domenica 27 aprile 2014

Gialli Mondadori - 27 aprile 2014

E vorrei sottolineare la seconda parola piuttosto che la prima. La mia libreria è piena (e assai) di gialli et similia di autori italiani. E spesso nel passato, Mondadori offriva il primo palcoscenico per questi autori, soventi di buon interesse. Ribadisco invece che, da quando c’è la gestione Costanzo della collana, la resa è andata sempre più calando. Non che non ci siano autori promettenti (come Andrea Franco), o autori storici (come Annamaria Fassio). Ma autori vecchi e nuovi (come Lenzi e la Musneci) si adagiano su trame leggere, poco incisive, quando non sentite e risentite. Come dire, purtroppo.
Andrea Franco “L’odore del peccato” Mondadori euro 4,90
[A: 08/10/2013– I: 15/12/2013 – T: 17/12/2013] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 173; anno 2013]
Un buon esordio per un giovane scrittore; anche se poi non è un esordio e Andrea Franco è “anche” scrittore, oltre ad essere musicista (e sicuramente giovane, dati i suoi 35 anni). Intanto, però, risolleva le sorti del giallo italiano le cui penultime letture non mi avevano soddisfatto. Non le ultime, che Carlo Giordano è stato interessante. Poi, ripeto, non è neanche un esordio né per i libri né per il personaggio. Franco ha infatti pubblicato il primo libro nel 2008. E Monsignor Verzi è comparso già nel racconto “L’odore del dolore”, uscito nell’antologia “Giallo 24” di Mondadori a gennaio. Ma questo che ho appena finito di leggere, si alza un po’ (come detto), e non è un caso che sia stato risultato vincitore del Premio Tedeschi (che ha sempre dato buone prove nelle ultime 5 edizioni, almeno). La sapiente scrittura di Franco ci conduce così, se non alla nascita, al consolidamento di un buon personaggio, e ad una trama che si colloca diligentemente in un corretto solco storico. Ecco, questi già due buoni elementi. Siamo al 16 giugno del 1846, data dell’elezione a pontefice di Pio IX, papa Mastai per i romani. Ed è altrettanto vero che l’imperatore Federico di Germania tentò di bloccarne l’ascesa al soglio pontificio, tramite il cardinale di Milano, che però non giunse in tempo a Roma. Tralasciando le disquisizioni storiche (che pur sarebbero di interesse), su questa tela si tesse l’intreccio “giallo” pensato da Franco. Un prete al seguito del cardinale viene ucciso. Date le premesse è interesse forte del papa risolvere il problema, e togliere ogni velo al mistero. Si affida quindi al simpatico monsignore. Ed alla sua peculiarità: quella di sentire gli odori. Qui Franco scivola un po’ su solchi già noti, anche se ne fa usi diversi. Non dico tanto di rifarmi a "Il Profumo" di Suskind, quanto, mutando per non cambiare, alla dote peculiare del commissario Ricciardi del bravo de Giovanni. Questi sente le ultime parole dei morti di morte violenta. Verzi sente gli odori, le loro persistenze, soprattutto in particolari momenti topici. Ed è sul corpo del povero don Pasquale che appunto sente un odore particolare, pungente ma fragrante. Ma il Papa lo incarica di svolgere un’inchiesta sulla vicenda, ed oltre a questa traccia, don Attilio deve seguire le normali trafile poliziesche. Viene messo su un Ufficio Inchieste, dove gli viene affiancato il simpatico don Giani, sempliciotto all’inizio, poi invece con uscite illuminanti, che servono a don Verzi per focalizzare i suoi pensieri. Tanto che alla fine mi sembrano quasi un Conan Doyle in minore, con profumo d’incenso. L’inchiesta porta poi do Verzi ad indagare sulle ultime ore del morto. E su dove alloggiava. Qui facciamo il secondo buon incontro, con madre Rebecca, la giovane Madre Superiore degli alloggi ecclesiastici. Che spiano una serie di strade a don Verzi (cos’ha fatto il prete, dov’è stato, con chi ha litigato), ma soprattutto instaurandosi tra i due un rapporto di stima, basato sul comune intendere del proprio ruolo come missione verso i poveri ed il prossimo in genere, e non come elemento di comando. In questa Roma di metà Ottocento, cammina don Attilio sempre seguendo tracce di personaggi e di storie (eliminando ad uno ad uno possibili scenari che avrebbero portato all’uccisione del prete) ed anche tracce di odori. C’è una bella scena di confronto tra don Giani e don Verzi, sul fatto che, non conoscendo la provenienza di tutti gli odori del mondo, sia difficile per il nostro “naso da tartufi” associare odore ad oggetti. Ma ci si riuscirà. E seguendo le tracce di un profumo, si arriverà ad una donna che aveva chiesto aiuto al prete per evitare un matrimonio combinato, suscitando però gelosie nel futuro possibile marito. Sia verso il prete morto sia verso un altro prete, dalla donna indicato come suo nascosto spasimante. Il confronto tra tutte le versioni della notte fatale, porterà alla soluzione del problema. Lasciando definitivamente fuori la politica dalla tragica morte. Ed in un idilliaco epilogo, don Attilio e suor Rebecca, si confidano l’un l’altro, lasciando presagire un futuro di buona e fruttuosa amicizia. Ecco, la trama gialla non è il massimo ed un po’ affrettato il finale. Come leggermente troppo insistiti i tentativi di abbinamento tra odori e figure demoniache. Ma la lettura è godibile, e, spero, seriabile. Un piccolo post-scriptum personale: c’è un personaggio minore, frate amanuense, cui don Verzi affida delle scritture. Si chiama frate Attenni, ed ogni volta che lo incontro penso ai mitici sponsor della mia blues band preferita: i Niente di Precyso. Chissà se si avrà il tempo di tornarci su.
“È vero che nella vita non conta quello che fai, ma come lo fai.” (159)
Annamaria Fassio “Controcorrente” Mondadori euro 4,90
[A: 02/08/2013– I: 31/01/2014 – T: 02/02/2014] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 186; anno 2013]
È un po’ di tempo che non tornavo sulla scrittrice genovese e sulle imprese della sua “banda” di poliziotti. Sono contento quindi di ritrovare il commissario capo Erica Franzoni e il vicequestore Antonio Maffina. Una nuova storia, un nuovo capitolo. Si procede e si cresce (si invecchia?). Perché molti sono ormai i libri che la Fassio dedica alla coppia. Li abbiamo visti ad inizio carriera, con altre storie alle spalle. Poi il loro amore “segreto”, la carriera che procede, i due anni di Maffina in riabilitazione dopo la sparatoria. Ora vivono insieme, e, tanto per dare un tocco al tutto, e visto che hanno un po’ di anni di differenza, entrambi che sembra abbiano anche nuove pulsioni. Soprattutto la più giovane Erica, attratta dal nuovo arrivato Max Rigon. Serve di tutto per dare condimento alla storia, diciamo al contorno, alla vicenda umana. Come le altre micro - vicende, ad esempio quella dell’ispettrice Ida Merenghini con il padre parkinsoniano e la badante colombiana. Ed anche la storia è ben ingrossata, in particolare per farci entrare i nuovi cattivi. Ovunque si sa avanza la mafia russa, anche se qui i cattivi sono ucraini. E come in altre storie (penso ad Heinichen o De Cataldo), cattivi legati a filo multiplo a quel coacervo di possibilità del male che rimane per tutti Chernobyl. Volendo semplificare, comunque, c’erano una volta dei sodali ucraini, trovatisi nel corso della vita su sponde disparate. Nestor nella polizia, Dimitrij nella mafia e Viktor solitario Robin Hood. Viktor ha una figlia, che con la moglie emigra in Italia. Raisa, la moglie, finisce ben presto in carcere per droga, ed Olga viene affidata ad una famiglia italiana. Tutto si muove dalla scomparsa di Olga sedicenne. Nessuna traccia, una lettera che annuncia la sua fuga verso l’Ucraina, dove non arriverà mai. E subito si complica prima con la morte di un esibizionista, tal Francesco. Della cui uccisione si incolpa la matura Leonia, scoprentesi poi contabile di un bordello per adolescenti, che sicuramente aveva avuto tra le ospiti la giovane Olga. Ma anche la bella Linda (ma quell’inciso con la canzone di Battisti ce lo potevate risparmiare…). Studentessa di lingue, tra cui il russo, che capta qualcosa dei magheggi degli ucraini. In particolare dell’intesa tra Dorian il teppistello e Adriatico, gestore di un circo con uno strano giro di organi animali. Non a caso entrambi ucraini. Per questo Linda viene uccisa a colpi di bastone, con ferite simili a quelle di Francesco. Ed altrettanto analoghe a quelle che procurano la morte ad un piccolo spacciatore, Esteban, figlio della badante di cui sopra. L’azione, ogni tanto, si sposta in Ucraina, dove, e non è un caso, si sta organizzando una vendita di materiale radioattivo. Che Dimitrij cerca di vendere agli arabi, senza sapere che sono americani in copertura. Che Dorian cerca di intercettare, utilizzando le bande di Adriatico. Che Viktor cerca di sconfiggere, coinvolgendo il poliziotto Nestor. Ci stupiamo che ne uscirà fuori un massacro colossale, dove l’unico a salvarsi sarà proprio Viktor. Che aspetta sempre la figlia. Che nel bordello trova anche il padre adottivo, pedofilo mancato e stupratore di adolescenti. Che si rifugia nella tana di Francesco. Ma che succede quando questi muore? E perché Dorian scappa con il circo? E come mai Dimitrij lo denuncia invece di proteggerlo? E soprattutto, perché Leonia si è accusata dell’uccisione di Francesco quando nessuno glielo aveva chiesto? Sarà che forse anche lei è ucraina? Maffina, seguendo le tracce della morte di Linda, e Franzoni, seguendo quelle di Olga, convergono alla soluzione (abbastanza ovvia) del caso. Che alla fine lascia sul terreno molti più morti di quanti siano morti in realtà. La materia è forse un po’ troppo articolata, e ci si perde un po’. La tecnica della Fassio è ben collaudata, con flash-back, diari ed altre accortezze da abili maneggiatori del genere. Una lettura andante, magari davanti ad un camino, con una grappa, e qualche dolcetto invernale. Non molto di più.
Umberto Lenzi “Delitti a Cinecittà” Mondadori euro 4,90
[A: 07/09/2013– I: 03/02/2014 – T: 04/02/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 187; anno 2008]
Un libro che ha degli spunti di interesse, però più sul piano esterno al giallo cui si ascrive come collana. Intanto, pur essendo del 2008, solo lo scorso anno, per dar lustro al più che ottantenne autore, viene pubblicato nei Gialli Mondadori. L’autore, infatti, non è un giallista, ma un ben noto regista, seppur di polizieschi (e non solo), e spesso violenti. Lenzi ha firmato nella sua carriera film come “Napoli violenta” o “Milano odia”, ha lanciato attori di cult come Maurizio Merli o Tomas Milian. Ora, che difficilmente torna sul set (l’ultimo film è di venti anni fa), si ricicla, un po’ alla Camilleri, come autore. Purtroppo, come i suoi film “poliziotteschi”, anche il giallo che firma non ha una gran trama. Anche qui, il punto di interesse è l’ambiente in cui si svolge la trama. Siamo, infatti, per gran parte del libro, negli studi di Cinecittà. Siamo nel mese di aprile del 1940 (e non a marzo come dice la quarta), si sentono arrivare i clamori della guerra. Ma le ricostruzioni degli ambienti cinematografici, con tutti i cammei che girano intorno ai protagonisti, sono di sicura efficacia (e devo dire, per quanto ne conosca, di giusta ambientazione). C’è Blasetti che gira “La corona di ferro”, con Gino Cervi, Massimo Girotti ed Elisa Cegani che si aggirano tra le quinte. C’è il suo aiuto regista, l’ottimo Renato Castellani. E poi entrano ed escono dai teatri di posa, Vittorio De Sica che sta girando il suo primo film da regista (il misconosciuto “Due dozzine di rose scarlatte”), e Totò alle prese con “San Giovanni decollato” (e qui Lenzi eccede un po’ nella macchiettistica, inscenando un duetto tra il Principe ed un poliziotto, che usando i toni del comico risulta un po’ forzato). La cosa migliore, è il protagonista, l’investigatore Bruno Astolfi, squattrinato ma ben introdotto nell’ambiente. Non solo, ma anche “in odore di eresia”, allontanato dalla Polizia per non aver preso la tessera del Fascio e con un fratello morto in Spagna a difendere la Repubblica dai franchisti. Accanto, la cosa peggiore. Che a chiedere il suo intervento è una coppia di attori, poi famigerata per altre vicende. Luisa Ferida è minacciata di morte, e varie volte attentano alla sua vita. E Osvaldo Valenti reclama i servizi di Astolfi. Peggiore perché Lenzi ne tratteggia un risvolto umano quasi piacente. Non che si sappia tutta la verità, ma l’appoggio incondizionato al regime dei due, la loro successiva adesione alla Repubblica di Salò, nonché la quasi certa partecipazione, almeno di Valenti, alla famigerata Banda Koch, non ne fanno certo personaggi su cui appuntare le simpatie come sarebbe necessario dalla storia. Storia in sé come detto banalotta. Si cerca di colpire la Ferida, in quanto un anno prima l’automobile di proprietà di Valenti ha investito ed ucciso la giovane comparsa Giuliana. Valenti ha un alibi, ma l’assassino non lo sa. Sa però che erano in due sull’auto. E scoperto il secondo in un attore di mezza tacca, lo fa ben presto fuori. E viene uccisa anche la compagna di questi, fioraia in quel di Littoria. Ben presto Astolfi si convince che deve essere un amante di Giuliana. Intercetta il fidanzato, ma è un ladruncolo da quattro soldi, ben presto depennato dalla lista. Lista dove rimane ai primi posti, Enzo, la controfigura di Osvaldo. Che aveva una storia con una figurinista, licenziata poco prima dalla Ferida. E che quindi poteva serbare rancore. Quando anche Enzo muore, Astolfi deve arrendersi all’evidenza: l’assassino è un altro. E la menomazione che cita la zia di Giuliana, fa andare tutto a posto. Peccato che l’assassino compaia in qualche scena, ma in modo irrilevante. Così come nei film di Lenzi, dove il nocciolo da seguire non è la trama in sé, a volte spesso un pretesto per le sparatorie e la violenza (e non è un caso che Lenzi piaccia molto a Tarantino!). Insomma, un buon lavoro di ricostruzione ed un sentito omaggio al cinema e a Cinecittà, ma un romanzo solo sufficiente. Anche se, e lo ribadisco, alcuni elementi della sceneggiatura accrescono il senso di immersione nell’epoca: la Lancia Ardea guidata dalla Ferida, le canzoni citate, il doppio kummel, le stradine del centro, la descrizione di Piazza Re di Roma e della lunga Tuscolana per arrivare a Cinecittà. Purtroppo tuttavia ci sono errori anche qui: non esiste nessuna Alfa 2000, ma un’Alfa 2300, e nel periodo citato la Roma non subì nessun rigore contro, ma solo uno a favore messo a segno dal mitico argentino Miguel Angel Pantò (certo che io a volte sono uno scassapalle, eh…).
Marzia Musneci “Lune di sangue” Mondadori euro 4,90
[A: 10/02/2013– I: 11/02/2014 – T: 11/02/2014] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 222; anno 2013]
Ad un anno esatto dall’acquisto, e dato che per colpa di un’influenza debilitante sto praticamente chiuso in casa cercando di farmela passare, ho letto, e direi divorato questo secondo libro della simpatica ex-attrice, ex-tante altre attività, che vive ai Castelli Romani, e che dopo il simpatico “Doppia indagine” del 2011, ritorna in campo con l’omoiniziali Matteo Montesi. E se da un lato ritroviamo con simpatia lo scanzonato investigatore, e vediamo con piacere che prosegue (e per il meglio) la sua storia con l’agente Cristiana, è meno coinvolgente sia l’impianto della trama, sia il fatto che la storica Rete, che aveva consentito a Matteo di risolvere il precedente caso, qui si nomina qua e là, ma fa veramente poco. La storia, anche sta volta, si svolge ai Castelli. Con qualche puntatina verso San Lorenzo. Il tutto innescato dal ritrovamento di un cadavere senza mani, con tante pugnalate e nudo, ritrovato in una grotta, per altro adusa a riti tra il satanico ed il bucolico. Mentre Cristiana si occupa del morto, Matteo è convinto da Valentino, amico giornalista, ad occuparsi del ritrovamento di un ritratto di  una bellissima donna,  Vittoria, pare attribuito al pittore tedesco Friedrich Overbeck (e questo è reale, che il dipinto della bella Vittoria si trova al museo di Monaco, e Vittoria era talmente bella che anche Goethe ne aveva un ritratto nel suo studio). Ad ingaggiarlo una discendente di questa, Arianna, un po’ sbandata con la madre che continua a foraggiarle la vita, non ultimo un pub di tendenza a San Lorenzo, il Vittoria C. Anni prima Arianna aveva avuto una storia con un tossico, l’aveva “redento”, e Gualtiero, per ringraziamento, l’aveva mollata ed aveva sposato Irene. Arianna era stata mollata anche poco prima da tal Alex (ma vuoi vedere…). Anche Gualtiero viene fatto fuori, e con la stessa modalità del primo morto. Poiché tutto ruota intorno ad Arianna, le strade investigative di Matteo e Cristiana non potranno che incrociarsi. E cominciare ad indagare anche sul giro degli adepti di Diana (cosa facilissima trovare intorno al lago di Castel Gandolfo, così perfetto, e così pieno di storie risalenti a Roma antica, ed anche prima). Si imbattono così nella strana figura di Lorena, una sacerdotessa in capo, ma più che altro, innamoratissima di Arianna, e che cerca di proteggere in tutti i modi. Soprattutto nel locale di San Lorenzo, dove, ogni volta che ci va Matteo o parte della sua Rete, si imbattono sempre in tre loschi figuri che hanno tutta l’intenzione di coinvolgere il locale in qualche giro losco. Dato che porti, aeroporti e stazioni stanno diventando difficili, i clan stanno iniziando ad usare il trasporto su ruote. Ed allora cosa meglio di San Lorenzo, con il suo scalo dedicato a camion ed affini? Intanto, Valentino viene quasi ucciso, e confessa a Matteo che sta seguendo una pista di camorra, che porterà a clamorose rivelazioni. Lorena viaggia sul filo del rasoio, organizzando, oltre che ritiri spirituali, anche serate da scambisti (e tutto all’ombra dei Castelli Romani). Ed anche questa attività viene disturbata dai cattivi. Ormai Mat e Cri viaggiano di concordia, anche se un poliziotto è sempre un poliziotto, e deve dar conto al proprio capo, che tonto non è. La situazione precipita quando, per proteggere Arianna, Lorena fa la voce grossa al pub, ed i camorristi la uccidono, e rapiscono Arianna. Cristiana è di vedetta e li segue. Matteo capisce che c’è sotto qualcosa di grosso e tramite il cellulare acceso di Cri scopre dove sono andati a finire. Perché ormai Valentino ha mollato parte dell’inchiesta. Ci sono due clan che si danno fastidio. Ed Alex era figlio del capo di uno dei due clan. Forse voleva restare pulito, ma per piegare Ari, lo fanno fuori al pub, tagliandogli le mani. Ari e Lorena, per sviare le indagini, lo portano nella grotta, dove li vede Gualtiero. Durante un alterco con i cattivi, a Lorena sfugge questo dettaglio, e così Gualtiero è servito. Intanto, Valentino  si stava avvicinando troppo al centro dei problemi, e così si spiega l’attentato che subisce. Ed il padre di Alex, per controllare la vicenda, da mesi sta in incognito sul luogo, e scopriremo che… Ovviamente Matteo quando arriva, scopre che Cristiana è stata anch’essa presa, ed anche lui viene stordito e messo fuori combattimento. Fortuna che la polizia è ben vicina e sta per fare irruzione, ma prima, arriva il padre vendicativo e … Tutta questa parte la lascio all’immaginazione di voi buoni lettori. Ma come vedete, la trama è poca cosa, qualcosa per cercare di farne un hard boiled alla romana senza tanto riuscirci. Meglio le schermaglie tra i nostri due eroi, con Cri che vuole andare a Quantico a fare un corso di profiling (ma solo lì lo fanno, in tutto il mondo?), oppure, in alternativa, vuole un figlio con Matteo. Non vi dico la soluzione di quest’ultimo rebus. Ripeto solo, come dissi due anni fa: onesta scrittura, piacevole lettura, forse un po’ più di grinta non avrebbe guastato.
Chiusi in casa, assediati da torme di pellegrini cantanti, scrivo queste righe ritemprandomi dalle vacanze scozzesi, aspettando un week-end campagnolo e programmando l’estate. Un deserto tunisino si affaccia all’orizzonte. Per il resto vedremo. 

lunedì 21 aprile 2014

Zafferano di Pasqua - 20 aprile 2014

Non è una trama di cucina, né una trama pasqualina, ma la lode ad una spezie che nell’immaginario italiano è legata a Milano ed al colore giallo (nonché ai presenti giorni festivi). Qui parliamo soprattutto di Milano (anche se c’è qualche puntata tra Ostia, la Toscana ed il Piemonte). E torniamo a parlare di gialli italiani, trovando un vecchio amico, l’ex-architetto Gianni Biondillo, quella strana coppia composta da Colaprico e Valpreda, nonché l’ex-segretario del partito radicale Giovanni Negri, qui in veste assoluta di scrittore.
Giovanni Negri “Il sangue di Montalcino” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 06/02/2013– I: 19/11/2013 – T: 21/11/2013] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 282; anno 2010]
Quest’anno ha visto l’ingresso nella mia biblioteca di una grande massa di scritti dedicati a gialli italiani ed a vari personaggi di commissari, ispettore ed altro. Probabilmente il mercato editoriale ha ben visto la possibilità di un mercato utile in questa fascia, che molte sono state anche le pubblicazioni dedicate al giallo italiano (e ci si tornerà in altre trame). Letto quindi nella fascetta del titolo che si tratta di un’indagine del commissario Cosulich, mi affretto a comprarlo senza altre indagini (ah ah). Ed ora ne leggo e ne tramo, prescindendo sempre dal resto (anche se qualcuno mi insegnò la necessità di parlare di testo e contesto, ma ci si tornerà). Il libro in sé è devo dire gradevole, con alcuni buoni spunti. Tuttavia è un po’ rovinato da un finale non all’altezza. Intanto siamo nel mondo del vino (come già suggerisce il titolo) ed alle indagini successive alla morte di un eminente enologo. Il commissario Cosulich, aiutato dal fido ispettore Mastrantoni, che nulla sa di enologia è catapultato da Roma alla ricerca di una soluzione al mistero. Cosulich si muove male in un ambiente che non conosce, stretto da sue angosce private (lo strano rapporto con tal Margherita, sua ex, che … e non ve ne dico di più). La parte migliore del libro è tutta questa prima agnizione, cui seguiamo il commissario addentrarsi nelle segrete cose dell’enologia e della viticultura. Certo anche noi qualcosa si conosce, ma non è male questa parallela indottrinatura su questo mondo. Sulla vite e le sue origini, sulle proprietà curative del vino, sull’uso dello stesso nel corso dei secoli, sul piantare certe colture in ambiti appropriati, sull’affinamento dello stesso, sulle polemiche tra botti di rovere di Slavonia e barriques francesi, sull’uso dei trucioli (in gergo chips) per dare velocemente ed a basso costo un sapore legnoso al vino stesso. Si vede subito che l’autore sa di vino, e con passione. Questo contorno enologico fa da gran gala alla ricerca delle motivazioni della morte di Roberto Candido, l’enologo ucciso in Montalcino. Vediamo quindi affacciarsi sulla scena dei personaggi che stereotipizzano il bene ed il male di questa professione. La scrittrice di vino che cerca di vendere soluzioni a basso costo per il mercato cinese. Il dotto (!!) professore che trova la sua strada con l’eno-cosmesi. Il responsabile francese dell’industria delle piccole botti. Il dandy americano che prova a dare rango nobile allo Zinfandel californiano (che tuttavia non è altro che Primitivo trasportato da frati pugliesi missionari a Los Angeles). Il grande esperto che vede minacciato il suo mondo di equilibri enologici tra gran cru francesi ed italiani. La piccola produttrice emiliana confidente del morto. La giovane produttrice piemontese del Barolo più alto del mondo, in quel di Serradenari. L’enologo georgiano che esporta nel mondo la visione dei vini primevi della Colchide. L’illustre professore arabo enologo e islamista in Marsiglia. Il geologo esperto della terra e delle sue contaminazioni. Tutti sembrano avere motivi di risentimento verso il morto che, battitore libero e studioso, cercava nuove strade per il vino e vecchi riscontri. Cercava di trovare territori nuovi per vecchi vitigni, mettendo in crisi possibili marcati stabili. Scriveva articoli di fuoco contro le barriques. Trovava nuovi elementi chimici per la disinfestazione del territorio (utilizzando l’argento colloidale dagli studi esoterici di Paracelso). Nonché si proponeva di realizzare una mappa dei possibili territori su cui impiantare brillantemente vitigni. Esplorando a fondo computer della vittima e riscontri vari, da questo punto in poi la vicenda si smoscia, e da giallo interessante scade a tentativi (non molto riusciti) di darne rilievi politici internazionali. Che il territorio scoperto da Candido si trova nei paesi islamici, con conseguenti problematiche geopolitiche rispetto all’uso del vino nel mondo mussulmano. Che qualcuno dei cattivi di cui sopra scopre le idee di Candido, e per denaro le vende al professore arabo. Che si scopre essere un terrorista infiltrato nel territorio europeo per sue motivazioni altre che non conosciamo. Che ingaggia un killer per rubare (con successo) la mappa ed uccidere l’enologo. Tutta questa parte è bruttina, mal riportata, e ci conduce a questo finale un po’ scontato ormai, ma senza grandi patemi. Lasciando molto a metà. Non si trova il responsabile materiale del crimine. Non si capisce perché il commissario venga fotografato dal suddetto che si infiltra in un convegno e poi sparisce. Si lascia a metà una possibile storia tra Cosulich e l’enologa emiliana. Compare una lepre e non si sa perché. Insomma un brutto finale per un libro che stava meritando altro. E poi, leggendo la quarta scopro che Negri è si enologo (si intuiva dallo scritto) ma prima, alla fine degli anni ’80 è stato segretario del Partito Radicale, impronta che si nota in quel tentativo di forzare l’entrata della politica nella storia. Troppo artefatta per non nascondere qualcosa. Lasciata la politica, Negri fa l’enologo vicino Cuneo, nella tenuta di Serradenari (dove si svolge la seconda parte del libro) ed ha scritto anche un libro sul vino (“Roma caput vini”) che è anche il terzo ed ultimo capitolo di questo libro. Dove sviluppa il concetto che furono appunto i Romani ad esportare il vino nel mondo. Non ho di certo nulla verso l’allora partito radicale, ma questo illustra meglio quel testo e contesto di cui sopra. Speriamo in meglio, se altri scritti verranno. Rimarcando solo una copiosa parte dedicata alla distruzione (cui sono pienamente concorde) dell’idea della centralità europea ed occidentale nel mondo. Sappiamo tutti (credo) e Negri ben ce lo ricorda che pomodoro e cioccolata vengono dalle Americhe. E che senza gli Arabi avremmo perso traccia della filosofia aristotelica. E che molta della medicina attuale deriva da Ippocrate solo attraverso Avicenna (altro esimio arabo). Ma sulle radici arabe del nostro mondo tornerò in altri scritti, che meritano più ampio e documentato spazio.
“Senza la cultura araba la matematica, la filosofia, la medicina e mille altre discipline che consideravo europee, occidentali, semplicemente non sarebbero tali.” (230)
Piero Colaprico & Pietro Valpreda “Le indagini del commissario Binda” Feltrinelli euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 15/04/2013– I: 15/01/2014 – T: 24/01/2014] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 443; anno 2013]
L’anno indicato è della meritoria pubblicazione in volume unico da parte di Feltrinelli dei tre romanzi della “strana coppia” (per i singoli romanzi, specifico l’anno nel commento). E come tutti i volumi multipli sono sempre indeciso se considerarli come trama unica o meno. Qui, devo dire, il compito si semplifica dal fatto che, in effetti, i tre romanzi brevi costituiscono il corpus della produzione a quattro mani dell’anarchico e del giornalista. Di Kola, avevo già letto (e gustato) sia qualche romanzo che (soprattutto) gli articoli giornalistici, sempre con un piglio giusto. Valpreda era e rimane uno dei grossi punti dolenti della storia italiana. Ingiustamente accusato della strage che ha dato il via in Italia alla strategia della tensione, sempre lasciato ai margini anche quando, con tutti gli onori, ogni colpa è caduta nel dimenticatoio. Dopo mille vicende e mille mestieri, trova un suo contraltare in Kola. Lui porta storie, che tante ne ha vissute. Il giornalista ha il modo di stenderle, e di integrarle con le altre mille storie della sua vita di cronista di nera. Avevano il piano di scrivere quattro storie imperniate sulla figura di un maresciallo dei carabinieri (Valpreda rifiutandosi di pensare a poliziotti). Purtroppo, la morte coglie l’anarchico all’uscita del terzo, lasciando che il quarto, anni dopo, venga scritto dal solo Colaprico. Veniamo allora alle tre indagini di Binda.
“Quattro gocce d’acqua piovana” pag. 9 – 148
Edizione 2001
E così, nell’autunno, del tempo e della vita, facciamo conoscenza del maresciallo Pietro Binda. La caratteristica che i nostri hanno voluto usare, qui e negli altri due, non è la presa diretta sugli avvenimenti. Ma il loro ricordo, la ricostruzione, integrandola, dove e quando occorre, con flash-back ed altre tecniche di scrittura, per andare su e giù nel tempo e nello spazio. Il nostro maresciallo è sempre stato (per quanto se ne sa) alla sezione Omicidi, ed ha sempre avuto un rapporto non usuale con gli emarginati e tutto il mondo degli irregolari che gira ai margini della giustizia. Ovviamente, dati i due autori, non poteva che chiamarsi Pietro anche lui. Ora che è in pensione, passa il tempo a rileggere vecchi casi irrisolti (o poco risolti). E quattro gocce d’acqua che cadono sulle pagine che sta leggendo lo riportano al caso della morte di Gariboldi. E ne trova una soluzione (dico una che forse… ma non anticipiamo). Comincia così il lungo viaggio nella memoria del complesso caso della morte del professore di matematica, che sembrava senza nemici né macchie oscure. Rimane solo il corpo e quel messaggio scritto con il sangue SOS SOS, a ribadire la seconda attività del defunto, quella di enigmista provetto. Defunto che lascia una fidanzata quasi sposa basita e sconvolta. Binda indaga, interroga, scava nel presente e nel passato. Scoprendo solo che era stato in seminario da giovane, per poi lasciarlo inopinatamente. Poi il prete che ha scritto l’omelia funebre muore andando fuori strada con la macchina. Ma non si cava ragno dal buco. Né dalla scuola, a cui il preside aveva chiamato il Gariboldi per meriti preclari, anche se si conoscevano pure loro dai tempi del seminario. Né dall’enigmistica, dove nessuno interpreta il messaggio, né tanto meno da notizie ulteriori sul morto, che inviava gli enigmi via posta. Né infine dal seminario, dove transitò anche il prete morto. Intanto Binda è colto da problemi privati, che la moglie muore di tumore, ed il figlio, una volta laureato, decide di trasferirsi a Londra. L’unico indizio “certo” è una foto trovata in un sottofondo di due uomini abbracciati. Uno il Gariboldi, ma l’altro non si capisce chi sia, troppo fuori fuoco. I nostri autori tornano allora al presente, al maresciallo in pensione, che con le sue gocce di pioggia va in Questura, e risolve quanto meno l’enigma della scritta. Non era una richiesta di aiuto, ma un numero di telefono (lascio a voi capire come…). E guarda caso, il numero della parrocchia del prete poi morto nell’incidente. Prete che poi era il vero enigmista, essendo Gariboldi solo di facciata. Ma il professore vuole troncare, vuole sposarsi, ed allora… Tutto risolto, sembrerebbe. Ma i nostri sono autori di scrittura fine, e questa soluzione sembra, è troppo “banale”. Ce ne sarà un’altra, la vera, cui avevo pensato, anche se non riuscivo a collocarne la fattività. E che ci viene spiegata, in fine, sino all’ultimo dettaglio. Il bello del romanzo, comunque, oltre al seguire le indagini come si seguono nella realtà (e non nei libri), dato che Kola ben conosce i modi ed i metodi delle indagini, è invece nelle descrizioni della città. Di come si trasformi. Di cosa diventino negli anni Brera e via dei Fiori Chiari, il bar Giamaica e la libreria Utopia. Tutta quella Milano un po’ ai margini, oscurata e vilipesa dalla vernice craxiana degli anni Ottanta.
“La nevicata dell’85” pag. 149 – 290
Edizione 2001
Passano gli anni, e non riuscendo ad essere inattivo, Binda fa l’investigatore. Non certo all’americana, ma banalmente italiano, con casi di scomparsi e qualche adulterio. La tecnica adottata dai nostri scrittori però è analoga alla precedente. Binda, in un convivio di amici, ricorda un caso da lui risolto come investigatore, dando la mano ai suoi amici caramba. Ricorda il caso dei morti del quartiere Baggio, al tempo della nevicata dell’85, la storica nevicata che bloccò l’Italia intera, e mise a piedi per tre giorni tutta Milano. Dal punto di vista della storia “gialla” forse questa è la più debole. Anche se la capacità dei nostri è di descrivere una vicenda normale, con persone normali. Mentre indaga di altro (circa l’alibi di un piccolo spacciatore) Binda viene ingaggiato da una praticante dell’ufficio legale non convinta della morte del nonno. Anziano in buona salute, e senza tante paturnie, si imbottisce di una dose eccessiva di sonniferi. Binda si aggira per una Milano sconvolta dalla nevicata di cui sopra, in cui tutti vanno a piedi (e qualcuno con gli sci, che tanto mi ricorda l’analoga di Roma, quando vidi dei temerari scendere sci ai piedi la panoramica da Monte Mario a Piazzale Clodio), per andare al quartiere Baggio, ed al suo cimitero. Dove scopre altri anziani inopinatamente deceduti. E nello stesso cimitero viene abbordato dalla signora Alice, una matura signora anche lei frequentanti i luoghi dell’eterno riposo. Forse nel ricordo della moglie morta, Binda comincia a parlare dei morti con Alice. La quale pochi giorni dopo muore anche lei. Intanto Binda viene accudito nella casa solitaria dalla vicina Alba, di una decina d’anni più giovane ma ancora piacente. Controllando giornali, memorie dei carabinieri ed altri documenti, Binda si fa una storia possibile delle morti. Dove s’incastrano l’assillante vicino di Alice, le dame di carità della parrocchia, gli ex-colleghi dell’ospedale dove lavorava Alice, i becchini del cimitero ed altri comprimari. Tutto senza prove, però. Ecco allora che i nostri pensano di pescare dai classici, istituendo un finale alla Nero Wolfe, dopo che Binda ha per tutto il romanzo un andamento alla Maigret. Binda convoca tutti i possibili colpevoli in casa, ricostruendo le vicende, attaccando senza sosta la migliore amica di Alice, sapendo che prima o poi il deus ex-machina della vicenda sarebbe saltato fuori. Come, infatti, succede, quando… Ma questo importa il testo che leggerete. Il resto è la dolce storia che nasce tra Pietro e Alba. E più ancora il rapporto tra Binda e l’anarchico Loris, una specie di alter-ego di Valpreda, che rifornisce l’ex maresciallo di libri sull’anarchia e la libertà, che il nostro Pietro commenta, in alcune parti marginali alla vicenda ma interessanti per il clima.
“La primavera dei maimorti” pag. 291 - 440
Edizione 2002
Il terzo, e ultimo della coppia, è forse il più politico, dove si precisa meglio sia Binda, sia la visione globale. Questa volta niente gioco di flash-back, ma si salta a piè pari nella giovinezza del maresciallo, alle prese con una vicenda intricata che si fa svolgere nell’aprile del 1969, solo pochi mesi prima di quelle bombe che sconvolsero la vita dell’Italia (e quella di Valpreda primo fra tutti). Un libro, tra l’altro, scritto in fretta, che Valpreda era alla fine. E di fatto muore una settimana dopo l’uscita del libro. Il giovane Binda viene fatto infiltrare tra i detenuti in San Vittore, dove sono detenuti tre malviventi sospettati di aver ucciso un losco figuro oriundo ungherese dal passato sicuramente poco chiaro. Ed in questa parte si scatena la vena libertaria della coppia, ma anche la capacità di raccontare storie. Perché appunto nella vicenda semi-fittizia della morte di Otto Kormendy, si innesta la vicenda reale della rivolta delle carceri. In particolare di quella di San Vittore dove stavano appunto Binda ed i sospettati. I tre tra l’altro, uno dopo l’altro, muoiono in carcere in maniera sospetta. L’ultimo proprio durante la rivolta. Binda viene aiutato dal direttore del carcere e dal magistrato inquirente nella ricerca di indizi. Ma nel carcere, oltre a trovare solidarietà con anarchici e “compagni della sinistra che sbaglia”, pochi passi avanti riesce a fare il nostro. Certo, e sono le parti migliori, ne escono fuori molto ritratti umani, che molto devono alla memoria di Valpreda. Rimane solo una foto strana, di un passaggio di confine tra Italia e Svizzera, e gente che si incammina verso degli strani passaggi spinati. Binda allora ritorna sui suoi monti, lì dove ha casa con la moglie Rachele, da poco sposata (d’altronde siamo una ventina d’anni prima del primo libro). E lì trova il bandolo, portato per mano da un montanaro spigoloso e solitario. I tre morti con l’ungherese facevano parte di una banda di delinquenti, soprannominatasi “I Maimorti”, legati al fascismo, alla delinquenza ed altro di poco lecito. Banda che aveva organizzato un lucroso traffico frontaliero, soprattutto di ebrei in fuga. Si facevano pagare in anticipo poi li portavano sui monti. Qualcuno lo portavano davvero in Svizzera. Altri, la maggior parte, arrivava al finto filo spinato, lì convinti di essere espatriati, per poi cadere in mano ai tedeschi. E la banda prendeva altri soldi. In una di questa strage, un bambino si salva. E sarà lui che organizzerà anni dopo la mattanza, approfittando dalle necessità economiche dell’ungherese, che vuole pubblicare un libro di memorie. Non vi dico altri particolari. Ma c’è un ultimo tocco libertario da sottolineare. Il capo della squadra investigativa cui risponde Binda per l’indagine, di lì a poco mette su una squadra anti-terrorismo chiedendo a Binda di entrarvi. Sarebbe una luminosa carriera, ma il futuro maresciallo rimane coerente alla sua personale deontologia. E rimane ad indagare su morti quotidiane e piccola malavita.
Epilogo pag 441 - 443
Edizione 2013
Epilogo che in realtà non c’è. Perché Valpreda come detto muore, e Colaprico continua la sua attività di scrittore e di giornalista. Ma nelle poche pagine di intercalare che Kola dedica all’amico, ne esce fuori un ritratto vero di un uomo che ha vissuto il suo tempo. E che mi ha fatto fare un bel salto indietro nella memoria. Grazie, Piero.
Gianni Biondillo “I materiali del killer” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 6,75 euro)
[A: 15/07/2013– I: 04/02/2014 – T: 07/02/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 359; anno 2011]
Dopo un anno e mezzo di attesa, ritrovo non tanto l’architetto Biondillo, quanto il simpatico e fuori schema ispettore Michele Ferraro. In un libro, che non a caso, ha vinto nel 2011, quando è uscito, il Premio Scerbanenco, premio aggiudicato al miglior romanzo giallo/noir pubblicato nell’anno. E devo dire, una volta tanto, che concordo. Un buon libro, una buona trama, ed una buona scrittura. Forse l’ultimo punto è quello più debole. Perché è di certo una scrittura capace, ma a volte indulge troppo, si incarta su se stessa. Soprattutto in quei tentativi, a me poco consoni, di svariare, si saltare di palo in frasca. Non che non riescano bene salti e flash-back (che alla fine ci consegnano una vicenda del tutto diversa da quella che appariva all’inizio), ma sono le lunghe pause introspettive, che forse potevano essere tagliate (o accorciate). L’altro elemento che mi ha spiazzato un po’ è la sequenza dei fatti precedenti. Frase misteriosa, detta così. Ma io avevo seguito i diversi romanzi dell’ispettore, con le indagini a Quarto Oggiaro (i primi due libri), con le reminiscenze giovanili (il terzo). Ora il nostro Michele ci si dice è “tornato a Milano”. Mi ero perso che era andato via, era stato a Roma, ed aveva avuto una storia con il commissario Elena Rinaldi. Beh, forse anche io invecchio e perdo i colpi. Colpi che però non perde il romanzo e la sua trama, che inizia con ritmo incalzante. Una rapina in villa, dove muoiono il padrone ed un ladro. Rapina affidata al rientrante ispettore Ferrero, con tutte le sue paranoie (le battute con Comaschi, la sveglia che suona, i rapporti tesi con il capo). Dall’altra la fuga dal carcere di un negro, Hailé qualche cosa. Hailé sta in carcere, si perfora lo stomaco, perde sangue, trasporto d’urgenza in ospedale, autoambulanza bloccata, e mattanza: tre guardie e tre assalitori uccisi. Hailé, ferito e fuggente. Data la risonanza del caso, viene affidato alla squadra speciale di Roma al comando, guarda caso, del commissario Rinaldi. Coadiuvata dall’ispettrice Fusco (simpatica) e dall’ispettore Favilli (un patologico maschilista rompipalle). Ma la squadra non riesce a cavare un ragno dal buco, sinché non ci si mette dentro il nostro Ferraro. Che guarda caso aveva arrestato lui Hailé, per una rissa in un bar (scopriremo poi durante una partita tra due squadre africane). Ovviamente, il punto forte di tutte le indagini (rapine e fughe), non può essere che il buon Lanza, il mentore del nostro, ora spostato ad un comando interforze a Bruxelles. Ma le sue osservazioni fanno scattare scintille a Ferraro, entrato anche lui nella squadra della Rinaldi (ed anche nel letto, ma per poco, che quella storia è ben finita). E mentre nel presente si svolgono le storie dei nostri italiani, con il solito piglio ironico cui ci ha abituato Biondillo, in lunghi flash-back ricostruiamo la storia dei “neri”. Hailé è un eritreo, figlio di uno dei capi della rivolta contro gli etiopi. E da sempre, con il suo sodale Sayed, dalla parte dei combattenti. Ma una volta terminata la rivolta, e dopo i voltafaccia di Menghistu (non entro in parti di Storia che dovrebbero essere altrimenti note), Hailé e Sayed diventano mercenari, e poi caporioni delle bande dei fornitori di migranti ad altre bande, prima libiche, poi della mafia di Casale Principe. Con l’unico punto d’onore di non maltrattare mai i bambini (Hailé). In una razzia, il nostro salva anche la bella Zohra. Ma questa non potrà fare a meno di finire nelle grinfie della prostituzione (troppo lungo spiegare come), salvata (ma solo per poco) dal buon Don Stefano, un missionario che poi scopriamo essere amico di Ferraro. I napoletani però hanno i due sui marroni, e ad un certo punto fanno fuori tutti. Peccato che Hailé riesca a salvarsi, ed a rifugiarsi in Italia. Dove incontra Zohra, ma non può fare a meno di ribellarsi quando scopre che il capo della squadra che sta vedendo in TV è proprio Sayed che credeva morto. Da qui, tutta l’organizzazione della vendetta, fatta come solo un killer come Hailé è diventato può fare. Tutte le strade convergeranno nel casertano (con un’immagine della Reggia e della fontana di Diana e Atteone che mi riporta al da poco letto libro di Piccolo). Qui il finale si fa confuso, che a Caserta non solo arrivano i due neri per la loro lotta finale. Ma anche la squadra della Rinaldi, sotto le idee spurie di Ferraro, e l’interforze di Bruxelles con Lanza. Dico confuso che si lascia solo per cenni la fine dei giochi. Anche se intuiamo che non c’è molto da scialare, e tutti finiranno un po’ male. C’è solo il tempo per Lanza di dare una nuova dritta all’ispettore che gli consente di risolvere anche il caso della rapina (che lascio solo per cenni, essendo un po’ marginale). Per tornare poi tutti nei rispettivi crogioli. Rinaldi a Roma, Ferraro a Milano, con Francesca (l’ex-moglie) sempre a tentennare, e la simpatica figlia Giulia a crescere (ormai va per i 13). Insomma, una storia complessa e ben congeniata, che da modo a Biondillo non solo di padroneggiare il genere, ma anche di dar conto di problemi attuali ed a tutti presenti, benché irrisolvibili: migranti, extra-comunitari, mafie, degrado delle città. E chi più ne ha. Una bella lettura, tutto sommato. Nel filone, a me sempre caro, del giallo con risvolti sul sociale (grazie ai nostri maestri svedesi degli anni Sessanta).
“Le donne che hai amato ti restano addosso, sono macchie della pelle, indelebili.” (132)
“Quanto bene faccia, certe volte, essere superficiali e infantili nessun filosofo morale riuscirà mai a comprenderlo per davvero.” (147)
“Giulia … ogni tanto gli chiedeva … cosa servissero quelle curiose monete color bronzo … con due scanalature da una parte e una sull’altro lato.” [mitico Biondillo!] (161)
“Ferraro …  quando qualcuno rivanga i bei tempi andati … [ricorda] … che belli non erano se non perché s’era giovani e pieni di ormoni.” (287)
Gianni Biondillo “Cronaca di un suicidio” Guanda euro 14,50 (in realtà, scontato a 10,85 euro)
[A: 08/10/2013– I: 07/02/2014 – T: 09/02/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 192; anno 2013]
Per i miracoli delle alchimie di lettura, ecco che, appena finito il penultimo libro, mi capita di leggere l’ultimo romanzo delle gesta del nostro ispettore Ferraro. Sarà che il precedente mi era piaciuto e di molto, questo mi ha lasciato un po’ sconcertato. Intanto, perché, pur avendo il buon Michele al centro, non è un giallo, un’indagine, è un libro di atmosfere, anche di misteri (se vogliamo). Io mi aspettavo altro. Che il libro corre su due binari ben alternati. Da un lato la storia di Giovanni Tolusso, che ricostruiamo come una discesa agli inferi di un uomo qualunque, schiacciato da avvenimenti più grandi di lui. Dall’altra, le vacanze agostane del nostro ispettore e della figlia Giulia. Che almeno un po’ stanno insieme, e neanche tanto male (ma perché tu e la mamma vi siete lasciati, chiede ad un certo punto la giovane; in realtà, non ci sono contrasti ed urla, tra Michele e Francesca, ma una qualche impostazione dello stare al mondo che preclude lo starci insieme; come direbbe la canzone “amici, sì, amanti, no”). I destini delle due storie si incrociano sulla spiaggia di Ostia, al rinvenimento di un corpo e di una barca alla deriva e di un messaggio (“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono”) che la nostra Giulia subito collega all’ultimo scritto di Pavese prima del suicidio. E quindi, nella parte dedicata a Tolusso, scopriamo la sua vita. Lui senza tanto nerbo, un po’ trascinato dalle cose, diploma di ragioniere, lavoro in cantiere sino alla morte del padre. E poi, finalmente, la sua vera vocazione: lo sceneggiatore. Con l’unico vero amico, dei tempi della scuola. Marco, il contabile, quello che vive a Milano, e che gli tiene i conti di tutte le attività. Ma Giovanni vive a Roma (in un appartamento a Monte del Gallo, e per i romani, una zona interessante), ed ora, nel pieno delle crisi economiche, riesce a malapena a pagare i mutui delle case (quella di Roma, e quella che ha regalato alla moglie Barbara, che vive a Milano per conto suo, e che è non vedente). La crisi arriva per Tolusso con una cartella dell’Agenzia delle Entrate. 32000 euro da pagare! E poi, tasse, IMU, Tari, condomini. E la RAI che non lo paga. Cerca di capire con Marco cosa sia successo. Ma noi lo capiamo ben prima di lui, che Marco s’è fregato i soldi. E che ora sta organizzando una sua fuga verso il Sudamerica, con tutti i soldi di chi è riuscito a turlupinare. E prendendo contatto con quelle agenzie che “ti fanno sparire”. Giovanni è distrutto e non sa che fare, se non una polizza sulla vita, pagabile alla moglie anche in caso di suicidio. Dall’altra parte vediamo i tentativi di normalizzare la vita da parte di Michele. Lo scoprire che Giulia cresce e che gli piace stare con lei. Certo, il fatto di aver scoperto il morto ad Ostia lo costringe, obtorto collo, a partecipare quanto meno ad una specie di indagine di routine. Intanto, è difficile effettuare il riconoscimento del morto, sia perché ammollato dall’acqua, sia perché Barbara, come non vedente, è difficile lo riconosca (battutaccia!). E inoltre, nessuno delle conoscenze romane è a disposizione (anche perché Giovanni sì scrive bene, ma un po’ una palla è, e non è che abbia tanti altri amici; in fondo, l’unico con cui parla di più è il postino!). L’unica è rintracciare Marco in Perù. Cosa non facile, ma alla fine, si riesce a fare una telefonata via skype. E quello un po’ si nega, un po’ fa il tonto, ed un po’ dice “Non manca mai a nessuna una buona ragione per uccidersi”. Che come ci farà capire alla fine Giulia, ancora di Pavese si tratta. Ma allora… Basta così per la storia. Rimangono scritti e bozzetti, che Biondillo, ricordo, non dispiace nelle schermaglie. E quelle tra Ferraro e il commissario romano rimangono gradevoli punti di fioretto. Ma, ripeto, mi aspettavo qualcosa di più incisivo. Sia nella storia, sia nelle vicende di Michele. In fondo, l’unica che ne esce dignitosamente è Giulia. Largo ai giovani, quindi. Ma spero che il nostro architetto ritorni ai livelli abituali.
Quindi, anche se in ritardo, auguro a tutti i miei amici e lettori una buona Pasqua (buona come i giorni scozzesi appena trascorsi, devo dire con piacevole andamento) ed un buon proseguimento di feste (sperando che qualcuno approfitti di questi lunghi scivoli sino al 1° maggio). 

domenica 13 aprile 2014

Noir Italia, prima parte - 13 aprile 2014

Cominciamo finalmente a parlare in maniera estesa di questa meritevole collana uscita in allegato a “Il Sole 24 ore”. Alla fine sono una quarantina di titoli, per la quasi totalità di autori diversi, ed abbastanza “ai margini”, cioè non inseriti nei cataloghi maggiori, ma in quelli direi regionali, pur se interessanti (Fratelli Frilli a Genova, Todaro a Napoli, Robin a Roma, tanto per citarne alcuni). Ed essendo un numero consistente, per questa serie ho deciso di derogare da una regola impostami, e di citarne ogni volta almeno 5 (se no non si finisce più). Qui abbiamo un autore ben noto (Macchiavelli) e quattro a me sconosciuti (due buoni e due così così). E siamo ad un primo giro d’Italia: Napoli, Bologna, La Spezia, Udine e Foggia. Già così sembra interessante, anche se le prove, come detto, non sono tutte omogenee.
Carlo Giordano “Il mistero delle 366 fosse” Sole 24 ore – Noir Italia 12, euro 6,90
[A: 08/11/2013– I: 01/12/2013 – T: 03/12/2013] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 123; anno 2011]
Benché sin da Agosto di quest’anno (2013) abbia cominciato a collezionare questa interessante collana, questo è il primo libro che riesco a leggere. Ora, prima di tutto, la collana è senz’altro meritoria, che in una trentina di volumi presenta un buon panorama del Noir italiano, indicando ad ogni uscita la località teatro degli avvenimenti. Quasi a farne una mappa italiana un po’ alternativa. Secondo, in generale, gli autori sono stati scelti tra i meno noti, salvo qualche “nome di grido” tanto per attirare (non so, un Macchiavelli, un Vichi, e qualche altro). Ed è la curiosità verso questi outsider che spinge la mia insaziabile vena di scopritore a percorrere questi sentieri. Dette quindi parole positive per collana e scelte, veniamo anche a questo romanzo, ambientato a Napoli. Siamo più sul versante di Pizzofalcone (come ambientazione, e come ricordo di De Luca, visto che la collina è meglio nota col nome di Montedidio), anche se il commissario Molinari ha un andamento lento, volgendo i passi quasi verso un Maigret, se questi avesse avuto una figlia. Ed è un libro dalla duplice analisi: sul versante Napoli è affascinante e meritorio, sul versante Noir è un onesto prodotto, forse con qualche scivolata verso soluzioni al limite affrettate. Ma cominciamo con il pezzo forte. In realtà, consiglierei la lettura del libro a chi vuole un’indicazione su luoghi interessanti e poco frequentati della città partenopea. A partire proprio dal titolo, dove ci rechiamo nel cimitero delle 366 fosse, un cimitero ideato durante le pestilenze seicentesche per seppellire di corsa morti infetti, e costituito, per l’appunto, da 366 fosse comuni, una per ogni giorno dell’anno (bisestile, ovvio). Ma poi, ci spostiamo nel corso dell’indagine, in tanti altri posti: S. Pietro ad Aram (dove c’è un altare su cui pregò l’apostolo Pietro), le catacombe di San Gaudioso (che ispirarono a Totò la famosa “livella”), S. Caterina a Formiello (il cui nome deriva dall’antico anche se abbandonato acquedotto, dove il latino formis sta per canale), la cappella Sansevero (dove sta il bellissimo “Cristo velato” del Sanmartino), S. Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco (nella via dei Tribunali), villa Floridiana (su cui non mi dilungo), S. Nicola alla Carità (uno dei centri della lotta alla peste del 1656), il cimitero delle Fontanelle (con il culto delle anime abbandonate), le catacombe di San Gennaro (dove scopriamo che Gennaro è il cognome del Santo, che si chiama di nome Procolo), la Chiesa dell’Annunziata (una delle chiese storiche della città), nonché le diverse entrate della Napoli sotterranea (il tunnel borbonico sotto Pizzofalcone, Piazza Cavour 140 e vico Sant’Anna di Palazzo). Se non li conoscete, sono tutte località che meritano visite, e solo per questo il libretto del Sole 24 ore avrebbe un suo spazio “al sole” (ah ah). Ma non essendo una guida turistica, questo gioco del Monopoli serve soltanto al commissario Molinari per cercare di capire i misteri che si celano dietro i teschi che in questi luoghi vengono posti, con messaggi a lui diretti. Questo, mentre da anni è in corso una tenace caccia all’uomo, verso un serial killer che uccide solo prostitute, senza peraltro intrattenersi mai con loro. Qui entriamo appunto nella vicenda Noir, dove non poteva non entrare Giulia, la figlia ribelle del Commissario. E se pur ci sono altre storie collaterali (il rapporto tra il commissario e la moglie, i tradimenti di questa e la riappacificazione, la tristezza di Denise l’amica di Giulia, i tentativi di farsi comprendere dalla polizia da parte del prof. Montini), è Giulia che non può che porsi al centro dell’attenzione. Perché nella sua ribellione, gioca anche a fare la prostituta. E non ci meraviglia che il cattivo seriale (ma più che cattivo, psicopatico), la rapisca. Ma non la uccide, che lui uccide solo le donne perdute. Così, nella lunga confessione tra rapitore e rapita, capiamo i motivi delle morti, capiamo l’uscita di testa dell’assassino, ed ammiriamo il benefico shock che subisce Giulia. Prima quando asseconda il folle, e poi quando … Ma questo non ve lo dico. Purtroppo, la fine (una volta sciolto il mistero dei teschi, che è servito solo a fare il delizioso giro turistico di Napoli) è un po’ affrettata. Molinari scopre troppo facilmente il covo del bandito, e tutto si risolve in due scarse pagine. Forse ci voleva un po’ più di suspense nel finale. Tuttavia, il prodotto è onesto, scritto dignitosamente, con qualche plauso in più per le invenzioni turistiche. Speriamo gli altri volumi siano della stessa fruibilità. Per ora, un caldo invito a tornare a Napoli.
“Gli uomini credono di decidere anche quando sono totalmente scelti.” (40)
Loriano Macchiavelli “Sarti Antonio: un diavolo per capello” Sole 24 ore – Noir Italia 4 euro 6,90
[A: 02/08/2013– I: 10/12/2013 – T: 11/12/2013] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 137; anno 2008, ed. orig. 1980]
Ritroviamo il mai sempre troppo lodato Loriano, uno degli autori cardine del giallo italiano, nella quarta uscita della serie del Sole24ore, seconda nella lettura. Ed è al solito un buon libro, anche se viziato da una grande mistificazione, che affronto subito, così mi tolgo il dente. Macchiavelli ha pubblicato una cinquantina di titoli, di cui una ventina con protagonista il sergente Sarti Antonio. Ebbene, nell’usuale bibliografia finale (per altri testi meritoria) ne vengono indicati una decina, e solo quelli ripubblicati da Einaudi. Come questo, riedito cinque anni fa, ma che, in origine, è uscito nel 1980 e con grande interesse, avendo vinto, quell’anno, il premio Tedeschi (alla sua prima uscita), premio dedicato ai migliori gialli inediti dell’anno. E senz’altro, nel 1980, questo era uno delle punte di diamante (ora un po’ meno che son passati gli anni e si sente). Una mistificazione che non viene citata da nessuna parte, anche se, leggendolo, ci si domanda perché quando paga le consumazioni al bar, il nostro le paghi in lire. C’è poi un episodio, non centrale, che pone anche un’esatta datazione alla vicenda. Si assiste ad una partita di calcio in TV tra Italia e Germania, che si dice vinta dai tedeschi per 2 a 1, con un’orrenda prova di Graziani e Causio. L’unica partita riferibile a queste indicazioni è, infatti, la partita Germania Ovest – Italia del luglio 1977, vinta dai tedeschi con goal di Rumenigge e lampo finale di Antognoni. E veniamo ora al testo in se, quarto romanzo con protagonista il sergente. E si sente, che alcune caratteristiche non sono ancora consolidate, anche se lui ha già la sua colite, ama i caffè ben fatti, ha in Filippo l’alter ego che guida spavaldo l’auto-pattuglia, è in perenne conflitto con il suo capo. Eppur girando sembra a vuoto, come spesso nei suoi romanzi, accumula indizi e trova soluzioni. Certo, non è ancora completamente disilluso dalla vita, come sarà più avanti. Ha ancora voglia e forza di guardare una bella donna e forse fare qualcosa di più. Anche il suo amico – nemico non poliziotto, Rosas, è in bozze. Qui, seppur si trattano male come sempre accadrà, Rosas non è ancora un personaggio chiaro, pendente tra i due lati della barricata della giustizia. Detto il contorno, la storia ha una sua linearità. Una strana rapina in banca per trafugare i gioielli di una contessa. Amedeo, il direttore di banca che sembra implicato, sopratutto quando il sergente lo segue e scopre uno dei banditi ucciso nel bosco. Ed ancora di più, quando, durante la processione della Madonna di San Luca, il direttore viene trovato con i gioielli in mano. Il caso sembra chiuso, ma Sarti ondeggia. E Rosas lo spinge a pensare, ed a discutere il caso con la bella Eleonora, moglie forse morganatica del direttore. Una bella che fa girare molte teste, non solo quella di Sarti. Ma anche di Stefano, il venditore di enciclopedie, di Federico, il carabiniere insoddisfatto del suo lavoro, di Giorgio, il portantino, con Amedeo, della Madonna. Scavando e ragionando, Sarti mette in luce una serie di incongruenze che lo portano a dubitare della facile soluzione. Perché Stefano ha parcheggiato in divieto di sosta e con i finestrini aperti quando c’era tanto spazio non vietato? Com’è possibile che gli siano stati rubati dieci volumi di un’enciclopedia senza che nessuno se ne accorgesse? Perché Giorgio vuole il posto sulla sinistra della Madonna? Perché Federico si dimette dall’arma? Perché Amedeo lo porta dal morto? Perché Eleonora sembra non dire o non dice tutta la verità? È ovvio, e lo pensiamo tutti, che Amedeo è vittima di una serie di circostanze fortuite. Ma chi sa le cose come stanno, perché usa vie traverse? Sarti Antonio ricostruisce i fatti come realmente avvenuti. Ma è un questurino atipico, e non avendo prove, dopo la ricostruzione lascia che ognuno agisca come meglio crede. E su questa dolorosa idea di giustizia, cala il sipario, che anche noi non sapremmo mai se i cattivi pagheranno ed i buoni vinceranno. D’altra parte, spesso è così la vita. Un buon inciso, nella vicenda, è la “spettacolarizzazione” degli avvenimenti, dove Macchiavelli, nell’80, ci presenta un modo di trattare le vicende “ad usum TV” che si consoliderà ed amplierà (purtroppo) negli anni successivi, portando molto sconforto nei costumi degli italiani. Bravo e profetico come al solito, il nostro Loriano. Purtroppo la vicenda non è avvincente come altre dello scrittore bolognese, anche se mantiene la serie “Noir Italia” ad un buon livello (e ci voleva).
“È scocciante imparare che … lo hanno osservato senza che lui se ne rendesse conto. D’ora in poi non potrà neppure mettere le dita nel naso senza chiedersi se qualcuno lo stia spiando.” (69)
Susanna Raule “L’ombra del commissario Sensi” Sole 24 ore – Noir Italia 6 euro 6,90
[A: 26/08/2013– I: 08/01/2014 – T: 10/01/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 249; anno 2011]
Cominciano ad essere più presenti in lettura questa trentina (ma alcuni, seppur pochi, già ne avevo) di romanzi usciti per i tipi del “Sole 24 Ore”, con il titolo “Noir Italia”. Senza entrare nel merito se noir, mistery, thriller, gialli, legal, procedural, e chi più ne ha più ne metta, ricordo l’idea: utilizzare autori italiani, da alcuni abbastanza noti ad altri più o meno ignoti, ed ambientare romanzi imbevuti di poliziesco in diverse parti d’Italia. In questa prova, della fin ad ora non nota Susanna Raule, il protagonista, l’ispettore Sensi, si muove in quel di Spezia. Mi raccomando, per chi come me fosse alieno dalla città, non “LA” Spezia, nome inusato dal dialetto spezzino, con quell’articolo nato dal passaggio del latino al volgare, ed ivi rimasto (pare con un centinaio di altri comuni italiani). E devo dire che appunto la città spezzina è una delle non molte che manca all’appello delle mie frequentazioni. Non so se mi attira, certo Piazza Brin, descritta dalla Raule, sembra interessante. Ed anche altri punti e spunti, tanto che vien la voglia di fare una gita dalle parti delle Bocche del Magra. Detto quindi che questa serie di libri sembra quasi un “Contromano Giallo”, tanto per parafrasare la bella collana di Laterza, veniamo anche al romanzo in sé. Che sembra ed in parte è interessante (fatto salvo che sembra la seconda puntata di un serial di cui non si è visto la prima), almeno per buona parte del libro stesso. C’è una scimitarra che appare e scompare dal molo della città. Ci sono morti che cominciano a comparire in varie parti della città stessa. E c’è sempre, sul luogo, o vicino al luogo del delitto Silvia, una diciottenne carina, ben descritta tra l’altro dall’autrice, che ce la rende vivida. Meglio di come ci renda il commissario Ermanno Sensi detto Manno, un trentacinquenne (credo), con un look gothic-dark, occhiali da sole giorno e notte, con un approccio all’investigazione tra l’anticonformista e l’improvvisato. Fatto sta che i due finiscono a letto (nonostante la differenza di età), e da qui nasce la storia parallela della protezione che Manno cerca di dare a Silvia. Insieme alla comparsa di uno strano tizio, di professione antiquario, che trova la prima scimitarra, e poi il grosso pungiglione di un narvalo. Ovviamente, Silvia si mette sempre in situazioni di pericolo. Gira la sera da sola, va in piscina col buio e al parco di notte. Ovviamente, quindi, si trova sempre in pericolo, con un cattivo (o forse più?) che cercando di abusare di lei o di ucciderla (o entrambi). Tutto procede a balzi e raccontini, girando per le strade e per il porto della cittadina ligure di giorno e di notte. Ed è la parte migliore. Si fa conoscenza con qualche dark, con qualche sballato, con i compagni di classe di Silvia, con la squadra di Sensi. Poi c’è la svolta. Ci si collega a quella prima puntata in cui Sensi aveva sgominato una banda di satanisti che stupravano e uccidevano vergini. Sensi si era infiltrato nel giro (da lì nasce quel suo strano look), e, prima o durante (questo non si capisce) una messa nera, in cui doveva far l’amore con una vergine, riesce ad ucciderne un tot, ed arrestarne altri. Peccato che la vergine di cui sopra rimanga sconvolta dai fatti e (forse sotto l’effetto di droghe) si tolga la vita. Direte, ma questo che c’entra? Sembra entrarci, ché appunto come i lupi transilvanici, qualcosa è rimasto dentro il commissario (o appena fuori, come dice il titolo, appunto, l’ombra). Che si scatena alla ricerca del colpevole, che riesce a salvare l’antiquario prima che anche questi venga decapitato. E riesce a tirar fuori dalle peste Silvia. Il tutto in una parte finale in cui compaiono diavoli, ombre ed altre creature “irreali”. Mentre tutto il libro stava filando verso un romanzo decente, questa sterzata finale lo fa precipitare nell’improbabile. Facendo perdere un bel po’ di punti alla brava Susanna. Che rimane una persona di scrittura (è un caso che sia psicologa?), ma non di trama. Speriamo in un futuro ritorno di Manno e Silvia in vesti più terrestri.
Pierluigi Porazzi “L’ombra del falco” Sole 24 ore – Noir Italia 16 euro 6,90
[A: 25/10/2013– I: 25/01/2014 – T: 26/01/2014] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 269; anno 2010]
Non conosco il giornalista Porazzi, né so (non sempre la rete ha tutte le notizie…) se questa sia la prima scrittura intorno allo strano personaggio di Alessandro Nero detto Alex. Certo, è anche se qui è la prima volta so che si ripeterà, la città teatro della vicenda non ne esce ritratta ad attratta. Udine è di forza una città difficile da descrivere, ed è molto più facile parlare dell’ex-ispettore Nero facendolo andare su e giù tra Italia e Slovenia. Dove sono piazza Libertà e piazza San Giacomo? Dov’è il Castello? E il Duomo? O gli affreschi del Tiepolo? Se ne parla poco come poco rimane dell’atmosfera friulana, in una storia che potevasi scrivere ed ambientare ovunque in Italia. Ovunque ci sia un presidente della Regione corrotto e corruttore, un ospedale compiacente, una magistratura supina al potere. Continuo? No, meglio tornare allo scritto. Che risulta molto affastellato, non dico confuso che non lo è, ma un po’ prolisso, e con la voglia di ingarbugliare tutto, tanto da riuscirci e confondere il lettore, ma anche lo scrittore. Difficile fare un tentativo che riesca a seguire le orme di Roger Ackroyd (e se qualcuno lo chiede vi dirò chi è). Per questo Porazzi un po’ si perde, ed anche la trama ne risente. Come chi voglia mettere troppa carne al fuoco (e poi si dimentica di Flaubert). Il nostro autore cerca, infatti, di gestire le multiple trame della ricca cittadina, intrecciando storie torbide e storie usuali. A far da gestione e fulcro, delle indagini e delle simpatie di noi lettori, una coppia di detective, Nero e Barone. Il primo dimessosi dalla polizia tre anni prima dopo che un serial killer uccide la moglie e la figlia prima di essere scoperto. Alex Nero si ritira in Slovenia, ma viene richiamato alle indagini quando si scopre un primo cadavere di diciassettenne senza organi interni. E quando la polizia riceve un CD con un secondo assassinio, CD indirizzato proprio ad Alex. Barone, che con Nero ha fatto l’Accademia, si è poi infiltrato in un giro di droga vivendo per tre anni sotto copertura, ed ora, sgominata la banda, torna alla luce del sole. Le morti continuano a fioccare. E ci si mette ad indagare anche un giovane procuratore appena arrivato dalla Sicilia, trentenne ed ingenuo. Che si innamora anche dell’ispettrice Barbara Rocco, terzo e segreto perno delle indagini. Ma il primo omicidio rimane misterioso, anche perché la ragazza è la figlia di uno dei più ricchi medici della città. Mentre al contorno, le morti fioccano, in particolare di quasi maggiorenni. Porazzi un po’ gioca sul lato “oscuro”, quando descrive stupri, rapimenti e operazioni varie (truculenta quella di anestetizzare la rapita, toglierle le braccia, e poi risvegliarla). Ma a Porazzi, come detto, questo gran calderone non basta. E quindi ecco che mette in mezzo il presidente della Regione, amico del medico di cui sopra, e malato di AIDS (ma pare nessuno lo sappia). Ed i vertici della procura, supini ai suoi voleri, e che mettono i bastoni tra le ruote sia del procuratore che della polizia stessa. Tutto quello che riescono a fare e riaprire il vecchio caso in cui è coinvolto Nero, cercando di incastrare il poliziotto nello sterminio della propria famiglia. L’autore non ha tema di maneggiare anche grosse vicende, che mette in mezzo anche un ex-agente segreto russo, travestitosi da barbone, che diventa amico della prima vittima, Alessia, e che cercherà in tutti i modi di vendicarla, quando capirà chi siano i veri assassini, a rischio di far saltare la propria copertura. Le ragazze continuano a morire. Anche Lucrezia, l’amica di Alessia, che all’ultimo capisce che sia il colpevole, e manda un SMS che potrebbe farci risalire a lui, se non avesse attivato inavvertitamente il T9 (spero che sappiate cosa sia, se non è un’altra cosa che vi devo spiegare). Il finale, così come l’inizio, è decisamente confuso, anche se l’autore direbbe volutamente confuso. Barbara lascia il procuratore per mettersi con Alex, non si sa se per piacere o per seguirne le tracce. Nero sa chi è il colpevole (anche perché ci sono molti indizi che sia lui). Noi lo immaginiamo. E pur tuttavia anche la fine annunciata lascia un po’ di irrisolutezza alla vicenda. Tanto da poter dire che l’autore si lascia lo spazio per una nuova puntata. Comunque Porazzi è avvocato e giornalista, e, benché lavori su troppi registri, la penna scorre sul foglio e non appesantisce troppo la lettura. Come detto, e ripeto, poca Udine e troppi misteri. Siamo nella parte inferiore del gradimento, ma non ancora al fondo.
Emanuele Crocetti “L’uomo murato” Sole 24 ore – Noir Italia 21 euro 6,90
[A: 29/11/2013– I: 26/01/2014 – T: 27/01/2014] - & e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 109; anno 2013]
È ovvio che dovendo mettere insieme una trentina di romanzi di autori italiani, più o meno noti, nella comunque interessante collana de Il Sole ci siano alti e bassi. Qui siamo sul secondo versante. Un libro di cui si può al massimo dire che è leggibile, pur se non godibile. Certo, è già un passo avanti rispetto a letture dove sembra sia Sisifo che volti ogni pagina. Ma detto questo, il pur nel suo campo bravo medico toscano Emanuele Crocetti non mi ha convinto con questa sua prova. Intanto, l’ambientazione nella città di Foggia risente alquanto della estraneità dell’autore (o almeno credo). Che di Foggia poco ci viene rimandato, se non il traffico (ma quale città italiana ne è esente), i lunghi viali, per cui andando in linea retta il commissario riesce quasi sempre a raggiungere i luoghi dove deve andare. E la costante e ripetuta battuta “Fuggi da Foggia”, simpatica solo nella sua allitterazione. Viene meno quindi uno dei pilastri della collana. L’altro, il giallo, la trama, è altrettanto, se non maggiormente inconsistente. Da buon toscano e lettore (e si sente) di gialli, ha una trama generale che riecheggia la ben più articolata trama del toscano Vichi, quando analogamente incentrò il romanzo sulla morte (o sull’uccisione) di uno strozzino. Pitto, lo strozzino, aveva fatto uno sgarbo alla mala locale, e da mesi non usciva di casa, accudito soltanto da un’acida sorella. E tuttavia viene trovato morto nelle cantine della casa stessa. Perché è uscito di casa? E perché è andato in cantina, dove pur nascondeva, nella sua cantina munita di robusta cassaforte, tutte le tracce della sua non troppo lecita attività? Perché c’è andato senza le chiavi della cantina stessa? E poi durante una partita di calcio internazionale dell’Italia, lui, come la quasi totalità degli italiani, tifoso e appassionato? Sono queste le domande che il commissario si pone, mentre avanza in questa calda settimana pre-vacanziera, solo nella città ostile, dove si è trasferito, dall’amata Toscana, soltanto per compiacere alla moglie autoctona. Moglie al mare con i figli, e presente assillantemente con continue telefonate. E con un frigorifero ripieno di cinque contenitori di cibo, uno per ogni serata solitaria del marito. Dove si ribadisce il consueto luogo comune della donna pugliese dedita per lo più alla cucina. Seguiamo quindi le inconcludenti indagini del commissario, ma maggiormente, seguiamo le sue fantasie onirico – sessuali su (quasi) tutte le donne che incontra. Altro stereotipo del maschio italico che mai ragiona se vede un centimetro di pelle femminile. Le sue attenzioni (mentali) sono in gran parte rivolte all’ispettrice Irene, ben fasciata nei jeans aderenti. Ma non disdegna di porre la mente, e l’occhio, sul geco tatuato sul seno della giovane barista. O sulle forme procaci a mala pena nascoste dalla vestaglia di una vicina di casa del morto. Scartata ben presto la pista della mala, che ben altrimenti avrebbe rivendicato il delitto, rimangono le uniche due piste possibili: una vittima della cravatta o un condomino per qualche motivo astioso. Ricordo, per i non adusi, che la cravatta e il cravattaro sono a Roma sinonimi dello strozzinaggio (quello appunto che ti stringe alla gola come una cravatta, ed immortalato nella bellissima canzone romana “Lella”, quella de “Te la ricordi Lella quella ricca, la figlia di Proietti er cravattaro?”). La bella Irene segue la pista “gialla”, mentre il nostro Peruzzi, tra una serie di fantasie sessuali, e due o tre cucinate di pasta (tra cui una bella descrizione di spaghetti alla bottarga), torna e ritorna al condominio ed ai suoi abitanti. Alcuni fatti casuali, ed una telefonata della moglie sui guai vacanzieri, portano il nostro alla conclusione che ci si aspettava da ormai tante pagine, pur nella brevità del romanzo. Come in tutte le prove non ben riuscite, rimangono poi punti al margine non chiariti. Cos’è successo tra l’appuntato e la bella signora? Chi sono i rapinatori della gioielleria? Insomma, si vede che il nostro può migliorare nella scrittura, e speriamo lo faccia che alcuni spunti hanno interessanti potenzialità. Per ora accontentiamoci.
Ricordo che questa è la seconda trama del mese, per cui trovate in appendice una nuova puntata di “Curarsi con i libri”. Infine, un augurio di Buona Pasqua a tutti, che sono in partenza (e finalmente) per la Scozia. Ci sentiremo al ritorno.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

APRILE 2014
Cominciamo una nuova parola, e con un quartetto di libri che merita senz’altro una degna considerazione. E questa volta le nostre amiche “dottoresse” in libri ci regalano qualche parola di commento in più.

ADULTERIO

Madame Bovary, Gustave Flaubert
Anna Karenina, Lev Tolstoj
Non vale la pena, John Coates
L'estate senza uomini. Siri Hustvedt
L'adulterio, generalmente, inizia a essere una tentazione quando metà di una coppia si scopre insoddisfatta del proprio ruolo - o del modo in cui viene percepita - all'interno del rapporto. Se solo potesse avere un nuovo partner, pensa, diventerebbe più effervescente, più spiritosa, più sexy. Forse giustifica il tradimento raccontando a se stessa che si è sposata troppo giovane, quando non era ancora del tutto matura, e adesso il suo vero io sente che è arrivato il suo momento. Magari sarà davvero quella persona più sexy, più smagliante - per un po'. Le relazioni che fanno naufragare un rapporto di lunga durata, tuttavia, di solito finiscono allo stesso modo, quando il vecchio io e le vecchie abitudini recuperano terreno, sia pure all'interno di una dinamica leggermente diversa. Spesso tornano anche le insicurezze. Perché se il rapporto è iniziato come una relazione clandestina per almeno uno di voi, è facile lasciarsi contagiare dall'idea che l'infedeltà colpisca di nuovo.
Per Emma Bovary la tentazione arriva subito, quando si è appena sposata con Charles, un medico, ed è ancora legata ai suoi preconcetti adolescenziali su ciò che dovrebbe essere un matrimonio. Invece della tranquilla esistenza che si trova a condurre, con un marito che la adora, Emma si era aspettata che l'amore fosse «un grande uccello con le ali colorate di rosa» sospeso nel cielo. Queste idee assurde, lo ammettiamo con un certo imbarazzo, le vengono dalla letteratura - facciamo nomi e cognomi: Sir Walter Scott (vergogna!) - perché all'età di quindici anni Emma divorava romanzi d'amore, pieni di giovani signore tormentate che «svenivano in padiglioni solitari» e gentiluomini che «piangevano come fontane»[1]. Quando incontra il falso, lussurioso Rodolphe, capace di adularla con un cliché dopo l'altro e farle serenate a base di margherite, lei diventa creta nelle sue mani. Se avete il sospetto di accarezzare idee altrettanto poco realistiche sull'amore romantico e il matrimonio, è necessaria una robusta dose di romanzieri realisti contemporanei: le opere di Jonathan Franzen e Zadie Smith sono un buon punto di partenza.
Anna Karenina non si impegna più di tanto nella ricerca di una via d'uscita del suo matrimonio con il conservatore Karenin, ma sicuramente riesce a esprimere fino in fondo la propria segreta vivacità con Vronskij. Quando, sulla via del ritorno a San Pietroburgo, dopo aver incontrato il giovane ufficiale durante una visita a Mosca lo vede sotto la pensilina della stazione, non riesce a impedire che le torni l'agitazione. E quando posa di nuovo lo sguardo sul marito non può tollerare il consueto sorriso «ironico» con cui lui la saluta (e nemmeno, ora che ci pensa, le sue orecchie deformate dalle cartilagini). Più forte che mai sente che sta fingendo, che il sentimento che li unisce è falso - ed è lei, di conseguenza, a sentirsi insoddisfatta. Ora che è stata con Vronskij, come può tornare a essere l'Anna di sempre intorno al freddo Karenin? Ciò che Anna scopre, inoltre e naturalmente, è che amare Vronskij comporta un certo senso di colpa. In realtà (e questa volta proviamo piacere a farlo notare), è mentre legge un romanzo su un barone travagliato dal rimorso che per la prima volta si rende conto delle emozioni che cova dentro al suo animo. Il senso di colpa e il fastidio di sé, alla fine, portano alla rovina la nostra afflitta eroina: non riuscirà mai a scrollarsi di dosso i principi e i valori intorno ai quali si è formata - soprattutto per quanto riguarda l'amore che deve a suo figlio. Quali che siano le ragioni e i torti della situazione, siate consapevoli del fatto che è difficile vivere col senso di colpa.
Una maniera più subdola di gestire il senso di colpa è mettersi sulla scia di un partner che è stato infedele per primo. Nella Londra del 1950, Patience, la protagonista di “Non vale la pena”, è una donna felicemente sposata, il cui soffocante marito Edward si aspetta da lei poco più che tenere in ordine la casa, cucinare pasti regolari, e fare il proprio dovere in camera da letto, magari pensando a quali verdure comprare per il pranzo del giorno dopo. Scoprire che Edward ha una relazione con la non tanto cattolica Molly la fa sentire stranamente sollevata. Il senso di un'imminente liberazione si concentra in fretta su Philip, uno scapolo bello e intrigante che le insegna tutti i possibili significati della parola «sesso». Patience, in un modo o nell'altro, dà il colpo di grazia al proprio matrimonio e si imbarca in una nuova vita con Philip, in maniera quasi indolore. Perfino i suoi tre bambini piccoli rimangono illesi. Il suggerimento affinché Philip mantenga il suo appartamento da scapolo - dove lui lavora e dove a volte si danno appuntamento - si dimostra particolarmente lungimirante. Forse una seconda casa è il segreto della lunga durata di un secondo amore. Purtroppo, Edward non se la cava altrettanto bene: è profondamente avvilito, il suo mondo si è capovolto, e si vede attribuire, un po' ingiustamente secondo noi, tutte le colpe. E possibile che l'adulterio vi liberi da un matrimonio senza amore per catapultarvi in un bel romanzo. Ma è anche possibile che non accada. Può darsi che non facciate altro che portarvi dietro i vostri problemi, essere travolti da sensi di colpa religiosi o personali, e tutto per lasciarvi alle spalle un altro relitto, oltre a quello di voi stessi. Il fatto è, se non vi siete sposati tardi o non siete molto fortunati - oppure siete tra i pochi fortunati a cui i genitori hanno insegnato a essere già maturi a vent'anni -, che probabilmente arriverete a un punto in cui penserete di meritare di più di quanto il vostro matrimonio, al momento, non vi permetta.
Avere una relazione non sempre distrugge un rapporto di lunga data, e se il vostro ruolo è quello del coniuge addolorato che sospetta o sa che il suo partner ha una relazione, vale la pena prendere coraggio con “L'estate senza uomini” di Siri Hustvedt - una resa intrigante del cliché dell'uomo anziano che lascia la moglie dopo trent'anni per mettersi alla prova con una versione più giovane della medesima. Quando il marito Boris le comunica di volersi prendere una «pausa» nel loro rapporto, Mia prova tutto quello che ci aspetteremmo, e che magari abbiamo provato anche noi: si sente umiliata, tradita e infuriata. Finisce a passare il tempo in un reparto psichiatrico. Dopo, tornerà alla cittadina sperduta nel Minnesota dove è cresciuta - e dove sua madre vive ancora, in un ospizio. Qui, circondata da altre donne che per un motivo o per un altro vivono senza uomini, finisce per guarire. A volte, un rapporto può trarre giovamento da una pausa drammatica dove si da voce – da parte di entrambi - alle proprie lamentele. E se non volete tornare da un partner che vi ha abbandonato, temporaneamente o in altro modo, un'estate senza uomini (o donne) potrebbe darvi la forza di andare avanti da soli.
La rottura del rapporto di fiducia provoca ferite profonde e, per molte coppie, recuperare è davvero troppo difficile. Se il vostro partner è stato infedele, dovete essere onesti l'uno con l'altro e decidere tra voi se il rapporto può essere ricostruito. Se siete voi ad avere una relazione, o a esserne tentati, provate invece a scatenare il vostro io represso all'interno del matrimonio. Se ci riuscirete, risparmierete a tutti un sacco di guai e di dolore. Inoltre, il vostro partner potrà cogliere l'occasione per diventare migliore.

Bugiardino

Tralasciamo immediatamente il libro di John Coates che non ho né conosco, cosa possiamo dire degli altri? La Karenina è presente in ben due copie nella mia libreria, una anche in formato elettronico (potenti mezzi tecnologici). Tuttavia, a parte l’incipit, che fedelmente riporto:
“Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”
Confesso che non ho ancora avuto la voglia (lo stimolo? il piacere?) di leggerlo. Prima o poi…
Invece Flaubert fu uno dei miei amori della maturità, dove febbrilmente lessi di tutti, dai viaggi a Pecuchet, dal dizionario delle idee fino a questa Bovary, che, sarà stato il clima, sarà stato il momento, mi ricordo solo con una grande fatica. Non sono, devo dire, mai riuscito ad entrare in sintonia con questo libro, e volentieri rimando a quanto viene sopra esposto.
Rimane il libro di Siri Hustvedt, che invece ho letto da poco, tanto che non ne ho ancora pubblicato ufficialmente la trama, di cui vi do quindi una succosa anteprima.
Siri Hustvedt “L’estate senza uomini” Einaudi euro 9,50
[inedito]
Una nuova, splendente, interessante entrata nella mia pur vasta biblioteca. Entrata autonoma, che ne avevo visto recensioni in giro per librerie. Scoprendo poi che l’esimia Siri è, anche, moglie di Paul Auster. Ma per la lettura e per i suoi libri, questo è un dato assolutamente marginale. La bellezza di questo testo mi ha preso sin dalle prime pagine, dove, e finalmente, c’è una donna che parla da donna. In un’atmosfera che se fosse solo ironica, ricorderebbe quel bel ritratto della metà di niente della Dunne. Ma non è solo ironica, anche se c’è l’ironia. È dolente, è coinvolgente, è cattiva, è reale come la vita. Insomma, è bella e mi è piaciuta. Anche se l’io narrante non è nelle mie corde: Mia, una donna, intelligente, poetessa, colta, ma fragile, viene lasciata dal marito Boris, neuro scienziato, colto e stronzo, che si vuole prendere una “Pausa” (che nella fattispecie è una bionda francese) dopo trenta anni di matrimonio ed una figlia più che ventenne. Mia va in pezzi, tanto da finire per una settimana in un trattamento psichiatrico. Ne esce, ma deve ricostruire se stessa e la sua fiducia nel mondo. Per questo decide di andare nel “buen retiro” dove la madre sta invecchiando per gli ultimi suoi anni insieme a sue coeve amiche. E dove decide, di tenere un corso di poesia, cui si iscrivono sette fanciulle. Questa estate senza uomini è appunto la storia di questa estate passata a Bonden nel Minnesota, e dove (appunto) gli uomini sono solo lo sfondo della scena. Necessari ma se ne può fare a meno. Mia nel percorrere i suoi giorni, percorre anche tratti della sua vita. Ricerca le sue prime esperienze sessuali. Rafforza il legame con la figlia Daisy, aspirante attrice (che non sopporta la “Pausa” del padre). Conosce queste anziane signore, ed alcune le accompagna altrove. Muore la vecchia Georgine di 102 anni. Muore la simpatica Abigail, che per tutta la vita ha fatto ricami a mano, con una perizia tale che, quando li spiega a Mia, le fa vedere le trame nascoste dei ricami. Dove compaiono suntuose e lascive scene di sesso e di eroticità. Discute con la madre il loro diverso rapporto con il padre morto alcuni anni prima. Anche lui con le sue “Pause”, ma che sempre tornava ed era accolto dalla madre. E soprattutto, la storia delle lezioni di poesia e scrittura creativa con le giovani adolescenti. Che Mia scruta, trovandole diverse dal se a quella età, diversa dalla figlia a quella età, ma con tanti punti in comune. Il branco che lotta, la “pecora nera” (cioè quella diversa, per una qualsiasi ragione) che viene sbeffeggiata, allontanata, con tantissima crudeltà (come non ricordare la crudeltà dei giovani di cui si legge nei giornali, che portano anche al suicidio le pecore nere prese di mira). Le discussioni poetiche (stupendo l’Haiku che cito in basso). Le discussioni sull’amore (non solo con le giovani, ma anche con le anziane amiche della madre, durante l’analisi di un libro di Jane Austen). Le crisi che Mia riesce ad indurre nelle giovani, e la catarsi che ne esce fuori. E quel riandare periodico da un lato all’ospedale psichiatrico ed alla dottoressa che la cura e la tira fuori di lì, e dall’altro ad episodi e momenti della vita con Boris. Finché la “Pausa” non molla Boris, e questi tenta (ci riuscirà?) di riconquistare Mia. Il tutto contrappuntato da uno scambio di mail anonimo con un mai scoperto intellettuale, che prima la prende in giro, poi si mette a discettare con lei di massimi sistemi (dalla letteratura a Kant). Ma il nodo è lì: Mia che si analizza, Mia che percorre la sua vita, Mia che deve decidere se dare una nuova possibilità a Boris, Mia con la figlia Daisy, Mia con la madre. Insomma, un TuttoMia molto intrigante. E ben scritto. Da leggere e commentare (sulle possibili declinazioni del finale). Intanto, e solo per finire, una sonora tirata d’orecchi ai curatori dell’edizione italiana, poco accurati. A pagina 96 si fa riferimento ad una citazione/episodio descritto precedentemente, indicandolo avvenuto a pagina 57. Peccato che il formato delle pagine cambi da edizione ad edizione, da originale a traduzione, e così via. Per cui, in questo libro, il riferimento andrebbe collocato come avvenuto a pagina 61. Insomma, che ci vuole ad essere attenti?
 “Ed io recitai la poesia di Ron Padgett ‘Haiku’: è stata veloce / intendo la vita.” (86)
“Un libro è una collaborazione tra chi legge e ciò che si legge e, se tutto va per il meglio, quell’unione è una storia d’amore.” (135)

Conclusioni

Le dottoresse mi sembrano spingano troppo sul versante tragico. Certo l’adulterio non è un “pranzo di gala”, ma il 50% degli antidoti porta a morte sicura. Un altro quarto porta al riproporsi della stessa situazione in un contesto diverso (e dal riassunto mi viene in mente quell’altro bellissimo libro sul tema che è “La metà di niente” della Dunne). Solo Siri ci porta prospettive nuove, anche se, come dico alla fine del commento, dopo un tradimento, si può tornare indietro? Si può tornare con il traditore? Ed a che prezzo? Qualcuno primo o poi risponderà a queste domande che a me non lasciano risposte sensate.





[1] Non è, comunque, tutta colpa dei romanzi: la ragazza conosce a memoria un secolo di canzoni d'amore e si compiace degli inebrianti cerimoniali e riti della chiesa cattolica; la campagna, inoltre, le piace solo se fa da sfondo a edifici in rovina e, almeno per questo, la colpa è solo dell'arte del diciottesimo secolo.