domenica 26 luglio 2015

Skandinaviska Gul - 26 luglio 2015

E spero che le mie lettrici svedesi non mi tirino le orecchie per l’improvvida traduzione. Anche se poi parliamo di scandinavi e dintorni. Anzi abbiamo gli Hammer, i fratelli danesi, abbiamo il norvegese Jo Nesbø. L’unico svedese doc, è Bjorn Larsson, un’interessante scrittore, più famoso all’estero che in patria. E poi abbiamo la chicca negativa. Quell’orrendo compendio di finta scrittura svedese che è l’antologia inglese “Giallo Svezia”, curata dal pessimo John-Henri Holmberg.
Lotte & Søren Hammer “La bestia dentro” Feltrinelli euro 9
[A: 13/12/2013– I: 19/11/2014 – T: 23/11/2014] - &&
[tit. or.: Svinehunde; ling. or.: danese; pagine: 500; anno 2010]
Ovviamente non conosco il danese, ma il titolo assomiglio ad un insulto tedesco “Scwhinehund” tale da farmi ipotizzare una vicinanza. E l’insulto, a volerlo tradurre in modo eufemistico potremmo trasporlo con “Canaglia” (con un significato vicino a “Sporcaccione”). Il passaggio da canaglia a “Bestia dentro” è sempre nella mente delle persone di marketing editoriale, una delle categorie a me più invise al mondo. Fatta quindi questa prima tirata d’orecchie alla Feltrinelli, veniamo al romanzo dei fratelli Hammer, un sodalizio che unisce la carriera di scrittrice di Liselotte detta Lotte a quella di insegnante (soprattutto in materie scientifiche e lingue) di Søren. Un connubio che tuttavia non riesce ad essere particolarmente avvincente per tutte queste lunghe 500 pagine del romanzo. C’è un piccolo accenno dove si vede la mano di Søren, quando il commissario analizza la posizione dei cinque impiccati, come fossero un a struttura geometrica che magari potrebbe portare nel caso… Lascio molto vago, perché qui, ed in altre parti del libro, si spendono pagine e pagine su di un indizio, per poi lasciarlo cadere o liquidarlo in poche battute. Per tutto ilo libro, comunque, ci si aspetta che accada qualcosa, che ci sia un’accelerazione della vicenda, magari verso direzioni impreviste. Invece tutto scorre con una prevedibilità degna di altri scritti (che so, un saggio d’arte di Sgarbi potrebbe essere più avvincente). Vengono uccise, come detto sopra, cinque persone, cui si aggiunge poco dopo una sesta. Le prime impiccate nella palestra di una scuola. La sesta massacrata nella sua rivendita di salsicce. Sappiamo da subito chi è il colpevole (o i colpevoli) e perché sono avvenute queste “esecuzioni”. Il deus ex-machina è Clausing un ex-professore di fisica teorica, ora bidello in seguito alla dipendenza alcoolica seguita al suicidio della figlia. Suicidio avvenuto dopo che questa confessa di aver subito molestie sessuali da parte del secondo marito della moglie di Clausing. Il bidello, pur alla deriva, ha comunque una mente fina e riesce, con tempo e pazienza, a mettere su una vendetta. Non con l’abusatore della figlia, già da tempo morto di cancro, ma verso i pedofili in generale. Dove veniamo a sapere che in Danimarca la legislazione anti-pedofilia è ad uno dei punti più bassi della giustizia mondiale. Clausing si rivolge ad uno psichiatra che lo cura (o sembra che). Clausing fa in modo di sembrare normale, e di farsi inserire in un gruppo di self-help di ex-abusati. Qui costruisce il suo nucleo d’acciaio. Un infermiera per drogare i futuri giustiziati. Un agricoltore che serve per far sparire le tracce a valle. Un pubblicitario per lanciare una campagna sui media (e soprattutto su Internet). Un assassino “puro” (qualcuno deve fare il lavoro sporco, no?). Con l’inganno riesce a rubare l’indirizzario dello psicologo, pieno di nomi di pedofili (questo era poi il lavoro del tizio). Convincendolo poi a fare un’ascensione in Cile ad alta quota, dove, essendo il medico di pressione alta, questi ha un embolia e muore. Clausing quindi organizza lo show dell’impiccagione rituale. Peccato che l’assassino “infierisca” sui pedofili “tagliandolo loro il pisello”. E che poi uccida il sesto, che sarebbe fuori schema e che permetterà, passetto dopo passetto, al nostro esimio commissario Simonsen di risalire lungo il cammino dello svelamento dei misteri. Peccato che Clausing dopo una cinquantina di pagine decida di suicidarsi, e che per le restanti più di quattrocento aleggi come uno spirito, ma con molta debolezza: perché le sue marionette, senza di lui, andranno alla deriva, perdendosi una dopo l’altra. E tutto il libro quindi va sull’onda delle difficoltà della polizia di trovare prove e collegamenti, sia per la bravura di Clausing, sia per l’ostilità dell’opinione pubblica, giustamente inferocita più verso i pedofili che verso i loro assassini. Anche il buon Simonsen sbanda alquanto, se non fosse aiutato dall’ex-commissario Planck, che, da pensionato (e vediamo quanto siano utili i pensionati!) ricostruisce tutto come se fosse una partita a scacchi, mette in difficoltà la giornalista cattiva, emargina la poliziotta problematica, e mette il nostro sulle tracce giuste. Ma mentre per decine e decine di pagine assistiamo alla marea montate delle crociate anti-pedofilia, con giuste nuove iniziative legislative tese ad inasprire le pene alle “canaglie”, poi la fine svanisce come bolla di sapone. E Simonsen riconnette le poche cose che gli servono per mettere in prigione l’unico colpevole materiale (l’assassino appunto). Ma lungo la strada tante cose, come dicevo all’inizio, vengono buttate là e poi irrisolte. Come l’emarginazione del poliziotto Poul, che sembrerebbe poter essere connesso al caso, invece, colpito da raffreddore, si mette in disparte. Come la storia “irregolare” tra Arne e Pauline. Come la storia che potrebbe portare sviluppi tra il Commissario e la Contessa. E che rapporti ci sono tra Simonsen e la figlia Anna Mia? E come si svilupperà il lavoro della giornalista praticante Annette? Speravo sicuramente di meglio, anche perché da anni ormai viene sbandierata la ventata del giallo scandinavo come portatore di nuova linfa al genere. Ora, se è vero che alcuni autori (Manning, Nesbø e Nesser su tutti) hanno portato interesse, molti altri sono anche qui solo battaglie pubblicitarie. E la coppia danese mi sembra che appartenga decisamente a questa seconda schiera: quella dei poco utili da leggere. Un solo punto, per mezzo libricino in più, a favore: lo scoperchiare il finto perbenismo danese verso un lassismo nei confronti di pedofili e stupratori in genere, che va preso, ripreso e sostenuto. Per il resto, dimentichiamolo.
Björn Larsson “I poeti morti non scrivono gialli. Una specie di giallo” Iperborea euro 17 (in realtà, scontato a 12,92 euro)
[A: 06/12/2013– I: 02/01/2015 – T: 09/01/2015] - &&&&
[tit. or.: Döda poter skriver inte kriminalromaner. Ett slags kriminalroman; ling. or.: svedese; pagine: 353; anno 2010]
Cominciamo subito, per i non addetti ai lavori svedesi, col dire che il nostro Björn non è parente ma solo omonimo (o cognonimo?) del defunto Stieg. Il nostro inoltre è considerato in patria uno scrittore di punta, nonché un ottimo velista (vive gran parte dell’anno sul suo veliero, un Rustler 31 per chi sa di mare), e professore di francese all’Università. Da sempre nelle mie liste dei desideri per quando riuscirò a trovare la voglia di comprare l’intrigante vera storia del pirata Long John Silver, non potevo esimermi, durante un PiùlibriPiùliberi di un anno e mezzo fa, di prendere questo libro altrettanto interessante (e scontato, nel prezzo ovvio). Devo dire che non rimpiango la scelta: un meta-romanzo giallo, che di giallo ha poco ma pure tanto, scritto da un non-giallista. Ma anche un romanzo sulla letteratura, sulla scrittura, su cosa sia e cosa voglia dire scrivere. Ed un romanzo pieno anche di giochi letterari e di rimandi. Ad esempio, il commissario che indaga su tutta la vicenda si chiama Martin Barck, e noi riandiamo subito al commissario Martin Beck di Sjöwall & Wahlöö. Un ispettore che indaga su una morte sospetta avvenuta a Stoccolma ha lo svedesissimo nome di Sten e l’ottimo cognome di Dahl (!!). E poi ci sono i rimandi a Wallander (come cito sotto). Nonché una lunga tirata su Saviano e Gomorra (intrigante). La struttura di questa specie di giallo è lineare: un poeta di valore, ma povero, Jan Y. viene convinto dal suo editore a scrivere un romanzo giallo, che in Svezia sono di gran moda. Jan comincia a scrivere un giallo di denuncia sulle frodi bancarie, sul traffico dei soldi sporchi e sui manager corrotti. Non è tutto frutto della sua fantasia purtroppo, chiede molte informazioni in giro per non rischiare di mettere su carta in milioni di copie accuse infondate. Mancano una cinquantina di pagine al finale quando Jan viene trovato impiccato nella barca dove vive, ed il manoscritto scomparso. Al di là dell’iniziale disorientamento il commissario Barck non avrà dubbi: i poeti si uccidono, non vengono uccisi. Nonostante questa ferrea constatazione si scoprirà che molteplici sono i possibili motivi del delitto: il denaro che il poeta avrebbe incassato dalle informazioni scottanti relative al mondo della finanza, il supposto tradimento dei fedeli lettori, i rapporti contrastati con il padre, le molteplici relazioni amorose. Ma un solo esecutore. Il suo editore, Petersen è il solo a possederne una copia seppur parziale del libro e chiede allo scrittore e ghostwriter Anders Bergsten di completarlo. Questi si trasferisce allora nei luoghi di Jan Y., entra in contatto in più di un senso con la musa Tina, esecutrice testamentaria del poeta, nonché probabilmente segretamente innamorata. Mentre procede nel tentativo di scrittura, e mentre Barck va avanti nelle indagini, anche Petersen viene ucciso. E dagli indizi che si accumulano via via, Anders capisce e ricostruisce gli avvenimenti. Farà in tempo a comunicarli a Barck? Ma se questo è “la specie di giallo”, riempiono le oltre 300 pagine molte altre cose. Innanzi tutto una critica dura e spietata del mondo dell’editoria in generale, e di quello svedese in particolare. A fronte della decisione del poeta di scrivere un romanzo, i suoi amici più stretti affrontano un serrato dibattito se sia giusto “vendersi” per un pugno di corone, o mantenersi puro e duro sulla traccia delle poesie, di ottima fattura, ma di scarso rendimento economico. E tutto il libro è percorso da brani letterari, dalle poesie di Jan Y., che Larsson confessa nei ringraziamenti di aver copiato, lui consenziente, dal bretone poeta Yvon Le Men. Ma dato che anche Barck è appassionato di poesia (e dato che si discute di letteratura e vita), ecco che compaiono haiku di Bashō, versi di Rafael Alberti, nonché una poesia dell’allora ignoto Tomas Tranströmer, che l’anno seguente riceverà il Nobel della Letteratura. Insomma, un giallo che non è un giallo ma che è anche un giallo, tutto avvolto nella domanda: è giusto “abbassarsi” a scrivere un giallo, solo per sopravvivere, tralasciando la nobile arte della poesia? Un libro, ed una risposta, da scoprire. Ah, dimenticavo, Björn è nato nel 1953…
“È bene essere soli, poiché la solitudine è difficile; che una cosa sia difficile deve essere per noi un motivo in più per farla.” (18)
“Non esistono assassini, come diceva sempre il commissario Wallander della polizia di Ystad, ma solo persone che commettono omicidi.” (154)
Jo Nesbø “The Bat” Vintage Book euro 12
[A: 07/02/2014– I: 21/03/2015 – T: 26/03/2015] - &&&
[tit. or.: Flaggermusmannen; ling. or.: norvegese; pagine: 425; anno 1997]
Esattamente tre anni dopo aver letto il primo romanzo uscito in Italia del norvegese Nesbø, leggo anche il primo della serie (cui spesso si fa riferimento ne “Il pettirosso”, appunto il primo pubblicato). Avevo intanto aspettato anni che in Italia si decidessero a pubblicare i primi due capitoli della saga di Harry Hole, ma invano. Tanto che un anno fa, visto che comunque non riesco a leggere il norvegese (ah, ah) mi sono detto: “tradotto per tradotto, leggiamolo in inglese”. Ovviamente, due mesi dopo l’acquisto Einaudi ha deciso di pubblicarlo in italiano, così come ha deciso che quest’anno (2015) dovrà uscire anche il secondo della serie (“Scarafaggi”), che questa volta aspetteremo, data la non facile lettura in inglese, piena anche di puntate “slang”. Strano comunque il percorso fatto da Nesbø e da Hole. Sia in Italia che nei paesi anglosassoni hanno iniziato le pubblicazioni dal terzo libro, ambientato in Norvegia, tralasciando appunto i primi due episodi che invece si svolgono per la maggior parte lontano da Oslo: qui tutto in Australia, ed il secondo gran parte in Tailandia. Misteri del marketing. Qui il “personaggio” Hole è in costruzione, e Nesbø ha anche modo di raccontarcene squarci biografici che danno meglio lumi sul suo modo di comportarsi. Soprattutto il suo rapporto con gli alcolici, che in tutti i libri ho stigmatizzato come a me incomprensibile, qui viene in un certo senso illuminato da due fattori specifici: il fatto di aver ucciso indirettamente un collega guidando in stato di ebbrezza ed il suo rapporto intenso e finito male con tal Kristina. Proprio per redimerlo dalla difficile posizione dopo la morte di cui sopra, Harry viene inviato in Australia per indagare sulla morte di Inger, una stellina norvegese di B-movie. Al suo arrivo, viene preso a balia da un detective aborigeno Andrew Kensington, in modo che Nesbø riuscirà anche a parlarci dei problemi del razzismo in Australia. E di tutte le derive degli emarginati, lì e qui. Andando in giro con Andrew, Harry incontra Evans, il compagno di Inger, che si rivela essere un boss degli spacciatori di tutte le droghe (dalla coca alla morfina), una collega barista di Inger, la svedese Brigitta, con la quale incomincia una appassionata relazione, un clown omosessuale, Otto, specializzato in un numero di finta ghigliottina, il pugile aborigeno Toowoomba, dato che anche Andrew in gioventù era stato un boxeur. In tutto ciò, ci si mette il resto della squadra della omicidi australiana, divisa tra capi incapaci e sottoposti lunatici. L’idea vincente, come ovvio, viene a Harry, che chiede di indagare su stupri ed omicidi di donne bionde. E se ne trovano in numero significativo, ogni volta in località che ospitavano esibizioni circensi di vario tipo. Nella foga di trovare prove, Harry scatena una rissa, dove Andrew per salvarlo, subisce una commozione cerebrale. Con l’aborigeno fuori causa, però, Harry scopre molte elementi sospetti, come se questi volesse non aiutarlo ma depistarlo. Si convince quindi che deve essere un amico di Andrew il possibile colpevole, ed i suoi sospetti si appuntano su Otto. Ma l’irruzione al circo per sorprenderlo va anch’essa male, che Otto viene trovato massacrato. Non solo ma poco dopo, trovano Andrew drogato ed impiccato. Gli australiani allora si convincono che sia Evans il colpevole. Preparano quindi una trappola, inducendo Harry a convincere Brigitta a fare da esca. Ovviamente anche questa mossa fallisce, scagionando Evans, ma con la svedesina scomparsa. Harry, colpito da tutti questi avvenimenti, non può che attaccarsi di nuovo alla bottiglia (così come lo vedremo fare spesso poi nelle altre avventure della serie). Ma capisce che, se da un lato è vero che Andrew proteggeva qualcuno, non poteva che essere il pugile. Si scatena allora una lotta tra i due, dove, dopo che scopriamo i motivi delle morti (e non ve le dico), in un finale tremendo avvengono altre morti inaspettate, fino alla scena madre nell’acquario di Sydney, dove il colpevole verrà dilaniato da un predatore dei mari. Devo dire che, come prima libro della serie, in realtà è ancora debole su alcuni aspetti. Non si capisce come mai Harry ha sempre le idee giuste, ma al momento sbagliato. Inoltre, porta iella a tutti quelli che gli sono intorno, soprattutto alle donne (e sarà una costante). C’è azione, c’è una giusta dosa di suspense, ma l’ho trovato un onesto prodotto, con qualche elemento folkloristico interessante. In particolare sulle vicende dei nativi australiani. E qualche elemento geografico che ho apprezzato (Sydney e le sue bellezze come l’Opera House e l’Aquarium). Pur tuttavia, con questo solo libro, né Nesbø né Hole avrebbero fatto molta strada.
John-Henri Holmberg (a cura di) “GialloSvezia” Marsilio s.p. (regalo di Natale di Otto)
[A: 25/12/2014– I: 27/03/2015 – T: 31/03/2015] - &&
[tit. or.: A Darker Shade of Sweden; ling. or.: svedese; pagine: 375; anno 2014]
Lo sapete, sono impietoso con le operazioni di un marketing drogato. Ringrazio quindi Otto che mi da l’opportunità di stroncare un libro. Prima per il modo in cui è presentato e poi per il contenuto. Allora, parliamo di una serie di racconti di autori svedesi, con una antologia che non è mai uscita in Svezia, ma che è stata preparata per il mondo anglosassone. Quindi i 17 racconti presenti sono qui tradotti dall’inglese e non dallo svedese. È stato il curatore che li ha tradotti dallo svedese in inglese per l’edizione originale. Anche le scelte riflettono quindi la voglia di sfruttare l’onda lunga di Stieg Larsson, dopo l’uscita dei suoi libri e dopo i film da loro tratti. Riporto quindi i titoli presenti con il titolo con cui sono stati presentati nell’edizione inglese.

Rimpatriata
Reunion
Tove Alsterdal
Gli piacevano i suoi capelli
He Liked His Hair
Rolf & Cilla Börjlind
Mai nella realtà
Never in Real Life
Åke Edwardson
Nella nostra casa buia
In Our Darkened House
Inger Frimansson
L’ultima estate di Paul
Paul’s Last Summer
Eva Gabrielsson
L’anello
The Ring
Anna Jansson
Il postale
The Mail Run
Åsa Larsson
Brain power
Brain Power
Stieg Larsson
Un incontro improbabile
An Unlikely Meeting
Henning Mankell & Håkan Nesser
Un alibi per il señor Banegas
An Alibi for Señor Benagas
Magnus Montelius
Qualcosa nei suoi occhi
Something in His Eyes
Dag Öhrlund
Illumina, custodisci, reggi e governa me
Day and Night My Keeper Be
Malin Persson Giolito
Il multimilionario
The Multi-Millionaire
Sjöwall & Wahlöö
L’agenda Braun
Diary Braun
Sara Stridsberg
La vendetta della Vergine
Revenge of the Virgin
Johan Theorin
Maitreya
Maitreya
Veronica von Schenck
Troppo tardi si sveglierà il peccatore
Too Late Shall the Sinner Awaken
Katarina Wennstam

E prima di entrare nel merito dei racconti, che sono anche loro miserelli nella loro globalità, spenderei due parole sulla cosa forse migliore, anche se non è niente di eclatante. La post-fazione di Holmberg dove cerca di fare una specie di cronistoria del giallo svedese. Qui la cosa migliore non è tanto la storia in sé, che forse potrebbe essere melio narrata, ma alcune direi spigolature. Come la scoperta de “Il diario del dr. Smirnos” uscito nel 1917 per la penna di Samuel August Duse che anticipa di dieci anni le tematiche del famoso Roger Ackroyd (di cui non parlo per lasciare un po’ di … mistero). O la lesbo-killer di Maria Lang in “L’assassino non è l’unico a mentire” del 1949. Meriterebbe certo miglior spazio poi l’analisi del contesto da cui nascono negli anni Sessanta le storie di critica sociale della coppia Maj Sjöwall e Per Wahlöö. Ed altri fenomeni che portano al proliferare attuale della letteratura gialla dalla Svezia verso il resto del mondo. Veniamo allora al testo, lasciando in finale i tre esempi che fanno toccare il fondo a questo libro. Nel racconto di Inger Frimansson sappiamo già che il protagonista deve morire, e seguiamo solo il percorso che fa per arrivarci. In quello di Magnus Montelius cerchiamo di cavarcela tra i colpi di casualità che incastrano un costruttore svedese in cerca di una commessa in Sudamerica, un po’ turlupinato dal un politico honduregno. La storia più strana è quella dei coniugi Börjlind dove seguiamo I turbamenti di uno psicopatico e della sua inusuale arma per I suoi delitti. C’è una strana inversione di prospettiva in quello di Malin Peterson Giolito, dove più che il rapimento del figlio della protagonista (poi ritrovato) viene rimproverata la madre che lo perde di vista nel centro commerciale. Rabbrividiamo al freddo dei racconti di Åsa Larsson. Ma non vorrei ripercorrere tutti i racconti, ricordando solo di passaggio che, purtroppo, Eva Gabrielsson è inserita solo in quanto compagna di Stieg (ma forse è giusto visto il modo come i parenti ufficiali dello scrittore l’hanno trattata). O il poco convincente racconto di Sara Stridsberg, che si inventa il diario delle ultime ore di Eva Braun (penoso). Ma quello che più mi ha imbestialito sono le tre prove di cui dicevo prima. Di Stieg Larsson viene proposto un racconto che il nostro scrisse a 17 anni e che inviò a Holmberg in quanto questi era un redattore di fanzine fantascientifiche. Perché non si tratta di un giallo ma di una racconto di fantascienza, genere che appassionò in gioventù Stieg ma che non ha molto a che vedere con il giallo. Come non c’entra nulla il racconto di Sjöwall & Wahlöö, che ci racconta la storia di un multimilionario incontrato in una crociera. C’è la critica sociale, che caratterizzò i due, ma neanch un briciolo di possibilità di suspense. Infine c’è l’ignominiosa farsa della scrittura a quattro mani di Henning Mankell & Håkan Nesser, che fanno incontrare in una sperduta località, alla viglia di Natale, i loro commissari (Wallander e Van Veeteren, per chi non se li ricordasse). Che chiacchierano, che fanno una partita a bridge con due scrittori di gialli (indovinate un po’ chi sono questi due…) e che alla fine del racconto, vanno a dormire. Mi chiedo, e qui termino, ma che senso ha inserire tali scritture in un libro che in Italia viene lanciato come “Giallo-Svezia” o in America come “Una sfumatura più scura della Svezia”? Leggete di autori svedesi, ce ne sono di buoni, ve lo garantisco. Lasciate perdere questo libro.
Eccoci qui, alla fine di un luglio bollente, cercando di mettere un po’ d’ordine tra tutto quello che capita e che capiterà. Molti amici già in ferie, e molti ancora no. Tutti alla ricerca di itinerari e cosa da fare e da vedere.

domenica 19 luglio 2015

Dalla prima alla seconda - 19 luglio 2015

E non stiamo parlando di marce delle auto, ma di Guerre. Che questa volta si sono fatte letture storiche, che vanno dalla prima guerra mondiale di Faulks, agli anni Trenta in Germania del bellissimo Uhlman, alla storia di Schindler nella scrittura di Keneally, fino al sempre da rileggere Fenoglio ed alla sua guerra partigiana. Per non dimenticare e per sottolineare come questi libri si portino tutti sopra la media. Sarà un caso?
Fred Uhlman “L’amico ritrovato” Feltrinelli s.p. (nella biblioteca di mamma)
[A: 22/12/2000 – I: 20/12/2014 – T: 21/12/2014] - &&&&
[tit. or.: Reunion; ling. or.: inglese; pagine: 92; anno 1971]
Un po’ strana la storia di questo libro. Lo avevo letto una trentina di anni fa, e poi lasciato a depositarsi di polvere nell’enorme biblioteca paterna (ora solo materna, purtroppo). In partenza per il primo giro asiatico, in cerca di librini agili, che non occupassero troppo spazio, mi è capitato tra le mani, ed ho deciso di aggregarlo al viaggio. E bene ho fatto, che, in due giorni pieni di tosse, nel ritemprarmi da fatiche sui monti del Vietnam del Nord, l’ho riletto e nuovamente trovato di un ottimo livello, di scrittura e di contenuti. È una storia da anni Trenta, tutta interna alla Germania, ed ai suoi sentimenti, che si svolge quasi completamente a Stoccarda nel 1932. Narrata in prima persona da Hans Schwarz, ragazzo ebreo di sedici anni, famiglia alto borghese, tranquilla e rispettata, dalle idee aperte e quasi incurante della propria identità ebraica. In una pagina, infatti, si capisce come loro si sentano prima di tutto svevi, poi tedeschi e infine ebrei. Una famiglia che vive rapporti pacifici con tutte le comunità religiose locali. Durante la seconda metà dell’anno scolastico entra nella classe di Hans, il nobile Konradin von Hohenfels. Con i suoi modi altezzosi, Konradin intimidisce e attrae tutti i ragazzi. In special modo Hans che vorrebbe diventargli amico, cercando mille modi per attirarne l’attenzione. Finché, inaspettatamente, Konradin rivolge la parola ad Hans, iniziando una forte amicizia. Sono entrambi figli unici, nessuno dei due ha mai avuto un vero amico, ed entrambi si sentono profondamenti soli. Piccolo inciso, è bello fare un parallelo con i sentimenti che rivela il ragazzo Bassani in “Dietro la porta”, anche se poi vicende e modi letterari sono ben diversi. Tornando alla storia, Hans da allora invita spesso Konradin a casa sua, aprendogli cuore e famiglia. Mentre non avviene l’analogo da parte di Konradin, che, quando lo fa entrare nella sua magione, è sempre quasi di nascosto, e quando non ci sono i genitori. Il motivo principe è l’odio feroce che la madre del nobile ha verso gli ebrei, in questo assecondata dall’innamorato anche se ignavo marito. E quando capita, in un teatro, che Hans incontri Konradin insieme ai genitori, questi lo ignora. La loro amicizia, da questo momento, si avvia a rotta di collo verso la rottura. accentuata e corroborata dalla graduale intrusione dell'ideologia nazionalsocialista nella vita scolastica. Quando l’anno successivo Hitler prende il potere, tutta la situazione, sociale e scolastica si deteriora in maniera irreparabile. Hans viene spedito in America da degli zii, dove rimarrà per sempre, studiando, laureandosi e facendo la sua vita lontano dalla patria. La famiglia di Konradin rimane invece (come ovvio) a Stoccarda. Dove rimane anche il padre di Hans, che, alla vista dell’antisemitismo montante, quasi uno Stefan Zweig ante-litteram, decide di togliersi la vita. La storia salta verso la vecchiaia di Hans, che viene raggiunto da un opuscolo che vorrebbe adoperarsi per la costruzione di un monumento agli ex-alunni del suo Ginnasio di Stoccarda. Qui assistiamo ad una feroce lotta con se stesso del nostro, che legge e ripercorre con la memoria i nomi dei compagni amati e odiati. Con una resistenza che vince solo a fatica per arrivare a sfogliare la lettera H, dove alla fine trova il nome di Konradin: giustiziato perché coinvolto nel complotto organizzato per uccidere Hitler, in quella che fu chiamata “Operazione Valchiria” del 20 luglio 1944. Qui, non senza qualche lacrima, il nostro Hans ritrova il suo amico di gioventù. L’ho trovata ancora una storia intensa, e sempre leggibile a distanza di anni. Con quel tocco problematico in più, che affianca il tema dell’amicizia tra adolescenti e di tutti i problemi che questa comporta, derivante dal contesto in cui viene inserita la trama. Alla fine anche noi ritroviamo i nostri amici, Konradin (anche se sempre un po’ altezzoso), Hans ma soprattutto Fred, l’autore con tutte le sue problematiche di tedesco ed ebreo fuggito anche lui nel ’33 (ma aveva già più di trenta anni) ed il suo errare per il mondo alla ricerca (ritrovandola) della sua identità.
Beppe Fenoglio “Una questione privata” Einaudi s.p. (nella biblioteca di mamma)
[A: 06/01/2015 – I: 20/01/2015 – T: 21/01/2015] - &&& e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 128; anno 1963]
Analoga la sorte di questo libro, rispetto al simile di origine di Uhlman. Certo questo l’ho letto in India e non in Vietnam, ma sempre derivandolo dalla biblioteca avita. Ne ero anche curioso, avendo letto una quindicina d’anni fa altri due suoi libri (“La paga del sabato” e “Il partigiano Johnny”) che ricordo mi avevano lasciato perplesso. Ottima la scrittura (non sono certo io a doverne parlare bene, ma parla da sola), senza che la trama mi lasciasse addosso grandi voglie. Cosa che, al contrario, ha fato questo agile libro. Con tutte gli “accidenti” che porta con sé. Ultimo libro scritto dall’autore, terminato poco prima di morire, ma pubblicato “così com’è”, lasciando nel lettore e nei critici il dubbio: era proprio finito? o mancavano ancora rifiniture ed aggiunte? Noi, fedeli a quanto se ne scrive in giro, lo prendiamo per quello che è. Per uno dei migliori libri sulla Resistenza scritti in Italia, come ci sottolineava a lungo nei suoi scritti Italo Calvino. E come un lungo atto d’amore, con i due temi che si intrecciano e si completano a vicenda. Con l’ottica di una Resistenza vista dalle file di uno che comunista non era, ma che si pone dalla parte dei giusti. Con tutte le problematiche che si ebbero allora (e che non si sono mai sopite) tra le formazioni garibaldine (legate alla sinistra) e quelle badogliane (formate da ex-soldati del re, di provenienza spesso monarchiche e liberali). Il protagonista è per l’appunto un badogliano, di cui sappiamo solo il nome di battaglia, Milton. Prima del fatidico settembre del ’43, l’allora ufficiale Milton era di stanza ad Alba, dove frequentava la bella Fulvia, di cui si innamora. Tanto che, durante la guerra partigiana, capitato nei pressi di Alba, va alla ricerca della casa della bella, girando (e qui Fenoglio ha belle descrizioni di un amore forse inespresso ma presente) per luoghi così pieni di ricordi. Accolto dalla vecchia governante, che gli instilla il tarlo di una possibile relazione tra Fulvia ed il suo amico Giorgio, ora anche lui nella resistenza. Alla ricerca di una verità che comunque lo vedrebbe soffrire, si mette sulle tracce di Giorgio, ma viene a sapere che questi è stato catturato dai fascisti ed è in attesa di essere giustiziato. Benché macerato da opposti sentimenti, si pone sulle tracce di un possibile scambio di prigionieri, anche se le formazioni partigiane al momento non ne hanno. Trova tuttavia le tracce di un ufficiale fascista che frequenta una ragazza del luogo, fuori dagli schemi. Con uno stratagemma lo cattura, ma l’ufficiale tenta la fuga, e Milton è costretto ad ucciderlo. Ormai non ha più mezzi per salvare Giorgio, e per sapere in ogni caso la verità, torna alla villa dalla governante. Ma mentre sta per farsi rivelare “la verità” (che né lui né noi sapremmo mai) viene sorpreso dai fascisti. Fugge, inseguito e mitragliato dalle bande repubblichine. Milton, probabilmente ferito e spossato, giungerà dopo una folle corsa nei pressi di un bosco e crollerà a terra. Qui il libro finisce (o secondo alcuni si interrompe). Fenoglio non ci dice se Milton è colpito dai proiettili, né se muore, una volta caduto a terra. Ho detto probabilmente ferito, ma Fenoglio non parla di sangue. Pensiamo solo, intravedendolo tra i ragionamenti di Milton che corre, che abbia raggiunto una sua consapevolezza sul comportamento di Giorgio e di Fulvia. Ed il tradimento dei due alla sua amicizia ed al suo indichiarato amore, forse sono più dolorose delle eventuali ferite. Ripeto, e mi ripeto, un bel libro sull’amore e sulla Resistenza. Apprezzandone l’intreccio nei tormentati pensieri di Milton. Che vanno dal trasporto verso Fulvia, all’incredulità sul comportamento di Giorgio, alla rabbia, ed infine, all’accettazione. E la guerra, con tutti i suoi dolori, con i non facili rapporti tra badogliani e garibaldini, lotte aspre, con morti da tutte le parti. Con la rabbia di non riuscire, sovente, ad avere una unità di lavoro se non di intenti. Unità che già si portava tutto appresso dalle dolorose pagine spagnole di dieci anni prima. E, mutando scene e tempi, ancora oggi continua a fare guasti su tutta la scena politica. Chissà se riuscirò a vedere una pace, prima di…
Thomas Keneally “La lista di Schindler” Sperling euro 10,50
[A: 04/01/2014– I: 25/02/2015 – T: 01/03/2015] - &&& e ½ 
[tit. or.: Schindler’s List; ling. or.: inglese; pagine: 385; anno 1982]
Se non avete visto il film di Spielberg, leggetelo. Se lo avete visto, leggetelo. Non ha lo stesso impatto emotivo, ma è ben scritto. E serve sempre, per non dimenticare. Intanto, appunto per non dimenticare, tracciamone alcuni contorni (cioè parliamo un po’ del contesto, dato che sul testo seppur noto torneremo poi). Il libro nasce dalla casuale conoscenza dell’autore con un ebreo polacco sopravvissuto allo sterminio, Leopold Pfefferberg. Questi, ex-insegnante a Cracovia ai tempi dell’invasione nazista, fu uno dei “salvati” da Schindler e passò la vita a raccogliere testimonianze su quel periodo. L’incontro tra i due scatenò la scintilla in Keneally, di scrivere un libro basato su quella avvincente storia. Nasce così, nel 1982, un libro che si intitola “Schindler’s Ark”, e che con questo titolo vince uno dei più prestigiosi premi letterari britannici, il Booker Prize (premio aggiudicato ogni anno al miglior romanzo originale scritto in inglese). Il premio apre le porte a pubblicazioni in tutto il mondo, tra cui l’America, dove però viene ribattezzato “Schindler’s List”. Capita così tra le mani di Spielberg che ne intuisce subito le potenzialità, e, dopo una lunga gestazione (aiutato dallo stesso Keneally) viene da lui trasferito sullo schermo. Esce nel 1993 e vince 7 premi Oscar (film, regista, sceneggiatura non originale, colonna sonora, scenografia, fotografia e montaggio). Ma lasciamo da parte il film, e le semplificazioni che forzatamente si devono fare per ridurre un libro ed una storia, ad un evento visivo (anche se su qualcosa torneremo), e torniamo subito all’autore, che era ed è un prolifico scrittore, australiano di nascita, in patria già precedentemente noto per i suoi scritti, ma che con questo raggiunge un apice di successo e notorietà che, in effetti, metterà in ombra tutto il resto della sua produzione. Lo stile che adotta è molto giornalistico, con riprese ed anticipazioni, laddove tuttavia la materia narrata è talmente di suo, forte e di grande impatto, che sembrerebbe facile farne comunque un buon libro. Io credo di no, e credo che il merito di Keneally sia stato proprio quello di rendere una materia complessa, ed avvenimenti non chiari, con uno stile ed una capacità di non perdere fili di una intricata matassa per tutto il lungo svolgersi dei 6 anni intensamente narrati. Il fulcro della narrazione si spande dall’occupazione nazista della Polonia nel 1939 alla fine della Seconda Guerra Mondiale nel maggio del 1945. Se si dovesse solo citarne lo scarso filo che lega le quasi quattrocento pagine, dovremmo parlare dell’epopea di Oskar, delle sue fabbriche, della sua empatia verso gli ebrei di Cracovia, e tutto quello che ne conseguì. L’attrito latente (ma potente) con i tedeschi occupanti, l’amore iniziale verso il nazismo trionfante negli anni ’30 all’odio sempre più aperto verso le crudeltà di regime. Non siamo qui per ripercorrere tutti i momenti forti del libro, sottolineando solo la capacità di Keneally di descriverli quasi asetticamente, ma proprio perché descritti quasi senza partecipazioni non possiamo che capirne (e sentirlo su di noi) l’orrore. Seguiamo Schindler che cerca di neutralizzare il depravato Amon Goeth (il “re” del campo di concentramento dei “suoi ebrei”, e che finirà impiccato a fine guerra per i suoi crimini). Schindler che si sporca le mani, che minaccia, che corrompe, che viene arrestato più volte, ma che riesce ad uscirne, più o meno bene. Fino all’ultima avventura: la guerra si avvia verso la sua conclusione (scontata) e, a fronte dell’avanzata russa, molti campi vengono chiusi e gli ebrei spostati o direttamente uccisi sul posto. Schindler tenta la sua ultima carta: spostare la (finta) fabbrica in Moravia, con più di mille ebrei catalogati come “specialisti”, ma assolutamente incapaci di avvitare bulloni. Così si salvano Stern, Pemper dalla memoria di ferro, e Pfefferberg (quello che darà avvio al processo di “beatificazione” di Schindler). Una volta finita la guerra, Oskar non riuscirà ad avere più alcun successo. Si trasferisce in Argentina, e la sua fabbrica fallisce. Torna in Germania, lasciando la moglie in Sudamerica, e colleziona un fallimento dopo l’altro. Fino a morire a 68 anni nel 1974 e venir sepolto sul monte Sion a Gerusalemme, ricordato come uno dei “Giusti dell’umanità”. Il libro, più che il film, insiste sulla contraddittorietà della figura di Schindler, del suo oscillare tra gaudente incosciente e cosciente salvatore della patria. Sicuramente,  gli Stern, i Pemper e gli altri a lui vicini lo indirizzarono verso una strada che da solo non avrebbe forse percorso. Di suo, ci mise la giovinezza guascona, il desiderio di rivalsa sulle sconfitte del padre, ed altro (ardore sessuale che lo portava ad avere una moglie e due amanti contemporaneamente sparse sul territorio, voglia di godere, mangiando e bevendo al limite della cirrosi epatica). Keneally ha molte immagini forti nel suo scritto (tra cui quella della bimba con il vestito rosso che sarà un marchio della pellicola di Spielberg). Quello che purtroppo non risalta è il susseguirsi di persone dietro gli avvenimenti. Tanti sono i nomi, tante le vicende che a volte ci si perde un po’, non riuscendo a seguire bene chi sia che fa cosa, e come, e chi ad un certo punto muore e chi si salva. Comunque, un libro come detto sopra per non dimenticare, e, seppur letto con difficoltà, di impatto superiore alla media. Ah, Oskar Schindler era un Toro.
Sebastian Faulks “Il canto del cielo” Beat euro 13,90
[A: 04/01/2014– I: 05/03/2015 – T: 07/03/2015] - &&& 
[tit. or.: Birdsong; ling. or.: inglese; pagine: 489; anno 1993]
Ecco un  altro libro che, senza le mie libropeute, difficilmente avrebbe trovato spazio tra le mie letture. Un libro che basicamente si svolge in Francia tra il 1910 ed il 1918, ed è pieno, stracolmo direi, di Prima Guerra Mondiale. Che non è (nonostante i centenari e le celebrazioni) tra le priorità dei miei interessi. Eppur sono onnivoro, ed alla fine mangio anche questo, che, tra alti e bassi, ha comunque un suo interesse ed un suo spazio. Certo a volte sembra ripetere altre trame ed altri filoni, già letti o sentiti. Ma (a parte una personale critica sulle ultime 100 pagine di cui dirò) è stata una lettura interessante, con qualche domanda che affiora alla testa. La prima, di carattere solo filologico, è la trasmigrazione del titolo da Birdsong (il canto egli uccelli) a “Il canto del cielo”. L’originale ha una duplice attinenza al testo, dove è vero che gli uccelli volano nel cielo dove, durante la maggior parte del libro, volano granate ed altre bombe, così che si collega il loro canto alla morte (e questo rimane nella traduzione italiana). Ma è anche vero che gli uccelli venivano portati nelle gallerie che si scavavano sottoterra per piazzare mine ed altri ordigni (servivano a controllare che ci fosse ancora aria con il loro canto), e questa parte (che poi è uno dei cardini del libro) si perde e viene ignorata. Seconda domanda è la mistificazione palese della quarta di copertina, dove viene indicato come “Romanzo nominato Best British Book of the Last 25 years”. Purtroppo in italiano nominato ha un significato molteplice, ma tutti convergeranno subito su quello più evidente (tipo “Renzi era un sindaco nominato Primo Ministro”) Ma il libro non ha vinto la tenzone, ha solo avuto una “nomination”, cioè è tra quelli indicati come “interessanti” dopo i primi 10. Ed il primo fu “Vergogna” di J. M. Coetzee. Ciò premesso, il libro scorre con interesse, mentre iniziamo a seguire le vicenda della vita di Stephen Wraysford, un inglese mandato nel 1910 in Francia, ad Amiens, per indagare su un possibile investimento inglese in una fabbrica tessile francese. Si installa quindi nella casa del proprietario della filanda, René Azaire. Ne seguiamo il percorso cognitivo della vita lavorativa francese, ma soprattutto il continuo avvicinarsi alla giovane moglie di Azaire, Isabelle. ovviamente scoppia l’amore, i due, creando scandalo, fuggono insieme. Vivono del tempo nella cittadina di St. Rémy grazie al lavoro di lui. Poi Isabelle, incinta, sparisce. E Stephen non la cerca. Passano 6 anni, e troviamo il nostro impegnato nella Prima Guerra Mondiale. In tutta questa parte c’è un tentativo molteplice: far vedere la follia della guerra, farci percepire gli orrori della stessa (con tutte le scene cruente, le morti violente ed insensate), farcene percepire l’intensa umanità negli uomini che la combattono. E mentre Stephen sprofonda sempre più nel suo orrore interno, dove, una volta senza Isabelle, comincia a sentirsi cadere addosso l’inutilità della vita. Ma è un tipo strano, Stephen, per cui fa comunque il suo dovere, e, spesso, i suoi uomini si salvano mentre intorno fioccano i morti. Certo, a ben vedere la scrittura e le descrizioni di Faulks sono debitrici di grandi lasciati, primi fra tutti gli scritti di Remarque sul lato della riflessione intorno alla guerra e quelli di Hemingway sulle azioni e sugli ospedali militari. E come non vederci, in controluce, un riflesso di “Orizzonti di gloria” di Kubrick? Non ve ne dico però il motivo (fate lo sforzo di vedere il film, stupendo, e di leggere questo libro). C’è in tutta la parte militare il contro-altare proletario di Stephen nella figura di Jack, quello che scava sottoterra, capitato per soldi nella guerra, dove anche lui rimane in trappola. E come per Stephen, anche a lui muoiono tutti gli amici intorno (e muore di difterite il figlio di otto anni che aveva lasciato a Londra). La casualità della guerra porta Stephen ancora ad Amiens, dove ricerca Isabelle, colà tornata. E mutilata da una scheggia di granata, nonché innamorata di un tenente tedesco, ora tornato in patria. Trova anche Jeanne, la sorella di Isabelle. Capisce che la storia con il suo primo amore ormai è sepolta, e questo aggiunge altra amarezza alla già notevole sua. Tuttavia, trova (o comincia a trovare) un aiuto in Jeanne (mentre non sa che, oltre la porta, c’è Françoise, figlia sua e di Isabelle). Poi c’è tutta la scena madre, che io avrei tagliato di decine di pagine, dove Jack e Stephen, agli sgoccioli della guerra, rimangono intrappolati sottoterra. Ci sono grandi parole, proclami, amicizie, rinvangamenti. Ma c’è anche la morte di Jack, ed il salvataggio di Stephen da parte di una plotone tedesco. E quando esce al sole (per sentire di nuovo il canto degli uccelli) sa che la guerra è finita. Noi tutto ciò lo sappiamo anche in retrospettiva, perché una grossa parte del racconto si svolge anche nel 1978, dove Elizabeth, la nipote di Stephen, attraversando anche lei una storia d’amore tormentata, comincia a chiedersi chi sia suo nonno. Elizabeth è inglese, ma sappiamo che la madre è francese e si chiama Françoise. La nipote scoprirà i diari del nonno, ed in un colloquio rivelatore con la madre saprà tutta la storia, della rinascita, dopo due anni dalla fine della guerra, di una scintilla di vita in Stephen, del suo matrimonio con la nonna, e di tutto il resto. Non vi svelo però se la nonna sia Isabelle o Jeanne. Ma vi dico che, al piccolo che nasce (in una nascita che fa rabbrividire per quanto poco realistica sia), la nostra Elizabeth vorrà dare il nome di John, il figlio morto del minatore Jack. Finisce qui questo pur bello e interessante libro contro la guerra. Ma anche con quel sentimento sotterraneo di indecisione tra paternità e sua assenza e sua presenza coatta. Che vediamo in Stephen che non sa di aver una figlia, in Isabelle che scappa senza dirglielo, in Robert (l’amante sposato di Elizabeth) che non sa se accettarlo, in Jack che perde il figlio e da quel momento ne parla con tutto l’amore possibile. Insomma, un elemento di discussione bello ed intrigante su biologia e natura.
“Quando c’è vero amore fra le persone, come ce n’era fra noi, i dettagli non contano.” (479)
Come sapete, o meglio dovreste sapere, la seconda (ma qui terza per ragioni viaggiatrici) contiene anche la cura del mese dell’ormai annoso ma sempre presente “Curarsi con i libri”, questo mese dedicato all’evasione (mentale, non fisica). In attesa che passi il caldo romano, saluto chi già parte per i lidi turchi, e chi si prepara ad altri viaggi avventurosi tra Namibia e Perù.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

LUGLIO 2015
Anche questo mese l’apporto delle mie dottoresse è abbastanza scarno. Fanno un elenco di quelli che ritengono i dieci migliori romanzi di evasione, e ce lo mettono lì senza tanti commenti. Peccato, che poteva nascere un bel dibattito.

EVASIONE, I DIECI MIGLIORI ROMANZI DI

Quando avete bisogno di scordare la pena che avete nella testa, nel cuore o nel corpo; quando aspettate un autobus che non arriva mai; quando volete sganciarvi dalla routine quotidiana, svignatevela con uno di questi.
 Roberto Bolaño        I detective selvaggi
 Raymond Chandler   Il lungo addio
 Joseph Conrad         I duellanti
 Julio Cortázar          Il gioco del mondo
 Alexandre Dumas     Il conte di Montecristo
 E. M. Forster           Passaggio in India
 Graham Greene       Il nostro agente all’Avana
 Jerome K. Jerome    Tre uomini in barca. Per non parlare del cane
 Stephen King           Stagioni diverse
 Nevil Shute             Una città come Alice

Bugiardino

Forse evado troppo in maniera diversa dalle nostre dottoresse. Fatto sta che ben quattro “evasioni” le ho praticate molto tempo fa. Mi riferisco a Alexandre Dumas (negli anni Settanta), a Raymond Chandler (fine anni Ottanta), Forster (inizio anni Novanta) e Graham Greene (più volte, l’ultima a metà degli anni Novanta). In attesa di trovare il “coraggio” di acquistare Bolaño, la curiosità di conoscere Shute, o di tornare su autori che non pratico da anni come Conrad e Cortazar, o la poca voglia di leggere ancora di Stephen King, cosa ci rimane? Un unico, grandissimo, Jerome K. Jerome.
Jerome Klapka Jerome "Tre uomini in barca” Rizzoli euro 6,80
[pubblicato il 28 novembre 2007]
Perché ogni tanto bisogna immergersi nei classici ed io Jerome l'avevo letto da dodicenne e mi ricordavo dei sorrisi. Ora, seppur molto datato, ne trovo l'infinita vena comica (e molta della comicità successiva viene da lì, per cui a volte sembra obsoleto, ma è solo precursore). D’altra parte Jerome è un toro! Seguendo la corrente del fiume, infatti, i tre amici Jerome, Harris e George, assieme al fido cane Montmorency, viaggiano per giorni sulla loro fragile imbarcazione, scorrendo lungo le campagne inglesi, e vivono sempre nuove e inattese avventure. Una serie di gag comiche sulle gioie e sui dolori della vita in barca, unite a divertenti divagazioni che costituiscono storie a sé stanti, nel miglior stile dello humour inglese, e dove divagando si passano pagine e pagine, e poi si ritorna al fiume. Il tutto condito da descrizioni realistiche delle regioni attraversate dalla simpatica brigata e brevi notazioni di filosofia per non addetti ai lavori. Se volete fare uno sforzo però, vi consiglio di leggerlo nella versione originale inglese scaricabile gratuitamente da Wikipedia.

Conclusioni


E già, parliamo di evasione mentale (il divertente Jerome) o fisica (come quella di Montecristo dal Castello d’If)? Parliamo di una evasione dal reale (come l’agente cubano di Greene) o di una confusione con il reale (nell’India di Forster)? Non mi hanno convinto questa volta. Evadere, portare la mente altrove, include leggerezza, allegria ed altri stati d’animo “positivi”, non sempre presenti. Io, ad esempio, avrei citato i primi tre volumi della saga di Asterix e Obelix, dove il mai raggiunto (ed indimenticato) scrittore e comico Marcello Marchesi, riuscì a fare una traduzione che per me rimane epica. In “Asterix e i Goti”, per una serie di motivi, il nostro eroe riesce a far scontrare i Visigoti con gli Ostrogoti, e commenta: “I Goti che combattono contro i Goti. Che goturia!” Inarrivabile. Un’evasione di risata che non si arresta dopo più di trenta anni.

domenica 12 luglio 2015

Viaggiando - 12 luglio 2015

Certo, perché viaggiando si legge, e leggendo si viaggia. Ben arrivati ai nuovi lettori, e, visto che è appena finito un “avventuroso” viaggio americano, eccovi qualche lettura di precedenti viaggi. Letture un po’ sottotono, che altre volte i viaggi avevano suscitato migliori fortune. Un saluto ai sempre cari sposini, un invito a visitare il Vietnam leggendo le guide (o al massimo la biografia di Von Nguyen Giap), e la speranza di tornare spesso e presto in India. Il Perù è sempre “’nu piezz e’ core”, ma non sarà semplice il ritorno.
Mame Sanchez “La felicita es un tè contigo” Booklet s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 07/10/2014 – I: 12/11/2014 – T: 26/11/2014] - && e ½    
[tit. or.: originale; ling. or.: spagnolo; pagine: 334; anno 2013]
Un libro entrato nella mia libreria come sotto-prodotto del matrimonio di Mario e Inés. E, pur involontariamente credo, la donatrice ha fatto centro, che uno dei nodi del romanzo è il rap­porto e poi il matrimonio tra due persone di diversa nazione. La donna, com’è giusto, è spa­gnola, mentre il cavaliere è inglese. Ma lo spirito della interrazialità rimane e nella parte finale crea delle situazioni che, alla luce dell’altro matrimonio, mi sono risultate di sottile umorismo. La cavalcata attraverso il libro è stato comunque lunga, vuoi per l’idioma ispanico, non propria la mia prima lingua, vuoi per l’utilizzo di qualche puntata idiomatica che mi ha fermato nello scorrimento. Semplice invece la sintassi, ed alla fine, comprensibile il tutto. Per venire al libro ed al suo contenuto, in realtà mi aspettavo qualcosa di più smaccatamente umoristico ed an­che romantico, dove invece la storia, pur ben congegnata, alla fine dei conti è un po’ troppo li­neare e scontata. Da un alto c’è una rinomata casa editrice inglese, costruita intono alla fami­glia Craftsman. Famiglia tipicamente anglo-sassone (soprattutto dipinta qui da una spagnola), un po’ ottusa nel suo perbenismo, legata alla tradizione che i figli maschi prendano il nome di personaggi letterari. Così il padre Marlowe chiama i suoi due figli Holden (come il giovane sa­lingeriano) e Atticus (con un omaggio, condiviso, al grande Atticus Finch de “Il buio oltre la siepe”). Sempre pronta per un buon tè (ed Atticus è drogato di Earl Grey, come qualcuno lo è del Darjeeling). La loro vita scorre passabilmente, tra riunioni nella villa nel Kent, laurea ad Oxford, ed altri inglesismi. Il giovane Holden (ah, ah) sparisce presto di scena, dopo aver messo in cinta una sgallettata, ed averla dovuta sposare. Atticus, al contrario, è destinato ad una grande strada gloriosa nell’editoria, finché il padre non lo manda a fare il “tagliatore di te­ste” per chiudere la filiale spagnola della casa editrice. Qui Atticus incontra una “banda” di donne letterarie, simpaticamente e carnalmente spagnole. Gaby, la maga dell’informatica e Asuncion l’indefessa organizzatrice, Soleá l’inviata speciale e Maria la capo contabile, nonché Berta, il capo indiscusso. Le quali si inventano non si sa quale panzana per spedire Atticus sulla pista di una fantomatica poesia perduta di Garcia Lorca in quel di Granada. Ovviamente, con al seguito la più bella del quintetto, quella di nero capello ed occhio azzurro: Soleá. Ovviamente, denso di ironia l’incontro scontro inglese – gitani. Ma Atticus (che aveva sempre una vena poetica in cuore, e cinque libri erotici sul comodino) cade perdutamente innamorato della bella, che invece sembra non pensarlo. Ed è talmente preso che decide di imparare a suonare la chitarra e restare a Granada, tagliando i ponti con la famiglia. Il buon padre Marlowe, dopo tre mesi di inutile attesa, decide di andare armi e bagagli a Madrid, coinvolgendo la polizia spa­gnola, ed in particolare l’ispettore Manchego, nelle indagini. Che portano a poco sul fronte Atti­cus, ma portano Manchego ed innamorarsi di Berta, e questa a scoprire la tresca di Maria. La quale, nonostante sposata e plurimadre, cade innamorata di un fotografo freelance detto “Il pirata”. Che la convince a stornare prima piccole poi sempre più ingenti somme dal bilancio della filiale spagnola. Per questo la detta filiale era in perdita, e non per scarso rendimento. Una volta costrette le spagnole alla confessione, tutti si recano in Granada, giusto in tempo per assistere alla “caduta” di Soleá che finalmente accetta la corte di Atticus. Tutto finirà in gloria, i due si sposano, si sposano Berta e Manchego, Maria contribuirà all’arresto del pirata, ma, confessando le sue colpe, dovrà fare un piccolo passaggio in prigione prima di tornare alla sua famiglia ed al suo lavoro, Gaby rimane finalmente incinta, e Asuncion si mette a dieta. Tutto comunque legato ancora e sempre dal filo della finzione letteraria, che le poesie di Lorca erano una fuffa, ma Remedios, la nonna di Soleá, confessa di essere (e ne ha le prove) una figlia se­greta di Hemingway durante il tempo spagnolo dello scrittore (che porta in dono alla bella quei deliziosi occhi azzurri). L’ultimo tocco di classe umoristica è la preparazione della seconda edi­zione del  matrimonio, che dopo una tre giorni spagnola, viene replicato nella dimora avita del Kent. Ed ho gustato con finezza la presa in giro di mamma Moira, ma anche di tutti gli inglesi del castello, che saranno presi da uno stesso vortice di passione, che prenderà Atticus e Soleá durante la lettura di un capitolo del Kamasutra. E che precederà di nove mesi la nascita dei loro due gemelli. Che si chiameranno … Tom e Huckleberry! Ci sono altre battute che cospar­gono di piccoli pezzetti di cioccolata questa felicità del tè, ma, come detto, la storia si capisce dalla prima mezza pagina. È solo curiosamente intrigante il modo in cui Maria del Carmen detta Mamen porta avanti la sua storia.
“Escuchaban a su amigo hablar de la … cincuentona y normalita … ya no aceptaban que ellos mismos estaban a punto de cumplir los sesenta.” [Ascoltavano il loro amico parlare della ... cinquantenne medio-bella ... e non s accorgevano che loro stessi stavano arrivando ai ses­santa.] (196)
Autori Vari « Histoires drôles du people vietnamien » Editions Thé Giôi euro 2
[A: 20/12/2014– I: 20/12/2014 – T: 20/12/2014] - && e ½
[tit. or.: Truyện cười dân gian Việt Nam; ling. or.: vietnamita; pagine: 147; anno 2011]
Stavo nel tristissimo aeroporto di Hanoi (anzi Hà Nội come scrivono i locali), alla fine di un bellissimo viaggio attraverso tutto il Vietnam, e, come al solito, cercavo un libro di un qualche autore locale da portarmi a ricordo e memento del viaggio. Ci crederete? Non c’è un libraio, un’edicola in tutto l’aeroporto. Storto come non mai, l’unica cosa locale trovata è questo libricino, tradotto dal vietnamita in francese. Ed allora prendiamolo comunque, e, breve e poco coinvolgente, l’ho letto nelle otto ore di volo che mi riportavano a Roma. Devo dire che non mi ha coinvolto in maniera entusiastica. Ho trovato le brevi storielle non particolarmente “divertenti” almeno per un gusto direi occidentale. Mi ha però dato due spunti di approfondimenti, che cercherò di condividere. Il primo riguarda la lingua, il vietnamita. Dopo tre settimane che ronzava nell’orecchio, eccola ben scritta. Ed allora approfondiamola un po’. Innanzi tutto, è la 19^ lingua parlata al mondo come numero di utilizzatori (subito prima dell’italiano che è la 20^). La cosa buffa è che, ovviamente oltre ad essere la più parlata in Vietnam, è la terza lingua del Texas, dopo spagnolo e inglese! Ed è una lingua strana, di cui si conosce poco l’origine, essendo passata dall’orale allo scritto da pochi secoli, ed utilizzando un alfabeto latino per una pronuncia molto “cantata” (alla cinese). Tant’è che per ogni sillaba ci possono essere sei diverse tonalità di pronuncia. Impossibile da studiare. La sola cosa che mi rimane è che praticamente è monosillabica, cioè ogni sillaba viene scritta a sé, e siamo noi che la occidentalizziamo. Cioè loro scrivono non Vietnam ma Việt Nam. Il secondo è legato al riso, all’uso del comico. Che non è solo vietnamita, ma universale. Qui, nello specifico culturale, l’umorismo vietnamita si fonda sulla denuncia in un modo satirico e/o ironico dell’epoca feudale in cui enormi ingiustizie colpivano le persone più modeste e povere. La situazione umoristica così creata cerca quindi di trasmettere messaggi in un modo leggero, ma pieno di significati profondi e duri, al fine di colpire obiettivi ben definiti. Tuttavia, l'umorismo, che provoca la risata, può essere compresa solo se si appartiene alla stessa cultura ed alla stessa tradizione che la esprime (come vedremo dagli esempi sotto riportati). Tutta la letteratura popolare vietnamita è costellata dall’umorismo. Infatti, il popolo vietnamita è un popolo ottimista ed amante della vita. E solo attraverso il riso è riuscito ad attraversa tutti i momenti bui del suo passato lontano e vicino (dalla dominazione cinese a quella khmer, dai francesi agli americani). Anche queste storie ne sono esempi classici, ma, seguendo quanto detto sopra, sono talmente pieni di “vietnamesità” che io li ho letti in modo antropologico, e di certo mi hanno fatto ridere in maniera non proprio diretta. Vediamo, ad esempio, una delle storielle più corte.
Un uomo ricco dice ad un mendicante "Ti darò 1000 piastre e ti picchierò a morte. Sei d'accordo?” - Ti lascerò picchiarmi solo fino a che il mio corpo sia mezzo morto, perché non ho bisogno che di 500 piastre".
Fortunatamente, alcune spiegazioni (sia interne che in seguito per mia documentazione) riportano che il riso scaturisce dal fatto che non si possa “picchiare affinché sia mezzo morto”, perché la morte non può essere divisa: o si è vivi o si è morti.
Capite bene come sia difficile ridere di queste battute. Quando poi non siano legate talmente alla lingua come la seguente:
“Una vecchia va al mercato perché gli si dica il futuro, dato che spera di sposarsi; un indovino gli risponde ‘C’è interesse/gengiva, ma denti no!”.
Il riso scatta perché viene usato il termine lợi che vuol dire « interesse », ma che, unito al suffisso “dente” significa “gengiva”. Quindi la vecchia ha pochi denti nella gengiva. Ce ne vuole per ridere, eh! Ma torniamo alla genesi delle storie, e, benché non se ne rida più di tanto, vediamo come la maggior parte, come sopra accennato, siano ancora e sempre ambientate in ambito feudale, dove c’è il signore (o il mandarino, o il bonzo) che fa la parte del cattivo ed il servo che fa la parte della vittima, ma che cerca, con la sua intelligenza ed ottimismo, di riscattare il suo ruolo con l’umorismo. Dopo il lungo soggiorno vietnamita, credo di concordare con questa visione ironica della vita. Penso che solo con tutto questo corredo di ottimismo, il popolo vietnamita sia potuto diventare quello che ora ho incontrato. Comunque, il consiglio è di visitare il paese, e lasciare a momenti diversi questa poco coinvolgente lettura.
Madhumita Mukherjee “The other side of the table” Fingerprint euro 3
[A: 01/02/2015– I: 09/02/2015 – T: 11/02/2015] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 240; anno 2012]
Dopo la delusione patita all’aeroporto di Hanoi, in occasione del viaggio in India, ho deciso di ricercare una libreria nell’ultima grande città prima della partenza, per poter riportare con me un ricordo ed un ripasso del viaggio trascorso. Ed a Kolkata ho trovato una libreria fantastica, la Oxford Bookshop, fornitissima, dove ho preso questo libro che è scritto da un’autrice della stessa Kolkata. Non solo, era stato anche presentato al pubblico da pochi giorni, ed ho ricevuto in sovrappiù un libro con la dedica dell’autrice. Fatte queste belle premesse, tuttavia, mi aspettavo qualcosa di meglio, non tanto nella scrittura, che risulta gradevole e leggibile, ma nella trama stessa, che, ad una prima occhiata, mi aveva intrigato. Un libro basato su di uno scambio di lettere tra una signorina di Kolkata ed un suo amico, di qualche anno più grande, da alcuni anni trasferitosi a Londra. Avevo ancora nella mente il romanzo epistolare di 84, Charing Cross, e pensavo a qualcosa di quanto meno appassionante. Un procedere nel tempo, con la visuale di avvenimenti condivisi ma visti con due sguardi diversi. Chi rimane in patria, e chi da essa si allontana, pur portandola sempre con sé. Seguiamo invece la corrispondenza tra Uma, studentessa al Kolkata National Medical College, ed il suo amico Abhi, specializzando in medicina a Londra. I due condividono tutto apertamente: le infatuazioni, gli insegnanti, i professori, le classi, il primo bacio, il primo corteggiamento, il matrimonio, la gravidanza, l’aborto, il divorzio, da parte di Uma; i colleghi, la vita in ospedale, le donne, le convivenze, da parte di Abhi. Non sembra esserci, almeno apertamente, un coinvolgimento sentimentale tra i due. Inoltre, ci sono 10 anni di differenza tra i due. Che all’inizio della storia, con Uma non ancora ventenne, si sentono più che nove anni dopo, alla fine del romanzo. Certo è spesso più di Uma che seguiamo le vicende, quando decide di diventare chirurgo, unica donna del suo corso, quando usa un  matrimonio forzato per uscire dalla cerchia familiare (per cadere senza difese nella cerchia dell’ignavo marito), e quando decide di divorziare, in seguito all’aborto del possibile figlio. Ed è sempre Abhi che da lontano la sostiene in ogni sua decisione. Può non essere pienamente d’accordo, può sottolineare i pericoli, ma gli amici sono lì per sostenerti lungo la via. Solo verso il finale entriamo di più nella vita del londinese, quando ad Abhi viene diagnosticato un tumore al cervello. Ne seguiamo il dramma, lui che doveva e poteva diventare un grande chirurgo, ritrovarsi a non poter riprendere il bisturi in mano, dato che la malattia ha portato tremori, abbassamenti improvvisi della vista, ed altre marginali disabilità, che però sono micidiali nella professione di un chirurgo. Ed è solo a questo punto che Uma esce allo scoperto, e decide, contro tutto e tutti, di raggiungere Abhi a Londra, e di aiutarlo da vicino. Nascerà una storia? Qualcosa in più? L’autrice non lo dice, anche se possiamo intuire i connotati di un possibile futuro. Perché quello che a Madhumita importa, oltre alla descrizione degli ambienti medici e sociali anglo-indiani, è proprio il discorso della disabilità e della ripresa. Infatti, lei è (era) un pediatra di successo, cui cinque anni fa viene diagnosticato un tumore aggressivo al seno. Motivo per cui, lei amante dei viaggi (come rilevo da un’intervista rilasciata dopo la presentazione), per un anno è costretta a fare un unico viaggio: dal divano al letto, e viceversa. Ed in questo anno matura la decisione di scrivere, anche in modo trasposto, della sua personale esperienza. adottando lo stile epistolare, proprio perché ama il libro da me sopra citato, e l’altro, anch’esso bello e da poco letto, di Alice Walker “Il colore viola”. Riuscendo anche nell’intento di farci capire cosa succede ad un  medico (Abhi nel romanzo) quando diventa paziente, quando, come dice il titolo, si siede “dall’altro lato del tavolo”. Ma pur se ben scritto, e con qualche squarcio della vita indiana, così come mi aspettavo quando l’ho acquistato (in particolare quando Uma si aggira per la parte di Kolkata dove io avevo il mio alloggio), non è incisivo come credevo. Certo si capisce il dramma del dottore, ed altre dolenti note che sono molto vicine all’autrice. senza però affondare il bisturi sino in fondo. Ed anzi, lasciando poi dei margini di aleatorietà che farebbero dire ad un maligno: ma ci sarà una seconda puntata? Fortunatamente, credo che il mio rapporto con Madhumita finisca qui. Anche se le auguro di superare e per sempre tutti i suoi problemi.
“To each of us, we are the centre of the world. The only life that really matters.” [Per ognuno di noi, siamo il centro del mondo. L’unica forma di vita che conta davvero.] (194)
Santiago Roncagliolo “Abril Rojo” Alfaguara euro 20
[A: 25/04/2015 – I: 25/04/2015 – T: 29/04/2015] - &&    
[tit. or.: originale; ling. or.: spagnolo; pagine: 329; anno 2006]
Al solito alla fine di un nuovo viaggio, acquisto un libro del paese che sto pe lasciare, e laddove posso, nella sua lingua. Qui siamo nell’idioma ispanico, quindi si può fare. E si evita il pluri-acclamato Vargas Llosa, che a me, onestamente, non è che piaccia gran che. Mi capita quindi questo Roncagliolo, che mi intriga in quanto vincitore di quel premio Alfaguara che vinse un altro libro che mi accompagnò qualche viaggio fa (“Guarda come ti amo” di Luis Leante). Purtroppo, a libro letto, una piccola delusione. Mi aspettavo di più. Forse qualcosa di più concreto, mentre sempre la scrittura rimane sospesa tra realismo e sogno, tanto che ci si chiede, alla fine, se gli avvenimenti che abbiamo seguito siano stati reali o siano (in tutto o in parte) frutto della mente che man mano si va deteriorando del protagonista, il procuratore distrettuale aggiunto Félix Chacaltana Saldívar. Avvenimenti che, nello specifico, hanno anche un interesse che va oltre la scrittura in sé, in quanto percorrono momenti che nella realtà peruviana sono di grande intensità: le attività del gruppo rivoluzionario “Sendero Luminoso” (cui ricordo il nome completo sia “Partito Comunista del Perù sul sentiero luminoso di Mariátegui”, dove ricordo ancora che José Carlos Mariátegui è stato un letterato e politico peruviano morto nel 1930, e noto per le sue idee di formare una via indios al comunismo), le contro-attività delle forze di polizia, fino alla resa dei vertici storici (anche se ci sono ancora fazioni del gruppo operanti nelle valli peruviane). La storia si colloca intorno alla Pasqua del 2000, intrecciandosi con le elezioni provinciali, che porteranno, alle fine dell’anno, a quelle presidenziali ed alla caduta del corrotto Fujimori. Qui siamo ad Ayacucho, una delle roccaforti storiche di Sendero, e dove si susseguono una serie di morti in stile truculento. Ognuna delle persone assassinate viene private di una parte del corpo. Si comincia dalle braccia, per proseguire con le gambe e finire con la testa. Ed è proprio Félix che viene quasi costretto ad indagare su questi assassini, lui che non ha una grande esperienza pregressa, che ha chiesto di essere trasferito da Lima nella natia Ayacucho in seguito alla morte della madre. Madre con la quale ha un morboso rapporto, quasi tenendola in vita con una casa piena di immagini della genitrice (e nessuna dello scomparso padre). Nel corso delle sue indagini si incontra e scontra con il comandante poliziesco Carrion, che ebbe un peso nella repressione anti-sandinista negli anni ottanta e novanta. Va spesso a visitare in carcere il terrorista Hernán Durango (quasi una prefigurazione del comandante Guzman, capo di Sendero arrestato nel 1992). E viene affiancato dalla bella Edith, di cui si innamora, e che solo alla fine scopre essere figlia di capi storici di Sendero, e che probabilmente prende parte alle diverse uccisioni, vuoi per vendicarsi dei militari torturatori, vuoi per vendicarsi di traditori e delatori. Parallelamente, seguiamo la discesa nella follia del procuratore aggiunto, che all’inizio vediamo come un pedante compilatore di rapporti, poi, toccate con mano le possibilità di abuso che gli sta dando il potere, quasi ne viene coinvolto, e stravolto. Sino a cadere nella lucida follia finale, che è tragica pur mantenendo, a volte, aspetti di risibile comicità. Ma come detto è un’occasione mancata, che non si approfondisce né l’aspetto rivoluzionario (o terrorista, parliamone) di Sendero Luminoso, né della repressione militare. Lasciandoci solo con la follia di Félix e della strana morte della madre. Forse sono io che manco qualche riferimento troppo locale, anche se ho cercato di documentarmi. Quello che meglio risalta, al fine, per me, sono alcuni aspetti storici proprio della città di Ayacucho, antica capitale del popolo Warì, uno dei pochi che non si sottomise mai allo strapotere degli Incas. Città simbolo, in quanto si trova a metà strada tra Cuzco, la capitale inca, e Lima, la capitale degli spagnoli. E di alcune usanze religiose locali (e non a caso, Ayacucho è considerata la culla della spiritualità andina), come la festa della corrida tra tori e condor chiamata “turupukllay”, al centro della novella dello scrittore peruviano José Maria Arguedas “Festa di sangue”). Insomma, alla fine è stato un buon esercizio di lingua, meno un coinvolgimento letterario.
Quindi, riprendiamo la retta via in tutti i suoi aspetti, riportando le letture del mese di aprile. Letture limitate (c’è stato il viaggio andino) e niente di eclatante da segnalare. Si alzano sopra la media solo i sempre interessanti racconti di Alice Munro ed il libretto di Jean Echenoz sul grande Zatopek.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Paul Auster
Mr. Vertigo
Einaudi
11
3
2
Alice Munro
In fuga
Einaudi
12
4
3
Francesco Piccolo
Momenti di trascurabile infelicità
Einaudi
13
3
4
Andrea Fazioli
Il giudice e la rondine
Guanda
8
3
5
Jean Echenoz
Correre
Adelphi
10
4
6
Amos Oz
Una pantera in cantina
Feltrinelli
7,50
3
7
Laura Esquivel
Dolce come il cioccolato
Garzanti
9,90
2
8
Paolo Foschi
Vendetta ai Mondiali
E/O
14,50
2
9
Santiago Roncagliolo
Abril Rojo
Alfaguara
20
2
10
Valerio Varesi
È solo l’inizio, commissario Soneri
Pickwick
9,90
3

Finisco rassicurandovi che l’operazione dentistica sta procedendo in maniera egregia, che sto soffrendo il caldo come tutti qui a Roma, e che spero di essere più produttivo nel futuro (tutte le attività sono rallentate dal calore e dal torpore).