domenica 21 luglio 2019

Conrad, sempre - 21 luglio 2019


Joseph Conrad “Cuore di tenebra” Feltrinelli s.p. (Natale di Giovanni&Clara)
[A: 25/12/2018 – I: 08/01/2019 – T: 11/01/2019] - &&&&--
[tit. or.: Heart of Darkness; ling. or.: inglese; pagine: 121; anno 1898]
Seppur ho letto abbastanza di Conrad (non tutto, non esaustivo, ma significativo) è sempre un autore cui mi avvicino con amore e timore. Questa volta l’approccio è stato guidato da un gradito Natale passato a casa di Giovanni, con un regalo inaspettato, gradito perché, in ogni caso, pensato. Allora torniamo ancora su Conrad, e su questo testo che forse, alla fine, mi riconcilia un po’ con l’autore anglo-polacco (ricordo che nasce in una cittadina ora ucraina ed al tempo polacca ma sotto la Russia zarista con il nome di Józef Teodor Nałęcz Konrad Korzeniowski). Ovvio che Conrad è troppo noto perché mi dilunghi sulle sue note biografiche, ricordo solo che, durante i sui sedici anni sul mare, in uno dei viaggi risalì il fiume Congo a bordo di un battello battezzato “Roi des Belges”. Questo uno dei più profondi background dell’opera. Come, di sicuro, qualcosa dell’ultima parte della vita di Rimbaud influenzò alcune idee di scrittura. Il secondo elemento di grande attrazione che mi ha dato il libro, è la post-fazione di Alessandro Baricco, dal titolo “Andata e ritorno: destinazione l’orrore”, che è riuscita a mettere al proprio posto alcuni degli elementi sia basilari del testo, sia esemplari del mio odio-amore per l’autore. Inciso, ma anche invidia, quando trova, due anni prima della scrittura di questo che è solo il suo quarto romanzo, l’amore per la semplice Jessie, che lo sosterrà per tutto il resto della sua vita. Se vogliamo tronare al testo, o meglio, se vogliamo iniziare dal testo e dalla trama (come d’altronde suggerisce il titolo delle mie note), la struttura narrativa è semplice. È una “tale novel”, cioè un romanzo (“novel”) basato sul racconto di un personaggio (“tale”), tanto che, come dice Baricco, potrebbe essere descritto come virgolettato dalla prima all’ultima riga. Il racconto ci viene dalla bocca di Charles Marlow, uomo di mare dalle tante esperienze, ricalcato da qualcuno dei tanti capitani che Conrad incontrò nella sua vita, che aspettando l’alba in un momento di bonaccia sulla “yawl” Nellie navigante sul Tamigi (chiederei poi al mio amico Renato che tipo di imbarcazione sia e se risulta che da pescherecci nell’Ottocento divennero barche da regata in solitaria ai nostri giorni) parla di un’esperienza che gli ha segnato la vita. In un momento di scarsa attività marinara, infatti, Marlow ottiene l’ingaggio su di una barca che dovrebbe fare da raccordo per gli insediamenti commerciali stabilitisi lungo il fiume Congo. Dopo un lungo prologo, in cui cominciamo a temere che la tempra europea poco si adatti ai climi africani (e ben lo sappiamo), Marlow arriva alla base commerciale. Dove ne vede il degrado. Dove comincia a vedere lo sfruttamento dell’uomo bianco sui locali. Dove sente per la prima volta il nome di Kurtz. Un mitico rappresentante locale dell’uomo bianco, relegato in uno degli avamposti più sperduti, dedito al procacciamento di avorio. Tra malattie ed isolamenti, Kurtz sviluppa una sorta di pazzia paranoica, di sete di potere, facendo cadere ai suoi piedi i poveri negri con i mezzi altri, avanzati, non noti, che i bianchi portano con sé. Ma Kurtz è andato troppo in là, forse vuole fondare il suo impero d’avorio verso le sorgenti del Congo. Inoltre, si ammala, probabilmente di malaria o altro inguaribile male tropicale (soprattutto per il tempo). allora Marlow è deputato ad andarlo a prendere. Lo farà, con il direttore commerciale ed altri omuncoli bianchi. Parlerà con Kurtz, probabilmente ne riceverà confidenze di cui non riceviamo traccia. Ma soprattutto lo vedrà morire, pronunciando la terribile frase “The Horror!”. Frase che Marlow capisce nel contesto in cui viene pronunciata, e che tuttavia non riporta alla fidanzata di Kurtz. Cui tuttavia riporta le ultime lettere, di chissà quale contenuto, e l’illusione che l’ultimo pensiero sia per l’amata. In questo modo relegando all’oblio Kurtz, ma dando una speranza di vita nel ricordo alla fidanzata. Due elementi mi vengono dal testo: l’orrore per il colonialismo e la critica verso l’aberrazione del potere Il primo non tanto dalle parole di Marlow, che in effetti narra, descrive, ma prende posizione fino ad un certo punto. Quanto nell’io narrante che ascolta il racconto di Marlow, quell’io in cui mi identifico, rabbrividendo alle descrizioni partecipate ma non critiche di Marlow. Colonialismo ed atrocità commesse dall’uomo bianco che ben conosciamo anche al di là delle parole non di Conrad, ma di Marlow. Situazioni che hanno seminato quel terreno di tanti fraintendimenti, di cui tuttora portiamo tracce negative. Il secondo, invece, nella descrizione dell’ascesa e caduta di Kurtz, mediata, ora e qui, da quell’impagabile apologo che ne fece Coppola con il suo “Apocalypse Now”. Perché sappiamo, anche se solo in modo lato, che Kurtz non è un poco acculturato commerciale, ma ha un retroterra sostanzioso di cultura e familiarità con il benessere. La facilità con cui si riesce ad accrescere le proprie sostanze durante il periodo coloniale lo porta, ad un certo punto, al di là del lecito, verso una follia di dominio e potere, che sarà stroncata non dagli uomini (tutti, da Marlow al direttore commerciale, agli impiegati della compagnia, sono affascinati dall’uomo Kurtz e dal suo successo), ma dall’ambiente, che lo respingerà come elemento alieno, e da cui neanche Kurtz riuscirà a salvarsi. Il debito finale, che devo a Baricco, infine, è la ricostruzione delle modalità narrative di Conrad. Sia per l’uso di una lingua non sua (lui di madre lingua polacca, di gioventù francese, che impara l’inglese solo verso i venti anni) sia per il modo di pennellare il racconto, a volte in modo quasi caravaggesco, facendo risaltare elementi spuri per farci concentrare sui nodi narrativi che ci vuole proporre. L’inglese, come già dicevo ne “La locanda delle due streghe” è semplice, quindi con una propensione alla semplificazione del testo e ad una sua resa immediata verso i noccioli narrativi. Il secondo, ellittico, si dilunga a volte in descrizioni assolutamente marginali, saltando momenti che sarebbero salienti, ma che proprio la loro omissione fa risaltare di più. Come il colloquio tra Marlow e Kurtz, che noi si aspettava da tempo, e che viene liquidato come “Intenso ed interessante”, ma di cui non ne viene riportata alcuna frase. Qui, per stanchezza ed incapacità mi fermo, sperando che altro Conrad risalga meglio dal limbo delle mie memorie.
“Non era un tipico rappresentante della propria classe. Era un marinaio, ma era anche un girovago, mentre i marinai in genere conducono … una vita casalinga … la casa – la nave – se la portano sempre dietro; e con essa il loro paese – il mare.” (8) [dedicata al mio amico Renato]
Joseph Conrad “La linea d’ombre” Feltrinelli s.p. (Natale di Giovanni&Clara)
[A: 25/12/2018 – I: 16/01/2019 – T: 17/01/2019] - &&&&---
[tit. or.: The Shadow Line: A Confession; ling. or.: inglese; pagine: 180; anno 1916]
La nuova traduzione di Simone Barillari, con il corredo di esaustive note critiche, nonché forse delle consapevolezze diverse, mi hanno fatto apprezzare molto anche questo secondo regalo natalizio. In modo anche decisamente diverso della mia precedente lettura di quasi otto anni fa. È vero in fondo che i libri miliari della letteratura cambiano ogni volta che li leggi. Anche perché cambia il contesto in cui vengono letti. Mentre la prima volta la lettura avveniva in un periodo di stanchezze e di bisogni affermativi, questa si è svolta in un clima forse più disteso, forse senza prospettive pensose, forse anche ad un anno dalla perdita di mia madre, momento che, alla mia tenera età, mi ha fatto fare dei passi verso una mia consapevolezza diversa. Apprezzo, anche dopo le parole di Baricco nel precedente libro, meglio la scrittura di Conrad, ora che trovo spiegate le sue frasi sospese, i suoi passaggi per descrizioni che sembrano inutili, ma che servono a creare un clima nel lettore di attesa di qualcosa, che quando avviene sorprende per la sua rapidità. Sicuramente poi, l’ampio corredo di note è servito a calare il libro nel suo contesto di scrittura, facendomi capire meglio genesi e maturità. Il testo ripercorre un momento fondamentale della vita di Conrad, trasformando tratti autobiografici in episodio universali. Momento poi visto ad una trentina di anni dopo, quindi maturato esso stesso, inciso nella vita quotidiana dell’autore. Perché, come dice Conrad stesso, il nocciolo del romanzo lo aveva sempre avuto dentro. Ora, all’inizio della Prima Guerra Mondiale, con il figlio Borys in partenza per il fronte (ma ne tornerà, cosa che Conrad sperava ma non sapeva) sente il bisogno di dedicare a lui ed a tutti coloro che passano da una fase “di ignoranza” ad una “di consapevolezza” un libro che proprio questo passaggio enfatizza e sottolinea. Come detto, la storia riprende alcuni tratti della vita di Conrad, quando il nostro giramondo vagava per i Mari del Sud. Tralasciando (e se ne volete sapere, leggete appunto le note al testo) quanto di Conrad ci sia nel narratore, la storia è discretamente lineare. Un marinaio, stanco senza motivo apparente, pur capace e promettente, chiede di essere sbarcato per tornare in patria. Mentre attende di capire come farlo, riceve una proposta: diventare capitano di un vascello che lo attende a Bangkok, il cui capitano è morto, e che deve essere portato a Singapore. Il nostro è l’uomo giusto perché, in un’epoca in cui si sta trasformando la navigazione verso l’utilizzo delle macchine a vapore, la barca che lo aspetta è un veliero. Ed il protagonista è un esperto conoscitore delle più piccole brezze, delle minuscole bave di vento che possono e debbono spingere una nave verso il suo destino. Preso il comando della nave, si trova di fronte ad una serie di problemi. Il capitano morto pare sia impazzito ed abbi lanciato maledizioni sulla nave. Maledizioni cui il primo ufficiale crede fermamente. Mentre aspettano gli ultimi momenti per poter salpare, quasi tutti i membri dell’equipaggio vengono presi da malori vari, curabili solo con abbondanti dosi di chinino. Solo lui ed il cambusiere-cuoco Ransome pare ne siano immuni. Lui è appunto il capitano di prima nomina. Ransome ha il cuore debole e non sopporta affaticamenti. Per adempiere al compito richiesto dagli armatori, il capitano deve partire al più presto per Singapore, anche con la ciurma debilitata. Quello che deve affrontare però sono quindici giorni di bonaccia, con la barca alla deriva o quasi, con il capitano alla ricerca del minimo alito di vento per avvicinarsi alla meta. Inoltre, con la necessità di curare i malati, soprattutto il più grave, il primo ufficiale. Non solo, ma, già in alto mare, si accorge che la scorta di chinino è fasulla, e non può fare nulla per gli uomini, se non essere lì con la sua presenza. Il peggio è che dopo quei giorni in cui tutti potrebbero morire, il golfo del Siam e la nave stessa vengono investiti da una pioggia improvvisa, unita a raffiche di vento inusuali. Bisogna serrare le vele, aggrapparsi al timone, ed altre diavolerie marinare che solo il mio amico Renato è in grado di seguire. Il capitano però è lì, a spronare, ad aiutare, a puntellare tutti. E quando sta per mollare, Ransome, il suo doppio malato, viene in suo aiuto. Forse ne pagherà il fio, ma quando c’è da far fronte ad un nemico (il vento, le onde, la guerra), bisogna tirar fuori tutto il meglio di sé. E tutti lo fanno, ed il capitano farà quel salto di coscienza varcando la linea d’ombra che separa la giovinezza dall’età adulta. Essendo punto di riferimento di tutti i suoi uomini, e di Ransome in particolare. Per poter concludere lui capitano-Conrad che sono loro ad essere degli della sua imperitura stima. Certo il libro, per gli esegeti ed i conoscitori, è pieno anche di altre sfaccettature, di rimandi (tante le citazioni, soprattutto di Shakespeare). Ma un libro è anche ciò che rimane nella mente e nel cuore del lettore. Che è quello che ho riportato, quello che mi è rimasto delle pur non tante pagine. Domandiamoci allora, ed io per primo, se, quando, come, abbiamo varcato quella linea. Delle mie risposte non vi dico, soprattutto se sono quasi su di una linea antitetica al nostro capitano, visto che faccio sempre mia la frase di Jacques Brel magistralmente cantata da Franco Battiato: “Ma c'è voluto del talento per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti”.
“Tutte le strade che conducono a quello che il cuore desidera sono lunghe.” (55)
Alessandro Baricco “La sposa giovane” Repubblica Duemila euro 9,90
[A: 01/08/2017 – I: 29/03/2019 – T: 03/04/2019] - && e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 188; anno 2015]
Baricco scrive, e scrive bene. Ed io ne leggo, anche con piacere. Il problema, qui, come in alcune delle ultime opere, è che si utilizza molto la testa. E poco o nulla la pancia e il cuore. Per cui, alla fine, il romanzo che viene presentato risulta formalmente corretto, ma da me letto con difficoltà e poco trasporto. Perché se è vero che c’è una storia in tutta la narrazione, è anche vero che è il tentativo, dell’autore, di tirar fuori principi generali, assunti, affermazioni esistenziali, utilizzando una storia come tappeto volante per trasportare sino a noi queste sue idee. Si vede, ed autori ben più preparati di me lo hanno detto e sottolineato, che Baricco ha letto Benjamin, che ha compreso, assimilato e rivoltato la lezione di Lukacs (di cui conservo ancora lo scritto su letteratura e rivoluzione, per chi fosse interessato a reperti storici). Motivo per cui, da un lato estrania tutto il narrato per farne un apologo senza tempo. Dall’altro, con la capacità di entrare ed uscire dal racconto, con il passaggio sovente dalla prima alla terza persona, con l’intromissione del personaggio di turno che sembra dire al narratore onnisciente: fatti più in là, che ora parlo io, che so cosa dire. Per cui sappiamo di trovarci in un qualche luogo imprecisato del Sud, anche se non è detto sia un sud italiano, anzi forse è proprio un Sud, con la esse maiuscola, come a voler dire che rappresenta una epitome del luogo di cui si vorrebbe narrare. Sappiamo poi, da alcuni accenni a vicende correlate, che siamo a cavallo tra l’Ottocento ed il Novecento. Una datazione anch’essa mitica, per Baricco, che pare ogni volta volerci dire che quella è l’epoca in cui tutto è nato, che solo capendola capiamo l’ora in cui siamo, e l’ora verso cui andiamo. Terzo elemento mitico del racconto: la Famiglia. Qui vediamo l’uso di Baricco dell’allontanamento dal narrato, evitando l’uso dei nomi, rendendo quindi ognuno un totem di quello che il suo nome rappresenta. Abbiamo quindi un Padre benevolo e tranquillo, con una “inesattezza del cuore”, che va in città una volta a settimana e che a differenza di tutti membri della sua famiglia, vuole morire di giorno, con il sole. Una Madre, donna forte e indipendente, un tempo bellissima, solita pronunciare “sillogismi imperscrutabili”. Una Figlia storpia e incantevole. Lo Zio che dorme da anni. Manca il Figlio, lontano da tempo, per curare affari di famiglia. In questo zibaldone (e non è una parola usata a caso, che l’andamento apologetico sembra a volte riprendere le leopardiane Operette) arriva la Sposa giovane. Promessa da anni al Figlio, è dovuta riparare, non si sa per quali oscure cause, in Argentina, con il padre ed in situazioni che sembravano di tale precarietà da comprometterne il felice ritorno. Tanto appunto che il Figlio, forse stufo dell’inutile attesa, sta ora in Inghilterra (dimenticavo di dire che la Famiglia è una importante azienda tessile) per curare gli affari di famiglia. Solo una persona viene chiamata per nome; Modesto, il maggiordomo preciso e fedele che tesse i ritmi della casa, e che ha sviluppato tutta una serie di fonemi per scandire le vicende della casa stessa. Nel corso della storia veniamo allora a sapere altri momenti fondamentali della vita della casa e della Famiglia. Una Famiglia che inaugura la giornata con dilatate colazioni che a volte arrivano fino a sera.  Inoltre, nella Famiglia vigono alcune quattro regole. Regola numero Uno: la notte è temuta perché tutti i componenti della Famiglia sono morti senza che il sole fosse in cielo. Regola numero Due: l’infelicità non è gradita perché è una perdita di tempo, ovvero un lusso. Regola numero Tre: in Famiglia non si leggono libri. Non ci sono libri. Non devono essercene poiché “c’è già tutto nella vita, a patto di stare ad ascoltarla, e i libri distraggono”. Infine – quattro – il Padre non ammette “distrazioni da una generica, necessaria pacatezza”. Qualcosa succede nelle 200 pagine del romanzo, c’è un tentativo di storia, che rende omaggio alla Storia immota che gli archetipi nascondono in sé. Ci si rapporta, ci si conosce, ci si ama, ci si lascia. Come dirà qualche buon critico, in fondo è una fiaba moderna. E come tutte le fiabe sarà anche suggellata dalla chiusura di tutti gli avvenimenti, cristallizzata in una FINE maiuscola che ci permette, alfine, di chiuder il libro e ripensarlo. Una fine che non vi narro, dove molte delle matrioske di Baricco vengono alla luce, ma che non lascia soddisfatti. Baricco, narratore onnisciente, entra ed esce dalla pagina. Si permette digressioni sul narrare, sulla funzione di ognuno di fronte alla pagina. Anche di noi lettori. Ed alla fine, riconosco l’abilita del narrare, ma non ritengo un libro che raggiunga altri momenti della scrittura del buon professore torinese.
“Il fatto è che alcuni scrivono libri, altri li leggono: sa dio chi è nella posizione migliore per capirci qualcosa.” (142)
Cormac McCarthy “Oltre il confine” Einaudi euro 12,50 (in realtà, scontato a 9,35 euro)
[A: 15/11/2016 – I: 08/04/2019 – T: 11/04/2019] - && +
[tit. or.: The Crossing; ling. or.: inglese; pagine: 370; anno 1994]
Non è che manchino i libri di McCarthy nella mia libreria, li ho letti quasi tutti, ne ho gustato il dolore della scrittura, la sapienza della parola scritta, l’asciuttezza flaubertiana con cui l’autore ci porta per mano lungo le pagine delle sue storie. Perché tutto il mondo è una storia, e tutte le storie che si raccontano fanno parte di un’unica storia. Quella storia che è il mondo. Ma la ragione in più della lettura è il solito consiglio delle cure librarie, dove si consiglia che sia un libro da leggere ai nostri centenari (ed auguri a chi ci arriva). Venendo per prima cosa al testo, è un vero libro da “far west”, nel puro stile Cormac. Paesaggi, persone, morti inutili. Come se si fosse ancora nell’Ottocento. Invece siamo al tempo della Seconda Guerra Mondiale. Un libro che tiene fede al suo titolo originale, quel confine che bisogna attraversare per crescere, per diventare adulti. Quel confine che il protagonista principale del libro, ed i coprotagonisti, attraversano tre volte. Billy, alla fine di tutti questi sconfinamenti, diventerà adulto? Crescerà? Sarà consapevole? A Cormac non interessa dircelo, e forse non è importante. Vediamo allora questo confine, che in realtà è anche fisico. Il confine tra Stati Uniti e Messico, iniziando in un tempo che si colloca negli anni Trenta. La famiglia Parham si è da poco trasferita nel New Messico, vive di caccia e di agricoltura, come ancora si faceva in quegli anni laggiù lontano dalle grandi città. Al centro della storia c’è il sedicenne Bill, ed in secondo piano suo fratello quattordicenne Boyd. Le mandrie dei Parham sono minacciate da una lupa che, sconfinata dal Messico, è venuta lì fuggendo cacciatori e per partorire. I Parham le danno la caccia, e sarà Bill a trovarla. Dovrebbe ucciderla, ma lì c’è lo scatto interno, il moto che fa di Billy “un diverso”. Vedendo l’ingiustizia di una possibile esecuzione dell’animale, Bill decide di riportare la lupa nelle terre natie. Intraprende così, senza dirlo a nessuno, un lungo viaggio, pieno di peripezie, pieno di incontri. Un viaggio che contiene le più belle pagine del rapporto tra uomo e animale, e tra uomo e natura. In Messico, Bill viene sopraffatto dai cattivi che prendono la lupa per utilizzarla in combattimenti animali. Bill non potrà che assistervi, e quando la lupa sarà stremata, decide lui di por fine alle sofferenze ed ucciderla. Torna a casa, dover scopre che la sua famiglia è stata massacrata e tutti i loro animali rubati. Si è salvato, a stento, il solo Boyd. I due allora decidono di attraversare di nuovo il confine, alla ricerca dei ladri e dei cavalli. Che troveranno entrambi, che in parte riprenderanno, che saranno coinvolti in sparatorie dove, ancora una volta, Boyd rischia di morire. Sarà salvato dalle cure di una bella indigena. Ma il rapporto a tre non è, non può essere equilibrato. Così che Bill ritorna a casa, mentre Boyd e la bella rimangono ramenghi tra le colline messicane. Passa il tempo, passa la guerra, ed alla fine Bill intraprende l’ultimo viaggio. Per ritrovare le ossa del fratello, morto in una qualche sparatoria, e sepolto chissà dove. Dopo aver trovato la tomba di Boyd, Bill cade in un’imboscata tesa da uomini che dissacrano i resti di Boyd e pugnalano il cavallo di Billy, Billy, con l'aiuto di una zingara, riesce a far guarire il cavallo e con lui ritorna verso casa. riporta il cavallo alla condizione di poter cavalcare. L'ultima scena mostra Billy solo e desolato, che incontra un cane terribilmente maltrattato che gli si avvicina per chiedere aiuto (quasi un contraltare dell’inizio). Ma qui, in contrasto con il suo legame giovanile con il lupo, spara al cane con rabbia. Poi se ne pente, torna a cercare il cane, che però è sparito. Bill si ferma e comincia a piangere. Questa è la storia, cui mancano i tanti incontri di Bill lungo le sue peregrinazioni. Predicatori, attori, messicani cattivi, messicani buoni. E tanto altro. Che il senso di Cormac è tutto qui, forse. Facciamo tante cose, incontriamo tanta gente, ognuna che ci dona un pezzo della sua umanità, per far sì che noi possiamo costruire la nostra, di storia, di umanità. Che non dovremmo mai tradire, una volta raggiunta. E quando ci accorgiamo di aver fatto un errore, non possiamo che cercare di rimediare. Di tornare indietro. E comunque, di piangere. Un pianto liberatorio, che solo può svelare, senza tante parole, chi siamo diventati. McCarthy ha questo suo stile che a volte mi irrita. Ma alla fine non posso non dire che il libro è interessante, blandamente conradiano, profondamente ben scritto.
 “Le cose separate dalle loro storie non hanno senso … Quando ne abbiamo perso il significato, non hanno più neppure un nome. La storia, d’altro canto, non può mai venir separata dal luogo al quale appartiene, perché essa è quel luogo.” (122)
Terza trama, forse puntuale, ed allora vi delizio con qualche prelibatezza culinaria.
Una settimana di felicissimo e graditissimo riposto tra i meandri argentei della costa tirrenica, prima di dedicarsi a due settimane di studio “matto e disperatissimo” (citazione dell’Alfieri) per realizzare quello che si vuole fare nel mese di agosto.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
LUGLIO 2019
Certo che essere sovrappeso e parlare di cibo non è una buona ricetta. O forse riusciremo in un esorcismo culinario?

STUZZICHINI E ASSAGGI

Julie & Julia di ]ulie Powell

Julia Child è la donna che con il suo libro di ricette, “L'arte della cucina francese”, ha iniziato le americane alla buona cucina negli anni Sessanta. Julie Powell è la tipica trentenne di oggi, felicemente sposata ma incastrata in un lavoro che non le dà nessuna soddisfazione. Mentre è alla disperata ricerca di qualcosa che dia uno scopo alla sua vita, s’imbatte nel libro di Julia Child e ha un’idea folle: realizzare in un anno tutte le sue 524 ricette, commentando l’impresa su un blog. L’esito va ben oltre le sue aspettative e la sua vita si ribalta: il blog è uno dei più seguiti del web, lei diventa una scrittrice e un’abile cuoca. Questa non è una favola ma la vera esperienza di Julie Powell che rimaneggiando il materiale del blog ha dato alle stampe “Julie & Julia”, la storia di questa piccola impresa culinaria. Attraverso l’immaginario colloquio con Julia Child, Julie racconta l’esperienza di due donne diverse ma poi non così tanto. Il famoso chef, un mito per le casalinghe americane del dopoguerra e tra le prime a portare il cibo in TV, ha scelto di diventare una cuoca esperta perché, felicemente sposata e altrettanto felicemente stabilitasi in Francia, non sapeva trascorrere le giornate con le mani in mano, senza uno scopo. Così ha preferito metterle in pasta e avvicinarsi professionalmente alla cucina quando ancora era un ambito esclusivamente maschile. Anche Julie cerca un modo per riscattare la frustrazione, quella di una vita lavorativa diversa da come l’aveva immaginata. Dopo che le donne sono fuggite dai fornelli per rintanarsi dietro le scrivanie degli uffici, oggi Julie fugge dall’ufficio per rintanarsi in cucina, dove spadellare e impastare diventa una valvola di sfogo creativo e ricreativo per ritrovare sé stessa. Perché «dopo una giornata in cui niente è sicuro, e quando dico niente voglio dire n-i-e-n-t-e, una torna a casa e sa con certezza che aggiungendo al cioccolato rossi d’uovo, zucchero e latte l’impasto si addensa: è un tale conforto!». Il libro ha lo stesso effetto confortante rivelandosi una lettura gourmand ad alta digeribilità. Si prescrive in caso di insoddisfazione lavorativa o emotiva, frustrazioni di vario genere e pressante desiderio di trovare qualcosa che dia senso alle proprie giornate, riscattandosi da una routine insoddisfacente: cucinare potrebbe essere una soluzione. Capiamoci bene, con “cucinare” non intendo “preparare la cena”, che suona più come un’incombenza che un piacere. Cucinare è ben diverso e implica una dedizione attenta e premurosa nella preparazione di piatti insoliti e diversi, magari elaborati, che impegnano la testa e le mani con creatività. Il romanzo aumenta il desiderio di provare ricette nuove per dare un po’ di sapore al tran tran quotidiano. Per essere valida al cento per cento, la cura dovrebbe contemplare l’esecuzione di alcuni piatti di Julia Child come, per esempio, il boeuf bourguignon, anche solo per dire «stasera ho cucinato un boeuf bourguignon» che, scusate, ma fa più scena di «ho fatto l’arrostino», almeno per una volta. Nel caso decideste di farlo, però, prendetevi la giornata libera perché l’esecuzione è piuttosto complessa. Se siete convinti sostenitori della supremazia della cucina italiana su quella francese, odiate i piatti troppo elaborati e, soprattutto, il burro vi ripugna, avrete un po’ di difficoltà a scegliere una ricetta che incontri il vostro gusto. Si consiglia, in alternativa, di ordinare un’italianissima pizza con tanta italianissima mozzarella filante e gustarla davanti al delizioso adattamento cinematografico di Nora Ephron, con Meryl Streep negli abbondanti panni della colossale Julia Child e Amy Adams in quelli della volenterosa Julie Powell. Rispetto al romanzo, la regista ha avuto l’intuizione felice di ampliare la parte dedicata a Julia Child, intrecciando le vite delle due donne in un continuo avanti e indietro nel tempo e nello spazio tra gli anni Sessanta e oggi, la Francia e New York. Del-li-zio-so.
Un consiglio: il libro è da somministrare anche a compagni eccessivamente pigri nell’apprezzare gli sforzi culinari delle proprie donne o poco inclini a sostenerle nelle piccole imprese quotidiane, sperando che siano contagiati dall’amorevole appoggio dei mariti di “Julie & Julia”.
Pomodori verdi fritti al Caffè di Whistle Stop di Fannie Flagg

Ci sono incontri che possono cambiare la vita, storie che possono cambiare la nostra storia e persone le cui vicende, seppure diverse e lontane nel tempo, possono aiutarci a cambiare e a stare meglio. Può succedere anche leggendo un libro e, di fatto, succede leggendo “Pomodori verdi fritti al Caffè di Whistle Stop”. Ma il bello è che questo è anche quello che succede nel romanzo stesso, nella sua storia. O meglio nelle sue storie. Il fortunato best seller della scrittrice americana intreccia le vicende di due coppie di donne vissute in epoche diverse. Grazie al fortuito e fortunato incontro tra Evelyn, una quasi cinquantenne insoddisfatta della vita e del matrimonio che affoga nei dolci la sua frustrazione (salvo poi sentirsi brutta, vecchia, cicciona e inutile), e Ninny, arzilla, incontenibile e chiacchierona vecchietta, ci ritroviamo a saltellare tra il presente e gli anni Trenta, l’ospizio e il Caffè di Whistle Stop. Attraverso i racconti di Ninny incontriamo le altre due eroine della vicenda: la dolce e posata Ruth e la temeraria e impertinente Idgie, singolare coppia di amiche-amanti che gestisce il Caffè del minuscolo paese di Whistle Stop (praticamente una fermata di treno più che un paese). Il locale è il luogo d’incontro di un’umanità varia e bizzarra, crocevia di vicende e situazioni a volte divertenti a volte drammatiche dove tra difficoltà, pregiudizi, razzismo, grande depressione, ritorsioni del Ku Klux Klan, maschilismo, violenze domestiche, eutanasia, vendetta, perdono, mariti violenti, donne coraggiose, chili di carne cotta alla brace e tazze di caffè fumante scorre la vita delle protagoniste in un colorato affresco del profondo sud dell’America degli anni Trenta. Attraverso il racconto delle audaci imprese di Ruth e Idgie, Evelyn trova la forza di modificare ciò che non le piace della sua vita, diventa la vendicatrice di tutte le over cinquanta e di tutti gli oppressi-repressi-depressi, riuscendo a trasformare in un punto di forza tutte le sue debolezze (rughe, ciccia e ormoni impazziti compresi) senza cedere al rancore né alla paura, finalmente libera dai giudizi e dai pregiudizi di chi cerca di convincerla che è da buttare. Nella vita, come in cucina, non si butta via niente!
Se durante il vostro personale viaggio in treno vi state annoiando, i compagni di scompartimento sono fastidiosi e il panorama sempre lo stesso, fermatevi a Whistle Stop, entrate nel suo caffè e cominciate a leggere. Come i protagonisti dei racconti della signora Threadgoode entrano nella vita di Evelyn, i personaggi del tenero e ironico romanzo di Fannie Flagg sono un balsamo che penetra in profondità nell’epidermide ripristinando il PH emotivo grazie al graduale rilascio di sano ottimismo che consente di combattere depressioni, frustrazioni, insoddisfazioni e ogni forma di tristezza che «fa ammalare più in fretta di qualunque altra cosa al mondo». Il Whistle Stop Caffè sarà anche per voi un luogo caldo e accogliente dove sentirvi al sicuro e scoprire che la gioia, anche in periodi di crisi e grandi depressioni, si può nascondere nelle cose più semplici, come in un piatto di pomodori fritti e in un sorriso, magari impertinente come quello di Idgie. In caso di deficit di coraggio, il romanzo consente di reintegrarne rapidamente la quota necessaria per affrontare piccole e grandi sfide, garantendo anche un’efficace copertura antibiotica contro i pregiudizi di ogni ceppo batterico. Sarebbe sufficiente anche solo questa frase per essere immunizzati a lungo termine contro ogni forma di razzismo: «Hanno paura di sedere a mangiare vicino a un nero, ma divorano le uova che escono dal culo della gallina».
Per rendere completa la cura a base di questo divertente comfort book, vi invito a eseguire la ricetta dei pomodori verdi fritti che, a detta dell’autrice, è «il meglio che c’è». La trovate al termine del romanzo. A tal proposito, c’è il rischio che le leccornie servite al Whistle Stop Caffè incrementino, nei lettori predisposti a cedere alla gola, un desiderio smodato di fritti e dolci, il cui sovradosaggio potrebbe alzare notevolmente i livelli del colesterolo. Ma anche quelli del buon umore perché, come dice saggiamente Ninny, non c’è «niente di più triste di chi non è goloso e mangia solo per non morire di fame».
Se non siete ancora sazi, concludete in bellezza con “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno”, l’adattamento cinematografico di Jon Avnet. Nonostante ci siano molte differenze rispetto al libro (sorvola sul rapporto omosessuale tra Ruth e Idgie e ogni tanto vira dalla commedia al giallo), il suo punto di forza è lo stesso del romanzo, le protagoniste: Jessica Tandy e Kathy Bates (Ninny e Evelyn), Mary Stuart Masterson e Mary-Louise Parker (Idgie e Ruth) vi entreranno letteralmente nel cuore divertendovi e commuovendoti con le loro storie.
Estasi culinarie di Muriel Barbery

A Parigi, nel signorile palazzo di rue de Grenelle, il più blasonato e temuto critico gastronomico del mondo, Arthens, è in fin di vita. Temuto e odiato da tutti, l’unico rammarico di questo cinico, sprezzante, dispotico e arrogante essere disumano (detestato perfino dal suo gatto) è di non riuscire a ricordare in punto di morte un sapore antico legato al suo passato. Lui, che ha avuto il potere di decretare il successo o la rovina di uno chef e che con le parole è stato capace di cogliere l’essenza di ogni cibo, si ritrova ora impotente di fronte all’ultimo desiderio di un condannato a morte: rievocare quell’unico sapore che vorrebbe assaggiare prima del trapasso. Non c’è destino più crudele per un critico gastronomico che restare a bocca asciutta, un boccone amaro più difficile da ingoiare perfino della morte. Inizia così un viaggio nella memoria che porta Arthens a ripercorrere la sua carriera dagli inizi fino ai successi, tra Paesi lontani, sontuosi banchetti e piatti prelibati. Per condire con raffinata ironia l’excursus bio-gastronomico dell’egocentrico e antipatico criticone, l’autrice inserisce i ricordi, le considerazioni e le critiche delle sue “vittime” tra cui la moglie, i figli, l’allievo, la portinaia e perfino il gatto, tutti più o meno concordi nel detestarlo senza rimorsi, in un concerto di voci diverse e tanti punti di vista che si intrecciano. Eppure, questo burbero e odioso egoista che sa cogliere l’essenza del cibo ma non quella dell’esistenza, riesce a mandare in estasi il lettore con i suoi ricordi culinari, ricordandoci che il cibo non è solo qualcosa da mangiare, ma anche un modo gustoso per parlare della vita. Dopo tanti succulenti manicaretti e piatti super ricercati, scopriamo che il sapore più importante è sempre quello più semplice (Marcel Proust docet). Dopo tutta una vita trascorsa a cercare di diventare “grandi”, arrivati alla fine del viaggio scopriamo che l’unica cosa che dà felicità è tornare piccoli. Come? Rivivendo sensazioni che credevamo perdute e che invece avevamo solo dimenticato. Per rievocarle, basta anche un semplice bignè del supermercato.
Romanzo d’esordio di Muriel Barbery, “Estasi culinarie” è un ironico, elegante e graffiante libro per food lovers. Il cibo ne è la spina dorsale e la descrizione di piatti e pietanze è talmente evocativa da sentirne quasi l’odore. Lo consiglio, pertanto, se soffrite d’inappetenza per stimolare l’appetito ma anche se siete a dieta, perché potete sfruttare a vostro vantaggio l’alto potere saziante dell’immaginazione (immaginando cosa divorare non appena finito il regime restrittivo). Si rivela molto utile per contrastare i sintomi di un’eccessiva considerazione di sé e il conseguente vizio di riversare l’eccesso di ego sul prossimo per soffocarne l’autostima. Se ne suggerisce infine la lettura a tutti coloro che manifestano una dipendenza dal «profumo inebriante del potere». Considero parte integrante della cura la ricerca di quel sapore primordiale che sarebbe in grado di confortarvi perfino sul letto di morte. Trovato il vostro comfort food, gustatelo.
Avvertenza: tra i personaggi di “Estasi culinarie” c’è Renée, la portiera del palazzo di rue de Grenelle protagonista del successivo romanzo dell’autrice, quello che ne ha decretato il successo: “L’eleganza del riccio”.
Per alcune affinità culinarie ed estasi di piacere, come supporto alla cura v’invito alla visione del gioiello animato della Pixar Ratatouille il cui protagonista è un topino con velleità da chef. Il personaggio del detestabile critico Ego ricorda molto quello del libro di Muriel Barbery. Anche nel suo caso sarà la riscoperta di un sapore genuino legato all’infanzia a ridargli quell’umanità che aveva sepolto sotto una gustosa ratatouille.
Gli ingredienti segreti dell’amore di Nicolas Barreau

Già il titolo è piuttosto invitante: chi non vorrebbe scoprire finalmente quali sono gli ingredienti segreti dell’amore? Farebbe comodo a tutti, ci si risparmierebbero molte scottature, bruciori di stomaco, desolanti digiuni o abbuffate consolatorie a seconda del proprio personale modo di reagire. Il problema è che in amore come in guerra tutto è lecito e quindi le ricette non valgono niente e non esistono ingredienti segreti. Siamo più dalle parti della magia che della scienza esatta. Eppure, Nicolas Barreau ha azzeccato tutti gli ingredienti con una storia accattivante che i romantici dal cuore fondente non potranno non apprezzare. “Gli ingredienti segreti dell’amore” è la combinazione perfetta per soddisfare i gusti dei food-book-lover. Basta l’incipit per capirne il potenziale terapeutico: «L’anno scorso, a novembre, un libro mi ha salvato !a vita». A spezzare il cuore di Aurélie è il suo fidanzato che, lasciandola all’improvviso con un biglietto codardo, ha mandato in frantumi tutte le sue certezze. La prima colonna portante della sua vita a cedere sotto il peso della delusione è la fiducia nell’amore, principio con il quale è cresciuta grazie a un padre che le ha lasciato in eredità il romantico ristorante “Les Temps des Cerises”, alcuni aforismi sulla vita ma soprattutto il suo famoso Menu d‘amour. Crollato il mito dell’amore niente sembra avere più senso e sapore nella vita della giovane chef. Neanche la cucina dove è cresciuta tra profumo di cioccolato e cannella sembra offrirle un rifugio sicuro, anche perché la sua abilità ai fornelli non l’ha messa al riparo dalle scottature. Ma tutto cambia quando, dopo aver vagabondato per le vie di Parigi, si ritrova in una piccola libreria durante la presentazione di un libro, quel libro che le salva la vita: “Il sorriso delle donne”. Non sono tanto il titolo o la trama a ridarle coraggio, quanto il fatto che nel libro è citato il suo piccolo ristorante di rue Princesse. Una coincidenza? Un caso? Ma il caso non esiste quando si parla d’amore. Aurélie si mette caparbiamente in testa di ringraziare di persona il misterioso autore di quella storia che le ha salvato la vita, ma deve vedersela con le resistenze dell’editor André, che fa di tutto per evitare l’incontro che, come in ogni buona commedia romantica giocata sugli equivoci, alla fine avviene e sarà tutto fuorché casuale. Questo romanzo a due voci si divora rapidamente come un éclair (il bignè lungo e sottile che alla lettera vuol dire “lampo” e se lo avete assaggiato sapete perché) ed è gradevole e confortante come un pasticcino, perfetto per colmare carenze di romanticismo, controllare sdilinquimenti da fame d’amore e tamponare vuoti sentimentali. Questo è l’incipit de “Il sorriso delle donne”: «La storia che sto per raccontare inizia con un sorriso e finisce in un piccolo ristorante [...]». Quel sorriso sarà probabilmente lo stesso che si stamperà sulla vostra faccia dopo aver terminato il libro. E se sorridete vuol dire che state già meglio. “Gli ingredienti segreti dell’amore” è la ricetta perfetta per tornare a sognare se state attraversando un periodo da incubo: mettete insieme Parigi con il suo charme, il raffinato cibo francese, un caratteristico ristorantino per cene tête-à-tête, poi aggiungete una spolverata d’amore per i libri, una grattugiata abbondante di romanticismo e uno stile frizzante e scorrevole. Guarnite con un lieto fine e poi affondate il cucchiaio, consolandovi così delle vostre delusioni. Ovviamente non bisogna necessariamente essere tristi per leggerlo, anche se è necessario essere sentimentali. Non è uno di quei romanzi che cambiano la vita, ma migliora l’umore. Tra gli effetti collaterali della cura c’è, quasi sicuramente, una voglia irresistibile di andare a Parigi il prima possibile (nel caso la assecondaste, non cercate il ristorante perché non esiste) e fare indigestione delle specialità francesi citate tra le pagine. Se questo non fosse possibile (peccato perché la Ville Lumière, dove l’ottimismo e la malinconia fanno l’amore, è un toccasana miracoloso per tornare alla vita), consolatevi con le ricette dell’afrodisiaco “Menu d’amour” del padre di Aurélie. Lo trovate alla fine del romanzo.
Avvertenza: se siete depressi per un amore andato male e non sapete con chi condividere il menu, preparatevi solo il gateaux au chocolat e mangiatelo leggendo il romanzo. Le dosi sono per due ma in caso di emergenza da cuori solitari è sempre meglio abbondare con una dose doppia di cioccolato. E anche con i libri è sempre meglio abbondare, quindi se Nicolas Barreau vi ha convinto potreste continuare con “La ricetta del vero amore”, “Una sera a Parigi”, “Con te fino alla fine del mondo” e “Parigi è sempre una buona idea”. Gli ingredienti sono gli stessi: amore, buon cibo, Parigi e spumeggianti coincidenze.

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Ho letto molti libri dedicati alla cucina ed alle ricette, ma tra questi, il libro della Flagg è ormai perso nella memoria del tempo (anche se ho visto con piacere il film, che vi consiglio). Gli altri ve li ripropongo in termini cronologici di lettura.
Muriel Barbery “Estasi culinarie” E/O euro 8
[pubblicato il 19 settembre 2010]
Per quanto il riccio mi era piaciuto fino ad un certo punto, questo mi ha lasciato al quanto indifferente. Cominciamo dal titolo orrendamente tradotto: “Une gourmandise” l’avrei reso con “Una ghiottoneria” che è quella che va cercando il grande esperto di cucina sul suo letto di morte. Perché le estasi culinarie ci sono, vero, ma sono il filo su cui scorre il racconto. Una serie di siparietti in cui il sempre grande critico ci fa immergere in sapori, trovando le auliche parole per raccontarli. Ma non si capisce (o non capisco io) quanto ci sia di ironico (perché l’uso di quelle metafore potrebbe indurre) e quanto di falsamente vero. I grandi critici culinari si riempiono letteralmente la bocca di queste parole, di assonanze, di rimandi, per cercare di “suscitar nel cuor la meraviglia”, quando il cibo lo suscita di per sé, senza bisogno di grandi voli (e leggete quando parlo del buon Sapo in altre trame per un confronto). Per esemplificare ne riporto il brano sul crudo giapponese: “ Il vero sashimi è croccante, eppure si scioglie sulla lingua. Invita ad una masticazione lenta e flessuosa che non ha lo scopo di far cambiare natura all’alimento, ma soltanto quello di assaporarne l’aera morbidezza. Già la morbidezza: né morbidezza né mollezza, perché il sashimi, polvere di velluto simile ala seta, porta con sé un po’ di entrambe e, nella straordinaria alchimia della sua essenza vaporosa, mantiene una densità lattiginosa che le nuvole non hanno.” Ecco, dopo alcune pagine di questa scrittura mi viene voglia di farne un falò, utilizzando il gambero rosso come combustibile. Ma certo, direte voi, questa è una delle nervature della storia, perché l’altra, la più importante (secondo i critici esimi) è quella del contraltare tra il delirio culinario del morente, e le persone che lo hanno accompagnato in vita. La moglie, i figli, l’amante, la cuoca, i detrattori, gli estimatori, financo la portinaia Renée (che ben altro spessore avrà nel Riccio). Perché l’idea è quella di tessere una trama in cui alla fine si possa in controluce vedere la complessità della persona umana. Non c’era bisogno di tante pagine (anche se non sono molte)  per dimostrare che ognuno di noi è diverso nella percezione che ogni altro ne ha. E soprattutto nella propria auto-percezione. Facciamo fatica a conoscere noi stessi? Non sappiamo chi siamo? Come direbbe la mia maestra Maria Luisa, facciamo a questo punto un bagno di realtà, e piuttosto che sbudellarla anche in punta di penna, viviamola. Insomma, l’ho trovato inutilmente pesante, senza un grosso filo conduttore, una prima scrittura acerba, che sboccerà nel successivo riccio, ma che qui mi ha francamente annoiato. Un solo punto mi ha rimandato uno sguardo non estraneo (si vede che ho letto la Müller, eh?, ma si vede anche che la Muriel è nata in Marocco), ed è quando descrive paesaggi di Rabat, che mi hanno riportato al bell’albergo che frequentai con vista sul Mausoleo di Hassan. Tutto il resto è califaniamente noia.
“Il calvario non è lasciare quelli che ti amano, ma staccarsi da quelli che non ti amano.” (40)
“Mi ricordo la magnificenza floreale della sala da tè degli Oudaïa dalla quale contemplavamo Salé e il mare in lontananza, alla foce del fiume che scorre sotto i bastioni; le stradine variopinte della Medina; le cascate di gelsomino sui muri dei cortiletti, ricchezza dei poveri distante mille miglia dal lusso dei profumieri occidentali; mi ricordo, infine, la vita sotto il sole, che è diversa da tutte le altre perché chi vive all’aperto concepisce lo spazio in modo differente … e il pane marocchino, preludio folgorante alle unioni carnali.” (75)
“Tutti pensano che i bambini non sanno niente. Viene da chiedersi se i grandi siano mai stati bambini” (79)
Nicolas Barreau “Gli ingredienti segreti dell’amore” Feltrinelli euro 8
[pubblicato il 7 aprile 2013]
Nato in Francia da madre tedesca, il nostro bilingue imbastisce una storia che fa perno su di un … inglese (anche se poi si sviluppa in molte direzioni). All’inizio, essendomi ignoto il Barreau mi aveva decisamente spiazzato il nome francese dell’autore ed il titolo originale in tedesco. Scoperto il trucco, ho trovato tuttavia simpatico il modo di “essere” in Parigi, quasi da straniero nella propria terra (un po’ come Veit Heinichen e Trieste). Anche se poi ci si domanda perché i sorrisi delle donne diventino “ingredienti dell’amore” e perfino segreti. Mistero! Comunque, senza tanti battage pubblicitari, Barreau ottiene un discreto successo internazionale con una storia delicata, che quasi ci fa tornare alle atmosfere leggere e simpatiche della Parigi di Amèlie (e non a caso i protagonisti hanno nomi in A: Aurélie e André). Ed anche l’idea di base ha un suo fascino, ed è ben svolta dall’autore. Poteva venirne fuori una cosa un po’ banale, invece, pur nell’assoluta normalità si fa seguire. La storia procede su due binari paralleli, alternando i punti di vista dei due protagonisti. Aurélie gestisce un piccolo ristorante parigino (dal nome storico che rimanda a quel ristorante vicino a Place d’Italie gestito negli anni ’70 da una cooperativa di operai e che proponeva e propone una cucina francese tradizionale), sta uscendo malconcia da una storia, cerca consolazione dalla sua amica Bernadette, ma la trova leggendo un libro di un ignoto scrittore inglese, dove il britannico protagonista, a valle di una serie di ironiche situazioni scontrandosi la sua flemma d’oltre manica con la giocosità parigina, si innamora di una ragazza che gestisce un ristorante che guarda caso è quello di Aurélie. E dove anche la descrizione della protagonista si adatta alla sua. Da questo punto in poi la nostra cercherà in tutti i modi di entrare in contatto con l’inglese, fallendo (e vedremo presto il motivo) miseramente ogni suo tentativo. André invece lavora in una piccola casa editrice, come editor, e, non riuscendo a trovare autori soddisfacenti la linea editoriale, in complicità con un suo sodale inglese, scrive un libro (quello di cui sopra), facendo finta sia la traduzione da un libro inglese. Sfortunatamente il libro ha successo. Ed André si troverà impelagato a far fronte alla richiesta di interviste all’autore, di viaggi promozionali, di sedute pubbliche di lettura. Nonché all’insistenza della bella Aurélie che lo contatta e non lo molla più per farsi presentare al fantomatico Robert Miller. Capirete anche voi, che si andrà avanti a forza di equivoci, di possibili smascheramenti, e soprattutto del tentativo di André di creare tutto un castello di menzogne per screditare l’autore fasullo, e per farsi bello verso Aurélie. Che in realtà è proprio la persona descritta nel romanzo. In effetti, ad André l’idea era venuta passando davanti al ristorante e vedendo oltre il vetro Aurélie in uno splendente vestito verde. Come detto una trama che rischierebbe di andare alla corda dopo poche battute. O di essere ripetitiva. Invece viene ben sostenuta dalla scansione di una serie di colpi di ingegno dello scrittore, per dare voce e speranza a turno ai due protagonisti. Ovviamente, quando tutto sembra andare per il meglio per André, Aurélie manda all’aria tutto il castello. E … e non vi dico altro, su come andrà a finire. Ognuno faccia il tifo per chi vuole e se ne goda la lettura, rilassante (soprattutto in questa turbolenta fine di un anno bisestile). Un’ultima notazione riguarda il “Menu dell’Amore”, un menu per due che il padre di Aurélie le ha donato prima di morire, e che è una catena che legherà per sempre chi lo mangerà con spirito giusto. Barreau (come a me fa piacere che mi rimanda ad altri testi a me cari) alla fine ce ne dà anche le ricette (che consiglio di provare a chi sa ben cucinare). Io mi limito solo a riportarne i piatti (e ad invitarvi al sorriso): insalata di valeriana con avocado, champignon e noci, coscio d’agnello al melagrano con gratin di patate, parfait all’arancio con gâteau au chocolat (che da solo vale tutta la cena!). Buona lettura!
“Gli anni non contano. Conta solo come li viviamo.” (10)
“Non riesco ad immaginare una vita senza libri.” (20)
“A volte è più facile convivere con la menzogna che con la verità.” (119)
“L’amore quando finisce è sempre triste. Chi lascia ha la coscienza sporca. Chi viene lasciato si lecca le ferite. Alla fine, però ognuno è quello che è sempre stato.” (gli appunti di Aurélie)
Julie Powell “Julie & Julia” Corriere della Sera Cucina 3 euro 7,90
[pubblicato il 27 agosto 2017]
Tributiamo un grande saluto (purtroppo postumo) a Nora Ephron che è riuscita, di questo libro non eccelso, a tirar fuori un film che ha una diversa e più ampia levatura. Riassumendo brevemente, nel 2002 Julie Powell, segretaria in un’agenzia governativa, per tirarsi fuori dalle secche di un avvio ai trent’anni che gli sta storto, decide di intraprendere un’opera titanica. Cucinare, in un anno, le 524 ricette di un libro “cult” del “cooking-writing” americano: “L’arte della cucina francese” di Julia Child. Per di più, decide di raccontare questa sua avventura attraverso un blog (intitolato “Julie/Julia”). Julie riesce in questa impresa, si attira anche l’attenzione dei media, tanto che le viene chiesto di riversare questa esperienza in un libro (questo che stiamo tramando, pubblicato nel 2005). Nel 2009, tre anni prima di morire di leucemia, Nora Ephron ne trae un film che, volendo dare spazio a Meryl Streep nei panni di Julia Child è più bilanciato e più appassionante del libro. Perché qui abbiamo più che altro la storia di questo anno, delle sue peripezie, e di alcuni episodi culinari che Julie affronta. Nulla (o poco e marginale) c’è di Julia, che invece nel film diventa il deuteragonista della storia, bilanciandone il peso tra la genesi di una passione e la sintesi della sua riproposizione. Non dovendo però parlare del film, diciamo solo alcune parole su Julia. Alta (1,88 e non è poco), sgraziata, segretaria in giro per il mondo, si sposa con il diplomatico Paul e, di stanza a Parigi, impara a cucinare. Da Cordon Bleu. Tanto che apre una scuola di cucina, scrive il libro di cui sopra, e dal 1963 appare in televisione in una trasmissione (“The French Chief”). Tutto questo intriso (fino al midollo, per restare in cucina) dello spirito provinciale americano degli anni Sessanta: amore spasmodico per la cucina francese, incapacità congenita di comprendere gli elementi naturali di una sana cucina, amore/odio per il burro ed i grassi (per poi finire a diventare obesi mangiando da McDonald’s o da KFC). Ma questa è Julia. Veniamo invece a Julie, che invece è una tipica americana del nuovo millennio, che seguiamo in questa vicenda post Twin Tower, in un mondo che già conosce vegetariani, vegani, ed altri (e diversi) stili alimentari. Quindi, dal lato culinario, diventa una sfida al modello americano: cucinare e mangiare una quantità sproposita di cibo, soprattutto di origini animale. Abbiamo profusioni, durante la navigazione di questo anno, di manzo, rognoni, fegati, oche ripiene, nonché un interessante capitolo sui diversi modi di uccidere e poi cucinare (o viceversa) un’aragosta. Abbiamo patate a scatafascio. Salse di ogni specie, ma in particolare tutte quelle a base di burro. Abbiamo dolci come piovesse, con tutte le glasse che possiamo pensare nella nostra mente bacata. Ma, fortunatamente, NON è un libro di ricette. Sfortunatamente, è la cronaca di un anno vissuto “pericolosamente” da Julie, cucinando e cucinando. Certo, qua e là si parla di ingredienti, ed altre amenità. Tuttavia, quello che emerge è il rapporto tra Julie ed il marito Eric, e con ali altri esseri viventi: il fratello, la madre, le amiche, i lettori dei blog. Certo, è un bel po’ Julie-centrico, e ciò nonostante riesce a darci il senso di una vita americana a Long Island nei primi anni di questo secolo, in un mondo post-torri, con la metropolitana che a volte non funziona, i tubi che si intasano, le cucine che si allagano, gli ingredienti che ci si dimentica di comperare. E quelle spese senza pensarci su, che portano, spesso e volentieri, a ritrovarsi con i componenti di base per cucinare un “potage parmentier”. Leggendo Julie questo non impressiona, ma è un rimando preciso: il potage è la prima ricetta del libro di Julia. Alla fine, gli ammiccamenti della scrittrice finto-segretaria sono un po’ troppi, e stancano assai. Non le va mai una dritta. Ma sempre, in ogni momento storto, le ricette riescono. Magari poco appetibili, e sempre, sempre, con troppo burro. Auguro sinceramente a Julie, che, ora, sui suoi 45 anni, abbia trovato quello che cercava buttandosi nel blog cuciniere. Magari anche figli. Peccato che, del blog e del blogghismo si parli poco nel libro. In ogni caso, non credo che cucinerò “alla francese”.
“Negli anni, [mio marito] Eric aveva sviluppato la tattica difensiva dell’ascolto selettivo. … I bene­fici sono ovvi: molto meno tempo sprecato a occuparsi di ogni passeggero attacco isterico della moglie. Io, però, in risposta ho affinato una tecnica di ripetizione + strilli, che si è rivelata molto efficace nell’abbattere le sue difese. E, una volta sollecitata una sua risposta, è lui a trovarsi in svantaggio, poiché non ha anco­ra sentito qual è la miccia della bomba che sta per esplodere, e pertanto non è in grado di giudicare che tipo di risposta sarà in grado di disinnescarla. Inoltre, poiché era lui che non dava ascolto a me, io vincevo su un alto piano morale.” (144)
“Il punto è che il mondo è molto più grande di quel che crediamo.” (181)

Finalino

Sono libri facili, anche se non rimangono impressi nella memoria, a volte aiutano a passare qualche momento distensivo, prima di dedicarsi a più impegnative letture. Concediamoglielo.



Italia poco gialla - 14 luglio 2019


Diego De Silva “Mia suocera beve” Repubblica Italia Noir 19 euro 7,90
[A: 04/10/2016 – I: 20/01/2019 – T: 24/01/2019] &
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 331; anno: 2010]
Mi ero ripromesso, dopo la triste lettura di “Non avevo capito niente”, di evitare questo filone della scrittura di De Silva. Tuttavia, al 19° libro di “Italia Noir”, dedicato alla Campania, potevo io interrompere inopinatamente gli acquisti? Non l’ho fatto. E forse ho fatto male. Perché ora, leggendo questo zibaldone desilvano, che si sarebbe potuto chiamare tranquillamente “Così parlò Malinconico”, facendo il verso a De Crescenzo che lo faceva a Nietzsche, mi domando: che senso ha questo libro? E soprattutto, perché viene inserito in una collana dedicata al Noir, dove figurano, con merito giallesco, Camilleri e Manzini, De Giovanni e Lucarelli, Malvaldi e Robecchi? Non è certamente un giallo, non ha tracce di indagini o di mistero. Certo c’è un fatto non usuale, ma ce ne vuole del bello e del buono per inserirlo in una collana di “Noir”. Il fatto avviene in un supermercato, dove Romolo l’ingegnere addetto alla sorveglianza sequestra un mafioso che è implicato nella morte del figlio del suddetto. Il quale coinvolge Vincenzo Malinconico in qualità di avvocato, tenendo in un certo senso anche lui in ostaggio. Perché la giustizia dei tribunali, cui bene o male appartiene Vincenzo non ha ancora risolto il caso, anche se ben si sa che l’uomo in sequestro è il mandante del fatto di sangue. Romolo ha messo in piedi tutto questo baraccone per inscenare una specie di processo mediatico, dato che, come ovvio, se c’è un sequestro arrivano le televisioni. Tutto il plot maggiore del libro è una descrizione di quanto avviene nel supermercato, di cosa fanno le turpi TV locali e nazionali, delle attività delle forze dell’ordine e dei passanti curiosi. Il tutto infarcito da un batti e ribatti tra Romolo e Vincenzo sul ruolo della giustizia, sulla sua mancanza, sui tribunali mediatici che soppiantano la giustizia ordinaria, e via discorrendo. Dove Romolo va sempre dritto sulla sua strada, puntando a farsi giustizia da solo e Vincenzo è combattuto tra fare l’avvocato d’ufficio del mafioso, il paciere tra le varie parti, il sostenitore del ruolo dei tribunali, ed altro ancora. Questo lungo plot attraversa quasi tutto il libro, ne è in un certo senso la spina dorsale, avendo, come è giusto che sia, una sua fine ad un certo punto. Quale e come sia, non lo diciamo qui. Ma il lungo excursus serve solo a Vincenzo per entrare ed uscire dai suoi pensieri e dar vita a due sotto filoni narrativi, questi veramente lontani anni luce da qualsiasi pittura giallognola. Il principale sotto filone, che deriva dritto dritto dal libro precedente, è il rapporto di Vincenzo con le donne. Con l’ex-moglie Nives, assolutamente antipatica, ma con cui, per non si sa quali motivazioni, Vincenzo ogni tanto si ritrova a letto. Con la nuova compagna Alessandra Persiano con cui sembrava aver intavolato un buon rapporto che qui si deteriora e finisce, anche perché l’ottima Alessandra sa o subodora che Vincenzo “intinga il biscotto” anche in altre bevande. La vicenda è discretamente confusa, perché Vincenzo si intortora in autocommiserazioni di poco peso e molta lungaggine ed Alessandra, in pratica, non viene mai coinvolta in una discussione, in una spiegazione. D’altronde, sfruttando l’esposizione mediatica avuta nel sequestro, Vincenzo è coinvolta in altre avventure a sfondo sessuale con giovani ventenni o poco più, che, fortunatamente, non sembra possano passare oltre il segno delle fantasie oniriche. L’altro sotto filone riguarda Assunta la suocera, sì quella del titolo, che, qui lo dico subito, di certo non beve, checché ne dicano Vincenzo, l’ex-moglie ed i due nipoti. Ma che si scopre ha il cancro, motivo per cui decide che è tempo di dire pane al pane e vino al vino, rimandando verso le persone a lei vicine tutte le cose buone e/o cattive che ha vissuto nella sua vita. Facendo, come è ovvio, delle grosse chiusure verso la figlia di cui non ha mai sopportato l’arroganza. Le parti con Assunta non superano a occhio il 10% del libro, e non si capisce perché viene ad occupare gran parte del cartellone. Quasi a farci sperare ogni volta che prenda la scena, nei suoi dialoghi con Vincenzo. Ma così non è. Rimangono le lunghe palle discorsive che il nostro avvocato si mena tra sé e sé, che la prima si legge, la seconda si sopporta, le altre risultano fastidiosamente ed inutilmente presenti. Una cosa per finire, ritornando su quel dispetto che il buon Diego mi ha fatto, e di cui ho già in altre trame avuto modo di dolermi: l’utilizzo dei testi delle canzoni per sottolineare momenti della vita. Non torno sopra, anche se forse sono gli unici momenti che mi hanno divertito, incuriosito e coinvolto. Soprattutto la parte dedicata all’Equipe 84, con Maurizio Vandelli, Victor Sogliano, Alfio Cantarella ed alle tastiere, cosa che De Silva non ricordava, Thomas Gagliardone. Per ricordare, io, con lui e l’Equipe, la mitica “Diario”, con il testo di Dario Baldan Bembo. Mitico! E mitiche le altre canzoni del mio ricordo della band, in particolare “L’antisociale” su parole di Guccini. Il resto del libro, l’ho già dimenticato.
“Il futuro è passato, e non ce ne siamo nemmeno accorti” [da ‘C’eravamo tanto amati’ di Scola] (296)
Katia Tenti “Ovunque tu vada” Repubblica Italia Noir 29 euro 7,90
[A: 13/12/2016 – I: 28/01/2019 – T: 30/01/2019] &&---
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 411; anno: 2014]
È un vero peccato che una fluente scrittura ed una trama con degli spunti interessanti di intreccio e di riferimenti (ambientali soprattutto) sia annegata in una lunghezza sproposita ed inutile per la resa del romanzo stesso. La scrittrice, stando alle note, dovrebbe essere al suo primo romanzo, e dal modo di scrivere e dal modo di porgere le idee sembra una persona di buone doti affabulatorie. Anche l’ambientazione bolzanina è di gradevole impatto, anche perché non di frequente usata nei romanzi e soprattutto nei gialli. Infine, l’idea base di seguire le vicende del Pubblico Ministero Jakob Dekas è di buona lena: non seguiamo un delitto, un intreccio isolato, ma la quotidianità di una procura della Repubblica, con la molteplicità dei casi che arrivano (qui ce ne sono tre) che casualmente hanno o possono avere punti in comune. Quotidianità che si riflette anche nel personaggio Dekas stesso che seguiamo con le sue manie e con il suo presente, che ovvio deriva dal suo passato cui spesso si torna. Qui cade il castello del romanzo, che seguendo tutto e tutti, tanta carne al fuoco viene posta, carne con diversi gradi di cottura, che quindi alla fine non risulta omogenea: chi troppo cotta, chi cruda, chi (forse) a punto. Quindi non solo le tre storie e Dekas, ma incontriamo anche le vicende del suo aiuto Vittoria e del suo maresciallo di riferimento, il buon Barra. Con Dekas ci imbattiamo anche nella sua amante di passaggio (che non è ancora, o non sarà mai in grado di avere una relazione stabile) Claudia. Inoltre, nei flashback, sovente reiterati, in Lauretta, il suo grande amore ai tempi universitari padovani, e Alberto, amico di allora e forse di sempre. Questa storia, che dovrebbe caratterizzare il Dekas attuale, è tuttavia spalmata a lungo nel romanzo, con frequenti su e giù, anche d’umore. Tanto che alla fine viene un po’ a noia, che, in fondo, conoscendo gli anni ed i luoghi, sembra un po’ scontata (come se si tornasse, con qualche cambiamento di fondo, a Carlotto ed ai suoi anni giovanili). Anche le tre storie che si intrecciano sono di molto allungate, introducendo nuovi personaggi, andando a vedere chi sono, che fanno, ed altre lungaggini. Riempendo il libro di nomi su nomi, che alla fine sembrano tutti uguali. Che a volte mi imbattevo in una persona, e mi domandavo: era già stata introdotta? A quale storia appartiene? Perché sì, ci sono le tre storie, ma sono poco “gialle”, sono quasi più sul versante “legal thriller”, dove aspettiamo di vedere se i colpevoli, acclarati, saranno presi, processati, condannati. La prima è una storia di stalking ante-litteram. Uso questo termine perché (e non so né è spiegato il motivo) le vicende si svolgono nel 1999, quando in Italia non esisteva una legge che reprimeva e controllava questi comportamenti. Milena è perseguitata dalla sua vecchia fiamma Antonio, con il quale aveva avuto una relazione, da anni troncata. Antonio le telefona ogni mattina, la segue nel percorso verso l’ufficio. Milena chiede aiuto a Dekas, ma senza violenze, all’epoca, non si poteva far nulla. La storia si complica quando Dekas scopre che Milena ha un figlio, che Antonio sostiene essere suo, e che invece è di tal Lukas, avvocato di spicco presso cui Milena un tempo lavorava, ma ben sposato e controllato dalla moglie. La seconda vicenda si interseca alla prima, quando Otto, un ottuagenario forse ricco, forse solo ricattatore, che vive sulle spalle di Lukas e famiglia, viene trovato morto nella villa dell’avvocato. Si scoprirà con fatica che la morte non è accidentale, ma Lukas fugge a Vienna prima di essere arrestato. La terza storia è invece tutta sghemba, e riguarda la denuncia per molestie sessuali della ventenne Verena, che sostiene di essere stata molestata dieci anni prima dal parroco del luogo, don Daniele. Dekas è dubbioso, mentre Vittoria, la sua spalla, è convinta della storia di Verena. Quindi tutta la lunghissima terza parte del libro è dedicata ai brandelli di indagine che vengono fuori. Alla ovvia colpevolezza di Antonio, ma vedremo solo nel libro come. Alla ricerca di incastrare Lukas pedinando giorno e notte la moglie, ed avendo un riscontro solo dopo alcuni mesi. Alle difficoltà, allora come ora, di entrare nell’omertà curiale per trovare le prove (e ce ne sono forti) della colpevolezza di don Daniele. Con tutte le scontate propaggini che tutto ciò comporta. I sensi di colpa di Dekas che non può far nulla contro Antonio se questi non fa qualcosa contro Milena. Le coperture che la casta avvocatizia fornisce a Lukas. Le coperture che la Curia fornisce a don Danilo. Tutto alla fine avrà una sua logica conseguenza, in due sottofinali che si vorrebbe conclusivi ed esplicativi, anche se lasciano punti sospesi. Come il terzo, che non vi dico, e che è una palese sponda verso una seconda puntata delle avventure del buon Dekas. Rimangono comunque molti, tanti punti in sospeso. Ad esempio, il primo capitolo con la storia della giovinezza di tal Nuccio, che prende una decina di pagine, come se dovesse acclarare chi sa cosa, e che si risolverà in una nota a piè pagina, più o meno, anche se significativa. Ma che, nelle more delle scritture gialle, dovrebbe avere più senso. Come non si sa che fine abbia fatto ed anche chi sia in realtà, il don Domenico, sodale teologico di don Daniele. Questo sempre per quell’idea balzana di scrivere di tutto e di tutti. Ricordo sempre che l’immenso Flaubert diceva che dopo aver scritto un libro, bisogna sedersi, e tagliare, tagliare e tagliare. Ultimo cenno, i riferimenti ambientali che dicevo sono comunque graditi. Sia dal punto di vista geografico, quando si parla di Bolzano e di altre cittadine sud-tirolesi. Sia dal punto di vista gastronomico, citando piatti e bevande locali che si vorrebbe provare, prima o poi.
Gianni Materazzo “I labirinti della memoria” Repubblica Italia Noir 25 euro 7,90
[A: 15/11/2016 – I: 16/03/2019 – T: 19/03/2019] &&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 254; anno: 1993]
Nonostante possa provare un sentimento di riconoscenza verso Gianni Materazzo per un paio di cose che ha fatto nella sua vita, questo quarto episodio (di cui mi scuso per non aver letto i primi tre) delle vicende noir dell’avvocato Luca Marotta mi ha lasciato indubitamente freddo. Allora comincio nel tributare omaggio all’autore per aver reso a fumetti un romanzo di Loriano Macchiavelli, uno dei numi tutelari del noir italiano. Ma ancor di più per aver fondato nella sua Bologna il negozio per l’infanzia “Città del Sole”. Il nostro, poi, nel 1989, vince il Premio Tedeschi con “Delitti imperfetti”, il primo libro della serie imperniata su Luca Marotta, e che verrà magistralmente interpretato in una serie televisiva da Gioele Dix. Qui, come detto, siamo al quarto ed ultimo episodio. Laddove Marotta si sposta dall’abituale Bologna, normale teatro delle sue vicende, nel borgo natio di Fallascoso. Che non è una città inventata come sembra farci voler credere, ma una frazione della ben nota Torricella Peligna, città natale, tanto per dirne una, di John Fante. Qui, nel borgo teatino, Luca si ritira ogni tanto, circondato da amici e conoscenti, e qui lo richiama l’amico Ferruccio, insospettito dall’inusuale morte di un vecchio valligiano, tal Marzialino, incidentalmente cugino di Ferruccio. Luca comincia ad indagare, avendo subito impresso lo strano modo della caduta di Marzialino, nonché la presenza di una quasi impercettibile ferita allo sterno. Scontrandosi puntualmente con le forze dell’ordine locali, che vorrebbero chiude in fretta l’episodio come marginale e poco significativo, Luca coadiuvato da Ferruccio indaga, interroga, e disvela ombre. L’atmosfera è molto “d’epoca”, anche perché il racconto risente dei 26 anni trascorsi dalla scrittura. Non ci sono più molte delle ombre che potrebbero nascere dalle pieghe del testo. Forse non c’è più neanche quell’atmosfera da borgo felice (ma pieno di misteri) che una volta poteva essere descritto e reso teatro di azioni di interesse. Qui, d’interesse c’è poco, ed abbastanza presto si intuisce la piega verso cui scivola il racconto. C’è la grande famiglia locale, i Crocenanni, con l’ultima erede, e solitaria, dell’un tempo favolosa fortuna: Beatrice, più che cinquantenne eccentrica ed impaurita. Sottolineo cinquantenne, che significa nata durante la guerra. C’è la sua amica del cuore, nonché protégé, la professoressa Lena Martucci. Figlia di n.n., empatica verso i disadattati, che farà anche un passaggio (poco significativo nevvero, ma esistente) nel letto di Luca. C’è l’amico Ferruccio, nascostamente ma da anni legato da tenere effusioni con Beatrice. C’è Domenico, detto Mingo, sordomuto dalla nascita, figlio della domestica Vincenzina. C’è il medico condotto, Gegé, logorroico ed amante della caccia. C’è il di lui padre Cesare, privato della vista durante la guerra di un maldestro colpo di fucile. C’è, infine, il misterioso professor Moritz, un archeologo tedesco che sembra essere venuto in loco per studiare i resti dell’antica Juvanum, loco romano esistente tra Torre Peligna e Montenerodomo. Ma tutti sanno anche che la zona fu teatro di battaglie, situata sulla famigerata “Linea Gustav”, e che Marzialino era anche una staffetta partigiana. Agnizione dopo agnizione, Luca smonta le varie sovrastrutture del racconto, anche se noi lettori ne veniamo coinvolti solo marginalmente. Il tutto per arrivare all’uccisione del tedesco nella cappella di famiglia dei Crocenanni. Da qui, l’indagine ed i personaggi prenderanno ritmi ed atteggiamenti diversi. Scompare pian piano Ferruccio, che poso apporta alla vicenda. Esce alla luce (nel buio della cecità) Cesare che aveva riconosciuto, nella descrizione fattagli, il tedesco come un caporale che non solo durante la guerra spadroneggiava, ma che era responsabile della sua menomazione. Che lui Cesare, aveva cercato di fermarne le effusioni verso Anita, la madre di Beatrice. Effusioni che Beatrice stessa aveva intuito e che da allora, in modo figurato, vengono a turbare i suoi sogni. A parte Ferruccio e Gegé, quindi, tutti gli altri sono sospettati e sospettabili della morte di Moritz. Beatrice perché il tedesco aveva stuprato la madre. Cesare perché il tedesco lo aveva accecato. Mingo perché il tedesco poteva essergli padre e poteva voler fuggire con gli ori trafugati durante la guerra. Lena per un sentimento di rivalsa e ribellione alla vita grama. Il tutto scorre senza troppa presa, arrivando a conclusioni scontate da tempo. Non solo, ma lasciando alcuni interrogativi irrisolti, cosa che, alla faccia di Van Dine, non si deve fare. Ultimo elemento che cito, e su cui un po’ gioca l’autore: la zona fu autoproclamata da Benedetto Croce come suo luogo natio, da cui quel cognome sempre presente nel testo.
“Una madre deve fare la madre. Se vuol fare l’attrice è meglio che non metta al mondo dei figli.” (184)
Michele Catozzi “Acqua morta” Repubblica Italia Noir 34 euro 7,90
[A: 26/01/2017 – I: 20/03/2019 – T: 23/03/2019] && +
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 357; anno: 2015]
Un libro interessante, non riuscitissimo, ma con alcuni spunti. Intanto relativi all’autore, Michele Catozzi di Mestre. Sottolineo di Mestre che si sente amore-odio dei mestrini verso Venezia. Anche perché mi ha fatto fare un balzo di una cinquantina d’anni indietro, alle mie allora frequentazioni locali. Non con una veneziana, che la mia ragazza d’allora era udinese. Ma, studentessa d’architettura, stette per un periodo a Mestre (discreto) e poi un anno alle frezzerie di San Marco. E fu vera gloria, senza nessun richiamo alle ardue sentenze. Tornando al libro, anche il protagonista è mestrino, il commissario Nicola Aldani (qui alla prima uscita, che poi il buon Catozzi ha prodotto altri due romanzi con Aldani al centro), in procinto per tutto il libro di trasferirsi da Venezia a Mestre (cosa che comprendo per i problemi di avere una famiglia numerosa, ma biasimo perché, da forestiero, non scambierei mai le due città). C’è un filone “noir” che percorre tutto il libro, ma che è di facile decrittazione. Una trentina di anni prima, in quel di Sant’Elena, una coppia in effusioni viene aggredita. Lui massacrato e ucciso. Lei forse stuprata (o forse lo era già) ed in stato di shock, da allora e per molto tempo. tanto che con la madre ed il fratello si trasferisce a Londra, dove, all’inizio del libro, muore definitivamente. Con il fratello che torna nella natia Venezia per chissà quale vendetta. Questo filone sarebbe occultato e poco rilevante (il fatto si risolse senza nessun colpevole trovato), se non avvenisse la strana morte di tal Mirco Albrizzi, di una delle famiglie più note della città. Non solo, ma legato mani e piedi agli ambienti traffichini e politici del Veneto e non solo. È nipote di un senatore, è sodale con il governatore della regione (che di nome fa Nereo, quasi a ricordare tal … Laroni, che qualcuno ricorderà sodale craxiano all’epoca ed ora fedele di Zaia), fa affari loschi con la cosiddetta ex-moglie (che poi si scopre non essere neanche ex), ed ha un avvocato ed un ragioniere che gestiscono affari poco puliti. Mirco viene trovato ucciso con un colpo di pistola, nelle acque basse di un rio quasi asciutto (da cui il titolo, o almeno l’idea dello stesso). E poco dopo si trova morta anche la sua amante, una escort di colore, con casa messa a soqquadro (sono contento di poter usare finalmente l’unica parola italiana con due “q”!). Aldani indaga, collega, confronta, e qui esce fuori la parte più sentita e meno riuscita. Mirco era uno dei fondatori della Banca Veneta, cassaforte della destra locale, ed altro ancora, con intrecci tra malaffare, politica, nascita di centri commerciali ed altre astruserie. Catozzi cerca di darci un quadro dei possibili intrecci, un’idea dei flussi monetari poco puliti, delle malversazioni ed altro. Ma, pur documentato e con molte attinenze al reale, lo scritto non assurge a livelli da Gomorra o da Suburra. Vediamo, leggiamo, capiamo, ma un po’ ci si perde. Ed anche se questo rimane un filone interessante da seguire per capire fino a che punto sia corrotta la società veneta in primis ed italiana in generale, la svolta (almeno nella testa di noi lettori) arriva quando anche Aldani, con l’aiuto di un poliziotto in pensione, collega Mirco alla morte della fanciulla di cui all’inizio. Mirco era il fratello di Laura e Tommaso. Ed è proprio Tommaso che lo va a cercare dopo la morte di Laura. Qui si intreccia duramente il personale e il politico. Che Mirco sa che la sua Banca versa in pessime acque. Tanto che negli ultimi mesi trasferisce all’estero milioni di euro dei suoi conti personali. Probabilmente per inscenare una morte fittizia e riparare all’estero con l’amante. Dubbi sorgono allora nella mente di Aldani: sarà veramente Mirco il morto? E dove è finito il fratello Tommaso scomparso poco dopo l’arrivo a Venezia? Non è che qualcuno, scoperti gli altarini di Mirco, assolda un killer per far fuori lui e l’amante? Non vi dico gli ultimi drammatici momenti finali. Solo che nel cloud della rete (retaggio della parte informatica di Catozzi), Aldani trova le prove delle ruberie della Banca. Ed i vari mestatori, locali e nazionali, dovranno renderne conto. Sapremo anche (ma già si capisce purtroppo dalle prime dieci pagine) chi ha ucciso il fidanzato di Laura. E finiremo, questo ve lo posso dire, con finalmente il trasloco di Aldani in quel di Mestre. Un punto in più nelle considerazioni tramanti è per la citazione a pagina 54 di una similitudine Uderziana: il fabbro che viene ad aprire la cassaforte del morto viene paragonato ad Automatix, quello con i baffoni che era sempre in lite con il vicino bottegaio, il pescivendolo Ordinalfabetix. Grande ed indimenticabile Asterix. Invece chissà se si avrà voglia di affrontare la “Laguna Nera” del secondo romanzo.
Seconda tram, ed un allegato che farà contenti i russofili doc, e non quelli attuali, d’accatto e di ricatto.
Per il resto, proviamo a vedere se al mare l’aria è più fresca. A Roma non si respira.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
LUGLIO  2019
Sono perplesso, ma riporto per dovere di cronaca e commento nel finale.
SANTARELLINI, FARE I
Michail Bulgakov       “Il Maestro e Margherita”
Quando in una bella serata di primavera degli anni Trenta il diavolo appare in un parco di Mosca, si inserisce tra due tizi eruditi, impegnati in una profonda discussione su una panchina. Uno è Berlioz, il calvo, corpulento direttore di una rivista letteraria. L’altro è Bezdomny, un giovane poeta. Il diavolo non ha problemi a prendere il controllo della conversazione - che riguarda l’esistenza o meno di Gesù Cristo. Il diavolo infatti, che indossa un costoso completo grigio, scarpe «straniere», un berretto grigio piegato allegramente su un occhio, ha più carisma di entrambi gli uomini messi insieme. «Oh, che bello!» esclama quando i suoi due nuovi amici gli confermano che sono atei. Il diavolo ha una mentalità imprevedibile e infantile, si annoia facilmente ed è sempre in vena di scherzi - soprattutto se a spese di qualcun altro. Ora scoppia a ridere, in maniera abbastanza sguaiata da «spaventare i passeri sull’albero», l’attimo dopo predice la terribile morte di Berlioz, che sarà decapitato da un tram (e succede davvero). Quando Berlioz gli domanda dove abiterà durante il suo soggiorno a Mosca, strizza l’occhio e risponde: «Nel vostro appartamento».
Il diavolo ci sa fare, è arguto. Come in “Paradiso perduto”, ha le migliori battute e tiene sempre tutti sulle spine. Quando Bezdomny sente il bisogno di una sigaretta, il diavolo -o il professor Woland, come si legge sul suo biglietto da visita - gli legge nel pensiero e tira fuori un impressionante portasigarette d’oro con la marca giusta. Lui e il suo bizzarro seguito - che comprende un gatto grosso, rozzo e con un debole per la vodka chiamato Behemoth - stupisce il pubblico a teatro facendo apparire sul palcoscenico una collezione di haute couture parigina - cappelli, abiti, borse, rossetti - e invitando le signore a spogliarsi e rivestirsi.
Ovviamente, il diavolo dà anche le feste migliori. Mosca non ne ha mai viste di simili, e non ne vedrà più: un ballo a mezzanotte, sotto la luna piena, con l’ospite d’onore (Margherita) cosparsa di sangue e di rose. Le fontane sono piene di champagne, e pappagalli dal petto scarlatto gridano: «Estasi! Estasi!». L’orchestra è diretta da Johann Strauss. Questo è il diavolo, però, e non è tutto divertimento e giochi innocenti. A parte Margherita, gli ospiti della festa arrivano in vario stato di decomposizione, perché provengono direttamente dall’inferno.
Non vi stiamo suggerendo di rinunciare alla bontà e votarvi al male. Stiamo solo dicendo che dovreste spassarvela un po’, imparare a vivere. Non andate in giro a staccare teste come fa Behemoth, ma organizzate feste scandalose. Abbiate sempre un lampo di malizia negli occhi, una scheggia di malvagità nella manica. Sarete molto più divertenti.

Bugiardino

Forse anche altrove ho parlato di Bulgakov, del Maestro, di Margherita, e della mia amica Nicoletta che adora gli scrittori russi. Io ho sempre difficoltà nel leggerne (tanto che spesso prendo e lascio Dostoevskij). Ed il mio commento ne è una riprova.
Michail Bulgakov “Il Maestro e Margherita” Repubblica Novecento euro 4,90
[tramato il 13 maggio 2012]
Si può parlare male di un capolavoro? Io, continuando nell’opera di sincerità soprattutto verso i classici, dico di sì. E lo dico per tutti e due i termini. Cioè, è un capolavoro, indubbiamente. Ma altrettanto chiaramente non mi è piaciuto. È un’opera senza dubbio complessa, piena di scrittura, e piena di giochi, rimandi, citazioni, descrizioni possibili di situazioni impossibili, travestimenti del reale. E via discorrendo. Ma non mi prende, non mi coinvolge. La maggior parte degli accenni (ed anche qualche punto di scrittura) lo trovo datato, senza che riesca a resistere all’usura degli anni. Gli unici tre capitoli che mi sono rimasti, che ho letto con voluttà, sono quelli dedicati a Ponzio Pilato, al Nazareno, a Levi Matteo. Potenti, da mettere vicino (e sopra) alle altre prove di diversa scrittura degli stessi episodi (De Luca, Schmitt, Baricco tanto per citare gli ultimi che ho letto). Ma il resto? Il diavolo Woland che si aggira per il mondo con il suo stuolo di cortigiani. Il gatto Behemoth, il gobbo, Azazello, e via citando. Personaggi immaginifici che fanno cose mirabolanti (fuggono con fornelli, si aggrappano a lampadari per non essere colpiti dalle pallottole, ipnotizzano migliaia di persone scambiando etichette di bottiglie con rubli sonanti, e via magicando), ma di cui non seguo, non capisco i nessi. I motivi delle loro belle o turpi azioni. Da quel punto di pista, si seguono meglio e si comprendono (proprio perché in trasparenza si vedono difetti umani sempre presenti) i vari personaggi russi: il letterato Berlioz che perderà (letteralmente) la testa, il poeta che comprende l’inutilità dei suoi versi, tutta la gente di spettacolo, dall’organizzatore al direttore del teatro, il cuoco. Insomma, tutti i vari meschini individui che cercano dei loro piccoli tornaconti particolari. E che Woland ed i suoi smascherano senza (giustamente) alcuna pietà. Nessuna pietà, questo il motto di Bulgakov. Nessuna pietà per chi inganna, chi cerca il proprio piccolo tornaconto personale quando intorno ci sarebbe il teatro per dare spazio a grandi avvenimenti. A storiche prese di posizione. Tutti dovrebbero fare un esame di coscienza. E fare i passi misurati alla propria gamba. Di una ferocia, ed attualità straordinaria il passo in cui i due diavoli cercano di entrare nel circolo degli scrittori, e vengono fermati perché non hanno la tessera. Perché solo se qualcuno certifica chi sei tu, allora tu sei quella persona. Come dire che senza un pezzo di carta Shakespeare non sarebbe Shakespeare, perché non è sufficiente quello che scrisse. Che d’altra parte viene letto e censurato, ed il più delle volte nascosto. Così come succede al libro del Maestro. Che non viene capito perché “troppo avanti”. Ed il Maestro viene stritolato dagli ingranaggi degli apparati burocratici, tanto da rasentare la follia. Si salverà, sarà salvato, soltanto dall’amore della bella Margherita. Che lo ama (e qui c’è veramente un canto d’amore altissimo) al di là di ogni apparenza e convenienza. Perché Bulgakov ci dice che quando c’è, l’amore viene fuori, si manifesta. E bene o male trionfa. Anche se per trionfare deve passare mille prove, e superare mille ostacoli. E magari, non sarà come ce lo aspettiamo. In un mondo che non può riconoscere il loro amore, la loro esistenza, il Maestro e Margherita non hanno spazi. Meglio morire, e continuare, immortali, a vivere il proprio rapporto, via da questa pazza folla che ci circonda. Ecco, ho ripreso altri passi che non possono che ri-sottolineare la natura eccezionale dello scritto. Ma proprio per come sono espressi, me li hanno fatti sospirare. E leggere con fatica. Arrancando per più di dieci giorni intorno alle 400 pagine dello scritto. Certo, e concludo, non si può scindere il romanzo dall’autore. Che Bulgakov è tutto in questo libro (ci si ritrovano tutte le invenzioni, le ironie, ed i dolori di tutte le sue altre opere). Un libro che lo accompagna gli ultimi 15 anni della sua vita. Ma che vedrà luce e fama solo molti decenni dopo la sua morte. Concludo, dicendo tuttavia che, benché non mi abbia coinvolto, benché continuo a vederne i limiti verso il mio modo di leggere ed interpretare il mondo, ritengo che sia in ogni caso un libro da leggere. Magari qualcuno più in gamba di me lo troverà più facile e me ne illuminerà le parti oscure. Aspetto con ansia.

Conclusioni

Non so se Bulgakov sia contento di essere inserito tra i santarellini, o tra coloro che devono dirazzare per essere felice. Io non sono convinto del libro, che continua a non piacermi. E non sono convinto della collocazione terapeutica.  Come già detto, aspetto superiori spiegazioni.