domenica 24 febbraio 2008

ItalNoir

Torniamo allora sui binari dei resoconti noti. E per massimo di rilassatezza, ad alcuni esempi di giallo italiano. Non sempre, ma con una discreta frequenza il cosiddetto “genere” riserva spaccati di un mondo che poi è quello che viviamo ogni giorno. E forse, il fatto di essere protetti da regole e canoni, fa in modo che alcuni autori riescono così ad esprimere moti e sentimenti che in romanzi meno canonici con più difficoltà escono fuori. Inoltre qui mi rivolgo a due collane che hanno (o stanno) pubblicato cose egregie. La prima è il Noir di Repubblica che in una decina di titoli ha presentato una buona selezione di libri a prezzo contenuto. La seconda è il VerdeNero di EcoAmbiente, dove (ma forse l’ho già detto) lo sforzo di parlare di ambiente a volte rende troppo “prevedibili” gli scritti, ma le utili pagine finali fanno in genere un resoconto dei guasti ambientali da far rizzare i capelli.

E dopo questa (lunga) intro, come in un bel concerto jazz, passiamo ai due scrittori di questa settimana (infatti, data la mole, vi beccate un doppi Sandrone).

Allora:

Sandrone Dazieri È stato un attimo” Noir – la biblioteca di Repubblica euro 7,9

Abbandonato per un po' il Gorilla e il suo doppio, Sandrone si cimenta in un giallo dove comunque la memoria (o la sua mancanza) ha il suo peso. Scrittura incalzante, per 2/3 si lascia seguire, cercando di aiutare il povero Santo a ritrovar se stesso. Trovo un po' didascalico il finale, dove i cattivi sono di nuovo cattivi e la speranza latita. Non dico che il lieto fine sia d'obbligo, anche perché anche qui il finale è lieto. Tuttavia mi è sembrato come se ci fosse un salto nelle ultime 50 pagine. È la vigilia di Natale. Santo si risveglia in uno dei bagni della Scala di Milano dopo essersi fulminato con l'interruttore difettoso. Manager di successo, direttore della filiale milanese di una multinazionale della pubblicità, ha costruito la sua fortuna su un mix di spregiudicatezza personale e abilità politica. Ma ora non si ricorda più nulla. La scarica elettrica gli ha bruciato gli ultimi dodici anni di vita e i suoi ricordi risalgono a quando era ancora un ventenne impegnato nel sociale, che viveva in una casa occupata cercando di sbarcare il lunario come giornalista free lance. Un uomo che non ha mai visto un telefono cellulare, che non ha mai sentito parlare di Euro o della guerra in Iraq, che non sa come usare Internet o le carte di credito che scopre di avere in tasca. Un uomo assolutamente inadatto a vivere nel presente. Recuperare la memoria significa essere di nuovo il cinico, ma Santo sembra restio. Tuttavia nei suoi anni perduti si nasconde un buco nero che è costretto ad affrontare: la tragica morte di quello che era il suo capo, caduto in mare dal suo yacht e annegato. E qualcuno sembra convinto che Santo non sia estraneo a quell'incidente... Tutto sommato, preferisco il Gorilla.

Sandrone Dazieri “Bestie” VerdeNero euro 10 (in realtà comprato alla fiera del libro a 6,66 euro)

Non è Sandrone al top, che per me rimane sempre e comunque il gorilla, ma è discretamente gradevole. La storia è un po’ esile, ma il Killer ha lo spessore dei suoi personaggi (con quel tocco in più da cuoco che non guasta). Come detto, la storia si piega alla bisogna della collana, e rimane sotto media. Ma la collana (soprattutto in questi tempi di discariche) ha un suo interesse. Gialli ambientali (da cui l’edizione) per denunciare alcune delle tante malefatte italiche. Ne sono usciti un po’ ed io ne ho molti; aspettiamo di leggerne altri per un giudizio. Dopo i primi due, siamo sulla sufficienza. Un piccolo albergo nel bergamasco. L’omicidio di un ragazzo di passaggio. Un cuoco con trascorsi da rapinatore costretto a reinventarsi investigatore. L'ombra delle Triadi cinesi e della criminalità organizzata. Tra oscuri rimedi orientali e ambientalisti arrabbiati, Sandrone Dazieri costruisce un noir che racconta uno dei traffici più orrendi e redditizi del nostro presente: il traffico di animali esotici o protetti. Il protagonista non è tanto l’eroico ecologista morto ammazzato nelle prime pagine, ma un losco e ombroso avanzo di galera, che prova a ricominciare da una polenta taragna eseguita alla perfezione la sua strada verso una vita da “regolare”. E il Killer, prendendo tante botte, infrangendo un po' di leggi, arriverà a risolvere il caso. Scorrevole. E ottima la polenta!

E diamo un po’ di spazio allo scorpione. Sandrone Dazieri infatti nasce a Cremona il 4 novembre 1964. Dopo studi tecnici alberghieri, si è trasferito a Milano dove ha iniziato a lavorare, alternando diversi lavori all'attività di giornalista freelance. Con il regista Gabriele Salvatores e il produttore Maurizio Totti ha fondato nel 2004 la casa editrice Colorado Noir. Dal 2000 al 2004 è stato direttore editoriale dei Gialli Mondadori e dei Libri per Ragazzi Mondadori. Ha raggiunto il successo editoriale nel 1999 con il libro Attenti al gorilla (il primo di una felice serie), dove il protagonista è una sorta di doppione dell'autore che vive la notte di Milano e le sue contraddizioni. I libri di Dazieri si contraddistinguono per le rocambolesche avventure in cui il protagonista si trova coinvolto, mitigato dalla sua anima razionale (il Socio) che trova i bandoli della matassa.

Del secondo autore invece ho già parlato della sua bio di scrittore e di sardo, quindi si parla solo di

Marcello Fois “Sheol” Noir – la biblioteca di Repubblica euro 7,9

In genere mi erano più piaciuti gli ambienti sardi puri, mentre questo sardo-romano-ebreo, pur ben fatto, è un po' “freddo”. Non sono entrato a fondo nell'umanità dei personaggi. La trama sembra (e forse lo è) già scontata dalle prime battute. Mistero quasi zero. E per finire alcuni passi vengono lasciati ad interventi “non spiegati” e questo (nell'economia di un giallo che se lascia ombre, le lascia a ragion veduta) mi è sembrata la pecca maggiore. Ruben Massei è un ispettore, ha 50 anni ed è ebreo. Poliziotto attento e metodico, ha parecchi conti aperti con se stesso, con un vissuto ambivalente e contraddittorio. Così quando un omicidio lo catapulterà nel cuore della Comunità ebraica di Roma, per Massei venirne a capo significherà non solo scovare il colpevole, ma anche e soprattutto affrontare i nodi irrisolti della sua anima. Sarà un'investigazione sospesa tra gli orrori del passato e le ambiguità dei nostri giorni, fino alla soluzione finale, dove l'assassino avrà un volto e un nome. Si legge, ma poco ne rimane.


Buona setimana a tutti

sabato 16 febbraio 2008

Pausa filosofica

Anche se la lettura ha ripreso i suoi ritmi, tornando agli alti e bassi di ogni nostro andar per parole, voglio ancora fermarmi un poco su una trilogia letta nel mese di Gennaio, che mi ha fatto riflettere durante la lettura, ed ancora adesso mi si è riproposta in molte sfaccettature. Sarò un po’ più lungo del solito, ma qui la sintesi mi ha difettato. Avevo affrontato due grandi K il mese scorso: un testo di Kant e due di Kierkegaard, che girano, riflettono, suggeriscono modi diversi di essere “etici”. E di guardare la vita. Due modi per non fare “male” (questa è la mia eticità, certo incompiuta e fragile). Tra tanti momenti alti, come dirò in seguito, il fatto che il protagonista dell’apologo danese sia un Giovanni mi ha intrigato/divertito/spaventato.

Ma cominciamo dal tedesco

Immanuel Kant “La fine di tutte le cose” Bollati Boringhieri euro 7

Mi sorprende la freschezza della scrittura del grande. È asciutta, va dritta al sodo. Sa cosa vuole dire. E lo dice. Come si fa ad immaginare la fine? Ed il nulla? Forse ci si potrà arrivare, ma sarà necessario uno sforzo cerebrale pari all’invenzione dello zero (anche se tra lo zero e il nulla c’è un abisso). Forse si potrà capire. Ma comprendere? Comprendere significa non tanto sapere che ci sarà una fine (tutti lo sanno) ma vivere sapendolo. Come ha scritto Jacob Taubes “nelle pagine de "La fine di tutte le cose" - l'opera forse più ingiustamente trascurata dell'ultima fase della vita del grande maestro di Konigsberg - Kant conduce l'ambizioso progetto filosofico di tradurre le dichiarazioni metafisiche dell'escatologia cristiana in una sorta di escatologia trascendentale". L'escatologia trascendentale ruota attorno a un duplice interrogativo: perché, in generale, gli uomini si aspettano una fine del mondo? E se questa viene anche loro concessa, perché proprio una fine che, per la maggior parte del genere umano, fa paura? Per Kant l'antica profezia apocalittica di San Giovanni prefigura, in simboli e immagini, il limite estremo della stessa attività del pensare, delineando la struttura paradossale di un "concetto con cui l'intelletto ci abbandona". Mi piace pensare che tutta la riflessione, come suggerisce il bel saggio di Andrea Tagliapietra, nasca dalla meditazione sull’incisione “La fine”, l’ultima opera di William Hogarth. Nell’incisione il tempo è rappresentato come un gigante barbuto, dal corpo michelangiolescamente muscoloso, con un ciuffo in fronte, l’attimo che si deve afferrare prima che scappi via per sempre. Ma rispetto alla solita iconografia, qui siamo alla “fine”, e il Tempo appare spossato da un’immensa stanchezza, giace riverso con le ali e la schiena poggiate sul rudere di una colonna mozza. Ha la solita falce, ma è spezzata, e tutto intorno sono i simboli della caducità portati all’estremo: la lapide di una tomba, una clessidra svuotata, un arco spezzato, un calcio di fucile senza canna, una candela che si spegne, una campana crepata, un foglio con la scritta “The Times” che brucia. Una tavolozza spezzata ricorda che anche l’arte, alla fine, si estingue. E dalla mano gli scivola una pergamena, il testamento con cui il Tempo riconsegna tutto al Chaos. Il paesaggio è desolato: a sinistra le rovine di una torre con una meridiana senza chiodo, a destra un albero spettrale con a fianco una casa di legno che cade a pezzi. Ma sembra più una locanda dove nell’insegna “The World’s End” compare un globo terrestre divorato dalle fiamme. Si sovrappone con una immagine di uguale insegna in lontananza dove penzola un impiccato. Al centro, nel cielo, appare il carro del Sole, con i cavalli e l’auriga già morti. E dalla bocca del tempo si innalza un fumetto con le ultime parole del Tempo: “finis”. E dentro la lettura del testo ho inserito anche una visione che, letta in questi mesi di lutti, mi ha colpito. Sulla differenza tra una visione monista della vita e della morte, di tipo induista, dove, bene o male, alla fine si arriva alla pace (anche attraverso infiniti cicli di vite negative), ma che per questo induce in una indolenza che spegne la vitalità. Ed una visione dualista, come nelle religioni rivelate, dove essendoci un premio ed una punizione ci si interroga su cosa fare per avere il primo ed evitare il secondo. E proprio questo interrogativo porta quindi a fare. Ad essere. Ad esistere, anche qui, ed ora.

Ed anche non brevemente, passo alla vita del filosofo, che passò tutta la sua vita nella città natale di Königsberg (odierna Kaliningrad ed allora capitale della Prussia Orientale) dove nacque il 22 aprile del 1724 (un toro?), quarto di nove figli, dei quali solo cinque raggiunsero l’età adulta. Il padre, Johann Georg Kant (1682-1746), era un artigiano tedesco originario di Memel, al tempo la città prussiana più settentrionale (oggi Klaipėda, in Lituania); la madre, Anna Regina Porter (1697-1737), di 15 anni più giovane e molto religiosa, era figlia di un sellaio di origini scozzesi. L'educazione religiosa impartitagli dalla madre continuò anche nel Collegium Fridericianum, il più importante punto di riferimento d'attinenza specifica sullo studio del pensiero di quel periodo. Al collegio Kant studiò molto il latino, poco il greco (limitato al Nuovo Testamento) e quasi per nulla le materie scientifiche. Nel 1740, Kant uscì dal collegio per intraprendere studi filosofici, di teologia e di matematica all'Università di Königsberg, dove fu allievo di Martin Knutzen, docente di matematica e fisica newtoniana. Il suo interesse per Newton, ma anche per le scienze in generale, si manifestò in questo periodo nello scritto "Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive", nel quale Kant si soffermò sul problema del calcolo dell'energia cinetica dei corpi. È questa un'opera dalla forte e chiara impronta illuministica. Dal 1747 al 1754 ebbe delle esperienze come precettore privato; sono questi gli anni più difficili della sua vita, durante i quali è costretto ad una grande fatica per guadagnarsi da vivere, ma sono anche ricchi di stimoli per i suoi studi in ambito scientifico. Nel 1755 ottenne la licenza di magister, mansione che esercitò per quindici anni. Non ha però ancora uno stipendio fisso (viene pagato direttamente dagli studenti), e ciò lo obbliga a lavorare molto; prepara meticolosamente le sue lezioni, dimostrandosi un buon insegnante. Nel 1770 lavorò come vice-bibliotecario presso la Reale Biblioteca, nello stesso anno in cui pubblicò la Dissertazione, testo grazie al quale riuscì ad ottenere la cattedra di metafisica e logica all'Università di Königsberg, dove svolse la professione sino alla morte avvenuta nel 1804, adempiendo con scrupolosità ai suoi doveri accademici anche quando per debolezza senile gli divennero estremamente gravosi. È in questi anni che prepara e poi scrive le sue tre più grandi opere: la Critica della ragion pura, la Critica della ragion pratica e la Critica del giudizio. La vita di Kant fu priva di avvenimenti sconvolgenti, dedicata interamente alle attività intellettive, a cui fece cornice uno stile di vita regolare ed abitudinario. La sua giornata cominciava alle cinque, subito dedicata al lavoro, e continuava con la colazione, poi una passeggiata, il riposo alle dieci. Non lasciò mai la sua città natale, neanche dopo la chiamata dell'università di Halle che gli offriva uno stipendio più alto, un maggior numero di studenti e di conseguenza anche maggior prestigio. Era convinto che Königsberg fosse il posto ideale per i suoi studi. L'unico fatto che uscì davvero fuori dai canoni di una vita completamente dedicata allo studio, fu lo screzio che ebbe con il governo prussiano a seguito di Religione nei limiti della semplice ragione del 1794, ma con l'incoronazione di Federico Guglielmo III la libertà di stampa venne ripristinata e Kant rivendicò la libertà di pensiero nel "Conflitto delle facoltà", del 1798. Morì il 12 febbraio del 1804, colpito dal morbo di Alzheimer, mormorando «Es ist gut» (sta bene). Sulla sua lapide vi è una frase che sintetizza il senso profondo della sua filosofia: "Due cose in vita mi furono sommamente care: il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me.”

Passiamo ora, e non velocemente al danese. Prima ho letto

Soren Kierkegaard “Sulla mia attività di scrittore” Edizioni ETS euro 7

Venti pagine di testo, ma di una densità che con note e chiose si arriva a quattro volte tanto. C'è tutto un mondo da dire sullo scritto (perché si scrive, cosa scrive, cosa si vuole comunicare scrivendo, mantenere una propria etica cristiana nell’essere scrittore) che penso ci si dovrà tornare. Per ora mi resta l'immagine forte dell'uso di pseudonimi nella scrittura del maestro danese che (con ovvia diversità) mi rimanda al complesso delle opere di Pessoa. Kierkegaard usa pseudonimi quando infarcisce di filosofia la scrittura, ma dove la scrittura a volte ha vita autonoma. Ed usa il suo nome quando scrivendo, chiosa i propri scritti. "Sulla mia attività di scrittore" uscì a Copenaghen nel 1851, dopo che per almeno un lustro il suo autore, Soren Kierkegaard, si era sforzato di redigere una sorta di 'guida alla lettura' della sua complessa produzione letteraria. Questo libricino - denso compendio del più ampio "Il punto di vista per la mia attività di scrittore", pubblicato postumo nel 1859 - contiene dunque le informazioni essenziali che Kierkegaard desiderava fornire ai suoi contemporanei sull'articolazione interna del complesso dei suoi scritti e sul suo ruolo di scrittore cristiano.

E poi mi sono dedicato a

Soren Kierkegaard “Diario del seduttore” BUR euro 4,99

Qui la scrittura si fa difficile, non per il testo, quanto per il contesto. E qui l’opera viene pubblicata sotto uno dei tanti pseudonimi. Il Diario è estrapolato dal più ampio e articolato “Enten/Eller” e non sono sicuro della correttezza di questa estrapolazione. Certo, un po’ di straniamento mi hanno fatto quelle lettere del seduttore firmate Giovanni. Il percorso sembra semplice, il seduttore seduce e vince, la fanciulla è presa nella rete e soffre. Ma…

"Il diario del seduttore", pubblicato da Kierkegaard nel 1843, mette infatti in scena l'astuto ed elegante gioco estetico del seduttore che conquista la sua preda incantandola con le armi dello spirito. Si tratta di una figura demoniaca, che arriva a possedere la donna, rapita dalla musica ammaliante della sua arte, per poi abbandonarla in una logorante disperazione. Tre sono i possibili modi fondamentali di vivere e di concepire la vita, secondo Kierkegaard: quello estetico, simboleggiato da don Giovanni, che il filosofo presenta come protagonista del Diario di un seduttore, quello etico, simboleggiato dal «marito fedele», e quello religioso, simboleggiato da Abramo, il personaggio biblico. Questi tre «modelli» sono in irriducibile alternativa tra di loro; si escludono vicendevolmente; sicché il terzo non costituisce un superamento dei due precedenti. Il passaggio, possibile ma non necessario, dall'uno all'altro implica, per Kierkegaard, sempre una radicale rottura, un salto, un capovolgimento di mentalità. Nello stadio estetico l'uomo conforma la sua esistenza secondo il principio di godersi la vita; il che comporta un vivere permanentemente nel presente, nell'attimo. Ma, secondo Kierkegaard, vivendo momento per momento l'uomo non trova mai in sé una sua propria identità, sicché s'insinua il sentimento dell'inadeguatezza del suo modo di vivere; ossia, s'insinua la noia che apre la porta alla disperazione; meglio, alla consapevolezza della sua disperazione (infatti il suo legarsi all'attimo, il suo incessante passaggio da piacere a piacere, non è che inconsapevole disperazione); e questa consapevolezza costituisce la condizione primaria per l'insorgenza del bisogno di «cambiar vita», di una vita diversa, anzi di segno opposto, e dell'effettivo salto nello stadio etico.

E come non sentire la contrapposizione con Kant e l’altro modo di pensare l’essere qui ed ora.

Mi corre qua l’urgenza di qualche citazione:

“Soren: Io ho un solo amico: l'eco. E perché è mio amico? Perché io amo il mio dolore e l'eco non me lo toglie. Io ho un solo confidente: il silenzio della notte. E perché è il mio confidente? Perché il silenzio tace.”

“Cornelia: egli esercita uno strano fascino su di me, ma certo non lo amo e forse non riuscirò mai ad amarlo; potrò tuttavia resistere a viverli insieme ed anche ad essere veramente felice”

“Giovanni: o la fanciulla inganna l’uomo, o l’uomo inganna la fanciulla”.

Anche il filosofo danese è mono cittadino, vissuto sempre a Copenhagen, dove nacque il 5 maggio 1813 (un altro toro?) e vi morì l’11 novembre 1855. Nasce dal ricco commercialista Michael Pedersen e dalla sua seconda moglie Ane Lund. La sua filosofia prese corpo da un doppio rifiuto, ossia il rifiuto della filosofia hegeliana e l'allontanamento dal vuoto formalismo della Chiesa danese. Fu l'ultimo di sette fratelli, cinque dei quali morirono quando lui era ancora ventenne. Dagli anziani genitori ricevette una rigida educazione religiosa, improntata al pessimismo ed al sentimento del peccato. La tragedia dei fratelli e l'educazione ricevuta fecero di Kierkegaard un uomo triste e votato all'introspezione, nonché ai facili e penosi sensi di colpa. Kierkegaard era assai cagionevole di salute, tant’è vero che egli chiamò, usando un’espressione usata anche da S. Paolo, "spina nella carne" un suo misterioso dolore fisico. Il padre gli inculcò un forte senso del peccato. Kierkegaard arrivò addirittura a pensarsi soggetto a una maledizione divina, per una imprecisata "grave colpa" commessa in passato da suo padre. Infatti, la morte prematura della moglie e di cinque dei suoi sette figli, avevano convinto il padre di Kierkegaard che egli aveva attirato su di sé l’ira divina. Forse, la colpa del padre era stata quella di aver maledetto Dio a 11 anni per la sua iniziale povertà di pastorello; o forse tale colpa fu l’aver sedotto la domestica pochi mesi dopo la morte della sua prima moglie. D’altra parte, egli aveva sposato la ragazza compromessa, che poi sarà la madre di Kierkegaard. Studiò teologia nell'università della sua città natale, con la prospettiva, poi non realizzata, di diventare pastore protestante. Nel 1840, si fidanzò con la diciottenne Regine Olsen, ma dopo un anno scarso, ruppe il fidanzamento. Forse Kierkegaard era attirato da una vocazione di consacrazione religiosa, o forse non voleva ingannare la ragazza, avendo il timore ossessivo che la maledizione divina potesse gravare anche sulla famiglia che egli avrebbe formato insieme a lei. Regina Olsen si disse pronta a tutto pur di sposarlo, ma Kierkegaard fece il possibile per apparirle disgustoso, in modo che cadesse su di lui la colpa della rottura del fidanzamento, che peraltro gli procurò rimpianto per tutta la vita. Kierkegaard condusse un’esistenza appartata, anche a causa del suo temperamento scontroso e poco socievole. Gli unici fatti rilevanti della sua vita furono gli attacchi che gli vennero mossi da un giornale satirico, e la polemica contro l’opportunismo e il conformismo religioso che egli condusse, nell’ultimo anno della sua vita, in una serie di articoli giornalistici. Il giornale satirico ritrasse Kierkegaard più volte ritratto in maligne caricature e fu aspramente preso in giro. Il filosofo ne rimase profondamente amareggiato (certo non era un ridanciano!). Quanto alla polemica che egli condusse contro il conformismo religioso, Kierkegaard accusava la Chiesa danese di essere mondana e di aver tradito gli insegnamenti originari di Cristo. E concedetemi di non addentrarmi nell’esistenzialismo, maneggiando ben poveramente il suo pensiero.

sabato 9 febbraio 2008

1923 – 2008

Scusate se approfitto di questa settimana di trame per non parlare di libri, ma per condividere con voi questo momento.

Domenica scorsa mio padre si è spento serenamente all’età di 85 anni.

Non voglio qui tornare su di lui e sulla sua esistenza terrena, ma mi fa piacere poter riportare il ricordo che ho letto durante la messa funebre in suo onore.

Eccolo:

“Non so se mi reggerà la voce perché tanta è l’emozione. Voglio solo riuscire a condividere con voi questo momento, ricordando Franco. Una persona giusta che ora riposa dopo aver fatto tanto, in nome di una idea che è sempre stata più forte di tutto. Io lo ammiro come persona che per tutta la vita ha sempre lottato per la pace, vedendo in ciò un mezzo di affermazione dei più alti valori morali e religiosi.”[1]

Questo diceva mio padre cinquant’anni fa commemorando la scomparsa della sua guida, Guido Miglioli. E questo ora, con le sue parole, ho ripetuto per lui.

Ora ci guardi, e aspetti il giorno del nostro ricongiungimento. A noi, a me, rimane anche un altro sguardo, preso da una vecchia foto, dove stavi alle mie spalle, guardandomi, come a sostenermi. Ma discretamente, come discreta è stata tutta la tua vita.

Grazie papaà per quello sguardo, grazie per averci sostenuto. A tutti noi servirà per andare avanti. Grazie Frankie.

E vi aggiungo la foto cui accennavo

Un abbraccio a tutti

Giovanni







[1] Liberamente estratto dal libro di Franco Leonori “No guerra, ma terra!”


giovedì 7 febbraio 2008

Festival e bonus track

Altro piccolo aggiustamento, il resoconto dei libri letti dei mesi precedenti ve lo prendete insieme alla prima domenica del mese. Ma in più vi aggiungo un commento in più, come un bonus track nei CD in offerta.

Questa settimana, direi un tripudio di belle recensioni (cioè di recensione di cose che mi sono, per una ragione o per l’altra, piaciute). Un festival straniero, visto che ci avviciniamo agli Oscar e facciamo finta di dimenticarci che esiste anche Sanremo. (p.s. vi prego di notare anche le citazioni in corsivo, che a volte sembrano sfuggirvi).

Cominciamo dalla Spagna con

Carlos Ruiz Zafon “L’ombra nel vento” Mondadori euro 12 (pagato con sconto 10,20)

Si legge finalmente anche Zafon, il caso spagnolo nato dal tam-tam dei lettori. E si legge d'un fiato. Una favola adolescente. Un libro di formazione, sul passaggio all'età adulta avendo uno scopo, un'idea che determinerà tutta la vita.  A Barcellona una mattina d'estate del 1945 il proprietario di un negozio di libri usati conduce il figlio undicenne, Daniel, al Cimitero dei Libri Dimenticati, un luogo segreto dove vengono sottratti all'oblio migliaia di volumi di cui il tempo ha cancellato il ricordo e chiede a Daniel di scegliere un libro che dovrà però impegnarsi a proteggere per il resto della sua vita, un libro di Juliàn Carax . Si mescolano diversi generi: thriller, romanzo (amore e passione), saga familiare e una riflessione sulla letteratura e sul ruolo dei libri nella vita delle persone. Volendo si scopre ben presto chi è Juliàn, ma forse è meno importante dei rapporti tra le persone. Tra genitori e figli, tra giovani amanti, tra amori della vita e sesso. C'è un lato a volte buonista che forse avrei ridotto. C'è la felicità di leggere una bella storia, con castagne e vino caldo.

“Sembri un altro uomo. - Lo sono. ... mi ha fatto desiderare di essere migliore di quello che sono ... per meritarla... Lei è nata per essere madre... e a me quella donna piace più delle pesche sciroppate”.

Parlando un po’ dell’autore (anche se non dei suoi libri infantili), diciamo che Carlos Ruiz Zafón è nato a Barcellona il 25 di settembre del 1964 (un Bilancia!). Autore di libri per ragazzi esordisce nella narrativa per adulti con questo suo quinto romanzo, uscito in sordina in Spagna, ha conquistato con il passaparola il vertice delle classifiche letterarie europee, diventando un vero e proprio fenomeno letterario. Vive a Los Angeles dal 1994, dove è impegnato nell'attività di sceneggiatore. Collabora regolarmente con le pagine culturali di "El País" e "La Vanguardia".

Facciamo ora un salto in Medio Oriente, anche se l’autrice più lì non vive.

Azar Nafisi “Leggere Lolita a Teheran” Adelphi euro 10

Duale il sentimento verso questo spaccato di 18 anni iraniani. Bello, dolente e intellettuale. Si passa dal ritorno di Khomeini al ritorno in America, incespicando in decine di romanzi americani che fanno la punteggiatura della crescita di una generazione dall'illusione alla disincanto. Nei due decenni successivi alla rivoluzione di Khomeini, Azar Nafisi spiega ai suoi studenti la letteratura occidentale. Il risultato è uno dei più toccanti atti d'amore per la letteratura mai professati. La professoressa Nafisi decide di interrompere il suo insegnamento all'università Allameh Tabatabei, a causa delle continue pressioni della Repubblica islamica dell'Iran sui contenuti delle lezioni ed in generale sulla sua vita di donna. Tuttavia non lascia totalmente l'insegnamento, e decide di indire un seminario da tenersi ogni giovedì mattina presso la sua abitazione. Partecipano al seminario le sue sette studentesse migliori: Manna, Nassrin, Mahshid, Yassi, Azin, Mitra e Sanaz. Al seminario si discute di letteratura, in particolare di romanzi americani come Lolita, Il grande Gatsby, Cime tempestose e altri. Tutti vengono analizzati alla luce delle esperienze che le ragazze e la professoressa vivono nella repubblica islamica dell'Iran. Con il passare del tempo le ragazze fraternizzano e scopriamo i dettagli delle loro vite. Manna è una poetessa sposata per amore con un ragazzo anch'esso appassionato di letteratura. Azin, una ragazza molto bella, è sposata con un uomo molto ricco che la picchia. Sanaz è fidanzata con un ragazzo che vive in Inghilterra e che ha visto pochissimo. Yassi è l'allegra del gruppo. Nassrin ha passato cinque anni in prigione. Ognuna espone le difficoltà di essere donna nella repubblica islamica dell'Iran. La parte di testa è questo citare, recitare e voler a tutti i costi ricondurre il presente romanzante al passato romanzato. Certo che in alcuni momenti c'è rabbia. Ed in altri, per chi ne è lontano, un raccontare di cose che poco si sanno. Dolente è il tentativo di rimanere all'interno della logica islamica. Ma complessivamente 400 pagine che si bevono di carriera. Per gli intellettuali, poi, un ripasso veloce e dotto del romanzo di lingua inglese, da Jane Austen a Nabokov. 

“un romanzo non è un'allegoria... è l'esperienza sensoriale di un altro mondo. È così che so legge un romanzo: come se fosse qualcosa da inalare”

“viva più pienamente che può; non vivere è un errore. Non importa quello che fa in particolare, purché lei abbia la sua vita.”

“c'è un modo di dire persiano: la pietra paziente, che si usa nei momenti di difficoltà e smarrimento. Se un uomo riversa tutti i suoi problemi e i suoi guai sulla pietra, questa lo ascolterà, ne assorbirà i dolori e i segreti, e allevierà la sua pena.”

Anche qui ci vuole una bella digressione bio: Azar Nafisi, (dicembre 1955, Teheran) è figlia di Ahmad Nafisi, ex sindaco di Teheran, e Nezhat Nafisi, prima donna ad essere eletta al parlamento iraniano. Nasce in Iran nel dicembre del 1955. All'età di 13 anni viene mandata dai suoi genitori in Inghilterra per continuare gli studi. Porta a compimento i suoi studi superiori e universitari negli Stati Uniti, dove si laurea in letteratura inglese ed americana presso la University of Oklahoma. Nafisi ritorna in Iran nel 1979 divenendo Professoressa di Letteratura Inglese presso l'Università Allameh Tabatabei di Teheran; incarico che terrà per 18 anni, eccetto che per il periodo 1981-1987, nel quale sarà espulsa per non aver rispettato le norme vigenti sull'abbigliamento. Testimone della rivoluzione islamica e della presa di potere dell' Ayatollah Khomeini, Nafisi, proveniente da un educazione fortemente occidentale, diverrà presto un oppositrice del regime. Nafisi lascia l'Iran nel 1997 trasferendosi con il marito ed i figli negli Stati Uniti, dove ha ricominciato a insegnare letteratura Inglese.

E finalmente un sempre alcolico

Paul Auster “La notte dell’oracolo” Einaudi euro 9,80 (pagato con sconto 6,86)

Ogni volta che leggo un Auster non posso che ringraziare mentalmente Luana che me lo ha fatto conoscere. Anche questo prende totalmente. Il lavoro ricorda quello di Vladimir Nabokov, ed il romanzo tratta di un autore chiamato Sidney Orr (una versione americanizzata del nome di famiglia polacco Orlowski), che, dopo il suo ristabilimento miracoloso a partire dai danni quasi mortali compera un nuovo taccuino ed inizia a scrivere una storia su un uomo che ha completamente cambiato la sua vita quando ha realizzato quanto la sua esistenza è stata guidata dalle coincidenze. Poi le storie tra finzione, realtà e finta realtà si intrecciano. Il protagonista ha molte similitudini con Paul Auster, tutti e due risiedono a Brooklyn, sono di mezza età, sono sposati, e naturalmente, sono scrittori. Alcune similarità ci sono anche tra Auster e l’alter-ego del racconto, John Trause. Trause un anagramma di Auster, ed entrambi hanno abitato a Parigi. Trovo meglio riuscita la prima parte, con il gioco delle matrioske di racconti, che si intrecciano con la realtà, e con il mitico taccuino blu, su cui la scrittura scorre anche troppo. Poi bisogna trovare un uscita, e non tutte le parti si incastrano benissimo. Forse la più convincente è proprio la storia personale di Sid e Grace. Comunque bello ed energetico come un martini cocktail.

E visto che oggi è il suo compleanno, celebriamo quindi Paul Auster (Newark, 3 febbraio 1947). Nato da famiglia benestante di origini tedesche, cresce nei sobborghi di Orange e Maplewood a Newark e durante l'adolescenza inizia a scrivere le prime poesie. Il suo ultimo anno di liceo è anche quello in cui la famiglia si smembra. Non partecipa alla consegna dei diplomi e per due mesi e mezzo vive a Parigi, in Italia, in Spagna ed in Irlanda, in cui si reca solo per “ragioni che c’entravano unicamente con James Joyce”. Nel 1966 inizia a frequentare Lydia Davis che sposerà alcuni anni dopo e da cui avrà un figlio. Si laurea nel 1969 alla Columbia University e parte a bordo di una petroliera, arricchendosi di storie per un anno. Tra il 1971 e il 1974 vive in Francia. Al ritorno in patria pubblica il volume di versi Unearth (1974) e Wall Writing (1976). La sua carriera di scrittore di romanzi inizia nel 1979 con L'invenzione della solitudine (romanzo autobiografico generato dalla morte del padre e incentrato sul rapporto problematico che ha sempre vissuto con questi), ma è solo nel 1985 che arriva la consacrazione a livello internazionale con la Trilogia di New York. Da questo momento Paul Auster diviene uno scrittore di culto e dalle poliedriche attività: scrive per il cinema (Smoke e Blue in the face) e diviene regista (Lulu on the Bridge). Dopo aver divorziato dalla Davis, sposa nel 1982 la scrittrice di origini norvegesi Siri Hustvedt, oggi nota scrittrice, da cui ha una figlia, Sophie.

Il bonus track di questo mese invece è …

Laszlo E. Almasy “Sahara sconosciuto” Nutrimenti s.p.

Un libro frutto di un inaspettato regalo, con una citazione-ringraziamento per le grafie arabe alla mia amica-maestra Paola.

“il deserto è terribile e spietato, ma chi lo ha conosciuto è costretto a ritornarvi”

E noi siamo costretti a ritornarci... Certo il conte Almasy è più interessante dello scritto in questione, ma questo Sahara, tra l'Egitto e la Libia, mi riporta ad anni passati (anzi a capodanni passati), quando si arrancava per le piste verso Cufra. E tanto di Cufra si parla, e dei Senussi, e dei graffiti. Belle le immagini sia dei voli sia delle auto sfreccianti tra le dune (con i problemi anche tecnici da affrontare per girare nel deserto). Una bella storia di sabbia fuori dal corso del tempo (con qualche nota storica sugli italiani in Libia).

Ma ben più interessante è la vita del conte László Ede Almásy de Zsadány et Törökszentmiklós (22 agosto 1895 – 22 marzo 1951). Almásy nacque a Borostyánkő, nell'Impero austro-ungarico (oggi Bernstein, Austria), in una famiglia dell'aristocrazia ungherese. Dal 1911 al 1914 studiò a Eastbourne (Regno Unito) con un insegnante privato. Durante la prima guerra mondiale servì nell'esercito austro-ungarico; alla fine del conflitto tornò a Eastbourne e intraprese studi tecnici, appassionandosi all'aeronautica e diventando membro del club di aviatori di Eastbourne. La sua amicizia con il re Carlo I d'Austria-Ungheria gli valse il titolo non ufficiale di conte. Dopo il 1921 si dedicò all'automobilismo, vincendo diverse gare come rappresentante dell'industria austriaca Steyr. Nello stesso decennio si recò spesso in Nordafrica (Egitto e Sudan), dapprima come organizzatore di visite turistiche. Nel 1929 si dedicò a una spedizione nel Sahara su automobili Steyr, e a partire dal 1932 intraprese una serie di viaggi nel deserto alla ricerca della leggendaria città di Zerzura. Queste spedizioni (in cui fu affiancato anche da alcuni esploratori inglesi, fra cui Robert e Patrick Clayton) non raggiunsero mai lo scopo di trovare Zerzura (la cui esistenza è tuttora considerata solo una leggenda) ma portarono comunque altri risultati importanti, tra cui la realizzazione della prima mappa dettagliata dei siti di arte rupestre preistorica di Uweinat e Gilf Kebir e la scoperta della più alta montagna del Sahara orientale (Jebel Uweinat) e di una precedentemente sconosciuta tribù nubiana (i Magyarab). In quegli anni Almásy si costruì una grande reputazione di esploratore, e si guadagnò l'appellativo di "padre delle sabbie", datogli dai Beduini che lo accompagnavano nei suoi viaggi. Durante gli ultimi anni '30 Almásy rimase in Nordafrica, partecipando a nuove spedizioni archeologiche e lavorando come istruttore di volo. All'inizio della seconda guerra mondiale tornò in patria. Pur non simpatizzando per il nazismo, mise i propri servizi a disposizione dell'Asse per lealtà verso la monarchia ungherese. Fu reclutato dalla Abwehr (l'agenzia di intelligence tedesca). In seguito, date le sue conoscenze di aeronautica, fu assegnato alla Luftwaffe, e mandato in Africa con gli Afrika Korps. Fra il 1941 e il 1942 lavorò sotto Erwin Rommel, distinguendosi per la conoscenza del territorio e portando a termine missioni di spionaggio come l'Operazione Salaam, in cui riuscì a penetrare nelle linee nemiche e infiltrare due spie tedesche. Per queste imprese Rommel lo promosse al grado di maggiore e gli conferì l'onorificenza della Croce di ferro. Quando la guerra in Africa volse al termine, Almásy rientrò in Europa. A Budapest, mise a frutto i suoi contatti con le gerarchie della Chiesa cattolica per salvare numerose famiglie di ebrei dalla deportazione nei lager nazisti. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, Almásy fu arrestato e finì in una prigione sovietica, da cui riuscì a fuggire probabilmente con l'aiuto dell'intelligence britannica. Tornò in Egitto e per qualche tempo lavorò al servizio del re Faruk. Nel 1951, mentre si trovava in Austria, si ammalò gravemente, morendo di dissenteria in un ospedale di Salisburgo

 

Ed ora finalmente si può passare alla parte di schedature, con la citazione degli ultimi libri letti nel mese di dicembre del 2007, che portano ad un totale di 144 libri letti durante tutto l’anno, con una spesa di acquisto di circa 800 euro.

 








































































Autore


Titolo


Edizione


Marcello Fois


Sheol


Noir – la biblioteca di Repubblica


Fabio Volo


Esco a fare due passi


Mondadori


Roberto Ampuero


Chi ha ucciso Cristian Kustermann?


Garzanti


Massimo Lugli


La legge di Lupo Solitario


Newton Compton


Grazia Verasani


Quo vadis, baby ?


Noir – la biblioteca di Repubblica


Clive & Dirk Cussler


Vento Nero


Tea


Laszlo E. Almasy


Sahara sconosciuto


Nutrimenti


J.M. Coetzee


Aspettando i barbari


Einaudi


Andrea Camilleri


La pista di sabbia


Sellerio


Roberto Vecchioni


Le parole non le portano le cicogne


Einaudi


Mario Quattrucci


E’ Novembre, commissario Marè


Robin


Maj Sjowall e Per Wahloo


Un assassino di troppo


Sellerio


 

Buon Carnevale a tutti

G.

sabato 2 febbraio 2008

Italiani da Milano a Napoli

Questa terza settimana si torna in Italia, facendo un viaggio tra due autori di Milano (ma uno fa svolgere la storia a Roma) ed uno di Napoli (che invece va un po’ più lontano). Diseguali per natura, stile ed emozioni che mi hanno suscitato.

Cominciamo allora dal Nord.

Gianni Biondillo “Con la morte nel cuore” Tea euro 8,60

Ho da poco terminato alcuni Scerbanenco che si aggiravano in una Milano anni ’60, qui invece si salta all'oggi, con la seconda avventura del commissario Ferraro (la prima l’avevo letta un paio di anni fa), che, e sono d'accordo con la quarta questa volta, è una vera “Quarto Oggiaro Story”.  Con tutti gli ingredienti della Milano di oggi, e dei suoi abitatori, sia milanesi che immigrati, interni ed esterni. Con quel condimento di digressioni su tutto o quasi che ci fanno apprezzare lo stile di Biondillo. L'ispettore Michele Ferraro è alle prese con uno dei più difficili casi che gli siano mai capitati. Perché, in quella periferia milanese dove tutti si conoscono e dove è quasi impossibile distinguere gli innocenti dai colpevoli, sta succedendo qualcosa di grosso. Cosa c'è dietro? Che parte ha il Baffo, un sognatore finito a fare il barbone? E che strani intrecci si sono formati tra le mafie pugliesi, calabresi e slave? Ferraro indaga, facendo quotidianamente i conti con i suoi malumori e con l'ennesimo tentativo di prendere una laurea. Lo stile è scorrevole ed accattivante. Aspettiamo ora la terza storia.

Gianni Biondillo (Milano, 1966) mi aveva fin dall’inizio colpito con la sua laurea di architetto e con la voglia di scrivere. Autore di romanzi, testi per il cinema e la televisione, articoli di tema artistico, letterario e politico, saggi su Pasolini e Proust. È membro del blog collettivo Nazione Indiana.

Il secondo resta sempre un nordico, ma eclettico, anzi di più, visto che di mestiere fa il cantante.

Roberto Vecchioni “Le parole non le portano le cicogne” Einaudi euro 9,80

Anche se è difficile a volte entrare nella scrittura dei cantanti, lo stile di Vecchioni è gradevole, un po' come le sue canzoni. Ed il romanzo di crescita di Vera dai primi amori alle passioni di una vita scorre bene. Vera è una diciassettenne vitale, istintiva e un po' atipica: una "veteromane" come lei stessa si definisce, con gusti letterari e musicali diversi da quelli dei coetanei, con aspirazioni vaghe e indisciplinate. I suoi compagni la chiamano nonna e la trattano come una consulente archeologica: eppure è lei l'anima del gruppo, "quella delle proposte bizzarre, inverosimili". Ha un padre lontano, a cui scrive lettere destinate a restare senza risposta, e una madre vicina ma assente, iperattiva, sempre impegnata in nuovi e improbabili progetti. Ma l'incontro fondamentale deve ancora arrivare e sarà quello con un vecchio eccentrico linguista (Otto). Alcune tirate sulla semantica sono un po' lunghe, così come prevedibile la storia di Otto. Nelle varie digressioni ho notato un solo errore (quando si cimenta con la matematica) perché afferma che xn è sempre diverso da nx , senza altre condizioni, mentre diventa una uguaglianza per x=2 e n=4. Discontinuo ma gradevole.

Di Roberto Vecchioni (Carate Brianza, MI, 25 giugno 1943) si può parlare un po’ di più (in fondo rientra nel filone musica). La famiglia di Vecchioni è di origine napoletana, il padre è commerciante, la madre casalinga, ed ha un fratello più piccolo, Sergio. Si laurea nel 1968 in lettere antiche presso l'Università Cattolica di Milano, nella quale resterà come assistente a Storia delle religioni; successivamente insegna in licei classici, come docente di greco e latino. Comincia la carriera nel mondo musicale come autore di testi di canzoni, in collaborazione con l'amico musicista Andrea Lo Vecchio: il primo brano pubblicato è una traduzione in italiano di "Barbara Ann" dei Beach Boys, incisa nel 1966 dai Pop Seven, e la particolarità di questo 45 giri è che lo stesso Vecchioni partecipa all'incisione (sua è la voce che comincia la canzone cantando "Bar bar bar, bar Barbar Ann"). La sua attività di cantautore si intreccia con quella di scrittore. Nel 1983 esce il suo primo libro “Il grande sogno”, come allegato ad un'edizione limitata dell'album omonimo, (Milano Libri) che contiene poesie, racconti e testi per canzoni. Il suo secondo volume è del 1996, una raccolta di racconti intitolata “Viaggi del tempo immobile” (Einaudi). Nel 1998 cura la voce "Canzone d'autore" nell'enciclopedia Treccani. Ancora per Einaudi esce, nel 2000, il suo primo romanzo “Le parole non le portano le cicogne” ed è sempre l'editore torinese a pubblicare nel 2004 il volume “Il libraio di Selinunte”. Infine nel 2006 pubblica il libro "Diario di un gatto con gli stivali". Ha ricevuto il premio per la pace "Giorgio la Pira" nel 1998. È sposato e ha quattro figli.

Ed infine si arriva a Napoli per ritrovare (visto che ormai ne leggo spesso) uno strano pezzo dell’ex-continuotto poi edottosi in lingua ebraica ed ora anche traduttore di passi della Bibbia.

Erri De Luca “In nome della madre” Feltrinelli euro 7,50 (scontato a 5,25)

Solo una personalità come De Luca poteva affrontare una descrizione così delicata, senza cadere (troppo) in eccessi (né laici né religiosi). In poche pagine, da uomo ovviamente, fa partecipe del dramma della nascita di Gesù, della accettazione del grande avvenimento da parte di Giuseppe e Maria. E dell'amore materno di quest'ultima verso la creatura nascente. Qui c'è la storia di una ragazza narrata da lei stessa. L'amore smisurato di Giuseppe per la sposa promessa. Miriam/Maria, ebrea di Galilea, travolge ogni costume e legge. Esaurirà il suo compito partorendo da sola in una stalla. Ha taciuto. Qui narra la gravidanza avventurosa, la fede del suo uomo, il viaggio e la nascita. Si legge d'un fiato. Ed a me ha scaldato il cuore.

Di De Luca ho oramai detto anche troppo e qui mi fermo.

Buona settimana a tutti

G.