domenica 3 luglio 2016

In viaggio verso me - 03 luglio 3016

Continuo ad anticipare i tempi, ed a fornirvi un po’ di tutto, visto che per questa estate poco altro vi farà compagnia. Ho iniziato leggendo un saggio che mi riportava ai (bei) tempi di via dei Sabelli, constatando (e non mi meraviglio certo) che il tempo passa. Forse qualcosa migliora, io no di certo, ma almeno so chi sono. E poi tra una sarabanda dedicata al muoversi per il mondo ed al mangiare alternativo (tutte premiate con ottimi risultati), un bel salto all’indietro, laddove il mio amato Asterix non mancherà mai. Come diceva il grande Marcello: Sono Pazzi Questi Romani!!!
Krishnananda e Amana “Fiducia e sfiducia” Feltrinelli s.p. (biblioteca di Tolemaide)
[A: 06/06/2015– I: 17/01/2016 – T: 22/01/2016] - && +   
[tit. or.: Trust and Mistrust; ling. or.: inglese; pagine: 193; anno 2004]
Ecco ancora un altro libro che è saltato fuori dalla riorganizzazione delle librerie delle varie case dove ho vissuto negli ultimi venti anni. Un libro che mi ha fato fare un salto indietro di quindici anni, ripercorrendo con lui alcuni momenti dei miei percorsi interiori, cercando anche di capire se io stesso sono cambiato rispetto al libro, a quello che facevo, al modo di essere e di pensare che mi aveva fatto passare momenti pochi simpatici della vita. Devo dire che, chiuso il libro, ho avuto due reazioni. Verso il libro, che non mi è piaciuto moltissimo. Dice cose anche interessanti, ma in modi didascalici che non condivido (o non condivido più). Verso di me, che al contrario mi sono piaciuto, per come sono ora, con tutti i limiti, gli errori, ed i sempre possibili miglioramenti. Comunque poiché paliamo di libri e non di biografie, torniamo al testo e lasciamo il contesto. Che il libro mi aveva attirato per quel sottotitolo furbetto (“Impariamo dalle delusioni della vita”) e dal nome indiano degli autori. I quali, tuttavia, non sono indiani ma lui è americano, lei è danese, ed il loro nome indiano deriva dal lungo percorso che hanno fatto, soprattutto Krish, come seguaci, adepti e propugnatori degli ashram di Osho. Non voglio entrare (non mi interessa, non ne so abbastanza) sulle polemiche intorno a Osho, certo che Krish e Amana, alla fine, se ne sono staccati, ed ora gestiscono un centro terapeutico del nome accattivante di “Learning Love” (à imparare l’amore). Per la loro missione, ad un certo punto, hanno cominciato a pubblicare libri che seguono i diversi fili della loro terapia. Come “Uscire dalla paura” o “A tu per tu con la paura”. O come questo che esamina il rapporto tra fiducia e sfiducia, al fine di volgere a nostro vantaggio (prima interiore, poi di vita) i momenti che attraversiamo durante la nostra esistenza. Il tentativo dei nostri è quello di sfoltire la mente del lettore da quella patina di resistenza che mettiamo di fronte a noi ogni volta che siamo in difficoltà, cercando di farci discernere le “vere” difficoltà, dai momenti illusori, dove ci facciamo un castello di idee, in genere basate sul niente. Arrivare quindi, secondo la loro definizione, a liberarsi della “fiducia fantasticata”, cioè quella sensazione di fiducia che ci auto-imponiamo al fine di non cadere in depressioni varie. Uscire, quindi, da quello stato infantile, da quel bambino bisognoso, e lasciare accadere la vita. Imparare le lezioni che ogni istante ci pone davanti. Imparare ad essere responsabili verso noi stessi, il nostro corpo, le nostre sensazioni. In fin dei conti, seguire ogni istante, lasciandolo accadere, capendo che non sono le “sliding doors” della vita che ci permettono di essere sereni, ma l’accettazione e la comprensione di quanto accade. Ed alla fine, la fiducia diventa uno stato interiorizzato. Non dicono, nessuno ci crede, né che sia facile né che sia vincente. Ma, un po’ alla “Catalano” (per chi è anziano come me, ci si capisce), è meglio avere fiducia che non averla. Ovviamente, il loro percorso porta, non può che portare, dalla fiducia all’amore. Proponendo anche un esagramma di atteggiamenti per “imparare l’amore” (e poi, se volete approfondire, ci sono sempre i seminari). Spero di non aver interpretato troppo quanto viene percorso nel libro, volendo solo darne un assaggio, al fine di farvi capire l’approccio. Per poi discutere, proprio dell’approccio. Non dico di sapere tutto dei percorsi personali (non so se conosco il mio, figuratevi quello vostro), tuttavia una cosa ho appreso in tutto questo tempo (di studi e di viaggi). Niente può essere trapiantato “sic et simpliciter”, da una cultura all’altro. È impossibile che, da occidentali, si riesca ad entrare completamente nella mentalità di una meditazione orientale. Come, scusate il paragone molto basico, è impossibile gustare un cibo orientale con la stessa fragranza ed ampiezza di risultati che si ha mangiandolo su luogo. Con questo, non dico che non possa far bene. Che il secondo insegnamento che ho appreso recita: “se ti fa bene, fallo”. Se meditare come Osho ti fa bene, fallo. Se muoverti bioenergeticamente come Lowen ti fa bene, fallo. Se sederti su di un lettino come Freud ti fa bene, fallo. Questo è, alla fine, il grosso limite della maggior parte degli interventi sulla psiche. Pensare, erroneamente, che la propria modalità sia la migliore, e vada bene per tutti. La modalità migliore è quella che fa star meglio chi sta male.
“Lasciare il caos dove altri dovranno fare ordine, non prendersi cura di importanti aspetti pratici della vita … sono modalità disfunzionali in cui si esprime l’inconscio bisogno di ricevere attenzione.” (49)
“Lo ami abbastanza da voler essere con lui/lei, anche se non cambierà mai?” (107)
“Dobbiamo prenderci il rischio di onorare i nostri bisogni. Ciò non significa che vivere o essere in intimità con un’altra persona non includa delle mediazioni. Ma quando questo avviene su cose essenziali, allora non si tratta più di una mediazione ma di un compromesso.” (146)
Gabriele Romagnoli “Solo bagaglio a mano” Feltrinelli s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 22/01/2016 – I: 23/01/2016 – T: 25/01/2016] - &&&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 87; anno 2015]
Altro libro fortunatissimo, e con una serie di curiosità e carambole, per mezzo delle quali è riuscito ad entrare nella mia libreria, prima, e nelle mie grazie, poi. Ne ho sentito parlare dalla mia nipotina preferita (nonché unica, e, volendo, neanche tanto “ina”, visto che quest’anno va per i ventinove). In genere non parliamo di libri, quindi mi aveva incuriosito le sue citazioni di questo libro, delle esperienze che sembravano nascervi. Ne parlai a mia volta con Alessandra, che, nascostamente, ha poi trovato il modo di regalarmelo per una piacevole ricorrenza post-cubana. Tant’è che l’ho subito aperto, e letto abbastanza alacremente. Tra l’altro ricordandomi, mentre lo aprivo, che Romagnoli è proprio il giornalista che ho seguito per tutto il 2015 con le sue uscite domenicali su Repubblica, dove ogni settimana parlava di una città e di un paese diversi. Alla fine il libro, brevissimo e veloce, parla anche di altro, e ci torniamo tra poco. Quello su cui metto immediatamente l’accento è l’inizio, ove il nostro Gabriele accenna al suo obiettivo – promessa del suo cinquantesimo compleanno: visitare nel corso della vita 100 paesi, arrivando, mentre scrive questo libro verso la fine del 2015, alla quota di 73. Io non ho fatto la stessa promessa, non ho vissuto a lungo all’estero come lui, eppure ho viaggiato tanto, spero di viaggiare ancora a lungo, ed ho visitato sino ad ora 83 paesi. Non so, non m’interessa vedere se arriverò a 100. M’interessa vedere, sempre e comunque, cose nuove, perché solo così si rigenerano le cellule morte, ed i pochi neuroni mantengono un minimo di attività vitale. Attività stimolata dai molti spunti di questo libro, che non è sull’arte del viaggiare, ma sull’arte di vivere. Anche se ammetto, che per me sono spesso nozioni coincidenti. Aprendosi e chiudendosi con l’esperienza di Romagnoli in Corea di organizzare il proprio funerale facendosi rinchiudere in una bara, per un tempo definito, ma che non è a lui noto. Lì lo fanno per esorcizzare l’ondata di suicidi che vi avvengono. Lui ne approfitta per meditare sugli aspetti della vita. In una serie di piccoli pensieri, l’autore ci accompagna verso la sua meta. A partire da quella sensazione avuta a Kigali, in Ruanda, dove vedeva la gente, nonostante sia ormai in periodo di pacificazione, muoversi all’aperto molto velocemente. Dove gli spiegano che era un’abitudine venuta propria dalla guerra, dove andando svelti era più difficile essere colpiti. Proseguendo con il panegirico di una trovata in cui è maestra Alessandra, quella del borsone vuoto e ripiegato, che si riempie di cose quando servono. Un continuo quindi andare e venire, sempre sulla falsariga di cosa portarsi appresso per viaggiare leggeri nella vita. Per perdere la zavorra, al fine di ritrovare le essenze di sé stessi. Fino a quel capolavoro di ricordi e memorie che Romagnoli (ed io con lui) troviamo nel bellissimo Ireneo di Borges. Quello che ricordava tutto, e proprio per questo non potrà che morire sovraccarico di ricordi, così come moriranno le memorie esterne dei nostri supporti mobili, computer o cellulari che siano. Bisogna selezionare, bisogna avere la capacità di mollare (penso al recente film di Genovesi “Perfetti sconosciuti” ed alla battuta di Marco Giallini sull’importanza di non fare sempre muro contro muro, ma di aver la capacità, di una difficoltà infinita, di fermarsi). Ed alla fine Gabriele esce dalla sua bara fittizia, raccoglie queste memorie sparse, batte, insiste fino alla morte sulla necessità di avere tutto quello che serve a portata di mano. Ricordandosi, e ricordandomi, di quel non eccelso film con George Clooney, “In the air”, e la sua vita raccolta in uno zainetto. Va per i sessanta, Romagnoli, ma con lo spirito giovanile di sempre, finisce con un’esortazione che condivido, sulla necessità di nuovi spiriti, di generazioni capaci “di scegliere sempre la libertà, di consumare soltanto il necessario, … di saper perdere cose e battaglie senza perdersi, … con una inflessibile attrazione verso il presente”. Sì, con il qui ed ora. Come abbiamo imparato. Come spesso ci dimentichiamo, sovente appesantiti da troppa zavorra. Partiamo, allora, nel presente, e verso il futuro, solo con il bagaglio a mano.
“Il bagaglio ideale è leggero … Non conta com’è quando è chiuso, conta com’è quando lo apri. Vale per la casa che sceglierai. Per la persona con cui passerai gli anni a venire. Conta che sia agevole andarci in giro.” (31)
“Sai, all’inizio tieni tutto. Poi … capisci che l’unico archivio che conti è la tua memoria: hai tutto lì, per sempre.” (48)
Jean-Yves Ferri & Didier Conrad “Asterix e il Papiro di Cesare” Panini euro 12,90
[A: 28/01/2016– I: 29/01/2016 – T: 29/01/2016] - &&& e ½  
[tit. or.: Le Papyrus de César; ling. or.: francese; pagine: 48; anno 2015]
Non si può dimenticare il proprio passato (quello per cui siamo ciò che siamo) e quindi, fatalmente, si ritorna a voler bene ai fumetti, che tanto spazio hanno avuto in anni lontani (ma solo nel tempo). Asterix è per me uno dei fari illuminanti, e mai scorderò la “goturia” che mi prendeva nel leggere le strampalate avventure dei resistenti all’impero di Cesare (e chi non sa perché ho scritto il virgolettato, si vada a rileggere il capolavoro “Asterix e i Goti”). Come ho detto nel commentare il primo volume della nuova serie, dalla morte di Goscinny, pur apprezzando gli sforzi di Uderzo di mantenere in vita le storie ai Asterix, Obelix e compagnia, notavo un affievolimento della verve che aveva guidato la parte “forte” della serie. Ora che Uderzo ha compreso di non riuscire più ad esprimersi compiutamente, ed ha passato la mano ai due nuovi co-autori, i nostri stanno tornando, non dico ai fasti di un tempo, ma sicuramente ad una più godibile lettura. Certo, la matita di Conrad, pur muovendosi nel solco originale, ogni tanto sbava verso elementi spuri e poco consoni (come il mostro di Lochness della precedente storia, o la carica dell’unicorno in questa). Ma la sceneggiatura di Ferri si sta rivelando, e qui meglio che nel primo volume, di un più gradito spessore. La storia prende le mosse dalla decisione di Cesare riguardante la pubblicazione del suo “De Bello gallico”, ed al suggerimento del suo editore di tagliare la parte relativa alle sconfitte con il piccolo villaggio armoricano. Un intrepido giornalista trafuga il capitolo mancante, e, sprezzante dei pericoli, lo rimette nelle mani di Abraracourcix. Vicissitudini si susseguono nella ricerca da parte dei romani di riprendersi il capitolo sottratto e nelle intenzioni dei galli di perpetuarlo a futura memoria. Sarà il capo dei druidi ad impararlo “par coeur” come dicono in Francia. Cesare riavrà le sue pagine, e le distruggerà, ma il passa-parola dei druidi continuerà, fino ad arrivare ai giorni nostri, dove l’ultimo druido ne narrerà le vicende a due intrepidi autori: Albert e René. E se la storia è semplice, le invenzioni narrative ne danno un pepe che da qualche tempo mancava. Pepe che non sempre è facile riportare nelle traduzioni (pur volenterose di Vania Vitali e Andrea Toscani). L’editore di Cesare (che nell’originale si chiama Bonus Promoplus e che qui viene tradotto con Bonus Bestsellerus) ha le fattezze di Jacques Séguéla (un pubblicitario ben noto in Francia per essere stato consigliere di Mitterrand a suo tempo, e per aver poi preso più tardi la via di Sarkozy). Più facile è decifrare l’intrepido giornalista (Doublepolémix in francese e Vispolemix in italiano), che, nel tratto e nei modi, si rivela un doppione di Julian Assange, il famoso reporter di WikiLeaks. Un altro nuovo personaggio è introdotto nella storia, il capo dei druidi, il più anziano e memoria storica della specie. E con bella invenzione gli viene affibbiato il nome di Archéoptérix, facilmente riconducibile all’Archaeopteryx, il cosiddetto “uccello primario”, e come questo anello di congiunzione tra il remoto passato ed il mondo attuale (non certo odierno, ma cosa sono duemila anni se non un colpo di ciglio nello scorrere del tempo universale?). E se vogliamo cercare il più nascosto degli omaggi, c’è il falconiere al seguito dei romani, che invia messaggi con i piccioni ed addestra il falco cattivo che ha la faccia di Alfred Hitchcock (un omaggio all’immortale autore del film “Gli uccelli”?).  Mentre quindi gli ultimi volumi della gestione “tutta Uderzo” passavano senza lasciar traccia, qui si riprende a lanciare frecciate satiriche sul mondo attuale. Lo strapotere degli editori che stravolgono talvolta i libri per renderli più vendibili. La non censurabilità dei giornalisti e di converso, la credulità verso tutto quanto viene scritto. Ci sono due passi esemplari nel testo. Il primo, quando tutti gli abitanti del villaggio gallico pendono dalle righe dell’ultimo oroscopo pubblicato sul giornale locale, con il saggio druido Panoramix che commenta: “Le persone tendono a credere a tutto quello che trovano scritto.” L’altra quando sempre Panoramix, per suffragare la volontà di imparare a memoria il testo sottratto, recita il vecchio adagio gallico: “Gli scritti volano, le parole restano!”, con tutto il coro di risate che noi vecchi latinisti subito orecchiamo. Altre spigolature sono presenti, e ve le lascio scoprire da soli, che la lettura di un libro di Asterix è anche una palestra per affinare le doti di connessione che i nostri (ormai) pochi neuroni ancora conservano. Io spero solo, prima o poi, di avere la voglia di ripercorrere la genesi onomastica dei libri di Goscinny (come credo sia riportata nell’introvabile “Dictionnaire Goscinny”), e la parallela genesi dei nomi italiani. Perché se Abraracourcix o Assurancetourix rimangono, perché modificare Agecanonix con Matusalemix? Insomma, sarebbe una bella sfida. Intanto, aspettiamo un terzo libro, forse per il prossimo anno, chissà.
Fausto Brizzi “10” Einaudi euro 12,50 (in realtà scontato a 8 euro)
[A: 15/02/2016 – I: 16/02/2016 – T: 17/02/2016] - &&&&     
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 126; anno 2016]
Ogni regola ha le sue eccezioni, altrimenti saremmo in un regime dittatoriale che a me non è consono. Per cui, passato in libreria per vedere le novità, mi colpisce il titolo del libro (ripensando sia ai miei conoscenti vegetariani o quasi, sia al libro sul cibo di Pollan appena letto), lo compro e lo leggo subito. Anche perché la seconda curiosità deriva dall’autore, che conosco buon regista (“Notte prima degli esami” tanto per citare a memoria) e sceneggiatore “di routine” (ha collaborato ad una serie infinita di “Natale a …” e simili cine-panettoni). E che non è nemmeno lontanamente parente di Enrico (scrittore bolognese che ho adorato per “Jack Frusciante”). La resa finale mantiene le premesse di quanto cinematograficamente fa Fausto. Testo scorrevole, alcune battute fulminanti, situazioni surreali ben gestite, nonché presenza simpatica e tuttavia allarmante di Claudia Zanella, moglie di Fausto. La vegana, appunto, dato che il sottotitolo è proprio “Una storia vera, purtroppo”.  Assistiamo quindi alla discesa “in abisso” (senza nessuna connotazione di giudizio, come dirò poi) del nostro Fausto onnivoro impenitente, che non sa resistere alla pizza bianca calda con la mortadella, agli spaghetti alla carbonara o cacio e pepe, alla mozzarella di bufala, trovarsi innamorato della giovane Claudia, e scoprire, al primo appuntamento in un ristorante specializzato in insaccati, che la suddetta è vegana. Da qui l’altalenarsi delle situazioni, dove Fausto è preso tra l’amore per Claudia e l’amore per il cibo spazzatura. Altra scena degna, la cena a casa di Claudia, con la descrizione del primo pasto vegano, cromaticamente ineccepibile ma dal sapore, a primo acchito, tra “stucchevole” e “disgustoso”. Poi, come in tutte le cose, il gusto, guidato dal cervello, si affina. A parte le ricadute verso i cibi proibiti, e le conseguenti punizioni: depurazioni con acqua e limone, giorno di digiuno programmato, ed altre disavventure. Indescrivibile il tentativo di esportare in Tailandia dieci chili di riso basmati. E poi la convivenza, a tre ovviamente, che Claudia porta con sé anche Lana la cana. Ed è un crescendo di ironia il giro per la nuova casa di Claudia, che smonta, pezzo dopo pezzo, vestito dopo vestito, tutta la precedente vita di Fausto. Il matrimonio vegano sulla spiaggia di Sabaudia (con il testimone dello sposo che importa di contrabbando le mozzarelle di bufala). Per finire con l’annuncio di Claudia, a Fausto, a noi, ed anche a tutto il mondo (se ne legge anche in rete), di essere incinta, e di essersi messa a cercare un pediatra vegano. Non auguriamo, ovviamente, alla coppia Brizzi-Zanella le disavventure descritte da Saverio Costanzo nel film “Hungry Hearts” con Alba Rohrwacher, che lo stesso Brizzi conosce bene per aver prodotto il film. Detto quindi del testo, che, ripeto, è accattivante, veloce, a tratti divertente, e che comunque trasmette un’allegria di fondo (che non fa mai male di questi tempi). E che quindi è un testo che promuovo ampiamente. Veniamo al contesto, che invece mi suscita qualche perplessità. La prima è derivata dal fanatismo, elemento che ho sempre rifuggito in tutte le sue espressioni, civili e religiose. Quindi cerchiamo di (con-)vivere, vegani e non, vegetariani e non, fumatori e non, e via elencando. Mi rendo conto anche che una dieta con meno proteine animali possa essere migliore, per la salute e per l’ambiente. Ritengo tuttavia corretto un uso, anche parziale, di tutti i tipi di alimenti, anche se bisognerebbe dare più spazio alle verdure. Mi vedrei bene nel “flexitariano” di Pollan, vegetariano flessibile, senza abbandonare il resto, ma facendone un uso consapevole. Dato che non potrei rinunciare alle tazzone di caffellatte che accompagnano la mia colazione, insieme allo yogurt, alla marmellata d’arance (ma solo se fatta da Alessandra) ed al miele (che non si capisce perché sia vietato dai vegani). Non credo, sono uno tendenzialmente innocentista, che il libro sia stato commissionato da una setta di vegani che hanno circuito Fausto, o che Brizzi si sia piegato a volontà denaresche. Preferisco prendere il buono che c’è dove c’è. E ridere a tutta faccia (come ho fatto in autobus mentre ne leggevo) quando con Fausto ripenso ai vegani, ed al fatto che, prima che alla dieta, pensavo all’invasione aliena degli abitanti del pianeta Vega, ed alla difesa della Terra che faceva Actarus ed il mitico Goldrake. Intramontabile!
“Il mio piatto sembrava la tavolozza di un pittore che aveva esagerato nello spremere i tubetti di tempera.” (33)
“Non mi ammalo quasi mai … non so gestire bene nemmeno un insignificante 37,2 … [e divento] un fastidioso piagnisteo ambulante.” (51)
Poiché siamo nella corsa ravvicinata delle diverse scrittura, e per ora tralasciamo i “libri per vivere felici” che riprenderemo a settembre, vi allego la solita cura, dedicata al lavoro.

Continua a fare caldo, continuiamo a soffrire un poco preparando la vicina partenza (dove poi non si andrà di certo in climi più freschi…). 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

LUGLIO 2016
Sempre nell’ottica dei contrari, cosa dire di una puntata dedicata alla perdita del lavoro quando si è nella mia posizione? Vediamo cosa ne esce…

LAVORO, PERDERE IL

Andrea Bajani     “Cordiali saluti”
Herman Melville   ”Bartleby lo scrivano”
Kingsley Amis     “Lucky Jim2
Licenziamenti e morti sul lavoro sono purtroppo le storie del nostro tempo, un tempo davvero determinate, per usare il lessico dei nuovi contratti, a perseguire incertezza e iniquità sociale. La paura di essere licenziati, o di non trovarlo mai, un lavoro, è una sindrome sempre più diffusa, una malattia contagiosa e intergenerazionale. “Cordiali saluti” di Andrea Bajani ne ripercorre diverse fasi. È la storia di uno che per mestiere deve licenziare i suoi colleghi per conto dell’azienda. Scrive allora delle lettere calorose e paradossali, perché ha un debole per la cortesia, invitando coloro che esonera a riprendere in mano la loro vita, i loro sogni, il futuro che gli si spalanca davanti come una grande occasione. Presto, nei corridoi della ditta, lo accompagneranno il gelo, il terrore e la diffidenza degli altri dipendenti, gli elogi dei suoi capi e il soprannome di Killer. Ma una curiosa circostanza scompagina l’ordine feroce delle cose: una paternità improvvisata e d’emergenza per conto dello sfortunato collega che lo ha preceduto, il direttore delle vendite, licenziato prima dalla società, e poi dalla vita. Saranno questi due bambini a riportarlo nel consorzio umano e a fargli scrivere un’ultima lettera, per riscattare il dolore provato e procurato.
Perdere il lavoro può essere un colpo terribile, per le vostre tasche e per il vostro ego. Il modo migliore per affrontare questa eventualità è provare a considerarla per davvero come un’occasione - la possibilità di prendersi una pausa dagli impegni quotidiani, ripensare alle vostre opzioni, e forse addentrarsi in un mondo nuovo. Invece di concludere che eravate inadatti a quel lavoro, convincetevi che quel lavoro era inadatto a voi. Se non siete ancora convinti, pensate a tutte le volte in cui, nel vostro lavoro, vi è capitato di non aver voglia di fare le cose che vi venivano chieste. Proprio come Bartleby.
Il Bartleby di Herman Melville è uno scrivano, e quando si presenta per la prima volta allo studio legale del narratore, «pallidamente lindo» e «penosamente decoroso», il suo datore di lavoro pensa che il suo carattere tranquillo avrà un effetto positivo sugli altri dipendenti. In un primo tempo, Bartleby si comporta come un lavoratore modello, trascrivendo industriosamente lettere in quadruplice copia. Poi però comincia a ribellarsi. Quando il suo datore di lavoro gli chiede di confrontare una copia con l’originale, Bartleby gli risponde: «Preferirei di no». Ben presto diventa chiaro che lui non intende occuparsi di nulla che vada al di là delle mansioni più elementari del proprio lavoro. Se gli viene chiesto di fare qualcosa di più, risponde sempre allo stesso modo, inflessibile: «Preferirei di no». È un terribile vicolo cieco, perché il suo datore di lavoro non se la sente di licenziare una persona così mite e che sembra non avere una vita al di là della scrivania. Bartleby, da parte sua, farà solo quello che vorrà.
Lasciatevi ispirare dal gesto di resistenza di Bartleby. Fino a che punto il vostro lavoro vi costringe a scendere a compromessi con ciò che volevate davvero fare? La ribellione di Bartleby lo porta fino a rifiutare di alzarsi dalla scrivania. Voi, invece, avete la possibilità di andare avanti ed esplorare nuovi territori.
Forse potrete addirittura festeggiare la perdita del vostro lavoro. Quando Jim Dixon ottiene la cattedra di Storia medievale in un’anonima università nelle Midlands in “Lucky Jim”, non ha alcuna intenzione di rovinare le cose. Accetta di buon grado l’invito del suo capo, Neddy Welch, per partecipare a un «week-end culturale» in campagna, pensando che sia meglio tenerselo buono. Una volta a destinazione, tuttavia, non fa altro che cacciarsi nei guai. Seguono scene farsesche, con lenzuola incendiate, madrigali cantati da ubriachi e varie complicazioni sessuali. Jim, tuttavia, dà il peggio di sé proprie quando fa una lezione sugli stereotipi pastorali nell’Inghilterra medievale, i cui ultimi passaggi sono inframmezzati proprio dalle sue smorfie di derisione.
Fatevi una bella risata, insomma, e poi mettetevi a cercare il lavoro che meglio si adatta a voi. Perché la pubblica umiliazione di Jim ha un epilogo inattese. Vedere qualcuno farsi beffe del proprio lavoro - e uscire vincitore - sarà un toccasana per il vostro morale.

Bugiardino

Ho letto due dei tre libri proposti, e ne ho letto ormai da molti anni, quando queste trame erano ancora molto telegrafiche. E Melville l’ho letto nell’edizione di Repubblica con il testo a fronte.
Andrea Bajani ”Cordiali saluti” Einaudi euro 9,50
[pubblicato il 14 gennaio 2007]
Non è caustico, di più. Storia di un responsabile del personale che deve “allontanare” dipendenti inutilizzabili nella logica industriale. Dove andremmo a finire schiacciati dai “disumani” meccanismi aziendali? Cento pagine di pugni nello stomaco.
Herman Melville “Bartleby, lo scrivano” Repubblica Short Stories euro 4,50
[pubblicato il 12 aprile 2009]
Sconcertato! Ma la sindrome di Bartleby (ricordando l’esilarante libro di Vila-Matas) mi sembrava una cosa diversa. È vero che qui siamo nel puro Melville, quello dove l’atmosfera conta più dei fatti, che sono pochi: un avvocato, i suoi copisti, l’arrivo di Bartleby che non si integra nello studio e ad un certo punto si tira fuori, con quello che diventerà il suo celebre motto “I would prefer not to”. Il resto è ricamo. L’ambientazione a New York, in una Wall Street dove lo studio dell’avvocato si affaccia su un cortile chiusa da una parete. Mi sfugge, nonostante il tentativo dell’introduzione di chiarirlo, il perché della vicenda. Certo, qualcuno, ad un certo punto, messo di fronte a qualcosa che non si sente in grado di fare, può assumere l’atteggiamento dello scrivano, il suo “preferirei di no”. E quella cortesia disarmante può distruggere mondi interi. Una specie di Gandhi cento anni prima. Ma con una grande, sostanziale diversità: per cosa lotta Bartleby? Qual è lo scopo del suo diniego? Rifiutare un mondo che sta iniziando ad uccidere tutti i valori, ma per cosa? Qui si è arenata la mia empatia con la scrittura. Non sono riuscito a capire lo sforzo verso cui tende la sua resistenza passiva. E non capendolo, mi sono trascinato nella scrittura, staccandomene un po’ e trovandola proprio americana. Anzi di uno di quei caffè americani, che si dice contengono molta più caffeina del nostro espresso, ma che, al mio gusto, rimangono una brodazza mal ingurgitabile. Ottima la lingua, niente da dire sulla traduzione, forse troppo didascaliche le note (sembrava ripercorrere una mini guida di New York), forse ci voleva almeno un amaro finale (e non un finale amaro).

Conclusioni

Si, i meccanismi sono perfetti. Le descrizioni appropriate. Soprattutto nello splendido per cattiveria lavoro di Bajani. Ma io avrei anche aggiunto Joshua Ferris con “E poi siamo arrivati alla fine”.

Gialli in anticipo - 01 luglio 2016

Non meravigliatevi dei tempi e del titolo. Poiché ci sono novità motorie, anticipo di due giorni il primo invio di luglio, e per rilassare l’atmosfera introducendo l’estate, facciamo un piccolo giro di gialli. A Londra, prima, con le due serie di Anne Perry, di cui a lungo ho parlato, dei due ispettori, William Monk, ispettore delle acque, e Thomas Pitt, sovraintendente verso Scotland Yard. Poi torniamo alla me sempre cara Bruges di Pieter Aspe, finendo con un dovuto omaggio ai paesi scandinavi appena lasciati con una nuova prova di Håkan Nesser.
Anne Perry “I dannati del Tamigi” Mondadori euro 4,90
[A: 03/04/2014– I: 27/07/2015 – T: 29/07/2015] - &&&
[tit. or.: Acceptable Loss; ling. or.: inglese; pagine: 255; anno 2011]
Sebbene siano passati due anni dalla puntata precedente, questo episodio numero 17 della serie di William Monk è indissolubilmente legato a quell’altro, dal titolo “Assassinio sul molo”, quasi fossero un solo libro diviso in due, perché troppo lungo. Così non è in realtà, e questo fa di questa seconda parte della storia un episodio leggermente sottotono, almeno dal punto di vista dell’indagine. Ricordo, per i disattenti, che la storia precedente mirava al debellamento di una banda di depravati che usavano violenza ai minori, scattando foto (o meglio dagherrotipi) e ricattando le persone della “buona società” che indulgevano in queste deviazioni inaccettabili. Monk con l’aiuto della moglie Hester salva il giovane Scuff (una vittima della violenza) ed assiste alla morte di uno dei capi delle bande. Ma non si trovò, lì, il vero burattinaio. Anche se qualche cattivo, in punto di morte, fa il nome di Arthur Ballinger, gran commis dell’epoca, nonché suocero di sir Oliver Rathbone, uno dei più brillanti avvocati londinesi che ne aveva sposato la figlia Margaret dopo aver lasciato Hester a Monk. Qui si inizia con la morte di tal Parfitt, sodale del morto del libro precedente. E nel barcone di Parfitt vengono trovati altri bambini portati allo sfruttamento dai cattivi. Monk s’impegna alla ricerca dell’assassino del bandito, più che altro per poter risalire la catena degli orrori ed arrivare al burattinaio capo. La parte gialla, che da qui si dipana, è al solito un po’ in minore. Si trova lo strumento del delitto (un fazzoletto di seta), si trova il proprietario (Rupert, depravato sulla via del pentimento e con molte donazioni all’ospedale della buona Hester), ma si trova anche una prostituta che scagiona Rupert dicendo di aver rubato lei il fazzoletto senza però rivelare per conto di chi fece il furto. Contemporaneamente, nella stessa parte del Tamigi, a cena da un amico, c’è anche Ballinger. Monk allora cerca di calcolare i tempi per vedere se fosse stato possibile a Ballinger di arrivare alla barca di Parfitt, ucciderlo e tornare a casa senza sforare quanto dichiarato da altri che lo hanno incontrato. I tempi lo permettono. Inoltre, uno scagnozzo di Parfitt consegna a Monk un pezzo di carta, con l’invito al cattivo di recarsi ad una certa ora sul luogo dove poi viene assassinato. Pezzo di carta scritto sul retro di una lista di farmaci compilata da Margaret e da lei lasciata in giro per casa. Monk a questo punto accusa Ballinger del delitto. E ci si avvia al processo, avendo l’accusa sue sole frecce al proprio arco: la prostituta ed il pezzo di carta. Ma la prima, complice l’incuria (forse volontaria) di Margaret, viene uccisa prima del processo. Il quale, nell’ultimo quarto del libro, fa la parte del leone. Anche perché scatena sentimenti profondi. Sir Oliver è chiamato dal suocero per difenderlo, cosa che fa riluttante nella testa, ma con tutte le grandi capacità che gli sono riconosciute. E ci sono scontri feroci. Margaret non concepisce che il padre possa essere il cattivo, ed accusa Monk ed Hester di accanimento, anche se lei, da anni, lavora a fianco di Hester nell’ospedale per prostitute. Oliver è dilaniato tra l’amore per Margaret e quello per la giustizia. Insomma, si passa dal dramma “noir”, al dramma psicologico, dove entrano in gioco altri elementi per “incasinare” la vicenda (e se ripensiamo alla storia personale di Anne Perry non finiremo mai di stupircene). L’errore fatale di Ballinger è quello di non accettare l’assoluzione per mancanza di prove, e di voler testimoniare per essere assolto “con formula piena”. Il pezzo di carta di cui sopra però lo incastra definitivamente, e viene condannato a morte. In un “redde rationem” con il genero Ballinger rivela tutta la sua losca natura, i modi perversi attraverso i quali ha usato il ricatto, e confessando di andare verso la soluzione “muoia Sansone con tutti i Filistei”. Oliver e Monk cecano di salvare il salvabile, ma qualcuno, più svelto di loro, fa in modo di uccidere Ballinger in carcere. Margaret rifiuta la colpevolezza del padre e lascia Oliver. Monk e Hester sperano che sia finita la storia dello sfruttamento minorile. Oliver riceve “in eredità” tutte le foto compromettenti scattate dal suocero. Che ne farà? Sarà questo l’argomento di fondo dell’episodio 18, o finalmente potremmo passare ad altri delitti ed altre storie? Vedremo. Intanto continuo a dare la sufficienza piena alla nostra scrittrice, ribadendo quanto ne ho scritto nelle precedenti storie: più che il giallo, potente è l’ambientazione e gradevole la ricostruzione storica delle vicende.
“Il coraggio non ti serve se non hai paura.” (13)
“Chi ama non chiede all’amato di distruggere quanto c’è di meglio in lui … Amare significa anche libertà di seguire la propria coscienza. A chi rinnega la propria natura, rimane poco da dare agli altri.” (243)
Anne Perry “Tradimento a Lisson Grove” Mondadori euro 4,90
[A: 02/07/2014– I: 20/01/2016 – T: 23/01/2016] - && e ½
[tit. or.: Betrayal at Lisson Grove; ling. or.: inglese; pagine: 243; anno 2010]
Torniamo a Thomas Pitt, che qui si muove nel suo 26° episodio (certo la nostra Juliet Marion alias Anne non è prolifica, ma di più, tanto che dal 1979 ad oggi, delle sue due serie maggiori ha pubblicato, in 36 anni, ben 51 libri!), lasciando per un po’ da parte l’ispettore fluviale Monk. Come ben sapete, seguendo con attenzione tutte le mie trame, infatti, la nostra Anne produce da quasi quaranta anni una serie “alta” imperniata sull’ispettore Thomas Pitt, ed una serie “bassa”, con al centro l’ispettore fluviale William Monk. I due termini, ovviamente, non sono riferiti alla resa degli scritti, ma all’ambiente in generale dove si muovono i personaggi. Triviali, duri, sporchi quelli di Monk che si muovono lungo il Tamigi. Tra pizzi e crinoline, ma altrettanto sporchi dentro, quelli che si muovono vicino ai palazzi del potere. Ricorderete spero che l’ultima avventura di Pitt di cui ho parlato si muoveva addirittura all’interno dei giardini reali, coinvolgendo, in una qualche misura, anche personaggi regali. Intanto registriamo l’anomalia, anche della versione inglese, sul titolo. I titoli della serie di Pitt in genere si riferiscono ad un luogo toponomastico di Londra, come anche in questo caso. Eppure c’è messo un aggettivo accanto, cosa che accade solo cinque volte in questi oltre venticinque libri. Ed il tradimento si addice alla strada ed al racconto. Che Lisson Grove è la sede dell’allora Sicurezza Nazionale (SN), cui da qualche capitolo della serie si è aggregato l’ispettore Pitt, date le sue capacità investigative. SN che deve seguire diversi casi di estremisti (all’epoca generalmente di stampo anarchico) che si agirano per l’isola e per l’Europa stessa. Da qui si dipana una trama complessa: Pitt insegue un possibile estremista da Londra sino in Belgio, sguarnendo l’attenzione su Londra, dove il suo capo Narraway viene accusato di frode e messo a riposo. È ovviamente un falso, ma ben architettato. Narraway per difendersi deve allora tornare nella turbolenta Irlanda delle sue prime mosse da poliziotto, e, non potendo avvalersi di Pitt, ed avendo bisogno di una copertura, chiede l’aiuto a Charlotte, la moglie del nostro. Che accetta di aiutarlo sapendo che la rovina di Narraway sarebbe anche la rovina del marito. Di certo non ci sono cellulari all’epoca, e le due vicende si dipanano senza che si riesca a trovare la comunicazione tra i due gruppi. Pitt scopre che la pista belga era un tentativo di allontanarlo da Londra, e con uno stratagemma riesce a districarsi. Tuttavia a Londra è coinvolto in una ben più alta grana: per rendergli la vita difficile, qualcuno nelle alte sfere lo fa nominare al posto di Narraway. Ed alla SN giungono sempre più notizie su possibili attentati nella città di Londra (cosa del resto reale che proprio nel gennaio del 1885 terroristi irlandesi danneggiano Westminster con della dinamite). Più sul versante giallo invece, è la vicenda in Irlanda, dove Charlotte è coinvolta nei risvolti di vecchie trame irredentiste, che lo stesso Narraway aveva dipanato in gioventù. Infiltrandosi nei gruppi armati, facendo innamorare di sé una bella irredentista, e debellando una trama sovversiva, che però porta alla catastrofe: il marito della bella, scoperto l’inganno, la uccide e poi si lascia condannare a morte dal tribunale. Il fratello sopravvive, covando un rancore irrisolto verso (ovviamente) l’Inghilterra in generale e Narraway in particolare. Charlotte cerca di muoversi in questo marasma, non sapendo mai su chi contare, e con l’anziano Narraway preso anche dai rimorsi del passato. Ci sarà una morte, che potrebbe essere attribuita a Narraway, se la stessa Charlotte non trovasse le prove della sua innocenza. Trovando al contempo il bandolo della matassa del complotto, motivo per cui i due tornano in patria di gran carriera. In maniera parallela anche Pitt trova le tracce del complotto, riuscendo ad individuare le teste pensanti di tutta la messa in scena. Il gran finale, è, al solito della Perry, molto affrettato. Intanto si torna in ambito regale, che l’attentato coinvolge la stessa regina Vittoria, sequestrata nella residenza di campagna, insieme a Narraway e Charlotte. Pitt, debellati frettolosamente gli anarchici (la Perry se la cava in meno di cinque righe), riesce anche a salvare la regina, la moglie e tutto l’ambaradan. Non entro nei particolari, ma il romanzo si chiude sulle parole della regina che ringrazia Pitt, annunciandogli che non si dimenticherà di lui. Vedremo cosa vorrà dire nelle successive puntate. La nostra amata e controversa neozelandese se la cava discretamente in tutta questa confusione, con una storia discretamente scorrevole, anche se, al solito nelle sue ultime prove, con accelerazioni improvvise che non ci convincono più di tanto. Ma i personaggi sono simpatici, e l’ambientazione sempre ben riuscita. Aspettiamo il futuro, allora (inciso laterale, il 1885 è anche l’anno in cui si svolge la parte nel passato del sempre meraviglioso serial “Ritorno al futuro”).
Pieter Aspe “Sangue Blu” Fazi Editore euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 03/07/2014– I: 24/01/2016 – T: 26/01/2016] - &&&
[tit. or.: Blauw bloed; ling. or.: neeralndese; pagine: 318; anno 2000]
Il primo errore degli editori italiani, su cui ripeto da anni dovrebbero cambiare, magari rivolgendo più attenzione ai lettori, riguarda il mancato svolgimento ordinato delle storie. Ora Pieter Aspe ha scritto nel tempo 38 romanzi con al centro il commissario Pieter Van In e la città di Bruges. Dopo aver pubblicato i primi episodi, quattro nella fattispecie, ecco che Fazi ci propone ora il sesto (ora, anche se l’ho acquistato quasi due anni fa), ed ora (nel senso proprio di ora) pubblica il quinto. Peccato che ormai sappiamo che Hannelore, la compagna del nostro commissario, ha avuto due gemelli. Bando alle polemiche però, che anche qui si parla di figli. La trama in realtà è un filo complicata, e cercando di semplificarla, vediamo Hannelore che si ritrova con il suo primo fidanzato Valentijn Heydens, cui, tuttora, non rimane insensibile. Peccato che durante la rimpatriata il padre di Heydens, Marcus, tra l’altro massone, viene trovato morto impiccato nella sua abitazione. Certo l’indagine è complicata proprio dai rapporti di Hannelore, e dalla gelosia prorompente di Pieter, cui solo il fido Guido cerca di dare sfoghi positivi (possibilmente davanti ad un bel boccale di birra Duvel). In base ad indizi che non riveliamo, si scopre ad un certo punto l’impossibilità di un suicidio. Il nostro commissario allora comincia a scavare nel passato della vittima, per cercarne i lati oscuri (che noi lettori onniscienti già vediamo dalle prime righe). Vediamo una serie di strani personaggi gravitare intorno al morto, personaggi che facevano parte dell’entourage della gioventù fiamminga, quando anche loro erano giovani. E che ora, non più giovani, sono importanti personaggi della città fiamminga. Tra questi spiccano il futuro notaio Henri Broos, nonché si mormora un rampollo della casa reale. Facciamo un inciso: i reali del Belgio ed i loro prossimi sono stati sempre chiacchierati. Non tanto re Baldovino Alberto Carlo Leopoldo Axel Maria Gustavo di Saxe-Cobourg-Gotha (mi piace mettere per esteso tutti i nomi del buon Baudouin, senza scordarci la regina moglie Fabiola), quanto (almeno in gioventù) il fratello Alberto, quello che sposò Paola Ruffo di Calabria dei principi di Scilla, Palazzolo e Licodia Eubea, la quale ebbe, pare, una relazione con tal Salvatore Adamo. Ma torniamo alla nostra vita nella città fiamminga, anzi alle morti. Che mentre Hannelore non sa decidersi tra Valentijn e Pieter, ed il commissario capo De Kee vorrebbe tacitare il tutto, si trova cadavere anche tal Wilfried Delanghe, ritrovato in casa imbavagliato e ricoperto da una moltitudine di libri (e pur amandoli, credo sia una morte orrenda). Saranno i buoni uffici dell’ispettore Versavel, nonché una ritrovata lena del nostro commissario che porteranno alla luce il comune denominatore nelle vite di Delanghe e Heydens, e del notaio Broos. È una donna, Leona Vidts, che ha avuto relazioni e figli con tutti e tre: Valentijn Heydens, Diana Delanghe, Joris e Virginie Broos. E tutti sono disturbati. Diana, ex-drogata, vivacchia facendo emigrare clandestinamente croati in Inghilterra. Joris è non-vedente. Ma non vorrei elencare tutto il fattibile delle scelleratezze che mette in mostra il nostro autore per rimpolpare la trama. Non ultima, l’amicizia, appunto, della casa reale con il notaio, la prossima morte di questi per tumore, la visita di cortesia che l’aristocratico decide di fare, e tutte le complicazioni di vendetta che possono mettere in piedi i figli di padri che non li hanno amati (o i figli che non hanno capito l’amore paterno). Alla fine il giallo che ne esce fuori ha una sua discreta intensità, anche se non riesce a stimolare curiosità per la soluzione dei misteri (forse a volte troppo legati alla realtà fiamminga). Una caratteristica di cui comunque ringraziamo Aspe, è la capacità di aver reso sulla carta la difficoltà delle indagini, che possono essere influenzate da tanti fattori, non ultimi anche i risvolti di carattere personale dei vari protagonisti. Anche se talvolta in modo ridondante, andiamo su e giù per le pagine tra ripicche e riconciliazioni (ed io penso sempre ai quei poveri gemelli che aspettano a casa). Ma non mancano le solite divagazioni sulle passioni del commissario, la birra Duvel, le paste all’uvetta (quelle che a Roma chiamano maritozzi), la carne rossa alla brace. Insomma, avrei preferito leggerne in sequenza, ed avrei preferito un andamento più veloce, ma la lettura di Aspe mi riporta alle magiche atmosfere di Bruges, e di questo lo ringrazio sentitamente.
Håkan Nesser “La rondine, il gatto, la rosa, la morte” TEA euro 10 (in realtà, scontato a 8,20 euro)
[A: 01/09/2014 – I: 21/04/2016 – T: 23/04/2016] - &&& e ½    
[tit. or.: Svalan, katten, rosen, döden; ling. or.: svedese; pagine: 509; anno 2001]
Prima di cominciare a parlare bene, come merita, del libro e dell’autore, vogliamo cominciare con qualche tirata d’orecchi? In effetti, in tutti i corsi di comunicazione che ho fatto, si consiglia di iniziare analisi e rimandi con le parti positive, lasciando le critiche alla fine, per predisporre benevolmente l’ascoltatore ad apprezzare i punti forti e migliorare nelle debolezze. Non dovendo insegnare nulla a Nesser, mi dolgo invece delle scelte di marketing della casa editrice. Nesser ha scritto dieci storie basate nella fittizia città di Maardam, dove è di stanza il commissario Van Veteren e la sua squadra. Abbiamo seguito nelle prime sette il commissario, che poi si ritira in pensione, e seguiamo i suoi “allievi” sempre con un suo possibile aiuto, se serve. Nella precedente, ed ottava uscita, come ho descritto, la fa da padrona di casa l’ispettrice Ewa Moreno. Presi dall’euforia, i pensatori della TEA, mettono quindi in copertina in questa nona, “un’indagine dell’ispettrice Ewa Moreno”. Falso! C’è tutta la squadra, che opera, compresa Ewa, ma, anche se pensionato e gestore di una libreria, è proprio Van Veteren che trova nessi e connessi. Non solo, ma la nuova entrata Irene, di cui si sottolinea l’intervento nella quarta, entra nella storia senza nessun apporto particolare. Secondo elemento di critica, il ritardo con cui, rispetto alla produzione dell’autore, questi romanzi vengono in Italia. Nesser, dopo il ciclo di Van Veteren & co ha iniziato quello del commissario Barbarotti, di cui escono le prime storie senza concludere le precedenti. Alle quali manca ancora l’ultima, quella dedicata al famigerato “caso G”, l’unico che il commissario Van Veteren non risolse. Veniamo invece a questo che viene risolto, anche se, forse, con un po’ di lentezza. La narrazione fa un po’ il pendolo, mentre scopriamo un crudele assassino che, nel corso del tempo, se rifiutato da una donna, non trova di meglio che ucciderla. Iniziando con la moglie a Cefalonia, poi con altre morti in giro per l’Europa, fino a ritrovarcelo a Maardam, dove, dopo aver circuito mamma e figlia, pensa bene di far fuori anche loro. Non solo, ma, saputo incidentalmente che la giovane Monica si era confidata con un prete, uccide anche lui. La difficoltà, per l’ex-squadra di Van Veteren, è la casualità delle morti (almeno apparentemente), e l’astuzia dell’assassino, che si nasconde sempre dietro nomi e personalità fittizie. Una volta utilizzando il nome di un killer protagonista di un oscuro giallo anglosassone degli anni trenta. Un’altra storpiando, ma in maniera riconoscibile, il personaggio dell’assassino presente ne “L’uomo senza qualità” di Musil. Moreno, Munster e glia altri ispettori e commissari vari indagano, analizzano, ma non sembra riescono a trovare bandoli nell’oscura matassa. Il primo passo falso il cattivo lo fa non riuscendo ad uccidere una nuova vittima, cui aveva dato appuntamento per farsi riconoscere con un libro di T. S. Elliott in mano. Vittima che viene sfigurata, e che per questo si eclissa, ma medita vendetta. Intanto, è proprio Van Veteren che riesce a capire il nesso tra le varie rappresentazione dell’assassino. Soprattutto quando scopre un libro che questi regala alla giovane Monica. Un libro di poesie di William Blake. Il nostro segue quindi la pista di qualcuno che possa avere una discreta conoscenza di letteratura inglese. Con alcuni aiuti, ricostruisce il possibile scenario, e benché senza prove, punta il dito sul possibile colpevole. Parte allora al suo inseguimento, che questi fugge dalla Svezia per tornare al primo posto di sangue, la Cefalonia di alcuni anni prima. E nell’isola greca si trovano l’assassino, la vittima sfigurata, e il commissario. Chi riuscirà ad arrivare prima alla fine? Arresto? Altro finale? Questo rimane nelle pieghe della pagina, anche se questa parte risulta un po’ lenta rispetto al resto. Forse, è tutto il libro un po’ ridondante, dove Nesser si perde in molti rivoli laterali, al fine di darci un quadro a tutto tondo della vita e degli abitanti di una cittadina di provincia. Moreno che forse torna definitivamente al suo Mikael. Il rapporto tra Van Veteren e Ulrike. L’isolamento di Monica. I giochi sessuali di Anna e Ester. Forse lungo, alla fine, e con qualche elemento non chiarito completamente. Ma una bella costruzione sulla psicologia umana e sui rapporti personali. Restano al fine due misteri, per me che non sono ferrato in letteratura (ricordo che Nesser per anni ha insegnato lettere in un liceo). Il sogno (e la sua prosecuzione da sveglio) in cui Van Veteren vede una rondine volare, e poi un gatto ucciderla. Rondine e gatto che entrano nel titolo, per cui ci sarà un nesso che mi sfugge. E William Blake, dove, nel libro di Monica, è presente una delle sue più famose poesie, “La rosa malata”, dove un verme corrode la bellezza della rosa, uccidendola. E rose e morte sono la seconda parte del titolo. Se qualcuno ne sa cogliere i rimandi ne sarei felice. Per ora mi accontento della lettura del libro, aspettando l’ultimo.
“Nemmeno quel singolare mattino riuscì a capire quale benevola potenza superiore l’avesse messa sul suo cammino.” (101)
“Dobbiamo essere consapevoli … che per troppe persone la vita finisce molto prima che muoiano.” (143)
Essendo formalmente la prima trama di luglio, eccovi allora le letture del mese di aprile. Aumentano in modo serio raggiungendo i 16 titoli (in attesa dei cali estivi). Nessun libro eccelso (e nessuno da immolare), pur tuttavia non posso non ricordare il primo Oz e la lunga storia catalana di amore e di guerra di Jaume Cabré.
#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Esmahan Aykol
Tango a Istanbul
Sellerio
14
3
2
Amos Oz
Altrove, forse
Feltrinelli
s.p.
4
3
Enrico Pandiani
Troppo piombo
Instar
9
3
4
Danila Comastri Montanari
Gallia Est
Mondadori
9,90
3
5
Charles Bukowski
Donne
TEA
9
2
6
Danila Comastri Montanari
Saturnalia
Mondadori
9,90
3
7
Marco Vichi
La forza del destino
TEA
9
2
8
Bruno Morchio
Colpi di coda
Garzanti
11,60
2
9
Jaume Cabré
Le voci del fiume
Beat
13
4
10
Bruno Morchio
Lo spaventapasseri
Garzanti
9,90
3
11
Michael Connelly
La caduta
Piemme
13
3
12
Hakan Nesser
La rondine, il gatto, la rosa, la morte
TEA
10
3
13
Mikaël Ollivier
Fratelli di sangue
Repubblica Noir Junior
6,90
2
14
Chan Ho Kei
Duplice delitto a Hong Kong
Repubblica Noir
7,90
3
15
Alessandro Gatti & Pierdomenico Baccalario
Non si uccide un grande mago
Repubblica Noir Junior
6,90
3
16
Jonathan Franzen
Libertà
Einaudi
14
3

Come detto all’inizio, eccoci qui di fronte ad una nuova impresa. Ebbene sì, sarà un’estate in giro, per questo anticipo trame, aspettando il 9 luglio ed il nuovo volo verso le Americhe. Per ora, tuttavia, continuiamo sull’onda lunga di giugno, a tifare per la “nostra” Islanda.