che la porta ai tre momenti topici del libro. Il primo, unico, positivo ed esilarante, è l’intervista romana con il “vero” Colin Firth (e suggerisco di tornare ai film che ne sono tratti, con il momento double face: intervista con Colin e rapporti con Mark interpretato da Colin; gustoso). Il secondo è il conflitto con Gary il muratore, con la ristrutturazione di casa, con i soldi che mancano, e con la finale scoperta che Gary non è altro che un piccolo topo d’appartamenti, che ha l’unico intento di rubacchiare dove può (anche poco, vista l’imbranataggine palesata). Il terzo, e punto forte del libro, è invece il viaggio in Thailandia. Con tutto lo sballo di alcolici e funghi “eccitanti”, con la comparsa del perfido Jed, e con l’incastro che questi le procura nascondendole della droga nel trolley. Qui Helen fa un’operazione che vorrebbe essere ridanciana, ma che, per chi legge giornali e sa del mondo, risulta quanto meno improbabile. Il possesso di droga in Thailandia è perseguito con una durezza estrema. E le descrizioni della settimana nelle carceri thailandesi sono una discreta presa in giro, per chi sa che, una volta finito in quel girone, difficilmente se ne esce prima di un congruo lasso di tempo (anni!). E non se ne esce mai bene. Visto che siamo (almeno nello scorrere temporale) nel 1997, non poteva mancare l’accenno alla morte di Diana. Che tuttavia avrei omesso per rispetto del personaggio. Il tutto finisce poi come cominciato con Mark e Bridget che tornano insieme. Un po’ scontato. E non capsico, ne leggerò poi, perché i miei libri guida continuano a citare la Fielding nelle loro terapie. Un’ultima considerazione: il titolo. Perché modificare l’originale “limite della ragione” con questo “pasticcio”? Certo, Bridget continua a non combinarne una buona, come abbiamo visto, ma credo che l’idea dell’autrice sia stata invece di procedere su quel solco fra razionale ed irrazionale, per continuare a sostenere la sua idea di fondo. Tutti siamo un po’ sbalestrati in questo mondo, ed è difficile procedere perseguendo una razionalità che non ci è propria. Così come non è propria per la nostra povera Bridget. Ne vedremo ancora, di sue avventure? Ai postumi l’ardua sentenza.
Helen Fielding “Bridget Jones: Un amore di ragazzo” BUR euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,42 euro)
[A: 04/05/2016– I: 30/08/2018 – T: 02/09/2018] - & 
[tit. or.: Bridget Jones: Mad about the Boy; ling. or.: inglese; pagine: 463; anno 2013]
Ed ecco che dopo quasi quindici anni la creatrice del “fenomeno” Bridget cerca di reinventarsi proponendo una nuova tappa della saga. Super-scontata! Non nel senso che costa poco, ma le situazioni, l’impianto e tutto il resto è visto, rivisto e senza nessuna innovazione. Certo, gli anni passano per tutti: per Helen, per Bridget e per Renée che continua ad interpretarla sullo schermo. Ma la formula del diario-verità, inaugurata venti anni or sono sul Telegraph e su Indipendent era vincente. Quindi, eccoci di nuovo ad un anno vissuto spericolatamente. Dall’inizio però abbiamo subito l’impatto con le novità. Come ci si aspettava dalla fine del precedente libro (sottolineo qui, che da un certo punto in poi libri e film divergono in modo marcatissimo), Bridget e Mark si sposano. Ed hanno due figli: William detto Billy e Mabel. Poi, con Mabel di pochi mesi, Mark muore in una missione di pace in Afghanistan. Per quattro anni Bridget fa la vedova inconsolabile, cercando di portare ordine alla sua vita: tata per i figli, impeccabile e molto simpatica, lavoro di sceneggiatrice (anche se non riesce a far uscire neanche una produzione), e solita routine con gli amici storici (in particolare Tom il gay, Shaz e Jude). Visto che sono passati un botto di anni, sono morti anche il padre di Bridget ed il suo amico Geoffrey. Così mamma Jones con l’amica Una sono a riposo in una casa che si prende cura di loro, e dove loro cercano di portare avanti l’invenzione di una giovane vecchiaia. La zeppa in tutto il meccanismo è l’introduzione dei social network, così come nei primi Bridget c’era il telefono con annessa segreteria. Qui si fa un uso sproposito e malaccorto di Twitter. Ma solo perché, usando frasi corte, è più gestibile sia degli SMS (che sono in parte presenti) sia di Facebook (che invece è praticamente assente). Però non c’è sugo, non c’è ironia, non c’è comicità in questo uso dei nuovi media. Jude e Shaz continuano ad entrare ed uscire da siti di incontri altamente improbabili, riuscendo a coinvolgere Bridget in alcune loro uscite. In una di queste, Bridget si imbatte in Roxter, giovane quasi trentenne, spigliato e con un grande bisogno di sicurezze, che Bridget, con la sua età matura riesce a dargli. Bridget, in realtà, si avvia ai cinquanta. Questo, anche se non in modo esplicito, lo deduciamo incrociando il film “Bridget Jones’s Baby” dove partorisce Billy a 43 anni, e qui dove Billy di anni ne ha sei. Lunghi sproloqui sull’ansietà di Bridget di aver un rapporto con un ragazzo così giovane, tanto che le amiche le parlano di “toy boy” (da Devoto-Oli: “uomo giovane, spesso molto attraente, che ha una relazione con una donna più avanti di lui negli anni”), altrettanto lunghi giri di pagine su Roxter e sulla sua gioventù (ma anche sulla freschezza di ridere, cosa che Bridget è sempre disposta a fare). Giri di frasi sui bambini di Bridget (anche se Helen non sembra saper gestire l’età infantile, sia nei due bimbi sia nei rapporti con gli altri bimbi coevi). Alcuni momenti di finta ilarità si avranno nei momenti scolastici, con l’introduzione di un nuovo personaggio, Mr. Wallaker. Che capiamo ben presto avrà un peso ed un ruolo determinante. Perché sembra serio, determinato, maturo. Insomma quello che poteva essere Mark se Mark non fosse morto. Ma con alcuni punti in più: più ironia, più atletismo, più sicurezza. Bridget e Roxter faranno un piccolo percorso insieme, tanto per uscire ognuno dalle proprie paranoie. Poi, ognuno per la sua strada. Dove quella di Bridget incontrerà … Vi lascio aperta l’ultima parte del libro, con l’unica avvertenza che, finalmente, mamma Jones deciderà di diventare nonna Jones. Senza neanche lamentarsi troppo. Allora, tra i vari libri di suggerimenti, mi erano arrivati questi tre tomi di Helen Fielding. Li ho letti, diligentemente. E diligentemente li metto da parte. Se volete vedere i film, tanto per rilassare la mente, ben venga. Ma credo che non sia il caso di insistere su questo filone. Come si dice, una lettura veloce, e poi in libreria a prendere la polvere.
Come detto, settimana natalizia, con una strenna poco avvincente ma che andava scritta. Che a volte si leggono cose che non sempre piacciono. A volte si fanno azioni che non sempre soddisfano. Spiace che nell’anno di molte mancanze, quest’anno manchi anche il Natale aventiniano, ma ce ne faremo una ragione. Forse per andare verso altri promettenti e duraturi Natali. Quindi, dato che vediamo sempre il bello in quel che ci succede, siamo certi in un prossimo passaggio di bellezza e bontà. Non sapendo poi se riuscirò a scrivere ancora per quest’anno, vi mando tutti i miei auguri, per un 2019 come voi lo desiderate.

domenica 16 dicembre 2018

Saggi di Natale - 16 dicembre 2018


Forse sarebbe stato più giusto collocare questi “saggi” la prossima settimana, ma, forse, li avreste troppo mescolati alla congerie di info che viaggiano gli ultimi giorni prima di Natale. Per cui, alla fine, ho deciso di proporveli oggi. Laddove c’è un superlativo Terzani che vi dono senza altri commenti ed un interessante ultimo Bauman. Non poteva mancare, prima che finisca il cinquantenario, un pensiero al ’68. Infine, quale miglior momento di ragionare sul consumo?
Marie-Emmanuelle Chessel “Histoire de la consommation” La Découverte s.p. (regalo di Marina)
[A: 03/04/2018 – I: 26/05/2018 – T: 30/05/2018] - &&& - 
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 101; anno 2012]
Un saggio interessante, anche se ad un certo punto mi aspettavo di più. Comunque iniziamo dai sentiti ringraziamenti per l’amica Marina, che, non sopportando i romanzi, continua a leggere saggi. Ed a regalarli. Inciso: tanto per i romanzi, basta che legga le mie trame. Questo saggio, intanto, discretamente agile, ha un pregio ed una difficoltà. È chiaro e lineare, e questo non è da tutti gli scritti. Tuttavia, anche se giustamente cercando di corroborare lo scritto con informazioni aggiuntive, riempie le pagine (anche) con riquadri fuori contesto. Che ovvio, possono essere tralasciati seguendo il filo del ragionamento. Ma se poi al ragionamento vogliamo dare sostanza non si può che inglobarne la lettura. Ed allora il filo si aggroviglia, si perdono riferimenti mentali che si stavano costruendo. Insomma, tutto viene reso più difficile. Soprattutto per le persone anziane, che un ragionamento alla volta sanno seguire (e spesso neanche quello). La storia del consumo dal XVII° secolo ad oggi, passando per l’inizio dei consumi di massa, per il ruolo delle donne come consumatrici onnivore o della produzione e distribuzione dei beni e delle merci, la Chessel ci accompagna gradevolmente da un mondo polveroso e da “Re Sole” dove i ricchi consumano e sprecano e gli altri barattano per sopravvivere, sino al mondo odierno, al mondo del superfluo più che dell’utile. Certo, da buona francese, si concentra sulla storia e sulle problematiche dell’esagono (ricordo che se noi chiamiamo “stivale” la nostra terra, i francesi chiamano “esagono” la loro). Ma non può, per ovvie ragioni di influenza sul mercato, dimenticare il ruolo e le scelte che operano gli Stati Uniti, per loro e (purtroppo) anche per noi. L’idea di fondo, e da cui si parte, è semplice e stimolante: consumo o società dei consumi che sia, bisogna capire cosa c’è dietro e dentro la produzione, la distribuzione, l’acquisto e l’utilizzo delle merci da parte di persone che assumono gradualmente una propria identità. Quella di “consumatori”. E nel corso delle pagine, la Chessel prova a dare una risposta a tre domande fondamentali: quando inizia la “consumazione”? In quali territori fisici si svolge questa storia? Chi ne sono gli attori? Se queste sono le domande, e se le risposte sono nelle pieghe del discorso, un altro punto fondante che mi ha fatto riflettere è la presenza attuale, ma che da lungo si profila all’orizzonte del consumo: la contrapposizione tra il consumo etico e il consumismo. Entrambe, alla fine, si pongono come scopo quello del benessere dei consumatori, soprattutto nell’attenzione (o nella mancanza di attenzione) verso il consumo operato dalle classi meno abbienti. Fondamentalmente, non è proteggendo i lavoratori e gli operai che si partecipa al loro benessere, ma considerandoli come consumatori che in quanto tali sono in grado di pretendere prezzi competitivi, poche il mercato del lavoro garantisce loro un soddisfacente potere d'acquisto. Convince, in fin dei conti, un’affermazione che contrasta teorie astratte seppur discusse ed approfondite nel corso degli anni (“la mano invisibile” di Adam Smith, il “libero mercato” di David Ricardo, e via a studiare come non faceva di tempi di “Salario, prezzo e profitto” che spero qualcuno ricordi). Non si tratta quindi di riformare il capitalismo secondo dottrine astratte, ma di impegnarci quotidianamente "consumando in modo diverso". Vero Franco? Certo, il libro non tocca né approfondisce tutto (in fondo sono solo cento pagine). Non si studia il legame tra consumo e sviluppo economico. La storia della distribuzione delle merci è solo tratteggiata. Eppur tuttavia rimangono piccoli brandelli di “nuovo” che mi hanno ancora ed ancora aiutato nelle riflessioni. Uno, se vogliamo banale, è la variazione della misura dei carrelli nei centri commerciali. Sappiamo che tali centri nascono negli Stati Uniti, dove le famiglie entrano, prendono carrelli e li riempiono di tutto, con una corsa all’acquisto (anche) del superfluo che ci fa inorridire. Ebbene, all’inizio, importato in Europa, tale modello funziona poco. I carrelli sono troppo grandi, la gente non li riempie, e si sente frustrata nel bisogno di consumo emulativo. L’idea vincente: produrre carrelli più piccoli, che più facilmente di riempiono e rendono soddisfatto il consumatore. Altri esempi minori, anche se forti nel processo produttivo, sono ad esempio la diffusione del fordismo come utilizzo della catena di montaggio per produrre beni in poco tempo, con pochi costi, così che l’utilitaria sarà per tutti. O l’introduzione della Coca-Cola nel mercato europeo, che avviene solo nel 1919 alla fine della Prima Guerra Mondiale (ma ricordo che in Italia non entrò sino al 1927), nonché dell’utilizzo di Babbo Natale come testimonial della Coca-Cola stessa a partire dal 1931. Infine, qui termino analisi e spigolature, mi ha interessato la nascita di “Big Mac”, inteso come indice del potere d’acquisto di un bene, in questo caso un prodotto McDonald’s, per misurare il potere economico di una nazione: così vediamo come lo stesso panino in Svizzera costa €5,53 mentre in Egitto costa €1,58. Cifre che si commentano da sole.
Tiziano Terzani “Un altro giro di giostra” TEA euro 7,50
[A: 05/07/2016 – I: 29/06/2018 – T: 04/07/2018] - &&&&&  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 576; anno 2004]
Per me, tutto il senso del libro, e tutto il mio senso per il libro, è chiuso in quella frase che riporto in fondo. Il più grande viaggio, quello immancabile, ad un certo punto. E se vogliamo quello che vorremmo fare con la coscienza di farlo. Un viaggio verso sé stessi, per trovarci in fondo alla strada, dopo aver girato, anche con Terzani (ma anche no) da New York all’India, dal Tamil Nadu all’Himalaya. Terzani gira il mondo e le sue diverse situazioni per cercare di capire il rapporto tra il sé stesso malato ed il cancro. All’inizio, anche, e soprattutto, per capire se e come fosse possibile una cura. Se e come si potesse uscire dal tunnel. Terzani comincia con la medicina tradizionale, con il centro anti-tumori di New York. Con i bombardamenti chemioterapici. Ci colpisce la serenità con cui inizia ad affrontare questo viaggio. E la tranquillità di affidarsi alla allopatia. Quando il primo ciclo finisce, ed i dottori gli danno tregua, Terzani decide di cominciare a spendere il suo tempo in altre ricerche. Intraprende allora anche un viaggio fisico, oltre che mentale, che lo porta in India, in Tibet, nelle Filippine. Dialoga con tutti, parla con tutti, non si tira indietro, non esaurisce mai la sua curiosità. Dalle sue pagine escono fuori maghi, saggi, santoni. Prova tutte le medicine cosiddette alternative: le diete con le erbe, i digiuni, i canti sacri, la meditazione yoga, la medicina ayurvedica, l’omeopatia, la pranoterapia, fino al Qi gong ed al Tai Chi. Sono bellissime tutte queste pagine dove il nostro fiorentino errante non mette mai il tono del ridicolo in nessuna possibile cura. Come laicamente facemmo noi, durante gli studi sugli approcci psicoterapici, la medicina buona è quella che ti fa sentire bene. Lo psicologo buono non dipende da questa o quella branca di pensiero, ma se quel pensiero arriva al tuo corpo, al tuo cuore, alla tua mente. Come diceva sempre allora uno dei miei mentori “Il corpo non mente”. Terzani è tuttavia sempre stato scettico su tutte le cose che ha incontrato nella vita, adottando sempre ed ovunque il motto di capire prima di riproporre (non di giudicare, che mi sembra sia sempre stato alieno a questo metro di espressione). Quello che trova in Oriente, non è, non sarà una cura al suo male, ma il modo di rovesciare il problema, di accettarlo. Di trovare una sua pace interiore. Quando anche l’ultima medicina ha rivelato la sua fallacità, Terzani ci fa capire che il suo viaggio attraverso tutti i possibili modi di curare il proprio corpo malato, è in realtà un viaggio che deve servire a curare LA malattia (scusate l’uso del maiuscolo ma qui ci vuole). Una malattia che colpisce tutti, la paura della morte. Quindi non siamo in cerca, soltanto, di una cura per il corpo, ma di una cura per l’anima. Una cura che devo portare a cambiare il proprio punto di vista, che ci deve portare ad essere in armonia con tutte le cose, visibili ed invisibili, animali e minerali. Terzani, con la sua barba bianca, con il dhoti gandhiano, assume un andamento “naturalmente” francescano. Dopo aver girato il mondo, dopo aver salutato i suoi amati monti himalayani, si ritira per l’ultima fase della vita ad Orsigna, nell’Appennino Toscano, chiudendo il cerchio vitale con la sua nascita fiorentina. Lui ha ritrovato il senso del vivere e del morire. E non finisce mai di esserci utile, quando continua, ricordando anche i suoi trascorsi giornalistici, a farci ragionare sui rapporti umani. Ci parla delle guerre che ha visto, sperando di portarci verso quella pace che non vede e non vedrà. La bellezza dello scritto è che in ogni elemento che incontra nella vita vede qualcosa e ce lo comunica. Dal piccolo al grande. Chi è malato, chi vede da vicino, in sé o in altri, le malattie, anche le più terribili, sente, con me, una terribile angoscia leggendo queste pagine. Non perché facciano vincere quella malattia invincibile che è la paura della morte stessa. Ma perché sappiamo, so, che non saprò mai affrontarla. Il grande merito di Terzani, ed il grande “odio” che provo per lui (e capitemi perché l’ho virgolettato), è che mi ha ricordato che non possiamo dimenticarci della morte. In questi anni, dove molte persone a me care ci hanno lasciate, papà, mamma, Gastone, Paolo, Carlo… In questi anni dove anche noi stiamo accumulando anni e mesi. E di sicuro, anche se non so come né con quale angoscia, è più vicina una fine che un inizio. Ti odio Terzani che me lo ricordi. Ti amo profondamente, perché so che non ne sarò mai capace, ma so che qualcuno ci prova e forse ci riesce. Ti voglio infintamente bene per come hai saputo mostrare il tuo amore per Angela. Così bello che non voglio parlarne di più. Caro Tiziano, infine, il tuo libro è talmente denso, che lo citerei tutto. Ma per ora tante e tante sono le frasi che mi rimangono, che solo alcune riesco a condividerle. E qualcuno leggendone ne saprà.
“In Ladakh le malattie di cuore sono pressoché sconosciute perché la gente vive all’aria aperta, mangia cibi biologici e non ha bisogno di andare in palestra per tenersi in forma.” (62)
“La distanza che si crea fra i sani e i malati mette alla prova i rapporti tra le persone.” (70)
“La caotica, indiscriminata valanga di informazioni prodotta da internet ha creato quell’ormai diffusissimo sapere a metà che è la peggiore e la più pericolosa forma di ignoranza.” (90)
“Chi ama l’India lo sa: non si sa esattamente perché la si ama. … L’India … fa sentire ognuno parte del creato.” (153)
“Viaggiare mi esaltava, mi ricaricava, mi dava da pensare, mi faceva vivere.” (196)
“Non c’è felicità per chi non viaggia.” (204)
“L’apparente indifferenza [degli indiani] mi colpì ricordandomi quello che mi è sempre sembrato il buco nero dell’induismo: l’assenza di compassione.” (223)
“Nel corso della ita tante cose possono andarci storte, e di solito lo fanno.” (297)
“Il problema sono io e io sono la soluzione … L’onda non ha bisogno di diventare oceano, deve solo rendersi conto di essere oceano.” (350)
“Il Kathakali [è] la vecchia forma teatrale del Kerala … Sulla sinistra del palcoscenico stavano i tamburisti, capaci con le mani o le bacchette di ricreare il frastuono di una battaglia, lo scorrere di un torrente o il quieto tic-tic di una goccia d’acqua che cade su una foglia. Sulla destra stavano i cantanti. Con l’aiuto di cimbali, di un gong e di un’orchestra d’una ventina di uomini, tutti a torso nudo, allineati dietro, loro raccontavano la storia e pronunciavano le battute dei vari personaggi, perché nel Kathakali gli attori sono muti, al massimo emettono dei suoni gutturali. Gli attori «parlano» coi loro movimenti; comunicano pensieri ed esprimono stati d’animo coi gesti delle mani; ‘dicono’ con le smorfie e con gli occhi.” (400)
“La malattia è una forma di disarmonia con l’ordine cosmico.” (450)
“Se uno non ha niente dentro, non troverà mai niente fuori. È inutile andare a cercare nel mondo quel che non si riesce a trovare dentro di sé.” (516)
“Viaggiare era sempre stato per me un modo di vivere e ora avevo preso la malattia come un altro viaggio: un viaggio involontario, non previsto, per il quale non avevo carte geografiche, per il quale non mi ero in alcun modo preparato, ma che di tutti i viaggi fatti fino ad allora era il più impegnativo, il più intenso.” (Prologo)
Micromega “1 e 2 – 2018 / Il Sessantotto” Repubblica editore euro 19,50
[A: 26/01/2018 – I: 24/09/2018 – T: 28/09/2018] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 431; anno 2018]
Comprato all’inizio delle “celebrazioni” del cinquantenario e letto quasi alla fine, ma letto. Non sono particolarmente amante di MicroMega né tanto meno del suo direttore Paolo Flores d’Arcais (anche se ricordo con piacere l’amicizia giovanile con Alberto), tuttavia questo numero speciale non ho potuto fare a meno di comprarlo. E di leggerlo. Non è omogeneo, non ha pretese (e sono contento di questo) di analisi dotte (ci sono altri luoghi ed altri spazi, secondo me). Tuttavia ha due elementi sicuramente positivi: alcune testimonianze, o meglio ricordi, del periodo, ed alcuni documenti contestuali alla data. E se su questo secondo punto torneremo più avanti, non posso fare a meno di rilevarne alcuni aspetti “estremi”, come le righe che riporto in finale. Indubbiamente, pur nella loro disomogeneità, dovuta anche alla diversa età dei narranti, una delle parti che più mi hanno attratto è la “memoria” di chi ha partecipato a quegli anni cruciali. Ribadisco subito: plurale, che il ’68 in Italia è stato uno degli anni più lunghi che conosco, partendo dall’aprile del ’66 quando muore Paolo Rossi sulla scalinata di Giurisprudenza e finendo il maggio del ’78 con l’uccisione di Aldo Moro. Un anno durato 13 anni! Cruciali, poi, che la vita in Italia, bene o male, è stata diversa prima o dopo quegli anni. Dove molti dei protagonisti hanno fatto strade e percorsi diversi, dove la stessa politica, lo stesso modo di intrecciare rapporti tra forza lavoro e capitale economico ha avuto impennate e cambiamenti. E dove lo stesso vivere sociale è mutato. Senza l’anno cruciale, non credo ci sarebbe stato il divorzio, l’aborto, il sindacalismo sfrenato, i colletti bianchi, l’assistenzialismo, il culto del minimale. Forse una serie di conquiste avrebbero impiegato più tempo ad entrare nelle coscienze. Forse una serie di arretramenti sarebbero stati vissuti in modo diverso. Forse, e sottolineo molte e molte volte il dubitativo, non saremmo in questa contingenza invivibile di questi anni 2000. Ma torniamo al testo ed ai suoi contenuti. Dicevo delle memorie, di cui si legge con piacere, con le loro varie esperienze e che elenco in ordine discendente di età nell’anno fatidico: Camilleri (43 anni), Luciana Castellina (39 anni), Nicola Piovani (32 anni), Renzo Piano (31 anni), Piera Degli Esposti (30 anni), Francesco Guccini (28 anni), Gian Carlo Caselli (29 anni), Paolo Flores d’Arcais (24 anni), Massimo Cacciari (24 anni), Paolo Mieli (19 anni), Carlo Verdone (18 anni). Sono anche ripotati ricordi e memorie di vari esponenti della lotta di quegli anni provenienti da tutta Europa e dall’America (in fondo, un altro inizio si ebbe alla Columbia University a New York e ne parla Paul Auster, un altro nel maggio francese con Daniel Cohn-Bendit, uno in Germania con Rudy Dutschke, e via discorrendo). Ma io ritornavo sempre alle memorie italiane, a gli Uccelli di Architettura, a “La Zanzara” del Parini di Milano, e Bologna, a Torino. Ripensando ai miei di quegli anni. Io, giovane liceale, scaraventato in questo mondo in folgorante ascesa. Io che manifestavo contro i colonnelli davanti all’Ambasciata Greca a Piazza Ungheria, alle assemblee dl mio liceo, il Righi di via Sicilia (sempre surclassato dai vicini del Tasso), alle prese di posizione con Piervittorio, con Fabrizio. Ma anche alle discussioni con mio padre, che in quegli anni stava mettendo su l’impresa della sua vita, quell’agenzia di stampa, coordinamento tra i cattolici di base, con cui tornerà a fare politica, e con cui andrà avanti lottando e soffrendo sino alla morte, quaranta anni dopo il ’68. L’altra parte molto interessante invero dell’operazione MicroMega è la ripresentazione di alcuni documenti dell’epoca. Alcuni che avevo perso e di cui avevo sentito vagheggiare, li ho letti con estremo interesse. La poesia di Pasolini “Il PCI ai giovani” sui fatti di Valle Giulia, ed il successivo dibattito pubblicato dall’Espresso nel giugno del ’68. La stessa cronaca della battaglia di Architettura, in un articolo firmato da Giampaolo Bultrini e Mario Scaloja, ma scritto sulla base della testimonianza di prima mano di Paolo Mieli. Anche se non coevo, il dibattito a vent’anni dal ’68, che coinvolgeva in una tavola rotonda protagonista dell’anno mirabile, ma che già avevano fatto scelte diverse: Adriano Sofri e Paolo Flores d’Arcais, ancora a discutere, Fabio Mussi, entrato e restato a piè pari nel PCI, Gianni De Michelis, rampante del PSI, Roberto Formigoni, passato al tempo in Comunione e Liberazione, e poi con tutto il percorso che si conosce. Ma ancora più interessanti, e con una difficoltà enorme di lettura sono gli estratti di una rivista che ben si conosceva, “Servire il popolo” con il suo maoismo estremo, e l’articolo già del ’64 di Mario Tronti, intitolato “Lenin in Inghilterra” e di cui riproduco alcune righe di una chiarezza estrema (!!). Di certo, tanto altro si può dire su questo scritto. Tanti spunti che sobbollano nella mente: la classe operaia, il rapporto operai-studenti, le contraddizioni della borghesia. Tanto si può anche dire di come il disgregarsi in momenti e rivoli vari (da quelle lotte, come non ricordare “Lotta Continua” di Sofri, “Potere Operaio” di Oreste Scalzone e Franco Piperno, "Avanguardia Operaia" di Silverio Corvisieri, ed a cui aderì in gioventù anche Claudio Bisio) che portarono (anche) alla lotta armata, di cui nulla so se non di quello che si diceva in assemblea negli anni ’70. E di cui il vero e forte ricordo è la mia avversione all’etichetta “compagni che sbagliano”. Ma non voglio tornare sopra queste macerie. Voglio solo tornare alle idee di quegli anni, forti, coinvolgenti. Ed ai fari che illuminarono la mia strada buia e tortuosa. In primis, Mario Mineo che mi diede un sentiero che seguii per molti anni. E poi, subito dopo, quelli che sono ancora tra i miei amici più cari. Luciano, Ciccio, Giuzzo. Ed altri che ho perso per strada, sia per scelte diverse sia, purtroppo, perché gli anni passano e qualcuno ci lascia. Corradino, Massimo, Cesare. Non sono mai stato un teorico, solo un ricercatore di tante cose. Forse la definizione più azzeccata è quella che mi si attaccò alla scrivania di Praxis in quegli anni. Io ero il “funZioMario”. E forse, in fondo, lo sono ancora. Per finire però con lo scritto, dicevo, non sempre ha una sua compattezza, non sempre riporta quello che ci si aspetta, e spesso le omissioni sono più pesanti delle presenze. Tuttavia un numero di rivista che, con tutte le difficoltà del caso, ho letto, anche molto lentamente. Per tornare, ogni tanto, alle mie vicende di cinquanta anni fa. A quando si lottava, certo, ma anche si cercava un’identità, sociale e personale. Ed ai rapporti liberi che tutti avevano (o dicevano di avere), ed io che cercavo ancora di uscire dall’adolescenza. Non dico altro, e vado a ripensare ai miei amici ed alle mie amiche di allora.
PS: varie volte citati negli articoli, per ragioni di formato non possono essere inclusi in un libro, ma vanno, andrebbero e saranno visti gli spezzoni cinematografici girati dal grande Silvano Agosti.
“Sofri (gennaio 1988): Dico tre cose. La prima: il protagonista di ‘Qualcuno volò sul nido del cuculo’, dopo il fallimento del suo tentativo di fuga dice ‘perlomeno ci ho provato’. … La seconda: mi piace molto il verso di quella poesia [di Kafavis nota mia] che dice ‘felice chi come Ulisse ha fatto un bel viaggio’, anche se poi deve tornare a casa. La terza: … non è detto che l’esser stati sconfitti provochi per forza rabbia. Si può anche fare un buon uso della sconfitta.” (1/227)
“Comprai una cinepresa … me la vendette Isabella Rossellini … così cominciai a fare i miei primi film … non erano parlati, c’era solo una colonna sonora strumentale, spesso di Iannis Xenakis” [allora forse non sono il solo a conoscerlo… dai ricordi di Carlo Verdone] (2/116)
“Si contraddicono … il momento politico della tattica e il momento teorico della strategia, in un rapporto complesso e molto mediato tra organizzazione rivoluzionaria e scienza operaia” [dall’articolo di Mario Tronti “Lenin in Inghilterra”, gennaio 1964] (2/165)
Zygmunt Bauman “L’ultima lezione” Laterza euro 9
[A: 03/04/2018 – I: 01/11/2018 – T: 05/11/2018] - &&&&
[tit. or.: mixed title see below; ling. or.: inglese; pagine: 75; anno 2018]
Un libro, pur nella sua complessità, imperdibile e fortuitamente breve. Prima di tutto perché, appunto, contiene la brevissima, eppur tuttavia densa di riflessioni, ultima lezione di Bauman, morto or quasi sono due anni. Lezione tenuta al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato nell’ottobre 2016 (Bauman morirà a gennaio del 2017), nel corso della manifestazione intitolata “La fine del mondo”. Inciso: ricordo con piacere la mia visita al Centro nel momento dell’inizio dell’opera di riqualificazione di Valdemaro Beccaglia nel 2005. E chi sa sappia. Il veloce libro, oltre alla lezione, contiene un saggio inedito di Bauman dal titolo “L’eredità del XX secolo e come ricordarla” [tit. or. “Categorial Murder, or the Legacy of the Twentieth Century and How to Remember It”] ed un lavoro sull’autore a firma Wlodek Goldkorn, per anni responsabile culturale de “L’Espresso”. Tutti e tre I pezzi sono ben degni di nota. Intanto, Goldkorn serve, a chi conosce poco l’autore, ad inquadrare Bauman nel suo tempo e nel suo ruolo di intellettuale pubblico. Goldkorn ci fa rivivere la storia di Bauman dalla natia Polonia (ove nacque nel 1925), alla guerra che segnò una svolta epocale nel suo pensiero, al dopo guerra difficile oltre cortina fino all’emigrazione in Inghilterra nel 1956 (dopo i fatti d’Ungheria) ed agli ultimi 50 anni di pensiero pubblico sempre coerente e curioso. Con quell’accento sulla liquidità della vita moderna, ben sviscerato in molti suoi scritti di cui spesso ho parlato. Vita che sfugge ad imbrigliamenti, ma che scorre, fluisce, inarrestabile. I testi sono talmente brevi che si farebbe prima a leggerne che a parlarne. Vorrei solo tirarne fuori delle impressioni a caldo. L’ultima lezione fonda la “paura” della fine del mondo (o del proprio mondo), sulla impossibilità, rispetto al passato, che abbiamo di controllare le nostre vite. Con tre esempi folgoranti: il crollo degli istituti di credito, che ha drasticamente ridimensionato le spinte al consumo; l’afflusso degli stranieri nel nostro quotidiano, inducendoci a pensare che potrebbe succedere anche a noi; e per ultimo l’aspetto ambientale, i terremoti e gli tsunami che distruggono inaspettatamente la nostra vita. Tutto ciò distrugge la fiducia nel futuro, ci fa rivolgere all’oggi, e ci fa “consumare” il presente, producendo ogni volta catastrofi più ampie. Eppure non sarebbe difficile pensare a controllare le banche, ad impedire, sul nascere, guerre ed esodi, ad operare affinché la natura sia di nuovo benigna. Chiuderei questa prima parte ricordando il detto cinese spesso citato dallo stesso Bauman: “Se pensi all’anno prossimo, semina il granturco. Se pensi ai prossimi 10 anni, pianta un albero. Se pensi ai prossimi 100 anni, istruisci le persone”. Questo ci fa transire al secondo saggio, che si basa su premesse identiche: la sfiducia del futuro reca le premesse degli sconquassi presenti. Ci si ricorda di Hobbes che confidava nello Stato perché il cittadino potesse avere fiducia nella vita. Ma lo Stato deve eliminare i rami secchi, e le conseguenze, fettina di salame dopo fettina, sono presenti e precipitate in quello che Bauman non chiama “Olocausto” (che etimologicamente è un sacrificio offerto a qualcosa o qualcuno) ma “Omicidio categoriale”, cioè omicidi che colpiscono una categoria di persone: gli ebrei sotto il nazismo, gli armeni da parte dei turchi, e via uccidendo. Quindi, non possiamo, non dobbiamo dimenticarci che lo Stato sono le persone che lo guidano, che tutti hanno responsabilità, nel bene e nel male. Non c’è soltanto, come diceva Hannah Arendt “La banalità del male”, ma c’è, ci deve essere, presente sempre nella nostra mente la possibilità di operare. E ricollegando i due scritti, operare per fermare catastrofi immani che rendono inguardabile il nostro futuro, lavorando come nella prima delle frasi che ho riportato. Certi che la conseguenza della non operatività verso queste catastrofi porta sempre più ognuno ad isolarsi, ad essere “soli con il proprio cellulare” (e non vorrei riprendere vecchie a sempre nuove storie sui social media). Le piccole cose ci permettono di uscire dalla conseguenza più detrimente di queste catastrofi: la solitudine. Che non vuol dire essere soli, ma non interagire con il mondo. Una riflessione che faccio pienamente e completamente mia.
“Mi permetto di suggerire che … le piccole cose che possiamo fare nei limiti delle nostre capacità … sono moltissime, tanto da poterci impegnare per l’intera nostra esistenza.” (18)
“Stalin proclamò che la fine dell’ingiustizia … era dietro l’angolo.” [e Di Maio, allora?] (32)
“La memoria seleziona e interpreta … tenere vivo il passato è un obiettivo che può essere raggiunto solo mediante l’opera attiva della memoria … ricordare è interpretare il passato … raccontare una storia significa prendere posizione sul corso degli eventi passati.” (42)
Visto che siamo alla terza settimana, e si avvicina il “dolce” Natale, non può mancare l’allegato dedicato ai libri che di rendono felici.
Credo di aver detto già molto in questa trama prenatalizia. Non avendo altro da condividere, che viaggi ed altre piacevolezze sono ancora ferme al palo, prendo l’occasione natalizia per rinverdire i legami amicali con tutti voi e abbracciarvi forte.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

DICEMBRE 2018
Direi che ci sta tutto: un po’ di cioccolato sotto Natale!

RIMEDI GHIOTTI (II)

DOLCE COME IL CIOCCOLATO di LAURA ESQUIVEL (1989)
Un pizzico di trama  
Tra Tita e Pedro è amore a prima vista, ma a causa di un’assurda tradizione non possono sposarsi, perché la ragazza è costretta a badare alla (terribile) madre. Se il destino è beffardo, però, i due sfortunati e passionali amanti provano a loro volta a beffare il destino e, pur di rimanere accanto a Tita, Pedro sposa la sorella Rosaura. Ma non è anche questa una beffa per Tita? Alla ragazza non resta che sfogare ai fornelli la sua focosa passione, trasformando il cibo nel veicolo di un’inusuale comunicazione erotica.
Un cucchiaio di saggezza
Il sottotitolo di “Dolce come il cioccolato” è «romanzo piccante in dodici puntate con ricette, amori e rimedi casalinghi». Ogni capitolo, infatti, inizia con una ricetta, dodici in tutto, la cui spiegazione viene interrotta dal racconto della vita di Tita. Ognuna aggiunge un ingrediente a quel piatto piccante, dolce e amaro rappresentato dalle vicende della protagonista e della sua travagliata storia d’amore, imbevuta di magico realismo e ambientata negli armi della rivoluzione messicana. Ma non vi aspettate uno zuppone di latte su cui versare calde lacrime di tristezza, perché il romanzo è sì dolce come il cioccolato, ma non stucchevole come un marshmallow. A fare la differenza stemperando i toni dolciastri è quel pizzico di magia surreale e di originale ironia che sono ingredienti tipici della cultura sudamericana, a cui si mescola una buona dose di piccante passione che neanche il dolore per un amore negato può mettere a tacere. Il titolo originale, che ne restituisce il vero sapore, è “Como agua para chocolate”. In Messico la cioccolata calda si fa con l’acqua e non con il latte, quindi l’autrice allude alla fusione perfetta di due ingredienti che diventano una cosa sola: una voluttuosa, dolce e sensuale cioccolata bollente, e il paragone culinario è messo in relazione non tanto all’amo-re di Tita quanto alla sua rabbia di avere la felicità a portata di mano senza poterla afferrare. Ciò che sente la protagonista alla vista di Pedro è ciò che prova una frittella quando entra a contatto con l’olio bollente, altro che sdolcinatezze zuccherose in cui sciogliersi, quindi, qui si frigge di pulsioni erotiche per una storia che, raccontata con uno stile carico d’ironia, scorre “veloce come il desiderio” (titolo di un altro romanzo di Laura Esquivel). L’autrice è una raffinata cuoca e così trasforma la vicenda amorosa di Tita e Pedro in un appetitoso ménage à trois in cui la punta del triangolo è il cibo, non un piatto di contorno, ma la portata principale, un modo per esprimere stati d’animo e scatenare forti emozioni. Come ogni chef sa bene, in cucina non si butta via niente e così Tita trasforma i sentimenti per Pedro in ingredienti che inavvertitamente aggiunge alle sue ricette, sublimando in succulenti manicaretti la sua passione. Spesso le emozioni riversate nei piatti che prepara sono così forti da provocare surreali effetti collaterali, come quando, nella torta nuziale per il matrimonio del suo amato mette amarezza e lacrime, provocando un’ondata di malinconia e rimpianto per gli amori perduti, che intristisce tutti gli invitati causando loro una memorabile intossicazione; o quando nelle quaglie con salsa ai petali di rosa riversa passione erotica mista a sangue e sua sorella viene contagiata da una travolgente eccitazione sessuale che la costringe a correre nuda per le strade fino a sfogare tale ardore in un amplesso epocale. Ma sono inconvenienti che capitano in cucina. Nel romanzo il cibo non è inteso come surrogato del sesso ma come sensuale linguaggio dell’anima che può rivelarsi più eloquente e nutriente di molte parole, unico modo possibile in cui i due protagonisti possono concedersi insolite relazioni erotiche. Quando si dice “fare l’amore con il sapore”. Ma l’inaspettato finale rivela che la consumazione di nessun cibo, per quanto gustoso, potrà mai competere con la consumazione di una vera passione che incendia il cuore come un piatto flambé. L’amore fa perdere la testa ma in cucina non ci si può distrarre, basta un niente e il flambé si trasforma in un incendio. Così Tita si distrae con Pedro, il fuoco della passione divampa, i due amanti s’incendiano come una scatola di fiammiferi e.… mi fermo qui per non rovinare il dessert.
Posologia
“Dolce come il cioccolato” è un rimedio casalingo, una piccante ricetta alternativa per curare più di un malessere. Formulata per animi sensibili all’amore, ma ben tollerata anche da chi manifesta forme di dermatite da contatto per storie eccessivamente sdolcinate, è una crema dalle speciali proprietà lenitive utile a medicare i disagi causati da vuoti d’amore, amori ostacolati e amori noiosi. Ma i maggiori benefìci si ottengono nel caso in cui la propria vita sessuale sia piuttosto insipida o desolante, come un frigo vuoto, se non per quello squallido pezzo di formaggio ammuffito che non è gorgonzola. Con la sua formulazione speciale, quasi magica, a base di cibo e amore, rafforza la convinzione che cucinare con sentimento (o cucinare i sentimenti) sia una validissima medicina per esaltare il gusto della vita e trovare conforto quando tocca ingoiare bocconi amari. Il libro è risolutivo per curare la frigidità culinaria che solitamente corrisponde a un atteggiamento freddo e poco passionale anche nei confronti della cita. Con il suo potenziale afrodisiaco dovrebbe stimolare il desiderio di cedere alla passione anche per il buon cibo.
Se come Tita siete infastiditi da un buco nero nel petto dentro il quale s’insinua un freddo infinito, frizionare con energia il romanzo sul petto vi riscalderà rapidamente; se vi sentite svuotati come un piatto su cui rimangono soltanto le briciole di una torta prelibata, Laura Esquivel vi offrirà un’altra porzione di dolce riempiendo di nuovo il vostro piatto (e il vostro vuoto emotivo); se pensate che niente riuscirà più a far ardere di passione la vostra anima, troverete tra le righe un fiammifero per riaccendere il fuoco. A proposito, si raccomanda l’assunzione di “Dolce come il cioccolato” soprattutto quando si presenta il bisogno di infiammarsi d’amore. Secondo l’autrice, infatti, ognuno di noi ha dentro di sé una scatola di cerini. Per accenderli abbiamo bisogno di una candela, che può essere il cibo, la musica o una qualunque passione, ma soprattutto è necessario il fiato della persona amata. La combustione nutre la nostra anima tenendoci vili. Ciascuno deve scoprire ciò che innesca la propria personale combustione per tenere sempre accesa la fiamma prima che la scatola di fiammiferi si inumidisca così come la nostra energia vitale. La domanda è: ma se manca il fiato della persona amata come lo accendiamo questo cerino? Suggerisco di prendere fiato dalla lettura di amori altrui. I libri sono la candela, le storie l’ossigeno.
Avvertenza: si consiglia di evitare il contatto con le persone dal fiato gelido perché cercheranno in tutti i modi di spegnere la vostra fiamma. Ma fate attenzione anche a non accendere i cerini tutti insieme. La passione è un sentimento da maneggiare con cura.
Effetti collaterali
L’effetto collaterale più frequente è il desiderio di chiudersi in cucina per riversare la propria eventuale tempesta emozionale in una serie di manicaretti. Viste le controindicazioni segnalate nel romanzo, si consiglia di procedere con cautela. Soprattutto i lettori affetti da quel disagio piuttosto comune che consiste nell’incapacità di esprimere i propri sentimenti a parole, potrebbero essere tentati di provare a farlo con il cibo. Ma se in cucina non siete pratici, evitate di lanciarvi nella preparazione di piatti troppo elaborati per evitare il rischio di essere fraintesi e accusati di tentato omicidio quando volevate solo dichiarare il vostro amore.
Consigli dello chef
Potrebbe giovare alla salute cimentarsi nella preparazione dei gustosi piatti messicani di Tita: focaccine di Natale, chilaquiles, torta chabela, champandongo, torrejas di panna, fagioli alla tezcucana e peperoni in salsa di noci. Ma tengo a precisare che la ricerca degli ingredienti potrebbe non essere facile e l’esecuzione lunga ed elaborata. Se volete un consiglio spassionato, per rendere più confortevole la cura può essere più che sufficiente un’inebriante tazza di cioccolata calda preparata con l’acqua, come vuole la tradizione messicana. Da gustare leggendo il libro rigorosamente sotto una bella, lunga c calda coperta (durante la cura capirete il perché della coperta).
Terapia cinematografica sostitutiva
Con la cucina e l’eros come ingredienti principali, “Dolce come il cioccolato” non poteva non ingolosire il cinema. Nel 1992 Alfonso Arau ha portato sullo schermo la storia di Laura Esquivel, che ha collaborato alla sceneggiatura. Il risultato è “Come l’acqua per il cioccolato”, in cui il regista messicano è riuscito a mantenere lo stesso sapore del romanzo muovendosi tra toni da fiaba, atmosfere calde e quel pizzico di realismo magico (che ogni tanto vira verso il soprannaturale) che è la cifra narrativa sudamericana. Il film è decisamente dolce come il cioccolato, cioccolato al latte, ma come nel romanzo il finale lascia quel sapore amaro che non ne intacca il gusto.

Commenti

Il cioccolato, purtroppo, come tutti i cibi, invecchia. Va mangiato e gustato nel gusto tempo. Questo libro, invece, forse l’ho letto quando un po’ di patina imbiancava i quadratini.
Laura Esquivel “Dolce come il cioccolato” Garzanti euro 9,90
[pubblicato il 29 settembre 2015]
Finalmente leggo questo antico (nel senso di trentennale, ma che sono molti per una simile scrittura) libro, presente da anni nelle mie famose liste, sollecitatomi dalle mie amate-odiate libropatiche non che spinto sulla cresta dell’onda anche dalla collezione di libri legati alla cucina in uscita con il “Corriere della Sera”. Intanto, una bella tirata d’orecchi agli editor della Garzanti che stravolgono in “Dolce” uno sfogo della protagonista che ad un certo punto si sente ribollire “come l’acqua per il cioccolato”, che si dice essere di poco sapore, ma che, come Dario Bressanini insegna ed io riporto in calce, è l’occasione per una gustosissima mousse. Inoltre, non ho neanche visto il film che nel ’92 ne fece il messicano Arau, anch’esso di buon successo come il libro. Che uscì in Messico a puntate, ognuna delle quali con una ricetta, e solo così se ne può gustare il filo conduttore, che nel libro sembra perdersi. La storia è semplice e molto messicana. Abbiamo la bella Tita de la Garza, la minore delle figlie di Donna Elena, acida vedova messicana. Che fin da piccola vive in cucina, e ne capisce e carpisce i segreti più intimi. Di lei si innamora il bel Pedro, amore ostacolato da Donna Elena, in quanto ancora non maritate le figlie maggiori, Rosaura e Gertrudis. Messo alle corde da Donna Elena, pur di rimanere vicino a Tita, Pedro decide di sposare Rosaura. Da quel momento, Tita riverserà il suo amore nella cucina, producendo manicaretti elaborati e con effetti sorprendenti. Tanto che in uno particolarmente pieno di affetto si trasfigura Gertrudis, che scappa nuda nella prateria insieme ad un rivoluzionario messicano. Noi però rimaniamo nel ménage familiare, con la madre tiranna, Pedro e Rosaura che fanno un figlio che però muore giovane. Pedro è sempre lì, tra l’essere vicino e fare il tontolone, che una qualsiasi donna normale (non Tita, purtroppo) l’avrebbe mandato a ramengo molto presto. Poi muore Donna Elvira, Tita esce allo scoperto e Rosaura si fa prendere da crisi di nervi ed altre strampalitudini. Ritorna anche Gertrudis alla testa di manipoli rivoluzionari (in fondo siamo nel Messico dell’epoca di Pancho Villa) che cerca di svegliare Tita. Che forse sembra avere un sussulto di indipendenza quando anche Rosaura ci lascia, insalutata salma. Ma l’ombra di Donna Elena aleggia sulla casa, e dopo un’unica notte d’amore (in fondo abbiamo aspettato quasi 150 pagine che succedesse “o’ miracolo”), ecco un’altra catastrofe. Senza nessun preavviso si accendono fuochi strani e Pedro e Tita bruciano insieme al loro amore. La storia è durata tanti anni, ci sono stati intermezzi, c’è stato l’amore di John per Tita, che molto le insegnò ma che non le tolse Pedro dal cuore, ci sono stati figli (che non sono morti), c’è la bella nipote Esperanza che sposerà Alex, il figlio di John. E c’è questa storia, narrata dalla figlia dei due. La storia di un grande amore, ma soprattutto di tanti belle. Dalle focaccine di Natale alla torta Chabla, dalle quaglie ai petali di rosa ai peperoni in salsa di noci. Ma seppur queste sono belle (e ne consiglio la lettura a chi sa di cucina), il resto del libro, con quel “realismo magico” latino-americano che mi lascia assai freddo, quelle situazioni inspiegabili, e soprattutto l’indecisione di tutti i protagonisti ad essere sul serio protagonisti e non vittime della vita che passa, non mi ha fatto amare in particolar modo questo libro. Con tutte le metafore che poi il libro porta con sé, sia a livello sentimenti che della rappresentazione della realtà messicana. Sui primi, c’è una correlazione quasi ingenua (le cipolle che sono cagione di lagrime, i petali di rosa che risvegliano passioni, ed altre similitudini di piccolo livello). Sull’altra, per rappresentare il grande affresco del Messico dei primi anni del XX secolo (pieno di oppressi, oppressori, rivoluzioni) si fa un semplice traslato con i personaggi: Tita e Pedro sono gli oppressi, Donna Elena e Rosaura gli oppressori, Gertrudis la rivoluzione). Ma è molto datato come scrittura e come descrizione delle atmosfere. Insomma, mi aspettavo di più da come se ne parlava negli anni del suo maggior successo.
“La verità vera è che la verità non esiste, dipende dal punto di vista di ognuno.” (141)
Ricetta del cioccolato con acqua presa dal blog di Dario Bressanini:
“Sono partito da 100 g di fondente 70%. Ho sciolto il cioccolato in un pentolino antiaderente di buon spessore su fuoco bassissimo. Mescolate il cioccolato con una spatola per facilitare la fusione. Fuso il cioccolato si deve aggiungere l'acqua. Ho versato nel pentolino i 115 grammi di acqua, tutta in una volta. Ora mescolate bene, a fuoco spento, sino a quando il cioccolato è completamente emulsionato. Quando il cioccolato è ben emulsionato versate la miscela in una bacinella raffreddata esternamente con del ghiaccio. Un paio di minuti di frusta elettrica (o a mano se preferite) e il risultato è cioccolato puro, ma con la consistenza di una mousse. Una vera delizia per chi ama il fondente.”

Finalino

Non mi ripeto, ribadendo quanto sopra: cioccolato approvato, libro bocciato.


domenica 9 dicembre 2018

Artisti italiani (o quasi) - 09 dicembre 2018


Torniamo con piacere alla collana artistica del Corriere, che questa volta sforna una cinquina assolutamente degna. Sia negli autori e nella disamina di artisti noti (Brunelleschi, Giotto, Botticelli), sia in quelli poco noti (Quarton) o inventati (il Turchetto, talmente ben fatto che sembra vero). Insomma. Direi una settimana che, dando inizio all’Epifania natalizia, si prospetta piena di buoni elementi. E non è poco.
Metin Arditi “Il turchetto” Corriere della Sera Arte 27 euro 7,90
[A: 17/01/2017 – I: 23/06/2018 – T: 29/06/2018] - &&& +   
[tit. or.: Le Turquetto; ling. or.: francese; pagine: 232; anno 2011]
Non intrigante come il libro su Piranesi, ma anche questo di buon interesse e che mantiene alto il gradimento di questa parte della collana. Arditi è svizzero, anche se di origini turco sefardite, essendo nato ad Ankara. Emigrato a 7 anni in Svizzera (siamo agli inizi degli anni Cinquanta) vive sulla sua pelle il dramma dell’emigrazione (ne vogliamo parlare…). Poi comincia a studiare (gliene danno la possibilità), si laurea in discipline tecniche al Politecnico, e comincia ad insegnare. A 60 anni, pur continuando l’attività didattica, comincia a scrivere, soprattutto saggi, ma anche romanzi. E prove interessanti, come questa, in cui mescola vero e falso, introducendo non pochi elementi del suo vissuto infantile. Infatti, questo libro dedicato alla vita ed alle opere di Elias Troyanus detto “il Turchetto” è tutto giocato sulla falsariga del falso. Ma giocato così bene, che alla fine ho faticato un po’ a trovare le tracce giuste, che svelano il mistero del quadro intorno al quale, pur in maniera eccentrica, ruota il romanzo. Si tratta de “L’uomo con il guanto”, dipinto attribuito a Tiziano, laddove sulla roccia su cui si appoggia il giovane del ritratto, c’è vergata la scritta “Ticianus” in stampatello. Con la particolarità che la “T” è dipinta in modalità diversa dal resto della firma. Su questo labile indizio, facendosi forte di un immaginario parere di improbabili autorità, Arditi crea il suo grande affresco di un pittore ignoto. Appunto l’Elia di cui sopra. Ebreo rapito in fasce, vive i primi dieci anni a Costantinopoli nella famiglia acquisita di un turco che commercia fornendo ragazze all’harem del sultano. Ma sin da infante, Elia è portato al disegno, che tanti ne realizza (e con le quali guadagna qualche soldino), ma è anche amico del sufi Djelal, che gli insegna la scrittura calligrafica araba, soprattutto nella parte dedicata alla respirazione (e qui si potrebbe aprire un capitolo gigante), e del mendicante Zeytine, che lo spaventa (in fondo Elia ha dieci anni e Zeytine è senza gambe) ma cui in maniera trasversa è affezionato, che il barbone apprezza i suoi disegni. Quando il padre putativo muore, sapendo di non avere altre protezioni, il dodicenne Elia fugge su di una nave per rifugiarsi a Venezia, soprattutto perché in quella città si sviluppa uno dei maggiori poli artistici dell’epoca. Saltiamo un lungo periodo (una quarantina d’anni) e ritroviamo Elia che è diventato Ilias, come se fosse greco, ed è uno dei maggiori pittori sulla piazza veneta. È sposato, anche se la moglie è un po’ ritardata, ha una figlia ed un nipotino in arrivo. Sembra arrivato alla fama ed alla gloria cui aspirava sin da bambino. Ma… ma non ha mai detto di essere ebreo, che gli ebrei non potevano esercitare nessun commercio in quel di Venezia. Né ha mai abiurato la religione nativa, anche se non è che sia particolarmente osservante, né dell’ebraismo né del cattolicesimo. L’unica sua religione è la pittura, per cui realizza quadri mirabolanti, che contendono la palma ai migliori dell’epoca (Tiziano e compagnia). Viene quindi, di forza, messo in mezzo alle varie beghe di palazzo, tirato da una parte dai lacchè del doge, dall’altra dai nunzi apostolici. Lui, ovvio, commette l’errore di innamorarsi di una bella modella, anch’essa ebrea, che dipinge in una stupenda “Madonna con bambino”. Chi si espone, rischia. La bella Rachele non solo è allontanata, ma muore spinta in un canale. In quello, gli si commissiona una “Ultima Cena”. Che lui realizza come un capolavoro religioso, mettendo in piazza le radici ebraiche di Gesù (che giustamente era ebreo), e dipingendo tutti gli apostoli con le fattezze dei maggiori pittori di Venezia: Tiziano giovane e anziano, Giorgione, Bassano, Tintoretto, il Veronese, Gentile e Giovanni Bellini, il Carpaccio, Sebastiano Del Piombo. Riservando a sé stesso la figura di Giuda. Inciso: mi manca uno dei dodici apostoli, che suppongo possa essere Lorenzo Lotto. Ma torni amo alla storia. Il quadro è una vendetta per la morte di Rachele. Ma scatena reazioni incontrollate. Portando il nunzio ed il doge a scoprire le menzogne che hanno costellato tutta la vita di Elia. Ed il Turchetto, il cui unico scopo è dipingere, non fa nulla per discolparsi. Solo il cardinale ne prende a cuore le sorti. Sia ricevendo un quadro del Turchetto che questi aveva donato a Tiziano (firmandolo solo con la “T”), sia cercando di salvargli vita e quadri. Solo la prima riesce, a costo però della vita del cardinale stesso. Mentre i quadri vengono bruciati in un rogo “coram populo”, motivo per cui non abbiamo nessun quadro di Elia a noi rimasto. Comunque, Elia riesce a tornare a Costantinopoli, ritrovando l’unica persona con cui potesse dire di aver un rapporto amicale: il mendicante Zeytine. Come andrà a finire tra i due, e come si svolgerà la fine del libro, non è cosa di interessa qui (leggetene che in ogni caso rilassa). Qui si torna sul concetto: un libro costruito su una menzogna talmente ben fatta da farti domandare fino a che punto sia menzogna. Un libro godibile, che fa anche riflettere sull’assurdità, ebraica ed islamica, verso la pittura, o comunque attraverso l’iconoclastia. Quando c’è un divieto talmente forte e banditesco, io mi vado a mettere subito dalla parte del torto come Brecht.
Ross King “La cupola di Brunelleschi” Corriere della Sera Arte 14 euro 7,90
[A: 18/10/2016 – I: 19/07/2018 – T: 22/07/2018] - &&&
[tit. or.: Brunelleschi’s Dome; ling. or.: inglese; pagine: 241; anno 2000]
Ecco un’altra buona riuscita dei libri del Corriere sull’Arte come Romanzo. Anche se preferivo il sottotitolo inglese (“The Story of the Great Cathedral in Florence”) al prolisso commentario italiano (“La nascita avventurosa di un prodigio dell’architettura e del genio che lo ideò”). Non conosco in modo particolare l’autore, il canadese King, che, trentenne, si sposta in Inghilterra dove vive tuttora e dove negli ultimi 20 anni ha cominciato a scrivere di arte e problematiche connesse. Cominciando proprio da questo Brunelleschi, poi proseguendo con Michelangelo, Machiavelli, Leonardo, per arrivare a Monet e li Impressionisti. Comunque la sua scrittura è di facile lettura, e tutto sommato abbastanza coinvolgente. Come in questa storia, che, abbracciando una cinquantina d’anni, ci fa piombare nella Firenze tra il 1396 ed il 1450, circa. Con una sapiente scelta di mescolanza tra descrizione storico-ambientale, presentazione dei comprimari, focus sul grande “Pippo”, e descrizione, particolareggiata ed anche un tantino difficile, della ideazione e della realizzazione della cupola di Santa Maria in Fiore, il capolavoro architettonico italiano, ineguagliato nel mondo, e dovuto, appunto, al genio meccanico ed architetturale di Filippo di ser Brunellesco di Lippo Lapi. Devo dire subito che non conoscevo quasi per nulla la storia di Brunelleschi, e, seppur non indagata a fondo, quanto ne emerge dallo scritto è piacevole ed ha meritato dei piccoli approfondimenti. Ma iniziamo dalle parti “migliori”, entrando di soppiatto nella Repubblica Fiorentina, un po’ gaudente ed un po’ trasandata. Guidata, a tratti, dai Medici, tra cui l’illuminato Cosimo. Ma anche assediata periodicamente dalle truppe milanesi dei Visconti, da Gian Galeazzo prima e da Filippo Maria (il pazzo nevrotico) poi. Era anche al limitare per i costumi sessuali, tanto che i tedeschi indicavano gli omosessuali con il termine “Florenzer” (e su questo ci si tornerà). Quindi, tra guerre e pestilenze, si muoveva la scena artistica fiorentina. Con i tre grandi (e mezzo) che segnarono la nascita del Rinascimento fiorentino: Donatello (e con lui Lorenzo Ghiberti) per la scultura, Masaccio per la pittura e appunto il Brunelleschi per l’architettura. Ma se di Masaccio, Ross tace, e di Donatello rileva solo il sodalizio con il nostro, suggellato da un dotto viaggio in Roma ai primi del secolo, Ghiberti è ben presente sulla scena artistica. Perché Brunelleschi e Ghiberti parteciparono alla gara per le porte del Battistero, aggiudicata ex-aequo, ma da cui Filippo si ritira non sopportando di lavorar con altri. Ed anche quando Brunelleschi vince l’appalto della cupola, lui e Ghiberti sono nominati capomastri della costruzione, anche se poi è sempre il nostro che agirà in prima persona. Ed ancora son loro due a combattere per la “lanterna” che sovrasta la cupola. Anche qui, vinta da Filippo, che però muore poco prima del completamento. Anche se ben narrata, la centralità del testo è dedicata a tutte le vicissitudini della costruzione della cupola. Ricordo ai meno addentro all’architettura del tempo (sperando nella benevolenza di mio cugino), che la Basilica venne progettata da Arnolfo di Cambio nel 1296, iniziatane la costruzione, per poi arrivare all’impianto centrale, laddove doveva ergersi la cupola. Ma non ne vide mai una pietra. Tanto che progetto e cupola vennero ridisegnati da Neri di Fioravanti, con un progetto che, nel 1367, l’Opera del Duomo mise come irrinunciabile per l’edificazione finale. Ma ancora si doveva andare avanti per circa 50 anni, arrivando alla grande gara del 1418, che vide trionfare il progetto avveniristico e futuristico di Filippo Brunelleschi. Il quale era di formazione orafo ed orologiaio, dedito alla costruzione ed ideazione di marchingegni meccanici (tra cui macchine da guerra). Avendo tuttavia la bottega che affacciava proprio al Duomo, nel suo animo sempre fu presente l’idea di diventare l’artefice della cupola. Così che riuscì ad imporre il suo progetto, per la costruzione di quella che è, tuttora, la più ampia cupola in mattoni costruita al mondo. Una cupola fatta di otto spicchi a “quinto acuto”, con un diametro interno di circa 45 metri. Con una serie enorme di problemi di statica e di realizzazione, che Filippo interpretò e realizzò interamente. Ideò un argano per portare i mattoni ai 45 metri d’altezza del tamburo. Nonché altri macchinari per il trasporto del marmo pesante tonnellate sino alle altezze dovute. Eliminò le antiestetiche centine che fino ad allora avevano rette cupole simili, utilizzano catene di pietra e legno di castagno che raccordassero i lavori. Sfruttando infine la statica dei mattoni a “spinapesce”, utilizzando, pare, calcoli matematici dell’amico Paolo dal Pozzo Toscanelli (inciso: grande matematico e cartografo misconosciuto, autore di una lettera ai regnanti portoghesi dove calcolava, erroneamente, la distanza verso ovest delle Indie, ma che fu di base delle discussioni che portarono al viaggio di Cristoforo Colombo alla fine del secolo). Pur se poco aduso alle costruzioni architettoniche, ho seguito con piacere le descrizioni di King, sia delle soluzioni adottate, sia dei metodi per realizzarle. Per questo do un pieno voto all’opera. Anche se poi, meno risalto viene dato alla vita del Brunelleschi stesso. Di cui alla fine sappiamo solo, oltre al grande ingegno, che era brutto di faccia, grande di cranio, basso di statura (pare secondo il calcolo delle ossa si aggirasse su 1 metro e 53), e probabilmente “Florenzer” anche lui. Comunque un libro gradevole. Un solo appunto per i revisori degli scritti. Mentre la prima metà scorre tranquilla, a pagina 103 comincia ad apparire un “argino” invece che “argano”. Poi a pagina 175 si profilano all’orizzonte “conine” invece che “colline”. Infine, da pagina 200 in poi ci sono una serie quasi infinita di refusi per pagina. Un po’ di attenzione non guasta, perbacco.
Giovanni Iudica “Il pittore e la pulzella – Un fiammingo ai tempi di Giovanna d’Arco” Corriere della Sera Arte 35 euro 7,90
[A: 14/03/2017 – I: 26/08/2018 – T: 29/08/2018] - &&&  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 188; anno 2007]
Ecco uno degli esempi tipici di come mi aspettavo si sviluppasse la collana. Disamina di un pittore, della sua vita e del contesto in cui è vissuto. Con un autore che, professore di Diritto Civile, si appassiona all’arte e ne fa uno degli scopi della propria vita. Producendo diversi libri, per altro a me non noti. Ma riuscendo a riversare in questo due ottime qualità: l’atmosfera del tempo ed un’analisi (anche se spesso breve) dei quadri che denotano passione e capacità. Tra l’altro, cimentandosi con un pittore non dico poco noto, ma probabilmente sconosciuto ai più. Sarei curioso di saperne di più dal grande mio esperto personale, mio cugino Alessandro. Viene infatti trattata la vita e le opere di Enguerrand Quarton. Il nostro nasce nella cittadina di Laon, nel nord della Francia, verso i confini dell’attuale Belgio, da povera famiglia. Portato alle arti, si trasferisce nelle Fiandre, a Tournai, nella bottega di Robert Campin. Costui, per chi non è aduso alle arti del tempo, è uno dei due iniziatori della pittura fiamminga, che tanto è nota attraverso l’altro “fondatore” Jan van Eyck (che mi fece conoscere la mia amica Chiara quando mi illustrò, centimetro dopo centimetro, il “Polittico dell’Agnello Mistico” di Gand). Nella bottega di Campin, oltre ai rudimenti della miniatura e della genesi dei colori, il nostro si lega a Barthélemy d'Eyck (lontano parente di Jan), con cui si accompagnerà a lungo. Qui, Iudica effettua un’operazione lecita dal punto di vista cronologico, seppur ardua dal punto di vista storico. Quarton, che dovrebbe essere nato intorno al 1410, ha circa 19 anni, quando scoppia la rivolta verso i dominatori inglesi, guidata da una ragazza nativa di Domrémy-la-Pucelle, tale Giovanna. I giovani della bottega di Campin sono infiammati d’ardore patriottico (Tournai era comunque nel dominio Borgognone, che sosteneva di Delfino di Francia). Con una lettera di presentazione a Renato d’Angiò, mecenate ed amico di Campin, si presentano sui campi di battaglia. Non se ne sa di molto, se non che, alla disfatta di “roi René”, con lui riparano in Provenza. Qui, da circa il 1440 in poi, si hanno notizie più certe. Anche se sembra ragionevole che i due abbiano seguito il conte di Valois nella spedizione napoletano dal 1435 al 1440 (circa). Spedizione dove, a maggior lustro delle loro opere, incontrarono gli esempi della nascente scuola italiana, incontrando quasi sicuramente Antonello da Messina. Dal 1445 in poi, Enguerrand e Barthélemy rimangono in Provenza (come attestato da contratti ed altri documenti latini, che Iudica, con scrupolo veramente degno riporta in coda al volume). Anche se i due scelgono due carriere diverse. Barthélemy diviene il pittore di corte, mentre Enguerrand, forte di notevoli commesse, apre una bottega indipendente. Da dove usciranno i suoi capolavori, di cui quattro sono arrivati sino a noi: la “Vergine della Misericordia della famiglia Cadard” (ora nel Museo Condè di Chantilly), l’”Incoronazione della Vergine” (ora nel museo Pierre di Lussemburgo a Villenueve-les-Avignon), il “Retablo Requin” (al Museo del Petit Palais di Avignone) e la “Pietà di Villenueve-les-Avignon” (ora al Louvre). Altri sono descritti nei documenti, molte anche le miniature e le illustrazioni di libri di devozione. Poi, il nome di questo considerato uno dei maestri di congiunzione tra i fiamminghi e gli italiani, disegnatore di una via francese all’arte dell’epoca, a poco a poco scompare. Dovrebbe aver trovato la morte in una delle due grandi epidemie di peste che sconquassarono la regione, tra il 1466 ed il 1474. Purtroppo, l’usanza di non firmare le pale d’altare, e la distruzione delle stesse nel corso del tempo, hanno fatto sparire o dimenticare il suo nome. Se ne salvarono appunto quei quattro esemplari nominati, in un primo tempo attribuiti al suo mentore, il conte di Valois. Poi, documenti ritrovati ed analisi stilistiche, ne hanno ricondotto la paternità al maestro fiammingo-provenzale. Di cui sottolineerò solo l’Incoronazione che ritengo, personalmente, la sua opera centrale. Una pala a tre strati, con sotto l’inferno ed il purgatorio, sormontati da una parte centrale con a destra Roma a sinistra Gerusalemme ed al centro la croce, che si allungo verso la parte superiore, toccando il manto della Vergine. Parte superiore riempita di figure e rimandi a personaggi storici e dell’epoca. Quello che sottolinea Iudica è la possibilità che, nel viso della Vergine, il nostro abbia ritratto quanto ricordava delle fattezze di Giovanna d’Arco, laddove, ad esempio, gli occhi allungati non sono di certo caratteristiche mediorientali, mentre erano di certo (almeno nelle descrizioni pervenuteci) proprie della pulzella. Due soli appunti mi perito di portare avanti. Uno riguarda il nome di Enguerrand, che Iudica non esplica, ma che è di interessante genesi, derivante dal germanico Ing- e -hramn. Il primo connotato degli appartenenti alla tribù degli Angli, tedeschi di antica stirpe. Il secondo significante “corvo” nel tardo germanico (come da Beltramo). Per cui Enguerrand sarebbe per “Corvo degli Angli”. Il secondo è l’editing del testo che ha lasciato refusi sparsi di dubbio gusto, e che un bravo linotipista avrebbe di sicuro corretto. Come “mimare” invece che “miniare”, “Prancia” invece di “Francia” o “fame” invece di “farne”. Chi sa di caratteri a stampa mi avrà già capito. Comunque, un volume agile, che si legge velocemente, e che lascia la voglia di andare a visitare un discreto numero di musei cosiddetti “minori”.
Giuliano Pisani “I volti segreti di Giotto” Corriere della Sera Arte 32 euro 7,90
[A: 21/02/2017 – I: 03/09/2018 – T: 06/09/2018] - &&& e ½    
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 313; anno 2008]
Devo dire che queste ultime letture della collana su “L’arte come romanzo” stanno facendo risalire una iniziale china scivolosa, che mi aveva fatto dubitare sull’idea per cui avevo comperato e poi iniziato a leggere questa collana. Qui, il professor Pisani mi ha sorpreso e coinvolto in un viaggio di una bellezza inaudita. Con la sua cultura di filologo classico, con la sua conoscenza delle lingue antiche (in quanto anche professore di latino e greco in quel di Padova), nonché con l’appassionato amore per l’arte e la sua storia. In questo denso eppur scorrevolissimo libro, Pisani ci fa fare un giro completo in una delle (mie) meraviglie del mondo: la Cappella degli Scrovegni in Padova e le impagabili pitture dell’inventore della pittura, Giotto di Bondone. Pisani non è solo un profondo conoscitore della Cappella (che visitai una decina di anni fa, ma che dopo questa lettura devo rivisitare), ma con sapienti tocchi ci fa fare alcuni impagabili viaggi. Il primo nella storia della Cappella stessa, dalla sua costruzione poco dopo il Giubileo del 1300 sino alle terribili distruzioni dovute all’incuria dei proprietari. Per arrivare, finalmente, alla sua acquisizione cittadina, ed alla sua rimessa in sesto (credo avvenuta nei primi anni di questo secolo). Il secondo è con Giotto e la sua pittura, anche se poco si concede alla vita del pittore illustre. Vita di cui poco sapevo, ed anzi pensavo fosse di poco risalto in vita. Alla fine scopro che Giotto è un eccellente amministratore di sé stesso e delle sue fortune. Ed un fine distributore delle sue opere. Il terzo e definitivo avviene passo dopo passo, quadro dopo quadro, per l’intera Cappella. Scoprendone i segreti, le interne alchimie, la bellezza e la molteplicità dei messaggi. Con due punti fondamentali, che ormai tutti riconoscono a Pisani stesso di aver portato alla luce. Il primo è l’idea teologica di tutta la cappella. Un’idea che fin dall’inizio scopriamo essere agostiniana, piuttosto che dantesca. Ma Pisani va oltre, e nel superbo quadro finale, dell’offerta della Cappella da parte di Enrico Scrovegni alla Madonna, ci fa intravedere la mente teologica che ha disegnato il percorso giottesco. Non ne abbiamo certezze sicure, che non vi sono altre figurazioni dello stesso, ma nel frate inginocchiato che sorregge la Cappella, Pisani individua il dotto patavino Alberto da Padova. Teologo poco noto, ma, ad uno studio approfondito, risalta come una delle figure di spicco dell’epoca, predicatore apostolico di Bonifacio VIII per il Giubileo, ed interprete fino della teologia agostiniana. Come risalta dal modo in cui Giotto raffigura l’Annunciazione, nei dieci quadrilobi delle prefigurazioni del Nuovo Testamento, nella posizione contrapposto dei Vizi e delle Virtù, nonché nelle figure antropomorfe del Giudizio Universale. Dove Alberto da Padova utilizza non solo i testi agostiniani, ma anche i Vangeli apocrifi dello Pseudo-Matteo, la “Legenda Aurea” di Jacopo da Varazze, ed altro ancora. Ma sono le figure antropomorfe il secondo punto forte di Pisani. Che ad una analisi attenta del quadro, demistifica la presenza dei quattro evangelisti sotto il mantello del Cristo giudicante del Giudizio Universale, ponendo invece la rappresentazione dei simboli allora in voga del passaggio dall’umano al divino con le quattro figure (un'orsa con un luccio, un centauro, un'aquila/fenice e un leone, immagini che rappresentano allegoricamente il battesimo, il dono dell'immortalità, la vittoria sulla morte, la giustizia). Tuttavia questi sono i punti forti e nuovi. Ma tutto il ciclo della Cappella, come ci viene porto dall’autore, è da seguire con il fiato sospeso. Le Storie di Anna e Gioacchino, di Maria, di Gesù, Allegorie dei Vizi e delle Virtù e Il Giudizio Universale rappresentano un capolavoro assoluto della storia della pittura. Non ho la capacità, né la voglia, di entrare nella descrizione puntuale di tutto il ciclo, che vi esorta a leggere proprio nel libro di Pisani. Mi interessa soffermarmi invece sulle allegorie monocrome che simboleggiano i Vizi e le Virtù. I primi nella parete nord, i secondi in quella sud, rappresentati quindi in coppie contrapposte: Stultitia/Prudencia, Inconstantia/Fortitudo, Ira/Temperanza, Iniusticia/Iusticia, Infidelitas/Fides, Invidia/Karitas, Desperatio/Spes. Dove, unica reminiscenza di passate giovinezza, aveva anche io colto la differenza tra l’interpretazione tomistica: fede, speranza e carità, con le novità agostiniane: fede, carità e speranza. La bellezza della contrapposizione è proprio laddove, superando gli ostacoli dei vizi attraverso la cura delle virtù, si mette in moto il processo di raggiungimento del Paradiso, che deflagra davanti a noi nell’ultimo, impareggiabile quadro del Giudizio Universale. C’è un ultimo elemento di messaggio giottesco nel frontone che portava gli Scrovegni, dopo la messa, a tornare nelle proprie stanze. Due figure contrapposte, che non sto qui ad analizzare puntualmente, che ci vorrebbero pagine e pagine, ma che, sinteticamente, Giotto ci mostra come inizio e fine del nostro percorso. Sulla sinistra lo stolto che siamo entrando nella Cappella, che non sappiamo ancora le Verità rivelate, e sulla destra la conoscenza che ci deriva dall’aver fatto tutto il percorso dalla riconciliazione di Dio con l’uomo al Giudizio Universale. Giotto ci ha fatto vedere, noi, se abbiamo capito, non possiamo essere alieni dal perseguire la virtù. Per questo chiudo con un lungo estratto del libro, quello che per me ha rappresentato la sua lettura, ed il percorso che con Alberto da Padova, con Giotto, con Pisani, ho cercato di fare. Alessandro e Roberto spero nella vostra empatia perché questi dipinti e queste storie entrino in tutti i cuori ed in tutte le menti.
“La Cappella degli Scrovegni ci ha chiamato a vivere un’esperienza complessa in un luogo che non ha uguali al mondo. Ci ha chiesto di leggere dentro di noi, di meditare sulla nostra essenza di uomini. Ci ha posto interrogativi profondi sul significato della vita.
In senso laico e religioso.
Siamo stati invitati a rafforzare la nostra volontà, a curare le passioni, a vincere le tentazioni che minacciano il nostro equilibrio, a riflettere sul fatto che i nostri comportamenti dipendono esclusivamente da noi. Questo richiamo al senso di responsabilità vale per noi, uomini d’oggi, più ancora forse che in passato. Il cuore della concezione della Cappella degli Scrovegni è il concetto etico di giustizia. Non occorre essere credenti per seguire un percorso che ha per obiettivo la felicità in terra. Il libro di Giotto contiene in sé i principi e i valori indispensabili per la vita spirituale e civile dell’uomo: parla di libertà, di giustizia, di pace. Ci dice che la pace è frutto della giustizia e che tutto, compresa la felicità, deriva dalle nostre scelte e dalla valutazione che diamo degli eventi. Ci addita i valori della riconciliazione, della fraternità, dell’umiltà. Ci indica la terapia per renderci migliori.
L’altra felicità necessita di fiducia nella parola di Dio, passa attraverso la scelta dell’amore e si alimenta della beata speranza.
La via maestra è l’amore.” (249)
Marina Fiorato “La ladra della Primavera” Corriere della Sera Arte 26 euro 7,90
[A: 10/01/2017 – I: 07/09/2018 – T: 13/09/2018] - &&&-- 
[tit. or.: The Botticelli Secret; ling. or.: inglese; pagine: 455; anno 2010]
La prima sorpresa è che l’autrice, Marina Fiorato, non è italiana, ma inglese, sebbene di padre italiano. E che il libro, piuttosto che l’anodino titolo italiano, meritava più consonamente il titolo inglese “Il segreto di Botticelli”. Ma il divino Sandro è un “intoccabile” del Rinascimento italiano, quindi, pur parlando di un suo dipinto è meglio usare vie traverse. La seconda è che, benché pieno di personaggi, con un mixage degno del miglior Dan Brown, di Botticelli si parla poco. O meglio, si parla molto della Primavera, il quadro al centro del libro. Ma poco dell’autore e della sua vita. Autore che di nome faceva Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi, che verrà detto Botticelli dal nome della professione del fratello, orafo, o come si diceva al tempo “battiloro” o “battigello”. Da cui con facili passaggi… Allievo di Filippo Lippi, il nostro Sandro, già a 25 anni si mette in proprio. Poi gira per l’allora disunita penisola italica, lavora alla Cappella Sistina, per poi diventare, dai trenta anni in su, il pittore ufficiale della famiglia Medici. In auge per una decina d’anni, dopo il 1490 incomincia il declino, prima per i problemi morali indotti dalle predicazioni del Savonarola, poi per la difficoltà di mantenere alta una produzione in quella che per l’epoca era una tarda età, anche per la competizione con l’astro nascente Michelangelo (di trent’anni più giovane) o con il multiforme Leonardo (quasi coevo). Ma di tutto ciò nulla ci dice la pur simpatica, in scrittura, Marina, che imbastisce invero un bel pastiche adottando una delle interpretazioni, tra le tante, dell’opera botticelliana, e seguendo ovviamente tutt’altra strada. Quella, più divertente, della vita e delle “Opere” di Luciana Vetra, modella part-time e prostituta a tempo pieno. Poiché il dipinto de “La Primavera” viene commissionato a Botticelli per la celebrazione delle nozze del ramo cadetto della famiglia Medici, quel Lorenzo di Pierfrancesco che stava per contrarre matrimonio con una delle più belle donne dell’epoca, Semiramide Appiani, l’autrice, seguendo l’interpretazione che ne dà il prof. Guidoni, sposa la tesi “storica”. Tesi che vedrebbe rappresentate nelle figure le città dell’epoca: Mercurio come Milano, Cupido come Roma, le Tre Grazie come Pisa, Napoli e Genova, Venere come Venezia e Borea come Bolzano. L’idea è che una serie di queste città, con l’avallo di Roma (cioè del Papa Sisto IV) volevano consorziarsi, con l’aiuto dell’asburgico Sigismondo ‘Austria, reggente del Tirolo, per creare già alla fine del 1400, il Regno d’Italia. Tenendo questa interpretazione sullo sfondo, quello che interessa alla scrittrice, invece, è il percorso sociale di Luciana, le sue vicissitudini, il suo incontrarsi con la Storia. Lei, veneziana, arrivata in modo strano in quel di Firenze, accolta dalle suore, da dove, quattordicenne (più o meno), scappa. Per introdursi nel mondo delle prostitute, e con discreto successo. Per la bellezza e per la spigliatezza. Tanto da essere scelta da Botticelli come figura per la rappresentazione di Flora nel dipinto del titolo. Luciana, ignara e maltrattata da Botticelli, fugge trafugando lo studio preparatorio al dipinto. Da lì le sue sventure: vengono via via uccise tutte le persone che le stanno intorno, tanto che l’unico modo per salvarsi è chiedere la protezione di un frate, il mite Guido della Torre. I due, con molta difficoltà, fanno sodalizio. E cominciano una specie di giro d’Italia, per le città del dipinto, per decifrare il “vero” messaggio contenuto nel quadro. Ci metteranno più di 400 pagine, e non so quanti morti. Guido avrà anche una crisi religiosa, dopo che scopre essere anche il Papa all’interno della congiura, e acquiescente alle uccisioni perpetrate. Ovviamente ci saranno sorprese, che Luciana si scopre essere la figlia di una facente funzioni di moglie del Doge di Venezia, chiamata familiarmente “la Dogaressa”. Si scopre che Guido è l’erede di una delle grandi famiglie pisane, essendo il suo nome per intero Guido della Gherardesca della Torre. Ci saranno incontri, tra il divertito ed il divertente, con diversi personaggi. In primis, il maestro di navigazione messa a disposizione dalla ritrovata madre, che si scopre essere Cristoforo Colombo. Poi le macchine da guerra nascoste nel Castello Sforzesco di Milano, realizzate dal giovane Leonardo. Non vi darò tutti i dettagli della congiura (che alla fine è divertente scoprire nella decrittazione finale del quadro). Ma non ci sorprenderà il lieto fine che già si annunciava a pagina 10 del testo. Insomma, poche sorprese. E molti rimpianti di non aver seguito per nulla le storie di Botticelli, delle sue avventure e dei suoi bellissimi dipinti. Ma in particolare, la mancanza, nel testo italiano, di alcune riproduzioni del quadro che avrebbero di certo aiutato a seguire la trama.
“Amore è quando qualcuno ti piace talmente tanto che devi dargli un altro nome.” (425)
Seconda domenica del mese, e piccola digressione, ma non molto intensa, dedicata ai libri che dovrebbe leggere un quarantino (come direbbe Camilleri).
Il Natale avvicina i suoi giorni a grandi passi, portando tutti a riflettere su molte cose. Io mi dico alle mie riflessioni personali, alle “piccole cose di tutti i giorni” (cit. Gozzano) e agli orizzonti collinari pirandelliani. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

DICEMBRE 2018
Seppur lontani nel mio tempo, pensavo che queste ricorrenze meritassero libri a me più vicini.

QUARANT’ANNI, AVERE

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER QUARANTENNI
Vittorio Alfieri            “Autobiografia”
J. G. Ballard              “La gentilezza delle donne”
Saul Bellow               “La resa dei conti”
Nikolaj Gogol'            “Taras Bulba”
L. P. Hartley              “L'età incerta”
A. M. Homes             “Che Dio ci perdoni”
Jack London              “Martin Eden”
Mario Vargas Llosa     “La zia Julia e lo scribacchino”
Stephen Vizinczey      “Elogio delle donne mature”
Evelyn Waugh           “Una manciata di polvere”

Bugiardino

Allora, e come non ricordarne seppur fugacemente, ricordo momenti giovanili passato sul Bellow di mio padre, sul Gogol’ di mia nonna e sul mio Jack London. Come ricordo il da me non molto amato Vargas Llosa. Altri non ne lessi né ricordo granché, di modo che la mia attenzione riposa solo su Evelyn Waugh.
Evelyn Waugh “Una manciata di polvere” Bompiani euro 9,50
[tramato il 24 gennaio 2016]
Mi aveva sempre incuriosito (e ne avevo accennato parlando di quel libro che mi aveva preso di lui, “Quando viaggiare era un piacere”) il nome dello scrittore Waugh. Che ho scoperto, primo chiamarsi per esteso Evelyn Arthur St. John. E poi, anche se non molto usato, essere un nome ambivalente, maschile (poco) e femminile. Tanto ambivalente che la prima moglie del signor Waugh si chiamava Evelyn Gardner, e che, per distinguerli, gli amici li chiamavano He-Evelyn e She-Evelyn. E non è solo un gossip questo inizio, che in questo che è considerato il capolavoro dell’agre scrittore britannico, pare che molta parte del personaggio di Brenda Last deriva proprio dalla prima signora Waugh, sposata nel 1928 e divorziata nel 1930. Possiamo così passare a parlare di questo libro, considerato un capolavoro d’ironia e di satira. Senza dubbio Waugh ha una scrittura graffiante, per l’epoca della scrittura (siamo nel 1934), ma sono graffi che sentono il passare del tempo, almeno in gran parte. La storia ruota intorno alla famiglia Last, erede della tenuta degli Hetton nella campagna inglese. Abbiamo Tony, il marito; Brenda, la moglie; e John Andrew, il figlio. E tutta la prima parte direi che è ancora discretamente godibile. Entriamo, infatti, nelle stanze della residenza gotica di Tony, trentenne che dopo alcuni anni di godibile vita mondana in quel di Londra, con matrimonio con la bella Brenda e nascita del figlioletto, si ritira in campagna, elemento più consono alla sua natura. E fin dalle prime battute, e poi per tutto il libro, andremo a sbattere con la sua incapacità totale di adeguarsi e capire il mondo. Pensa che tutti siano felici di vivere in campagna, senza accorgersi che Brenda ormai se n’è stufata. Pensa che Brenda voglia un pied-à-terre a Londra per studiare economia, mentre lei lo usa per le sue avventure mondane. Pensa che John Beaver sia uno scocciatore poco sopportato dalla moglie, mentre Brenda usa il suo localino londinese per le sue scappatelle proprio con il suddetto John (che poi risulterà comunque soltanto un arrampicatore sociale, e non sarà né di aiuto né di conforto quando Brenda avrà difficoltà). Pensa che la principessa (finto) araba sia un’amica di Brenda, quando è proprio Brenda che la assolda per cercare di dare un’alternativa a Tony, visto che ormai lei è presa da John. La prima parte finisce tragicamente quando John Andrew muore cadendo da cavallo. E qui vorrei rilevare che questo è il terzo libro in pochi mesi in cui c’è un ragazzo che muore ed intorno alla cui morte si dipanano le parti forti della vicenda (oltre a questo, vi ricordo “Quello che ho amato” di Siri Hustvedt e “Sportwriter” di Richard Ford). Qui si dimostra tutta l’intensa cattiveria di Waugh. Quando a Brenda si comunica la morte di John, pensa alla morte dell’amante, e quando scopre che è “solo” il figlio, tira un sospiro di sollievo. Tony poi non riesce neanche ad organizzare un funerale decente. In seguito alla morte, Brenda lascia definitivamente Tony. Ed anche qui, il nostro imbecille ne combina di tutti i colori. Pensa che Brenda voglia un divorzio amichevole, e cade dalle nuvole quando scopre l’ammontare degli alimenti richiesti. Pensa di poter inscenare un divorzio per colpa, ma fa una pessima figura assoldando una signorina per far finta che sia la sua amante e questa si presenta con … la figlia. Deluso ed irretito da un ciarlatano finto viaggiatore, Tony decide di partire per il Brasile. In nave fa la sua ultima figura da niente, non capendo i sentimenti che per lui sta provando una signorina di Trinidad, e la lascia bellamente andar via. Ritrovandosi poi nella selva, dove il ciarlatano muore, lui prende la malaria, e viene curato da un eremita analfabeta. Anche qui Tony non capisce nulla, pensando al signor Todd come ad un benefattore, quando questi lo sequestra, lo usa per fargli leggere il suo amato Dickens, e informa Londra che il signor Last è morto. Brenda intanto, senza aver ottenuto alimenti, viene lasciata dal misero John, e si consola con il deputato Jock (altra figura barbina, che per tutto il tempo, per fortuna poco, in cui compare, non pensa altro che a fare un’interpellanza parlamentare sui suini; ovviamente altra macchietta di Waugh). Ed il maniero degli Hetton rimane nelle mani dei cugini di Tony. Insomma, Tony per tutto il libro non ne fa una giusta. Brenda è simpatica nella prima parte, poi, dal tentato divorzio (anche perché in questo Waugh tiranneggia l’altrettanto da poco divorzianda prima moglie) perde sempre più colpi. La parte finale poi, è molto appicciata. Tanto che non mi sono meravigliato quando ho scoperto essere una novella pubblicata in precedenza da Waugh, e poi adattata a romanzo. Con un andamento che mi sembra ripreso molto da quel posteriore (ed anch’esso a me poco piaciuto) libro di Saul Bellow “Il re della pioggia”. Insomma, una serie di frecciate, molto legate agli anni Trenta della Swinging London, ma ora abbastanza spuntate. Sì, bel libro, bella scrittura, anche bell’adattamento cinematografico (ne uscì pochi anni fa un film dal titolo “Il matrimonio di Brenda” con un bel cammeo di Alec Guinness). Ma molto poco di più di così. Meglio Waugh quando parla dei suoi viaggi.

Conclusioni

Come detto, pensavo ad altri e più vicini libri per i miei lettori quarantenni. Questo (e gli altri citati) non mi convincono molto. Una cura poco efficace ad una malattia che si cura solo con il passar del tempo.