domenica 30 aprile 2017

Maigret 7 - 30 aprile 2017

Quando arriva Simenon, i Maigret vengono a grappoli, come questi due volumi, di cui il primo ho parlato domenica scorsa, anzi martedì visto che domenica mi riposavo in campagna. Intorno allo scorso Natale, invece di panettoni, ho fatto abbuffate di commissari. Ancora tutti del “periodo americano”, e tuttavia, dopo i primi fast, comincia un periodo in calando. Mancanza senza dubbio delle atmosfere intorno alla Senna, che spero mio cugino & c. stia apprezzando in questo lungo week-end.
Georges Simenon “I Maigret – volume 7” Adelphi s.p. (regalo di mamma)
[A: 28/11/2014– I: 20/12/2016 – T: 29/12/2016] - &&&&-- 
[tit. or.: vedi singoli libri; ling. or.: francese; pagine: 745; anno 2014]
Ormai siamo nel pieno del periodo americano, il lungo esilio decennale dove Simenon, vagando dall’Est all’Ovest del continente, mette alcuni punti nuovi (non dico saldi, perché ne vedremo delle belle) alla sua vita. Il divorzio da Tigy, il matrimonio, la nascita di John si concentrano tutti in questo periodo, dove, in 18 mesi (oltre agli altri) scrive 5 romanzi “Maigret”. I primi due magistrali, poi con qualche calo. Sino all’ultimo, il finto diario del commissario, che ha i suoi punti di interesse, ma che porta solo notizie sulla vita del personaggio, senza inchieste o altro. Ma l’esilio sarà ancora lungo e prolifico (fino ad ora sul suolo americano ha scritto 9 romanzi).

Titolo
Scritto
Uscito
Data
Luogo
Il mio amico Maigret
24 gennaio – 2 febbraio 1949
Scritto nella tenuta Stud Barn di Tumacàcori, un'antica riserva indiana, ora parco storico naturale nei dintorni di Tucson, Arizona (Stati Uniti d'America)
10/06/1949
Maigret va dal coroner
21 – 30 luglio 1949
Scritto a East Whitman Street, Tucson, Arizona (Stati Uniti d'America)
31/10/1949
Maigret e la vecchia signora
29 novembre – 8 dicembre 1949
Scritto a Ocean View Avenue, Carmel, California (Stati Uniti d'America)
28/02/1950
L’amica della signora Maigret
13 – 22 dicembre 1949
Scritto a Ocean View Avenue, Carmel, California (Stati Uniti d'America)
31/05/1950
Le memorie di Maigret
19 – 27 settembre 1950
Scritto a Shadow Rock Farm, Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
Gennaio 1951

“Il mio amico Maigret”
[tit. or.: Mon ami Maigret; ling. or.: francese; pagine: 9 – 153 (144); anno 1949]
Benché innamorato della sistemazione a Tumacàcori, questo è l’ultimo romanzo che vi scrive, dovendo presto, per ragioni interne alla sua famiglia allargata, spostarsi e girovagare. Ma il posto è proprio come lui si immaginava il suo soggiorno americano. La nostalgia lo prende allora dei “suoi” posti francesi. Tanto che scrive un romanzo “duro” ambientandolo a La Rochelle in Vandea (dove soggiornò durante la guerra) e questo trentunesimo Maigret per la maggior parte nell’isola di Porquerolles. Un’isola ben presente nella vita di Simenon, che vi trascorse alcuni mesi felici di riposo insieme alla diletta sposina Tigy nel lontano 1926. Lo scrittore, ventitreenne, era sovraccarico di lavoro, il medico gli consiglia un periodo di riposo, e Tigy (che sempre lo amerà da ora sino alla fine) trova questa sistemazione nel Mediterraneo, poco sotto Marsiglia, dove la famiglia Simenon di allora si trasferisce (famiglia composta da Tigy, la cameriera tuttofare Boule, il cane Jessie ed il gatto Molécule). Dopo quel soggiorno, spesso, come ho già scritto, e per dieci anni Simenon tornerà a Porquerolles ed a Villa “Les Roberts” (che anni e anni dopo verrà acquistata dal figlio Marc). Ora, nel volontario esilio americano, rosolando al sole dell’Arizona, pensa bene di ambientare una nuova avventura del commissario proprio lì nel Sud della Francia, nel pieno del sole di maggio, mentre a Parigi piove (come al solito). Il gioco di Maigret qui è doppio. Infatti da un lato c’è appunto l’inchiesta del commissario che dà modo allo scrittore di ripercorrere tutti i suoi luoghi isolani, con l’affetto che si ha nella memoria (e questo sarà uno dei fili conduttori del romanzo, affetto e memoria). Dall’altro mette un piccolo elemento di disturbo: per imprecisate ragioni di collaborazione, Scotland Yard chiede alla polizia francese di studiare il “metodo Maigret”, così che il nostro è affiancato dall’ispettore Pyke. Qui si consuma il contraltare della storia, nel modo di rapportarsi (o di non rapportarsi) tra i due poliziotti, un po’ confrontandosi ed un po’ affrontandosi. È divertente il confronto tra i due, che estrapoliamo un po’ dal contesto, e che serve a Simenon per “giocare” un po’ sulle differenze tra mondo francese e mondo anglosassone. Allora vediamo che Maigret è un tipo da choucroute (che ricordo è un piatto alsaziano di crauti, salsicce e lardo) e aïoli (salsa, come dice il nome di aglio e olio) mentre Pyke è da uova al bacon. Maigret beve calvados, Pyke whisky. Nelle stanze di Maigret c’è un “forte odore di pipa”, dove sta Pyke c’è “un discreto profumo di lavanda”. Maigret indossa la giacca per nascondere le bretelle, Pyke va in giro per l’isola in costume da bagno e espadrillas. E si potrebbe continuare. Anche perché nel corso del round di investigazione, spesso Maigret deve ammettere che Pyke è più corretto, più deciso di lui. Anche se alla fine sarà l’intuizione del commissario a portare alla soluzione del caso. Un match che finisce in pareggio, ma che, come dirà Bogart alla fine di Casablanca, sarà “l’inizio di una grande amicizia”. Il tutto comincia appunto nella piovosa Parigi, durante un interrogatorio dove cominciavo a vedere le schermaglie sottese tra Maigret e Pyke. Un gendarme del Sud, appunto con la giurisdizione su Porquerolles, chiama il commissario a causa della morte di tal Marcel Pacaud, che si professava amico di Maigret. Cedendo alle insistenze del suo capo, ma anche per staccarsi da Parigi, dove la cozza-Pyke gli dava più grattacapi che sollievi, i nostri si spostano al sud. Dove Simenon ha modo di sviscerare la sua “porquerollite”. Il nostro ama profondamente l’isola ed il suo clima mediterraneo, come fa dire in bocca al dottore, un personaggio minore che evoca alla grande il modo di sentire di Simenon. Un dottore di Bordeaux che, una volta passato per l’isola se ne innamora, liquida tutte le sue attività e si trasferisce a Porquerolles, vivendo quasi di nulla. Come di poco vivono i transfughi che lì si sono rifugiati. Il Marcel ucciso, ma anche il maggiore Bellam, cadetto di una famiglia inglese che dimesso per malattia dall’esercito di stanza in India, preferisce il sud e gli alcolici ad un improbabile ritorno nelle brume londinesi. O la signora Wilcox, che si va attempando, con i capelli tinti di rossi di cui si vede la ricrescita, abbastanza piena di soldi, ma dedita anch’essa alla bottiglia, tanto che il figlio la interdice di tornare in Inghilterra. Onde per cui lei gira il mediterraneo sul suo yacht, dove da un paio d’anni presta servizio come segretario Philippe de Moricourt. Philippe che è un bel tipo di gigolò, di quelli che già altre volte abbiamo incontrato nelle storie di Maigret (come Willy Marco ne “Il cavallante della ‘Provvidenza’”). Poi c’è il 24-enne Jef de Greef, un pittore olandese, anarchico che gira il mondo sul suo battello (per alcuni mesi attraccò anche sulla Senna vicino a Parigi), insieme alla sua amante diciottenne Anna Bebelmans. Nonché Ginette, ex-prostituta una volta protetta da Maigret, ora cinquantenne, che gestisce una casa di piacere di proprietà di Emile, sessantacinquenne, e che lei spera di sposare alla morte dell’arcigna madre Justine. Maigret viene coinvolto perché Marcel viene ucciso poco dopo essersi vantato (anche se non con tutti) di poter fare dei soldi e di avere come amico il famoso commissario Maigret. Cosa in realtà vera, che Maigret aveva favorito il suo ritiro dalla scena della prostituzione, con una condanna mite, che aveva portato Marcel poi al sole del Sud. Sole che aveva fatto bene anche alla di lui amante Ginette, che Maigret aveva spedito in sanatorio, salvandola da una fine infelice. Ma il ruolo di “accordatore di destini” non riesce benissimo al nostro, che Marcel sempre di espedienti vive. E Ginette, uscita dal sanatorio non trova di meglio che fare la maitresse di una casa chiusa, non riuscendo in altri mestieri. Tutto però si svolge nell’isola con i suoi ritmi, con l’andata e la venuta di Ginette dal continente per portare i soldi ad Emile, e per sostenere un po’ il vecchio Marcel. Tutti che si aggirano intorno al locale di Paul, l’Arca di Noè. Tutti gli estranei, che gli isolani doc vanno nella taverna di patron Galli. La svolta ci sarà quando Maigret conosce meglio Helen Wilcox, la sua svampitezza, ed il suo amore per i quadri. Nonché quando, frequentando l’ufficio postale (dove l’impiegata ascolta tutte le conversazioni telefoniche) scopre che Philippe è stato implicato varie volte in tentativi di raggiri di persone anziane, che Marcel ha chiesto a Ginette se un certo Vincent, pittore, fosse morto. Quando lei gli risponde che è morto nel 1890, si scatena il dramma. Di cui non vi dico tutti i particolari (a parte la morte di Marcel) che avrete già capito chi possa esserne partecipe. Quello che rimane nello stile di Simenon è la non-fine della storia. Nel senso che una volta delineato lo scenario e capiti moventi e movimenti, al nostro interessa poco la dinamica esatta dei fatti. Anche chi non commette materialmente un crimine può essere colpevole. Ora noi, Maigret e Pyke sappiamo cosa pensavano gli attori del dramma, siamo entrati nella loro testa, e ne vediamo scorrere l’azione. Questo basta. A Simenon sicuro. Anche a Maigret, che seppur dispiaciuto del fatto che i suoi “amici” poi non riescano ad uscire interamente dalla cattiva strada, almeno rimangono dei “cattivi onesti”. Un bel modo per Simenon di salutare il caldo dell’Arizona prima di tornare verso il Nord e verso l’Ovest, come vedremo nei prossimi romanzi.
“Adesso era una persona adulta: lo pensavano tutti, e solo lui, ogni tanto, faticava a convincersene.” (127)
“Maigret va dal coroner”
[tit. or.: Maigret chez le coroner; ling. or.: francese; pagine: 157 – 305 (148); anno 1949]
Le acque simenoniane si cominciano ad intorbidire. Ora Denise è incinta, e la “famiglia” non se la sente di vivere isolata nella missione di Tumacacori. Allora, il nostro per alcuni mesi affitta una casa in East Whitman Street a Tucson, dove scrive questo nuovo romanzo. Subito dopo, però, acquista una Villa (chiamata “Desert Sands”) al centro di Tucson, vicino all’ospedale dove nascerà il suo secondogenito, Jean Denis Chrétien detto John. Mentre le acque interne del suo universo si stanno quindi increspando, una nuova e diversa tegola gli arriva il 19 luglio: una lettera dalla Francia lo avvisa che il “Comitato d’epurazione” lo aveva ritenuto colpevole di connivenza con l’occupante tedesco ed aveva bandito per due anni le sue pubblicazioni in Francia, avvenimento che avrebbe colpito la “famiglia” in maniera drastica. Attraverso il suo avvocato Maurice Garçon fa avere una memoria in Francia con le motivazioni delle sue attività. Ed il bando viene revocato. Nel mentre, dal 22 al 30 luglio, sulla scorta di una breve udienza a cui lui stesso aveva assistito, imbastisce un nuovo romanzo atipico per Maigret, ma potente e ben costruito. Atipico (o particolare) perché Maigret non è in Francia, anzi è proprio a Tucson, invitato ad un viaggio di studio dall’FBI, che gli dà l’agente Harry Cole come chaperon. Cole deve indagare su un traffico di marijuana per cui parcheggia Maigret ad un processo. Che, in poco tempo, appassiona il nostro. Inoltre Maigret è solo (tutti i suoi collaboratori e la moglie fedele sono rimasti a Parigi) e non indaga ma osserva. Maigret è anche capace di comprendere l’inglese. E questo non è una cosa di poco conto per un commissario di polizia europeo degli anni Quaranta. Non è “fluent”, ma segue gli interrogatori, ed interloquisce con il capo locale Micky O’ Rourke e con alcuni spettatori presenti al processo (nonché con la gente che beve nei bar). La bellezza di questo esercizio letterario è che è quindi tutto basato sui dialoghi. Non c’è azione, ma c’è descrizione della stessa. Assistiamo al coroner che interroga le persone coinvolte nell’affare. Assistiamo a Maigret che si interroga sulle cose dette e non dette. Assistiamo alle descrizioni di cosa successe in quella notte tra il 27 ed il 28 luglio. Tutto ciò permette anche a Simenon di inzeppare una serie di considerazioni sulle differenze tra Vecchio e Nuovo Mondo in tutti gli aspetti presenti: la legge, il modo di gestirla (ma questo sarebbe già abbastanza ovvio pensando al differente codice penale tra i due mondi), le città (il centro che si svuota alla chiusura degli uffici che tutti abitano in periferia), le case (con quei giardini senza barriere tra una villetta e l’altra), i bar. Ma anche le ipocrisie: non ci sono prostitute, ma gli uomini soli trovano il modo di intortare qualche ragazza per avere i loro piaceri, si beve a fiumi, ma se dai da bere ad un minorenne o menti ad una giuria rischi fino a dieci anni di detenzione. Tuttavia non siamo qui per approfondire un’analisi su questi aspetti, che potrebbero anche essere interessanti. Siamo per seguire, insieme a Maigret, un’indagine condotta “all’americana”. L’indagine deve definire se Bessy Mitchell, di anni 17 e mezzo, è stata travolta da un treno per dolo o per disgrazia. Fu omicidio? La ragazza (all’epoca già sposata, divorziata e madre di un bambino) è l’amante del sergente Ward, meccanico della base aerea. Il quale è sposato, con due figli, la moglie in attesa del terzo, ma vorrebbe divorziare per sposare Bessy. La quale, quando beve (anche se non potrebbe data l’età) si concede comportamenti molto licenziosi, e non solo con Ward. Quella notte famosa, c’erano i militari in libera uscita. Con Bessy e Ward, c’erano il sergente Mullins, uscito dal riformatorio e per questo arruolatosi nelle forze armate, il sergente O’ Neil, figlio di un rigido istitutore e scappato di casa perché non sopportava l’ottusità familiare, il sergente Van Fleet, figlio di un agricoltore ed arruolatosi per fuggire la campagna, ed il caporale Wo Lee, ovviamente d’origine cinese, che usa il militare per integrarsi nella vita americana. I 6 bevono, bevono con Ethel l’amica di Bessy, con il fratello di Bessy, a casa di un musicista, dove Bessy, già ubriaca, ha un breve rapporto con Mullins. Poi loro 6 decidono di andare in Messico, dove si beve anche fuori orario, lungo una strada che Simenon conosce bene (è quella che lega Tucson alla sua precedente residenza di Tumacacori), e che corre parallela alla ferrovia. Il coroner interroga quindi i cinque militari su cosa accadde quella notte. E le loro versioni sono tutte discordanti. Ward dice che si sono fermati due volte, la prima per pisciare, la seconda per permettere a lui e Bessy di litigare e di lasciare lì a piedi da sola. Mullins dice che la sosta è stata una sola. Van Fleet e O’ Neil sono sulla traccia di Ward e Wo Lee su quella di Mullins. Tutti concordano che tornati a Tucson senza Bessy, Ward e Mullins tornano a cercarla in macchina, gli altri tre prendono un taxi per fare lo stesso. Poi proseguono a piedi. Ward e Mullins si ritrovano addormentati vicino ad un albero senza ricordarsi nulla. I tre, separatisi per aumentare le probabilità di trovare Bessy, sembra senza successo, fanno l’autostop per tornare alla base. C’è anche un divertente, per me, tentativo di descrivere la scena del delitto attraverso quattro cartine disegnate da ferrovieri, vicesceriffi e periti per mostrare segni, corpi, impatti. E credo sia l’unica volta che Simenon usa tale tecnica (potenza dell’America). Dopo le prime tornate di interrogatori, O’ Rourke ha la possibilità di arrestare tutti e cinque i sospetti, poiché hanno dato da bere ad una minorenne. Poi c’è una lussuosa cena che O’ Rourke offre a Maigret, durante la quale il nostro riesce a porre tutte quelle domande che avrebbe fatto se fosse stato lui a capo dell’inchiesta. Lì, Maigret capisce che molta parte dell’inchiesta stessa era stata svolta a porte chiuse, e quello che si vede in tribunale è solo la punta dell’iceberg. Prima della seduta finale, Maigret consegna una busta a O’ Rourke con il nome del colpevole secondo lui. Cosa che puntualmente si verificherà alla fine del processo, a seguito di un bel colpo di genio dello scrittore: un giurato chiede ai cinque quando hanno visto l’ultima volta Bessy, viva o morta. Il giurato è vicino a Maigret, sarà lui che gli ha suggerito la domanda scatenante? Non importa, e non importa anche se non seguiremo il verdetto, dato che Maigret è chiamato altrove. Ma non è quello importante, appunto. Il bello è stato seguire il dibattimento. Il bello è vedere che Maigret batte America 1 a 0! Forza Vecchio Mondo. Un'altra prova superlativa.
“Maigret e la vecchia signora”
[tit. or.: Maigret et la Vieille Dame; ling. or.: francese; pagine: 309 – 454 (156); anno 1950]
Il nostro girovago scrittore belga ancora una volta si mette in moto per le strade americane. Intanto, la moglie Tigy ed il primo figlio Marc si sono spostati da tempo a Carmel, in California, dato che avevano qualche “fastidio” ad aspettare la nascita del secondogenito. Dopo la nascita di John, anche Georges e Denyse si spostano in California, dove il nostro affitta una casa in Ocean View Avenue a Carmel (per noi che frequentiamo i posti, ricordo che Carmel è poco sotto Monterey). Tuttavia l’atmosfera non è serena. Simenon aspetta notizie dalla Francia sull’esito del ricorso per l’epurazione che ho menzionato nella precedente trama. Inoltre c’è tensione tra le due case “carmelitane”: quella nuova con Denyse e John, quella “antica” con Tigy, Marc e Boule. In questo momento oscuro, quindi, il nostro al solito si butta nella scrittura, ancora più del solito. In fine di novembre del ’49, in una settimana scrive questo romanzo, e due settimane dopo, in quattro giorni, completa il successivo. Al solito, scrivere di Maigret gli rasserena l’animo, dato che riversa sul commissario le sue “paturnie”. E mentre Georges sta lì a guardare le onde del Pacifico, il buon vecchio Jules si trova a risolvere un giallo sulle coste della Normandia. Prima di entrare nella trama notiamo comunque che, per tutto il romanzo, il commissario Maigret si fa un’overdose di Calvados, da quello a buon mercato delle osterie al super ricercato della signora Valentine (un Calvados di trent’anni). Perché, come diceva Queneau, “i Normanni bevevan Calvados” (da “I fiori blu”). L’inchiesta parte dalla visita di una vecchia signora al commissario Maigret a Parigi. Valentine Besson, vedova del farmacista Ferdinand, una volta ricco ed agiato, ma la cui fortuna, alla morte di lui, si è rapidamente dilapidata, chiede al nostro commissario di indagare sulla morte della sua cameriera Rose, che lei dice essere morta avvelenata al suo posto. Altro inciso, la “vecchia signora” (che non è la Juventus come direbbero i patiti del pallone) scopriremo nel corso del libro che ha 62 anni. E la chiamano vecchia? Vergona, Simenon! A sollecitare Maigret è anche il figliastro di Valentine, Charles, deputato e amico del Prefetto. Quindi Maigret, visto che poi le ferie non se le prende (quasi) mai, in questo ingrigente settembre parte da Parigi, fa sosta a Le Havre, e si dirige ed arriva ad Étretat, poco ridente cittadina sul canale della Manica. Dove tristi famiglie vanno a passare tristi estati al tristo sole del Nord. Magari a giugno c’è qualche giorno allegro. Di certo, a settembre non dev’essere particolarmente invitante. Al solito l’inchiesta di Maigret si sviluppa velocemente, anzi è forse più veloce l’inchiesta che la lettura. Tutto si concentra nei giorni del 6 e 7 settembre. Dove abbiamo modo di apprezzare sia il modo operativo del commissario, sia le facilità dello scrittore di presentarci persone e situazioni. Maigret, come di consueto, si aggira. Arriva a Étretat, si sistema in albergo, comincia a frequentare il luogo, magari insieme al locale ispettore di polizia. Ricostruisce, a suo modo, chi pensa cosa, chi si muove, chi tace. Abbiamo la signora Valentine, il cui ritratto è il più difficile da seguire, che si palesa non tutto insieme. Tanto che poi è bene ricostruirlo. Signorina belloccia ed affascinante, sposa un tizio poco appariscente che, dopo avergli dato una figlia, Arlette, si fa da parte (muore). Valentine fa qualche mestiere, per poi diventare commessa in una pasticceria, dove conosce il vecchio farmacista Ferdinand, già carico di due figli. Ferdinand è ricco, Valentine lo sposa. E per molti anni fanno la bella vita, fino a che, di tracollo in tracollo (il mercato delle creme passa dallo stato artigianale a quello industriale e Ferdinand non ha il piglio da capitano d’industria), la fortuna è dilapidata. Ferdinand muore e Valentine vive di una piccola rendita. Sembra fragile e bonaria, ma entrando in casa si notano dissonanze. Elementi finto lusso, accanto a esposizioni di povertà. Elemosina ai poveri e tirchierie familiari. Che riversa sulla povera cameriera Rose, figlia di pescatori della vicina cittadina di Yport. Rose che muore per aver bevuto un bicchiere con arsenico, sembra destinato a Valentine e motore delle indagini del commissario. Morte che avviene nel giorno del compleanno di Valentine, dove erano tutti presenti. La figlia Arlette, che per fuggire di casa, sposa un oscuro dentista parigino, e che trova tutti i modi di andare a letto con chiunque. Tanto che nella notte della tragedia stava a letto con il suo ultimo amante. I due figliastri: Charles, il deputato, quello che ha fatto carriera, sposato con figli, e Théo, celibe senza professione, che vive di espedienti e di gioco al casino. Théo che da giovane era concupito da Arlette. Théo che si allontana anche lui dalla famiglia, ma che Maigret scopre frequenti Rose nell’ultimo periodo. Per darci il quadro del piccolo mondo di provincia, Simenon ci fa conoscere anche i parenti di Rose, in particolare il fratello Henri. Duri, testardi, e sicuri che è la famiglia Besson in qualche modo colpevole della morte di Rose. Tutto precipita e si risolve quando Maigret fa in modo di convogliare sospetti e sospettati verso la magione di Valentine. Anche qui in una notte fosca si ritrovano Valentine, Henri e Théo. Ci sarà una nuova morte, ma questo darà modo a Maigret di risolvere il caso. Si sente il momento cupo di Simenon, non c’è l’approccio solare del precedente. C’è solo l’aggrapparsi dello scrittore al suo autore di rifugio. Dove continua (e lo vedremo meglio anche nel successivo) a farci vedere in controluce i suoi momenti. La stabilità della famiglia Maigret, cui lui tende. L’insicurezza delle famiglie multiple, anche qui con vedove, figli di primo e di secondo letto (o di letto trasversale). Famiglie che hanno o generano problemi. E nonostante il sole californiano, la vicenda si svolge al pallido sole normanno, riscaldati dal solo calvados.
“Quando si diventa vecchi, non si bada più all’opinione della gente, e si fa quel che si vuole.” (405)
“L’amica della signora Maigret”
[tit. or.: L'Amie de madame Maigret; ling. or.: francese; pagine: 457 – 610 (153); anno 1950]
Passano solo cinque giorni dalla chiusura del precedente romanzo, che già Simenon si butta a capofitto in una nuova avventura di Maigret. Non ci sono quindi nuovi avvenimenti di contesto che ci aiutano a decifrare il libro. Dove infatti aleggia ancora l’aria dimessa che nel precedente faceva da padrona. Tuttavia, il fatto di far tornare l’azione a Parigi, nei luoghi deputati del Simenon-Maigret, già dà un piglio diverso all’atmosfera. Che risente beneficamente anche dalla parte attiva che nel romanzo stesso ha la signora Maigret. Notiamo inoltre che nei 74 romanzi-Maigret (escludiamo il successivo perché, poi lo capirete) ben 66 iniziano nel primo capitolo con la presenza del commissario fin dalle prime righe. Anzi, nel primo paragrafo. 7 si palesa durante il primo capitolo, e solo in uno non entra in scena che nel secondo capitolo. Altro elemento di novità di questo romanzo, è l’inizio della presenza di un nuovo collaboratore del commissario, il giovane ispettore Lapointe (che diverrà uno dei preferiti di Maigret, e lo vedremo ben presto). Facciamo anche un piccolo inciso sui “quattro moschettieri”, i quattro fedeli collaboratori del nostro commissario. Il “bravo” Lucas (André) è il primo, che compare brevemente nel primo Maigret scritto (Pietro il lettone) e si palesa integralmente ne “Il cavalcante della ‘Provvidenza’” (marzo 1931). Il “piccolo” Janvier (Albert) entra invece in campo ne “La testa in gioco” (settembre 1931). Il “grosso” Torrence (Joseph) è il primo alter-ego di Maigret, presente proprio nel primo libro (Pietro il lettone del 1929) dove però muore; Simenon lo farà resuscitare già fin dai cicli “Gallimard”, ma non riprenderà più il posto accanto al capo, che ormai ha stabilmente Lucas (che tra l’altro prenderà il posto di Maigret quando quest’ultimo andrà in pensione). Il “giovane” Lapointe (Albert, come Janvier) appare solo qui, vent’anni dopo i primi volumi del commissario. Ma torniamo allora al romanzo, che inizia con l’avventura della signora Maigret che si trova abbandonata in Place d’Anvers dalla sua “amica” che gli lascia un bambino di due-tre anni da guardare, e che scompare per due ore. Disavventura che lascia interdetta la signora Maigret e lascia il commissario senza pranzo. Maigret intanto stava indagando su di una strana storia che si svolge vicino a Place des Vosges. In base a segnalazioni anonime, vengono scoperti denti umani nella caldaia di un rilegatore di libri belga, Franz Steuvels. Che viene fermato per accertamenti. Il tutto complicato dalla presenza di un avvocato rampante che mette molti bastoni tra gli ingranaggi di Maigret. Si scoprirà con il tempo che il tutto è legato proprio … al giovane Lapointe. Che, preso dalla foga della prima indagine, ne parla con la sorella, che ne parla al suo ragazzo, che è legato all’avvocato. Questa è una delle più lunghe, temporalmente, inchieste di Maigret. Il tempo passa, non si fanno passi avanti su Franz, e la polizia dedica del tempo all’avventura della signora Maigret. Scoprendo che la signorina presunta amica, seguendone i percorsi in taxi, si era recata da un losco figuro, a sua volta legato a tal Alfred Moss. Ex-acrobata ed ora, da anni, truffatore a tempo pieno. Tanto che tutti i grandi alberghi gli negano l’ingresso anche solo nei loro atri. Il divertente è che anche la signora Maigret fa delle sue indagini, colpita dall’insolito cappellino della signorina. Gira che ti rigira sarà lei a scoprire che il cappello è stato acquistato dalla ricca contessa italiana Panetti. La quale ha una dama di compagnia italiana, Gloria, che corrisponde alla descrizione della signorina stessa. Indagando sulla contessa, misteriosamente scomparsa, Maigret collega Gloria, il suo amante, il figlio di Gloria proveniente da un precedente matrimonio, e l’amico dell’amante, che non è altro che Alfred. Il tutto precipita verso la soluzione quando si scopre, ma solo dopo un mese, una macchina finita in un ramo della Senna a pochi chilometri da Parigi, e con dentro il corpo della contessa. Uccisa con un colpo di pistola. Non avremo subito tutte le soluzioni dei vari personaggi, che Simenon relega in alcuni trafiletti finali che ci faranno avere le chiavi finali della vicenda. Avremo soltanto un lungo colloquio-interrogatorio tra Maigret e Franz, quando il nostro commissario scopre che Alfred e Franz sono fratelli e che, un mese prima, era stata pubblicata una sua foto in compagnia della moglie. Ma i nodi ve li lascio leggere con calma. Notiamo soltanto alcune altre chicche del romanzo, che è intrigante ma non riuscitissimo come i primi tre. A parte il ruolo della signora Maigret, inusuale e quasi mai ripetuto, abbiamo anche una serata al cinema della famiglia Maigret (peccato non sapere che film sono andati a vedere), preceduta anche da una cena al ristorante, dove il nostro si prenda la sua solita choucroute. Che, per chi non lo ricordasse, è un piatto di crauti contornato da diversi tagli di carne di maiale (salsicce, lardo, cotechino e altre cose leggerissime). Inoltre c’è un’insistenza spaziale nel collocare pedinamenti e appostamenti alla casa di Franz, tra Place des Vosges e rue de Turenne, e le avventure della signora Maigret, sotto Montmartre, tra place d’Anvers e rue Lepic. Ah, quanti ricordi delle mie passeggiate solitarie su e giù per Parigi.
“Le memorie di Maigret”
[tit. or.: Les Mémoires de Maigret; ling. or.: francese; pagine: 613 – 745 (132); anno 1951]
Momento cruciale nella vita di Simenon, che ne approfitta anche per fare un punto proprio dei suoi rapporti con il personaggio amato-odiato, ma che quanto meno è quello che gli consente i maggiori incassi. Gli dà da vivere e da poter scrivere anche i suoi romanzi “di letteratura”, come a volte si esprime. Non è un caso che passino ben 9 mesi tra la stesura dell’ultimo Maigret e questo nuovo capitolo della saga. Nove mesi cruciali: per le leggi americane non può riconoscere il figlio John nato in settembre del ’49. Allora il 21 giugno del ’50 a Reno nel Nevada divorzia da Régine Renchon ed il 22 giugno (cioè il giorno dopo!) sposa Denyse Ouimet. Secondo colpo di testa: i “nuovi” Simenon decidono di tornare verso l’Atlantico e Simenon compra una villa, chiamata “Shadow Rock Farm” a Lakeville nel Connecticut (a metà strada tra New York ed il Canada di Denyse). Tigy, con Marc e Boule, invece, risiede in un’altra villa, “Salmon Creek”, nel villaggio di Lime Rock a quattro miglia a sud-est di Lakeville. La vicinanza con il Canada fa sì che spesso sia nella fattoria la madre di Denyse, egocentrica e chiacchierona, che tiene tutti alzati sino a dopo la mezzanotte (e Simenon era invece abituato ad orari più regolari), così che il nostro non riesce a scrivere nulla di lungo e/o impegnativo. Solo in settembre, senza suocere, e rintanato nello studio in nove giorni butta giù un nuovo Maigret. Ma come detto è un Maigret che serve da raccordo, che fa un punto del passato e mette delle basi per l’avvenire. Simenon ha bisogno di costruire una storia organica intorno al suo personaggio, quasi a dargli delle fondamenta. Poiché sino ad ora, ogni romanzo nasceva da un’idea, senza che lo scrittore si curasse più di tanto di una “storiografia” di Maigret. Non è come gli autori seriali moderni, che sembrano facciano nascere i loro personaggi con tutta una storia intorno, e che li seguono nel percorso di vita, tipo nascita, matrimonio e morte. Eccoci allora con queste “memorie” che non tirano fuori nessun mistero, nessun giallo, ma danno modo di mettere una serie di puntini sulle frasi della vita del commissario. Certo, Simenon consulta i suoi appunti di modo che, in queste memorie, noi che abbiamo letto i precedenti 34 romanzi ci ritroviamo nessi ed annessi. Da un lato, quindi, ci ritroviamo ad ancorare il personaggio alla sua storia, in modo che Simenon ci dica: “guardate è un poliziotto vero, non un’invenzione”. Abbiamo la giovinezza in campagna, dove nasce nel 1887, dove il padre è amministratore di un castello e delle fattorie afferenti. Ad otto anni la madre muore in seguito ad un parto mal riuscito, soprattutto a causa del maldestro medico. Che però non verrà mai rimproverato dal padre Evariste, e questa sarà una forte lezione per il futuro “accomodatore di destini”. Visto che il padre è solo, il piccolo Jules viene affidato ad una zia paterna e va a vivere in quel di Nantes, dove studia, fa il liceo, poi inizia gli studi di medicina. Nel 1906 il padre, 44 anni, muore di pleurite. L’anno successivo anche la zia muore di pleurite. Maigret abbandona gli studi, va a Parigi per cercare un lavoro, abita vicino alla Senna, e scopre un vicino, ispettore di polizia, che lo affascina, e decide di diventare poliziotto. Qui c’è un piccolo salto temporale, per noi che ricostruiamo la storia. Dovrebbe essere l’inizio del 1908, ma invece si dice che Maigret diventa agente ciclista nel 1909. Si fa ben presto notare, tanto che viene chiamato a fare il segretario nel commissariato del IX arrondissement (come abbiamo visto nel romanzo “La prima inchiesta di Maigret”). Alcuni anni dopo incontra per caso un ex-compagno di liceo, che sta facendo il filo ad una signorina, e che lo convince ad accompagnarlo, per non sentirsi solo, ai venerdì di casa Léonard. Lì conosce questa signorina, Louise, che non ha interesse per l’amico, ma che si interessa a Jules. Maigret-Simenon ci dona alcune descrizioni di questi venerdì e dell’imbranato comportamento di Jules e delle dolcezze di Louise che sono mirabili. Nel 1912 trova una nuova casa, dove pensa di abitare per poco tempo ma che sarà la sua casa di sempre, al 132 di boulevard Richard-Lenoir. Lo stesso anno sposa Louise. Il resto delle memorie sono occupate da considerazioni sulla polizia, sul suo ruolo nella stessa e sui comportamenti suoi presso la Polizia Giudiziaria. Ma la cosa più intrigante è l’attacco, ed alcune considerazioni sparse, riguardanti i rapporti tra Maigret e Simenon. Il commissario racconta la finzione di una sua conoscenza con lo scrittore intorno al 1927, quando questi visita a più riprese il Quai des Orfèvres per capire le dinamiche poliziesche e seguire alcune indagini. Che convoglierà nei suoi scritti. È divertente questo intreccio di finzione nella finzione, con Maigret che si lamenta del fatto che lo scrittore riporti solo i casi più eclatanti, dimenticando (omettendo) la vita quotidiana e ben più significativa, secondo il commissario. Divertente al quadrato è la confessione che Maigret ha uno scaffale con tutti i libri di Simenon, da lui sottolineati nelle parti che lo scrittore ha modificato. Perché secondo Simenon, lo scrittore vero, a volte bisogna enfatizzare e modificare la realtà per rendere il racconto più “veritiero”. Una affermazione che, benché da discutere, ha un suo fascino. Dice Simenon: “la qualità della verità è di essere semplice, ed io ho semplificato”. Tutto per dimostrare alla fine che Simenon e Maigret sono realmente amici, tanto che Louise, in fine di romanzo, sta sferruzzando delle babbucce a maglina per il piccolo John! Solo un’ultima precisazione: durante il primo incontro, il commissario Maigret parla degli usi e costumi del tempo, ricordando la liberalità che andava percorrendo la città, e citando come uno degli elementi il libro, secondo lui appena uscito, di Victor Mergueritte “La Garçonne”. Libro che andrebbe ripreso in altro contesto, ma che qui ricordiamo solo per essere uscito 5 anni prima degli avvenimenti descritti. Più attenzione Georges!
Mentre ci si prepara ad un altro week-end di assoluto riposo, come ben sapete e non ripeto, mentre ci si prepara, anche, alla fine del mese in quelle terre mediorientali che non ci si stanca mai di visitare, ricordo a tutti che si aprono scenari interessanti per un settembre “cino-veneto”. Per chi non capisce cosa dico, rimando ai siti dove lo si spiega.

martedì 25 aprile 2017

Maigret 6 - 25 aprile 2017

Scusandomi del ritardo, dovuto ad un piacevole, lungo week-end sorianese, eccoci a riprendere le fila interrotte del nostro commissario. Eccoci ad altri 5 romanzi, che segnano l’interessante transizione tra il periodo francese ed il lungo auto-esilio americano. Ne parlo a lungo, all’interno, sui motivi della fuga di Simenon all’estero, qui non ci torno. Ribadisco soltanto, che questi primi 6 volumi hanno un interessante spessore ed una gradevole lettura.
Georges Simenon “I Maigret – volume 6” Adelphi s.p. (regalo di mamma)
[A: 28/11/2014– I: 11/12/2016 – T: 19/12/2016] - &&&&& 
[tit. or.: vedi singoli libri; ling. or.: francese; pagine: 828; anno 2014]
Passano le scritture, aumentano i romanzi, ed aumenta il piacere della lettura. Siamo anche ad una scrittura di transizione perché in questo volume compare l’ultimo romanzo scritto in Francia poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, ed i primi quattro romanzi scritti nel volontario esilio americano. Per una serie di incomprensioni e di ripicche, la Francia non è più gradita a Simenon, che decide di partire per l’America. Vuoi per liberarsi dell’editore Gallimard con cui non ha mai avuto un buon rapporto, vuoi per avere più spazio alla sua vita. Spazio che troverà con la segretaria-amante-moglie franco-canadese. Romanzi che ci danno sempre più il piacere di vedere come Simenon ci fa immergere in atmosfere spesso diverse e distanti (come nel primo romanzo americano “Maigret a New York”). Romanzi che ci permettono anche di dare un minimo di raccordo storico con la vita del personaggio, attraverso l’ultimo della serie (“La prima inchiesta di Maigret”). Simenon non ha mai tenuto conto di una scrittura seriale progressiva, facendo saltare Maigret sull’onda del tempo. Ma qui ci dà alcuni punti fermi della partenza del personaggio, nella sua prima inchiesta, che inizia il 15 aprile 1913.

Titolo
Scritto
Uscito
Data
Luogo
La furia di Maigret
Giugno 1945 – 4 agosto 1945
Iniziato in rue de Turenne, Parigi e completato a Saint-Fargeau-Ponthierry (Francia)
22/07/1947
Maigret a New York
27 febbraio – 7 marzo 1946
Scritto a Sainte-Marguerite-du-Lac-Masson (Québec)
25/07/1947
Le vacanze di Maigret
11 – 20 novembre 1947
Scritto a 325 W. Franklin Street, Tucson, Arizona (Stati Uniti d'America)
14/06/1948
Il morto di Maigret
8 – 17 dicembre 1947
Scritto a 325 W. Franklin Street, Tucson, Arizona (Stati Uniti d'America)
Maggio 1948
La prima inchiesta di Maigret
22 – 30 settembre 1948
Alla tenuta Stud Barn di Tumacàcori, un'antica riserva indiana, ora parco storico naturale nei dintorni di Tucson, Arizona (Stati Uniti d'America)
15/02/1949

“La furia di Maigret”
[tit. or.: Maigret se fâche; ling. or.: francese; pagine: 9 – 145 (136); anno 1947]
La guerra è finita, e dopo aver superato alcuni problemi dovute alle sue frequentazioni eterodosse, Simenon capisce che non ha più spazio in Francia. Vuole partire per l’America ma deve risolvere qualche problema. Senza dubbio i documenti per partire. Ma soprattutto, deve risolvere i problemi con l’editore Gallimard. Nessuna delle due parti è sodisfatta del rapporto, ed allora lo risolvono presto, avendo il nostro scrittore trovato un nuovo editore, piccolo ma che punta su di lui. E fa bene. D’ora in poi i volumi usciranno presso “Presses de la Citè”, edizioni gestite dal franco-danese Sven Nielsen. Torna quindi a Parigi, ed aspettando i documenti per l’espatrio, nell’estate del 1945, tra l’appartamento di Place des Vosges e la residenza di campagna di Saint-Fargeau (44 km a sud di Parigi) scrive in due mesi un nuovo romanzo, questo “Maigret si arrabbia”. Che uscirà a puntate su France Soir nel 1946, poi in volume presso il nuovo editore solo nel luglio del 1947. Inoltre, questo romanzo verrà anche ricordato come il più breve tra tutti quelli pubblicati con protagonista il nostro commissario. Tanto che alcune bibliografie lo pongono tra i racconti lunghi. Sono inoltre due anni che non scrive di Maigret, e, come spesso accade quando i due si allontanano, c’è come una reticenza, come una voglia dello scrittore belga di tirarsi indietro, di far uscire Maigret dalla scena. Tant’è che il romanzo comincia con una scena bucolica: Maigret e signora sono in campagna, ormai da due anni. Maigret è in pensione, e l’unica sua preoccupazione è l’invasione di dorifore che distruggono le sue amate melanzane. L’idillio è interrotto dall’arrivo dell’ottantunenne Bernadette Amorelle, intrepida vegliarda, che gestisce la ditta fondata dal marito e che viene lì per intimare all’ex-commissario di indagare sulla morte (che la polizia ha etichettato come suicidio) della diciasettenne nipote Monita. Travolto dalla verve di Bernadette, ed essendo sempre “un poliziotto dentro”, Maigret decide di accettare l’incarico e di trasferirsi qualche giorno a Orsenne (cittadina fittizia che dovrebbe essere in realtà Le Coudray-Montceaux, a pochi chilometri da Saint-Fargeau dove Simenon scrisse la maggior parte del libro, ed ora abbastanza nota in quanto, nel suo comprensorio, ha sede IKEA Sud!!!). come al solito poi, in questi casi, sarà un’inchiesta fulminea, che occupa solo cinque giorni di un caldo agosto francese. All’inizio sembra che Simenon voglia mescolare presente (pensionistico) con il passato (l’infanzia di Jules per intenderci) facendo incontrare ad Orsenne Ernest Malik, suo antico compagno di scuola, che lui non aveva mai particolarmente avuto in simpatia, tanto che da Maigret e dagli altri era soprannominato “l’Esattore”. Sia per la professione del padre, sia per le sue doti di racimolare spiccioli ovunque. Ora Malik è genero di Bernadette, avendo sposato la figlia maggiore. Maigret si aggira per le rive della Senna, incontrando vari personaggi, e cominciando a ricostruirsi nella testa un filo logico di tutto ciò. Ci sono Ernest con la moglie Laurence, sottomessa ed impaurita, ed i due figli Jean-Claude, tutto nel solco paterno, e Georges-Henry, più giovane ed irrequieto. C’è Charles, il fratello di Ernest, con Aimée, sua sposa e sorella di Laurence. In lutto per la morte della figlia Monita, con Charles che sembra un po’ più ebete del necessario, ed Aimée altrettanto sfasata, ma con la testa altrove. C’è infine Désiré Campois, il fondatore con Amorelle della ditta ora governata da Bernadette. Vecchio e quasi incapace di volontà propria, che scopriamo aver perso quando un po’ meno di venti anni prima il suo unico figlio Roger si è suicidato. Da mezze parole e grandi bevute, Maigret capisce che tra Georges-Henry e Monita c’era del tenero. Accorgendosi anche che Ernest tenta in tutti i modi di tenergli lontano il figlio, arrivando a sequestrarlo. Con una breve puntata a Parigi, che dista meno di 40 chilometri, Maigret non solo ha modo di salutare i suoi collaboratori: Lucas, Janvier, Torrence. Ma anche di ingaggiarli al volo in una piccola opera di ricerca sulla storia della ditta, sulla morte di Roger, e su quanto si possa sapere dei contorni della vicenda. Trova anche il modo di liberare Georges-Henry, di tenerlo al sicuro lontano dal padre. Scoprendo anche tutta la successione delle turpi vicende. Siamo nel lato umano-cattivo di Maigret. Non ci sono grandi elementi polizieschi, grandi misteri. Vediamo come in un film scorrere il passato, dove Roger amava Laurence fino all’intervento di Ernest. Che lo porta a giocare a carte, a perdere ed indebitarsi. Ernest fa anche in modo di comprare tutti i debiti di Roger. Quando questi è sul lastrico, non lo aiuta di certo, spingendolo al suicidio. Frequentando Roger inizia ad essere anche presente in casa Amorelle, avendo un debole verso la piccola Aimée, all’epoca quindicenne. Quindi, per far carriera, non trova meglio che, dopo aver messo incinta la piccola, sposare la sorella, far sposare il fratello con Aimée, ed introdursi nella vita degli Amorelle e Campois come un grande burattinaio. Quando, spaventato dal rischio che la vecchia lo diseredi, parla con il fratello, tirando fuori tutta la storia, Monita lo ascolta nascostamente, capisce che si è innamorata di Georges-Henry ma che questi è suo fratello, capisce le turpitudini dei suoi padri veri e finti. Decidendo quindi realmente di suicidarsi. Ovviamente questa è la storia ma non la fine, che sarà subita da Maigret senza poter intervenire. Ma che ha una sua logica. Il testo, in fondo, si riscatta solo un po’ nel finale, quando i nodi arrivano al pettine. Prima era un po’ troppo vagante senza una meta precisa, senza uno scopo sicuro. Come se, per l’appunto, la scrittura su commissione portasse Simenon a scrivere con il corpo ma non con la testa. Rimane solo il piccolo cammeo iniziale, della descrizione della signora Maigret che sgrana i piselli in campagna che è da antologia. Ricordo infine brevemente, che, fino ad ora, questo è il secondo romanzo con Maigret pensionato, essendo il primo quel “Maigret” del 1933. Altri erano i pensionistici modi di agire, ma per ora tutti nei racconti. Piccolo inciso: ho anche imparato una parola nuova, che non sapevo che lo sbarramento idraulico delle chiuse si chiamasse “paratoia”. Vai con la cultura!

“Maigret a New York”
[tit. or.: Maigret à New-York; ling. or.: francese; pagine: 149 – 309 (160); anno 1947]
Simenon ha finalmente il passaporto per lasciare la Francia, e le sue preoccupazioni. Ed è talmente irritato con Parigi e le sue insinuazioni, che non tornerà più. Almeno in Francia, perché ora parte per l’America, dove vivrà dieci anni. Ma al ritorno si stabilirà in Svizzera. Comunque, nell’ottobre del 1945, con Tigy e Marc si imbarca per New York. Ma la Grande Mela è troppo caotica, soprattutto per il figlio. Quindi installa la famiglia in Canada. Tuttavia, benché ne sappia d’inglese, ha anche bisogno di una segretaria. Prenderà quindi servizio Denyse Ouimet, una franco-canadese bilingue di 25 anni. Simenon ne ha 42, ma, come sappiamo dalla fama e dalla sua autobiografia, non disdegna le donne. Già dopo il primo incontro i due vanno a letto. Poi si instaura una coabitazione multipla con lo scrittore, la moglie ufficiale, la segretaria-amante, il figlio e, ma solo a partire dal 1947, la tata Henriette detta Boule (che non vi ho detto ma già da 15 anni è l’amante “casalinga” di Simenon). Mentre tutto questo si evolve, nel febbraio del 1946, con la famiglia nel Québec e lui su e giù tra Québec e New York, da mano al primo dei numerosi “romanzi americani”. Completato in poco meno di dieci giorni, è già in grado di farci sentire l’odio e l’amore che Simenon avrà sempre per l’America. Soprattutto, però, notiamo alcune innovazioni stilistiche, un modo a volte più rapido, “americano” si direbbe, di affrontare le situazioni. Ed una scrittura che tiene conto, quindi, anche dei suoi lettori locali, e non solo dei francofoni europei. Una volontà anche di rimandare ai suoi lettori le sensazioni americane, la sua visione della città (che aveva immortalato immediatamente dopo l’incontro con Denyse in “Tre camere a Manhattan”, interessante libro che venti anni dopo Marcel Carné porterà sullo schermo con una stupenda interpretazione di Annie Girardot). Per fare in modo che i destini si incrocino, Simenon lascia ancora in pensione Maigret, che, nel suo buen retiro di Meung-sur-Loire viene visitato da Jean Maura, un diciannove, preoccupato dalle strane ultime lettere del padre, che, ricchissimo, vive a New York. L’ex-commissario (e qui Simenon ci fa fare uno strano salto temporale, perché nel precedente romanzo era in pensione da due anni mentre ora è solo un anno che si è ritirato; misteri della scrittura) si fa prendere dalla storia, ed un po’ indolentemente i due si recano a New York. Dove, appena sbarcati, Jean scompare, e Maigret, solo, incontra il padre, Little John, ed il suo segretario, Jos, all’hotel St. Regis (che guarda caso, è a pochi passi dal Darke Hotel, primo albergo di Simenon a New York). Maigret non li trova simpatici, e cerca rifugio nel suo amico dell’FBI, O’Brien (che guarda caso si chiama come il mentore americano di Simenon, insegnante di letteratura francese ad Harvard). Che gli trova un albergo a Broadway e gli presenta uno strampalato detective, che, pur sfasato, troverà le informazioni che Maigret di volta in volta gli chiede. Perché Maigret non è convinto dell’atteggiamento di Little John. Indagando nel passato scopre che questi ed un suo sodale, Joseph, molti anni prima, emigrano dalla Francia per cercare fortuna in America. Come un duo da circo, Little John al violino e Joseph al clarinetto. Tramite il detective, Maigret risale alla storia dei due, agli ingaggi, al coinvolgimento di Jessie, una ragazza che comincia a seguirli nelle tournée. La storia non ha un grande pathos, essendo tutta svolta da un lato per farci vedere Maigret girare per la città (e gustarne le descrizioni del belga neofita americano) e dall’altro a dipanare la storia di Little John. Ma questa, che dovrebbe essere la parte “noir” del romanzo, scivola un po’ via. Certo vediamo dei gangster (o meglio, dei loschi figuri americani) irrompere sulla scena, uccidere il povero sarto napoletano ottantenne Angelino, e commettere altre nefandezze, per cercare di mettere le mani sull’impero di Little John. In questi aiutati dal segretario Jos, che frequentava brutte compagnie. Ma sei mesi prima si presenta da Little John, si rivela come suo figlio naturale. Cioè, come figlio di Jessie. Ma chi è il padre, Little John o Joseph? Jessie è morta, uccisa da Little John inavvertitamente, per un soprassalto d’ira quando questi scopre che, benché sposati, Jessie, durante un suo forzato allontanamento, va a letto con Joseph. Ma Joseph, invece, è vivo, dirige un’orchestra in Francia, e nell’epilogo finale, viene raggiunto telefonicamente da Maigret. Che aveva convocato tutti nella sua stanza: Little John, Jos, Jim Parson (un giornalista che era stato l’iniziatore degli ultimi ricatti) ed il tenente Lewis della polizia. Qui avremo il dipanarsi degli ultimi misteri, e la successiva partenza di Maigret per la Francia natia. A New York rimarranno i rimpianti di chi ora ci vive, ed i castighi per i cattivi. Certo non vi dico questa parte, che scoprirete leggendolo. Invece condividiamo le atmosfere. Quando O’Brien porta al ristorante Maigret, facendogli mangiare piatti francesi con lo stesso sapore “casalingo” che avevano a Parigi (stupore del viaggiatore Simenon). Quando con il detective dalla faccia da clown Maigret si aggira nel Bronx, quando cerca di indagare da solo, nel suo stentato inglese, in posti dove si parla di tutto (napoletano, polacco, anche francese, ma di certo poco inglese, lì dove sono immigrati di tutte le razze). Quando Jos lo porta in un ristorante di classe a bere cocktail raffinati. Quando va con O’Brien prima e con Jim poi in birrerie malfamate, dove gli americani tentano di convertirlo, inutilmente, al whiskey. Con un’ultima chicca nelle ultime righe: Maigret chiede ai suoi amici americani di mandargli un “appareil à disques”. Dove molti gridarono all’incongruenza, visto che il voltaggio americano non è utilizzabile in Europa. Peccato che, tuttavia, i “grammofoni” furono inventati solo nel 1948. Qui siamo due anni prima, e l’apparecchio di cui sopra non può che essere un “78 giri a gommalacca”, con la carica a manovella. Utilizzabile ovunque nel mondo. Per finire e tornare a Simenon, è un buon libro, dove il nostro autore cerca sempre più di far convergere la sua scrittura tra i romanzi del commissario e quelli “puri e duri”. Vediamo infatti atmosfere, descrizioni di personaggi e di luoghi, ed altri stati d’animo e di predisposizione delle storie, che fanno pensare, appunto, ad una “tranche de vie” raccontata dove casualmente un protagonista è, anche, commissario. Si sente, inoltre, che il Nuovo Mondo, ha dato nuova carica alla sua penna (o forse è stata la nuova segretaria?).

“Le vacanze di Maigret”
[tit. or.: Les vacances de Maigret; ling. or.: francese; pagine: 313 – 478 (165); anno 1948]
Non è un caso che passi più di un anno e mezzo perché Simenon metta mano ad uno nuovo Maigret lungo (lungo, perché a metà del ’46 aveva intanto scritto 4 racconti con Maigret protagonista). Anche se lo fa con un piglio deciso e con una sicura riuscita. Si avverte quasi che, nonostante il tema non sia allegro (parliamo sempre di inchieste e di morti), lo spirito dell’autore vola sulle ali di una interna contentezza. Infatti, ha cominciato ad apprezzare “la vita americana”, come la chiama. Dopo aver passato sei mesi nel Québec, si avvicina al sud con altri sei mesi a Saint Andrews, sempre in Canada ma vicino al confine con il Maine. Poi compera delle auto usate, e passa altri sei mesi a Sarasota, in Florida, sulla spiaggia (non a Miami che visitò e che non gli piacque). Quindi si sposta ancora, e nell’agosto del ’47 arriva a Tucson in Arizona. Queste zone saranno per lui un ritorno all’antico, ritroverà “le plat pays”, come direbbe Jacques Brèl, il suo nostalgico Belgio. L’altro elemento di allegria è il rapporto che si va consolidando con Denyse, soprattutto ora che Tigy è tornata per qualche mese in Francia, da dove tornerà anche con la tata Boule. Simenon ritrova al completo i suoi complicati intrecci d’amore e d’affetto (la sua vita con le donne meriterebbe un libro tutto suo). Questa allegria la riversa nelle simpatie di questo romanzo. Dove, per non far tornare subito nel pieno delle sue funzioni, fa passare il nostro commissario per un periodo di vacanze. E dove trascorrere le vacanze se non in quel Sables-d’Olonne, sulle rive atlantiche francesi, dove lui stesso passò alcuni mesi convalescente alla fine della guerra? Qui scatena un meccanismo ad orologeria perfetto. Si comincia con un attacco d’appendicite della signora Maigret, dopo un’abbuffata di cozze. La signora è ricoverata in ospedale, gestito da suore. Già questo rende ben visibile i contrasti tipici di Simenon: il grande commissario, pesante e sbuffante, in un ambiente che si rompe al primo tocco, cristallino come quello delle suore. Tutta la prima parte è un farci calare nell’ambiente, con i vari personaggi, con i bozzetti che a Simenon piacciono tanto. Suor Marie des Anges, diafana, delicata, giovane e preoccupata. La vicina di letto della signora Maigret, malata di cancro, ma acida e pungente.  I signori dell’hotel, dove va a bere un bianchetto, che inanellano lunghe partite di bridge: il dottor Bellamy, luminare locale, il commissario Mansuy, contento delle frequentazioni con l’illustre collega. L’albergo ed il calvados con il proprietario. Si crea l’atmosfera, e quindi si comincia a mettere delle zeppe nelle ruote oliate. La suorina lascia un sibillino messaggio nelle tasche del cappotto di Maigret. Una signorina muore in ospedale, dopo essere cascata accidentalmente fuori dalla macchina. È Hélène, la cognata del dottore. Maigret tenta di capire, tra il commissario locale ed il dottore stesso, cosa ci sia che non ruota, cosa ci sia che suona falso. In casa Bellamy, Maigret e Bellamy incrociano una ragazzina che fugge spaventata. Maigret tenta di ritrovarla, ma prima di lui la troverà qualcun’altro. Lucille muore strangolata. Scopriamo anche che pochi giorni prima, Émile, il fratello di Lucille, giovane di buone lettere e belle speranze, è misteriosamente scomparso per andare a fare il giornalista a Parigi. Ma Maigret, tramite il fido Janvier, scopre che Émile non è mai arrivato nella capitale. Su tutto aleggia la presenza della moglie di Bellamy, Odette. Che si dice bellissima, ma che non vedremo mai per tutto il romanzo. Mentre prosegue l’inchiesta ufficiale sulla morte di Lucille, affidata a due investigatori dall’evocativo nome di Piéchaud e Boivert (come non pensare ad una piccola parodia di Bouvard e Pecuchet di flaubertiana memoria?), Maigret segue una sua idea. Cercando di penetrare nell’animo della piccola cittadina. Che, ricostruita nella memoria ed a più di due anni dalla sua visita, ci viene riproposta con un’esattezza da Google Maps. Memorabile è lo scontro con le suore, in particolare con la Madre Superiora, da dove Maigret esce con la certezza che Hélène sapeva qualcosa, in particolare di un tagliacarte. Seguendo poi le possibili mosse di Odette, arriva alla sua amica sarta, Olga, ed al suo ruolo di chaperon verso il nascente amore tra Émile e Odette. Memorabile, per la sua costruzione dialettica, sarà lo scontro finale tra Maigret e Bellamy. Che sappiamo ormai colpevole, preso da una gelosia irrazionale ma totalizzante verso la bella moglie. Tanto da uccidere per non lasciarla andare via. Tanto da costruirsi un muro di donne prone al suo fascino, che lo aiuteranno sempre: la madre, la cameriera Jeanne, anche la stessa Hélène, che sul punto di morte rivendica la non colpevolezza del dottore. Inoltre, Maigret non ha una prova tangibile da mostrare in un possibile processo. Sarà in queste ultime trenta pagine che si consuma la maestria di Simenon (e di Maigret). Riuscirà il commissario a trovare il modo di far arrendere il dottore? Tutto da leggere questo finale. Ripeto, è una costruzione tipica del Simenon di alto livello. Si comincia piano, si introduce l’ambiente, i personaggi (anche qualcuno in più per sviare, se possibile, l’attenzione). Poi un dramma, un’inchiesta, una soluzione che Maigret ha già trovato pagine e pagine prima di noi. Infine lo scioglimento delle tensioni, l’arrivo al finale. Sempre con quell’amaro presente nei migliori Simenon. Che il mondo non è mai bianco e nero, ma di molto grigio. Il nostro autore l’ha ben presente, e qui ne fa corpo di una trama molto intensa. Non dimentichiamo, nella lettura del contesto, che il rapporto tra amore e gelosia è una costante del pensiero del nostro.
“Di che cosa parlava con sua moglie quando stavano insieme nella vita normale? Di niente, tutto sommato… Perché, allora, lei gli mancava tanto nel corso della giornata?” (317)
“Se ci fossimo detti addio, non avrei più avuto la forza di partire. … Sono molto maturato in questi mesi.” (429)

“Il morto di Maigret”
[tit. or.: Maigret et son mort; ling. or.: francese; pagine: 481 – 657 (176); anno 1948]
Come sappiamo, Simenon si è ormai sistemato a Tucson, in una villa in Franklin Street, molto grande e con una dépendance che il nostro userà come studio. Nella villa invece, vivono la sua segretaria-amante Denyse, la moglie Tigy con il figlio Marc ed ora anche la cameriera-amante Boule che finalmente è riuscita anche lei ad avere i documenti per vivere in America. Comunque è nello studio lontano dal corpo principale che scrive alcune delle più interessanti storie del periodo. Ad esempio “La neve era sporca” per i romanzi senza Maigret. E questo “morto” che racchiude alcuni momenti eponimi del commissario e del suo mondo. Intanto, Simenon fa tornare Maigret all’interno della sua Squadra Speciale, e del suo ufficio al Quai des Orfèvres. Quasi a far rinascere il personaggio dalle sue ceneri (dopo alcuni romanzi da pensionato; anche se per le strane leggi dell’editoria, in volume questo romanzo uscirà prima del precedente). A sottolineare questo nuovo inizio, c’è anche un ritorno all’antico. Che per molti versi, la trama generale del romanzo sembra ricalcare, in alcuni momenti, il primo romanzo di Maigret, quel “Pietro il Lettone” scritto ben venti anni prima. Malviventi che vengono dall’Est Europa, ricerca delle tracce attraverso stazioni, bar e alberghi. In alcuni momenti, sembra quindi fare una summa dei “topos” principali di Maigret stesso, ed un riuso sapiente di pezzi di storie seminati qua e là nel corso del tempo. Il bandito principale sembra un parente prossimo di “Stan il killer”, un personaggio di un racconto breve di dieci anni prima, molto simili a questo Bronsky (a parte il fatto che Stan è lituano e Bronsky ceco). Inoltre la storia della banda che semina il terrore nella regione della Piccardia (un centinaio di chilometri a Nord di Parigi) viene quasi interamente dal romanzo “Il fuorilegge”, dove però i cattivi erano polacchi. Tipico maigrettiano è invece l’approccio al cadavere, quando nel secondo capitolo si avvicina al morto cercando di studiarlo e di capire qualcosa dai vestiti, dalla postura. Tipico è l’utilizzo di un raffreddore accomodante per non rispondere alle domande dell’antipatico giudice istruttore. Tipico è l’utilizzo della propria casa, in boulevard Richard-Lenoir, come piccola dépendance del suo ufficio: quando è malato, quando parla con la moglie cercando di esternare i propri pensieri per renderli più chiari, quando discute a lungo con l’amico-rivale, l’ispettore Colombani. Tipico, ma come rovescio, è anche l’approccio anti-sherlockiano per capire che l’impermeabile del morto è stato strappato a posteriori. Sherlock avrebbe usato parole su parole per descrivere i tagli, la forma del coltello ed altro. Maigret prende un manichino, lo riveste degli abiti del morto e voilà ecco il risultato. Tipico, infine, è l’attaccamento alla casa di boulevard Richard-Lenoir, non solo nel senso di cui sopra, ma anche come luogo che gli rimandi punti fermi della sua vita (i muri, le finestre), nonché per la lunga passeggiata che da casa lo porta in ufficio (un tragitto di 2,5 chilometri che, confesso, ho fatto anche io tanto tempo fa, in uno dei miei tanti soggiorni parigini). Non tipico, ma divertente, è poi l’attacco, dove per tutto il primo capitolo ci sorbiamo una petulante vecchietta che cerca di coinvolgere Maigret in alcune sue fantasie, ma che, una volta entrati nel vivo, sparirà senza più tornare. Sparisce perché irrompe il dramma. Un uomo cerca di mettersi in contatto con Maigret telefonandogli da diversi bar (ah, se ci fosse stato il cellulare), dicendo di essere in pericolo. L’uomo non riesce a farsi trovare, ma sarà il cadavere che ritroviamo poche pagine dopo in Place de la Concorde. Da qui, scatta la seconda parte del romanzo: chi è, questo “morto di Maigret”? Altro uso di Maigret è lo sguinzagliare i suoi ispettori, sino a trovare le tracce di questo Albert Rochain, gestore di un bistrot ed amante delle corse dei cavalli. Appostamenti nel bistrot, portano alla scoperta di un ceco che si aggira furtivamente, per poi scappare. Victor, questo il nome del bandito dell’est, viene seguito ma finisce male per mano dei suoi stessi complici. Maigret ha però una traccia. E da Victor risale ad un albergo dove trova Maria (che non è ceca, ma slovacca), la donna della banda. Gli altri sono fuggiti, lei no in quanto incinta. Maigret lascia tracce enormi per fare in modo che gli altri componenti escano allo scoperto, perché tutti erano innamorati di Maria. Ci riesce, alcuni muoiono, altri vengono arrestati. Ma quello che più preme è il fatto che (però questo esce un po’ come il coniglio dal cilindro, che non ci si aspettava tutto ciò) la banda di slavi non era altro che la longa manus di un cattivo, il famigerato Jean Bronsky, anche lui ceco. Mentre i malviventi erano la bassa manovalanza, tra l’altro molto efferata, se si narra che Maria torturava i malcapitati e gli altri poi li finivano a colpi d’ascia. Con un finale molto americano, di inseguimenti e spari, la vicenda si risolve. Simenon però ci deve delle spiegazioni, che fornisce durante un colloquio tra Maigret e Nine, la moglie di Albert. Dove si capisce che tutto nasce da un biglietto ferroviario che Albert trova alle corse, che frequenta come Bronsky, e che lega Bronsky ad un viaggio in treno verso la Piccardia. Indizio assai labile, se Albert, nel miraggio di qualche entrata extra, non tenti un piccolo ricatto. Scatenando tutto il putiferio che avete seguito fin qui. Uno dei più lunghi romanzi di Maigret, che segna il suo ritorno al centro della scena. Quasi da studiare come un manuale esegetico e di riferimento delle sue gesta, se qualcuno ne fosse capace.

“La prima inchiesta di Maigret”
[tit. or.: La première enquête de Maigret (1913); ling. or.: francese; pagine: 661 – 828 (167); anno 1949]
Come sappiamo l’erranza di Simenon è ormai proverbiale anche qui in America. Dopo sei mesi di Tucson, dovendo riconsegnare la casa di Franklin Street, decide di acquistare due case nel villaggio di Tumacacori, quasi al confine con il Messico. Lì trasferisce tutta la “grande famiglia” con moglie, figlio e amanti. Qui Simenon dice di aver trovato un posto dove restare a lungo, forse anche per quel grande Parco, ora diventato Nazionale, forse per quella storia di missioni gesuite. Non è comunque un momento facile per la sua vita quotidiana, Tigy è insofferente, Denyse reclama di più. Simenon nella scrittura si rifugia nel più profondo americanismo (qui scriverà “Il fondo della bottiglia” uno dei suoi romanzi più americani) o nella nostalgia. Tanto che decide di dare una scena retrospettiva a questo suo personaggio, amato e odiato, ma che qui diventa protagonista del suo trentesimo romanzo. Non è certo poco (e vedremo come e quanto continuerà). Nella solita scrittura veloce (è anche il primo romanzo che scrive direttamente a macchina) in dieci giorni nel settembre del ’48 completa questa “Prima inchiesta di Maigret”. Inchiesta che si situa nel 1913, con un giovane Maigret di 26 anni, da quattro in varie assegnazioni poliziesche e da cinque mesi felicemente sposato. Visto che scrive avendo già dato ai lettori il senso di questo commissario (ricordo che nei precedenti 29 romanzi si è visto di tutto, dalle inchieste con inseguimenti, alle ricerche puntuali in alberghi e brasserie, fino ad alcuni romanzi in cui Maigret è già pensionato), Simenon si prende lo sfizio di darci alcune pennellate di quello che lui sta costruendo per il suo proprio Maigret personale. Svelandoci alcuni punti che erano e saranno caratteristici del commissario. Ma soprattutto dandoci quella definizione di “accordatore di destini”, che è il vero mestiere che il nostro Jules voleva fare. Aveva iniziato a studiare medicina, ma la morte del padre lo ha costretto a cercarsi un lavoro. Un amico del padre, grande capo al Quai des Orfèvres, lo induce ad impiegarsi nella polizia. Ora è segretario del commissario Maxime Le Bret, capo del commissariato del IX arrondissement. Tuttavia non vede l’ora (e cerca il modo) di avvicinarsi alla “Brigata Criminale”, quella che si occupa di omicidi e che “indaga”. Lì potrà accordare qualcosa, così pensa il giovane Jules. Anche altri sono i misteri che ci vengono svelati: l’amore per la stufa, che lo porterà a conservarla per sempre anche nel suo futuro ufficio che guarda la Senna dall’alto. Assisteremo, nel capitolo quarto, al famoso “scatto”, quel momento in cui tutto si ordina nella mente del commissario. Uno scatto che diventerà leggendario. Qui utilizza già una “malattia” per allentare qualche tensione e per risolvere l’inchiesta. Qui inizia la saga delle bevute, che appesantisco il nostro, ma che gli danno quella lentezza caratteristica e che tanto abbiamo amato (soprattutto nelle mirabili interpretazioni di Gino Cervi). Nelle more del romanzo, Simenon inzeppa anche la storia del borsaiolo che Maigret tenta di acchiappare, ma che, per una serie di disguidi, si rovescia, tanto che la gente pensa che sia lui, Jules, il ladro (storia che ricorderemo in futuri romanzi). Questa, di storia, incomincia con l’arrivo di un giovane flautista, Justin che tornando a casa dal lavoro, vede una macchina di lusso (una Dion-Bouton) parcheggiata di nascosto con il motore acceso, davanti ad una casa da dove si apre una finestra, una donna chiede aiuto, e si ode uno sparo. Justin chiede lumi, ma il maggiordomo che gli apre lo scaccia in malo modo, colpendolo con un pugno sul naso. Justin spiega tutto questo a Jules che decide di indagare. Senza cavare un ragno dal buco che nella casa sembra tutto a posto. La casa è quella della dinastia del Balthazar, i migliori produttori di caffè della regione. C’è il direttore Richard, trentenne spocchioso, e ci dovrebbe essere Lise, sorella ventenne e scapestrata. È tutto un romanzo d’atmosfera, all’inizio, che, tornato al commissariato, il suo capo gli fa capire che bisogna andare con i piedi di piombo presso i Balthazar. Le Bret è stato sovente a casa loro, sono gente del bel mondo. Ma c’è stata una denuncia, così si arriva ad un compromesso: Maigret continua ad indagare, ma in ferie. Mentre Justin rintraccia la cameriera Germaine che darà notizie utili sui rapporti interni a casa Balthazar, e sui rapporti esterni di Lise, Maigret rintraccia l’auto, gestita da un losco Dédé, ma che soprattutto è amico dello spiantato Bob conte d’Anseval. Anseval che è anche il luogo d’origine dalla famiglia Balthazar. Alla fine sapremo che tutto è legato ad un capzioso testamento del nonno Balthazar e che la vittima è proprio Bob. Nel frattempo, Maigret riesce a trovare Dédé, ma da questi è malmenato. Riesce a farlo arrestare, prima che si rifugga in Belgio, per fare una bella vita con i soldi avuti da Richard per toglierselo di mezzo. Tutti i tentativi di Maigret di portare avanti le indagini, però, anche se fa dei passi avanti, sono frustrati dalla gestione omertosa del bel mondo parigino. Che alla fine opterà per il minor male. Avremo però modo di vedere all’opera il mito di Maigret, il capo-ispettore Barodet cui sarà affidata la chiusura del caso. Non senza che a Maigret venga data una nota di merito che gli permetterò di entrare proprio nella squadra investigativa. Un romanzo ben costruito e che ci dà alcune chiavi di lettura di Simenon e di Maigret. La capacità dello scrittore di ricostruire ambienti e situazioni. Infatti ci da piombare nella Parigi di prima della Grande Guerra, con le velette delle signore, i caffè, i fiacre, nonché gli ambienti vicini a Pigalle. Il rapporto conflittuale sin dall’inizio che Maigret avrà con il cosiddetto bel mondo, e la sua empatia verso chi, per sfortuna e per caso, si trova ai margini della società. Nonché, per finire, il “metodo Maigret”. Non è importante infatti quello che è successo nella notte tra il 15 ed il 16 aprile nella casa Balthazar. Quello è solo l’epilogo della storia. Quando Maigret sarà riuscito ad entrare nei pensieri dei personaggi, gli sarà facile ricostruire chi ha fatto cosa e quando e perché. Una bella chiusura di romanzo.
Spero che queste ricostruzioni facciano piacere a mio cugino Alessandro, appassionato holmesiano, per comprendere analogie e differenze tra i due grandi miti. Continuiamo intanto a programmare gli itinerari israeliani e tutte le intense attività che ci vedranno in prima linea per tutto il mese di maggio.

sabato 15 aprile 2017

No Pitt No Party - 15 aprile 2017

Ovvio che non sto parlando di Brad, non essendo questa una trama di film. Ma di Dirk Pitt, l’eroe centrale ed imprescindibile delle lunghe saghe seriali di Clive Cussler. Mentre qui abbiamo sì Clive e la sua factory di scrittura, ma anche quattro storie senza Dirk. Le prime due dedicate ad un nuovo personaggio, Isaac Bell. Poi due semi-classici, uno degli “Oregon files” ed uno dei “Fargo files”. Tutti che viaggiano intorno alla sufficienza, senza però entusiasmare.
Clive Cussler & Justin Scott “Sabotaggio” TEA euro 9,90
[A: 01/10/2015– I: 27/11/2016 – T: 30/11/2016] - &&& +  
[tit. or.: The Wrecker; ling. or.: inglese; pagine: 462; anno 2009]
Dopo un discreto intervallo temporale (e per essere precisi come sono sempre io, sono due anni che non ne leggevo) riprendo in mano un libro della “Premiata Ditta Cussler”. Ricordo, per i più distratti, che l’ottantacinquenne californiano (d’adozione) cominciò più di 40 anni fa a produrre degli avvincenti romanzi d’avventura, imperniati, inizialmente, sulla figura di Dirk Pitt, paladino della bontà e proto-ambientalista. Andando avanti con gli anni, Cussler, alla serie principale (di cui parleremo quando se ne leggeranno altre avventure, e che, ricordo, risulta aver venduto più di 120 milioni di libri) affianca serie collaterali: la prima imperniata sempre sulla struttura di salvataggio del pianeta, specializzata in interventi marini (facenti capo alla NUMA - National Underwater and Marine Agency), con personaggio principale Kurt Austin, poi appare la serie OREGON, basata su di una organizzazione, anch’essa marina, con sede appunto sulla nave Oregon e con a capo il capitano Juan Cabrillo, con interventi più spostati sul versante “militare” americano (serie non a caso cominciata poco dopo le Twin Tower). Appaiono infine due storie leggermente svincolate dalla precedente: una basata sui coniugi Fargo, che sono ricercatori di tesori nascosti e perduti, e l’altra (e per ora unica) basata agli inizi del secolo scorso, incentrata sul personaggio di Isaac Bell, un detective che ricalca (molto) gli spiriti dei famosi “agenti Pinkerton”. Ed è proprio alla serie di Bell che è dedicato questo romanzo, secondo della serie. Il primo era stato un tentativo onesto di Cussler, che scrisse la prima puntata firmandola da solo, pensando di continuarla solo se avesse avuto successo. Cosa che ha avuto, e, nello stile della ditta “Cussler” dal secondo volume si fa affiancare da uno scrittore, Justin Scott, autore newyorkese di serie “mistery”. Per non perdere la mano, e per far sentire a casa i lettori, l’impianto di questo secondo libro è analogo al precedente. Si inizia posteriormente alla fine delle avventure con un piccolo mistero: Bell, ormai sessantenne (siamo nel 1934), si avventura nelle Alpi austriache per mettere la parola fine alla storia. Che inizia nel 1907, ed è incentrata sulla messa in opera di tronconi fondamentali del sistema ferroviario americano. Nel romanzo precedente (ambientato nel 1906), uno dei nodi centrali fu il terremoto di San Francisco. Qui siamo alla fine del cosiddetto “Panico del 1907”, quando per alcuni mesi il sistema bancario americano sembrò andare in pezzi. Uno strascico dei discorsi su finanziamenti e controlli bancari, viene illustrato nella vicenda del miliardario Hennessy, proprietario di una grossa fetta del sistema ferroviario privato americano. Che investendo soldi ed altro, tenta di costruire un ultimo tratto (rischioso perché prevede un delicato ponte sospeso) che colleghi le ferrovie americane a nord di Sacramento, con il sistema in essere tra l’Utah e la costa atlantica. Gli sforzi di Hennessy sono messi in pericolo da una serie di sabotaggio, che danneggiano linee, uccidono operai, ed in generale, ritardano tutta l’operazione. Per uscire dall’impasse il miliardario assolda l’agenzia Van Dorn, avendo a capo delle operazioni di sicurezza il nostro Isaac Bell. L’idea di fondo, che rassicura il lettore, è che, avendo letto le prime pagine, sappiamo che Bell uscirà vivo da tutte queste avventure. Non solo, ma sposerà la sua bella Marion (con la quale durante tutto il libro ha una serie di incontri fugaci ma intensi). L’alter-ego cattivo di Bell è quello del titolo (che in inglese è appunto “The Wrecker” cioè “Il Sabotatore” e non l’anonimo “Sabotaggio” usato dagli editori italiani). La scrittura non è, soprattutto all’inizio, molto lineare, scontrandosi con molti tecnicismi ferroviari che non si seguono con facilità. Dopo il primo terzo, il ritmo invece (e per fortuna) si stabilizza. E riusciamo anche noi poco adusi a seguire i diversi tentativi del Sabotatore di mettere i bastoni tra le ruote (ferrate) di Hennessy. I primi sabotaggi hanno successo. Non solo ma il cattivone riesce anche ad uccidere alcuni agenti della Van Dorn. L’abilità e l’ubiquità di Bell (molto interessante è la disamina di come muoversi velocemente tra un punto e l’altro del territorio americano prima dell’avvento degli aerei) cominciano a mettere in difficoltà il Sabotatore. Che colpo dopo colpo comincia a perdere terreno, riuscendo Bell a sventare alcune sue iniziative criminose. Ovviamente il cattivo ha una sorpresa finale (basata sulle fragilità dei ponti sospesi). Ed altrettanto ovviamente Bell, non vi dico come, riesce a capirne i meccanismi, ed a sventare all’ultimo momento l’attentato. Ma non ad arrestare il cattivo. Cosa che invece farà nel ’34, con un ultimo colpo di scena in quel di Garmisch-Partenkirchen. Non entro in tutti i dettagli, che forse sono poco interessanti raccontati. Meglio letti, con un bel po’ di castagne al rhum accanto (e magari un caminetto acceso). Lettura riposante, non eccelsa (Scott non mi pare ancora all’altezza di Kemprecos o Dirgo), e tuttavia interessante sia per i meccanismi ferroviari, sia per le connessioni bancarie. Sia infine per le storie (facili e senza complicazioni) degli amori di Isaac e Marion (ed anche di altri che penso ritroveremo nei libri successivi). Per questo dò un voto di fiducia e di speranza di altri momenti rilassanti.
“Io non ho mai fatto quello che secondo gli altri ‘dovrei’ fare. Perché cominciare proprio adesso, quando finalmente ho trovato la ragazza dei miei sogni?” (85)
Clive Cussler & Justin Scott “Intrigo” TEA euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,42 euro)
[A: 02/05/2015– I: 01/12/2016 – T: 07/12/2016] - &&& -  
[tit. or.: The Spy; ling. or.: inglese; pagine: 416; anno 2010]
Come mi capita spesso, la lotteria delle letture propone a ruota un altro Cussler, che ho trovato meno coinvolgente dei precedenti, quasi affiorasse un tono di stanchezza. Questo è il terzo episodio di Isaac Bell. Dopo un po' di ripetizioni nei primi due, qui abbiamo anche delle nuove metodologie da inserire sull’impianto standard di queste avventure. Innanzi tutto comincia direttamente nel vivo dell’azione senza ricorrere all’artificio di cominciare una narrazione e poi saltare indietro nel tempo al tempo del susseguirsi delle azioni storicamente conseguenti. Il primo episodio ricordo era nel 1906 (terremoto di San Francisco), il secondo nel 1907 dopo la grande crisi bancaria e durante il boom delle ferrovie. Ora siamo nel 1908, e l’America, come tutto il mondo, si avvia a grandi passi (almeno visti storicamente da qui a cento anni di distanza) verso il Primo conflitto mondiale. E con grande lungimiranza, molte potenze si dedicano al disegno ed alla costruzione di navi da guerra, più o meno bene armate. Ovviamente questo scatena una sarabanda di spie che si aggirano per l’orbe terracqueo. Non è un caso, quindi, che il libro si intitoli in inglese “la spia”. Non si capisce invece perché in italiano si debba chiamare “Intrigo”. Che è ovvio, dato che in presenza di spie ci sono intrighi. Ma l’idea narrante di Cussler e dei suoi aiutanti è quella di personalizzare i libri verso un antagonista di Isaac Bell: il macellaio prima, il sabotatore nel secondo, ed ora la spia nel terzo. Altre cose sono in via di standardizzazione nel corso del racconto: la morte, a poco a poco, di vecchi investigatori dell’Agenzia Van Dorn, come ad indicare un passaggio generazionale. Solo i top, come il grande capo, Isaac o il suo amico e sodale Archie, sembrano poter reggere l’urto del nuovo. Aggregando alla banda nuovi elementi, che vantano caratteristiche di simpatia e bravura. Ovvio che anche la storia d’amore tra Isaac e Marion procede, e come già sappiamo andrà avanti. Nel romanzo precedente, infatti, festeggeranno a Parigi i 25 anni di matrimonio. E se non vuole essere tacciato di incongruenza, deve mantenere questa costanza di rapporto. Quindi sappiamo anche che, per quanto se la possano vedere brutta, in qualche modo ne usciranno fuori. Al solito, nella migliore tradizione di Cussler, si mette anche qualche particolare tecnico, descrizioni di nuove tecnologie o simili. In questo caso si parla di navi militari e dei loro armamenti. Torpediniere rivestite, cannoni a lunga gittata. Ricordo che siamo nel 1908, quindi ancora niente aerei. Per lunga parte del racconto vediamo spie di secondo piano e di varia nazionalità perpetrare attentati che mettono in difficoltà la marina americana. Che stava, attraverso vari stabilimenti, avviandosi alla costruzione di un tipo di nave molto all’avanguardia, chiamata, non a caso, DREADNOUGHT, cioè non ho paura di nulla. Vediamo anche nell’ombra che tutti questi piccoli spioni sono guidati e coordinati dalla spia del titolo. Bell capisce che i vari sabotaggi minori hanno una mente altra, e di questa si mette in caccia. Caccia che ovviamente si risolverà sono nelle ultime pagine, dove i cattivi pagheranno il fio delle loro azioni. Nel frattempo assistiamo alle diverse avventure che portano i nostri in giro per New York ed altri posti. Vediamo le gang che si battono per il controllo di Hell’s Kitchen, che si alleano con i cinesi emergenti. Entrambi poi coordinati dalla spia per le sue attività. Vediamo Marion che comincia la sua carriera di regista (e sono i primi anni dello sviluppo di questo nuovo mezzo di comunicazione. Vediamo la giovane Dorothy, figlia di uno degli assassinati, iniziare a lottare con Bell. Vediamo aggirarsi Katherine la rossa che non capiamo se ingenua o subdola. Vediamo un orefice tedesco sempre presente nel vivo delle storie, anche se sempre per motivi suoi e validi. Vediamo la spia giapponese che lavora per l’onore nipponico e non per i soldi. Vediamo la spia inglese, forse meno propensa al GOD SAVE THE KING (nel 1908 a Londra c'è Edoardo VII). Vediamo tante lotte e colluttazioni che, quando coinvolgono Bell, in genere vedono i nostri uscire vittorioso. Ma notiamo anche le varie tecniche di lotta. E seguiamo, prima di scoprirne l’identità, la storia della spia, dai bassifondi americani sino al lavoro di gestione degli intrighi aggirandosi per i grandi alberghi. La spia però lavora per il proprio tornaconto, e non al soldo di qualche potenza. Questo porterà Bell, patriottico ante litteram, a non poter che uscire vittorioso. Scende velocemente dagli occhi al cervello, senza troppo ingolfarli. Una lettura facile, anche se non eccelsa. Con un unico appunto di traduzione dove, a pagina 123, parlando di una partita di baseball, vediamo una palla sorvolare il lanciatore sul “tumulo”. Non si poteva usare qualche conoscitore della lingua americana e tradurre “mound” con “monte di lancio” (o bisogna rimandare tutti a leggere le avventure di Charlie Brown?).
Clive Cussler & Jack Du Brul “Giungla” TEA euro 9,90 (in realtà, scontato a 6,93 euro)
[A: 28/11/2014– I: 07/12/2016 – T: 10/12/2016] - && e ¾   
[tit. or.: The Jungle; ling. or.: inglese; pagine: 347; anno 2011]
Dopo una piccola abbuffata del “nuovo” Isaac Bell, eccoci tornati al Cussler classico, al Cussler della scuderia di scrittura, delle serie storiche. Qui, appunto, abbiamo le storie accomunate dal titolo di “Archivi Oregon”, dal nome della nave ammiraglia (e forse unica) che ospita irregolari mercenari che, come dice bene il capitano Cabrillo ad un certo punto, fanno quello che la CIA dovrebbe fare, ma che sarebbe sconveniente se fosse scoperta a fare. Benché il precedente settimo libro degli Oregon lo abbia letto più di due anni fa, devo notare (o far notare e cercare di ricordare senza fare confusione) un’evoluzione ed una discontinuità con questo ottavo volume. Infatti il settimo finiva con la scomparsa di Cabrillo, il grande capo, che non sapevamo se era rimasto ucciso nel delirio finale delle avventure antartiche. Qui lo troviamo vivo e vegeto, quindi si è salvato (ma Cussler non ci spiega il motivo). Però capiamo che qualcosa è andato storto, che gli Oregon non sono più nell’occhio favorevole della CIA e degli Stati Uniti in genere. Come se tutta la storia con i cinesi e gli argentini avesse messo in luce qualche discrepanza di vedute con la linea ufficiale americana. Tanto che Langston Overholt IV, la lunga mano della CIA che aiuta da sempre Cabrillo, viene obbligato a congelare i servizi della Corporazione (e questa è l’evoluzione). Tanto che Cabrillo & co devono cercare qualche contratto solo economicamente rilevante. Come quello che serve a salvare un povero ricco indonesiano che viene convinto da afghani malvagi a diventare un “martire della fede”. Salvataggio che comporta anche il recupero di un “contractor” americano sequestrato anche lui dai cattivi “para al-Qaeda”. Da qui si dipartono le solite, complicate avventure del gruppo comandato da Cabrillo. Anche se non ci dimentichiamo, come uso fare nei “classici” di Cussler che le prime pagine portavano un’avventura di Marco Polo durante i suoi viaggi in Oriente, incentrata sull’uso improprio di alcuni cristalli. Quindi da un lato vediamo uno svolgersi di queste avventure di Cabrillo e soci, contattati da un magnate per salvare la figlia scomparsa nella giungla birmana. In un periodo in cui Myanmar è ancora sotto un rigido tallone di ferro militare. Il magnate impone un suo uomo nella spedizione, cui partecipano, oltre a Cabrillo e la sua vice-presidente Linda, il nuovo entrato MacD (quello salvato in Afghanistan). Tralasciando le descrizioni particolareggiate delle avventure che intercorrono, scopriamo che: a) il magnate non è quello che si crede; b) il suo uomo è in combutta con i birmani ed in un’imboscata fa fare prigionieri Cabrillo e MacD; c) anche MacD non è quello che si crede, ma solo perché ricattato avendo i cattivi rapito la sua figlia di 5 anni. Il tutto serve ai cattivi (dei quali ad un certo punto scopriamo l’identità, con un po’ di malizia, che a quel punto tutti i rivoli si collegano) per costruire un super-computer in grado di entrare in tutti i sistemi mondiali. Perché in Birmania c’erano dei cristalli (quelli di Marco Polo) di non si sa quale materiale, che permettono di costruire un computer superveloce (detto computer quantico, che sappiamo cosa sia teoricamente ma che non esiste ancora; se volete ne discutiamo, ma forse non qui). Il magnate (quello cattivo del punto a.) riesce (uccidendo a destra e a manca) a costruire il mega computer, e con questo riesce a mettere in difficoltà il presidente e tutti gli Stati Uniti. Qui, il Cussler-pensiero si adegua un po’ alla linea corrente, perché mette in mezzo islam e fanatici, ma possiamo, per amore dell’avventura, sorvolare. La parte finale è molto (troppo) veloce. Cabrillo viene ricontattato dalla CIA per salvare il mondo, e, mettendo insieme tutti i pezzi del mosaico costruito per le prime 300 pagine, capisce quale sia il pericolo, e dove sia. Ovviamente, i cattivi periscono, il mondo è salvo, ma riamane il dubbio che il quantum computer abbia ancora qualcosa da dire. L’idea del computer è carina (si passa un po’ dall’avventura alla fantascienza, citando Kubrick e HAL a tutto spiano), e poteva (potrebbe?) essere sviluppato anche meglio. Un computer invasivo, capace di imitare anche la voce umana rischia di diventare uno strumento da far impallidire il Grande Fratello. Per ora Cussler si ferma qui, ma la solidità della trama ne risente un po’, tanto che non raggiunge la mia sufficienza piena. Abbiamo però altri due punti da evidenziare, da buoni lettori. Il primo è un cammeo che Cussler concede al suo co-autore. Infatti Jack Du Brul è autore, prima di entrare nella scuderia Cussler, di una saga imperniata su di un geologo salva-mondi, il dottor Philip Mercer. Che qui viene usato dal nostro capitano per capire dove possa essere stato collocato il computer. Il secondo, è una piccola frase che pronuncia Cabrillo quando vede i Buddha birmani: “la costruzione gli ricordò la città di grotte degli anasazi a Mesa Verde in Colorado”. Ed io che ho visitato Mesa Verde due volte nell’ultimo anno non posso che ripensare con piacere a quella visita, ed ai miei compagni di avventure. Per il resto, speriamo che la fucina americana sforni presto qualcosa di meglio.
Clive Cussler & Grant Blackwood “Il regno dell’oro” TEA euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,42 euro)
[A: 01/10/2015 – I: 25/01/2017 – T: 27/01/2017] - && e ¾   
[tit. or.: The Kingdom; ling. or.: inglese; pagine: 353; anno 2011]
Anche a questo libro del sempre più letto Cussler manca poco per la sufficienza, forse solo quel pizzico di descrizioni in più nelle ultime pagine, dove, una volta risolti i problemi posti dalla trama, si scivola via in poche parole, cercando certo di cucire qualche lato oscuro, ma sempre, sempre troppo velocemente. Anche se siamo in uno dei più riusciti spin-off della serie principale, che riprende (protagonisti a parte) manie e caratterizzazioni del fratello maggiore, c’è forse troppo di “copiato” ancora per farne una buona riuscita. I simpatici coniugi Fargo sono una replica, con meno personale, delle avventure dell’Oregon. La loro filosofia, basata sull’etica personale e sul rispetto, è, in piccolo anche qui, quanto l’agenzia NUMA dovrebbe fare in grande, coinvolgendo Nazioni e Potenze. Ed ovviamente, il filo della narrazione è anch’esso “in replica”. Prologo che viene da lontano (qui anzi, ne abbiamo due di prologhi), che pone le basi per quanto accadrà nella storia. Cattivo che, prima dei buoni, ha capito (o conosce) il prologo stesso. Lotta fra buoni e cattivi, con ovvia vittoria dei primi (anche se talvolta non indolore). Spiegazione degli avvenimenti del prologo, magari solleticando la curiosità del lettore che, come me, viene incuriosito dai brandelli della storia (prima che questi brandelli diventino favola o leggenda). Questa volta il primo prologo ci porta in Nepal, nella regione autonoma di Mustang (retta da un re indipendente fino alla caduta della monarchia nepalese nel 2008), dove si conserva e si venera una reliquia, che, per non farla cadere ai nemici, guardie scelte trafugano e portano lontano. Come ogni prologo, la guardia che seguiamo finirà male, ma la reliquia non cadrà in mano ai nemici, ma rimarrà nei ghiacci nepalesi (o tibetani o cinesi). Il secondo prologo ci racconta invece la favola di un gesuita italiano, Francesco Lana de Terzi, realmente esistito e realmente inventore di una macchina per volare, precorritrice delle mongolfiere. Anche se, la tecnologia dell’epoca (siamo verso il 1675) non gli permette di realizzarla. L’invenzione della factory di Cussler è stata di sfruttare un buco temporale della storia di Francesco, ipotizzando un suo viaggio in Cina, dove avrebbe costruito un prototipo della macchina volante. Cussler & co sono abili, quando nel finale riprenderanno la storia di Francesco, nel colmare quasi tutti i buchi della storia reale, dandoci un para-storia discretamente plausibile. C’è solo un difetto, purtroppo grosso. Il gesuita Francesco era sordomuto (tanto che inventò un alfabeto che, modificato e modernizzato, diverrà il famoso alfabeto Braille) ed avrebbe avuto difficoltà nell’intavolare trattative con i Signori della guerra cinesi. L’abilità degli scriventi è di collegare le storie seriali, facendo iniziare questa nei luoghi dove finì la precedente (che ricordo si interrogava sulla provenienza degli Aztechi). Da lì si dipartirà il solito giro di valzer intorno al mondo alla ricerca di qualcosa. Sam e Remi vengono contattati dal cattivone di turno, Charlie King, che li intortora per coinvolgere nella ricerca dello scomparso padre (ormai da 40 anni) e del loro amico Alton, cui aveva precedentemente affidato la ricerca. Ben presto i nostri conoscono Hsu, la concubina del cattivo nonché madre di due gemelli poco affidabili (altro parallelo, abbiamo gemelli maschio-femmina come i figli di Dirk Pitt). E nel Nepal cominciano le avventure. I nostri scoprono ben presto che Alton è stato rapito proprio da King per coinvolgerli nella ricerca della famosa reliquia di cui all’inizio. Scoprono che di reliquie ne sono state fabbricate almeno 8, di modo che i cattivi del 1400 avessero difficoltà nella ricerca di quella giusta. Scoprono una traccia, seguendo le orme del padre di Charlie. Scoprono che Charlie è anche coinvolto nel traffico di beni archeologici. Dopo essere sfuggiti a diversi attentati, piccoli o grandi, troveranno aiuto in un americano da trenta anni trasferitosi nel Mustang (belle le righe in cui Jack racconta la nascita del suo amore per quelle terre, e come abbia voluto vivere questo amore; righe che si possono sottoscrivere in pieno). Con Jack, i nostri scoprono inoltre che il padre di Charlie è realmente morto, che la guardia di cui all’inizio si dirigeva verso est. Tralasciando diversi avvenimenti poco significativi (la ricerca delle tracce, che porta i nostri prima in Albania poi a Sofia), nella landa dove dovrebbe esserci la reliquia, trovano invece la gondola volante di Francesco (così i prologhi si incontrano). Sarà seguendo la traccia del gesuita che ci troveremo nello scontro finale, nelle famose gole del fiume Tangpo in India. Scontro che permetterà di salvare la reliquia, salvare i nostri dall’assalto dei gemelli (dove il maschio trova la morte), e convincere l’ex-cattiva Hsu a tradire il cattivo Charlie. Ultima chicca, la reliquia è lo scheletro fatto dorare di un essere di congiunzione tra la scimmia e l’uomo, un ardipiteco (il cui scheletro è stato realmente trovato in Etiopia nel 2001). Qui abbiamo anche altri due commenti. Primo, ho tralasciato tutta la palla che gli scriventi imbastiscono sulla reliquia e su Shangri-la (nonché sui nazisti che cercavano la razza ariana pura) e credo nessuno ne senta la mancanza. Secondo, e ultimo, perché all’inglese “The Kingdom” (cioè “Il Regno”) in italiano si è aggiunto quel “dell’oro” che anticipa alcune cose della narrazione ma che non era nelle intenzioni degli autori? Credo che continuerà a lungo la mia lotta con i traduttori – pubblicitari e compagnia cantante. Comunque, e finisco, un libro decentemente di passaggio, in una settimana in cui avevo bisogno di mollare la testa.
Terza trama del mese, anche se di poco anticipata, data l’imminenza pasquale. Quindi un allegato ve lo meritate. Ed uno legato all’età, che sempre ci fa riflettere.
Per il resto, come detto, siamo di Pasqua e di Pasquetta, di pranzi e ceni con parenti e amici, e, dopo questo anticipo, probabile un ritardo la prossima settimana, se si riesce ad andare nel riposo sorianese. 

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

APRILE 2017
Ed eccoci allora che, finalmente, ci possiamo occupare degli acciacchi dell’età. In particolare, a quell’acciacco non rimediabile che è il passare del tempo. Con alcuni (divertenti) libri su ottantenni e più.

ACCIACCHI DELL’ETÀ (I)
GOCCE DI UMORISMO PER UNA VECCHIAIA SERENA (ANZI ESILARANTE)

Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve, Jonas Jonasson
Allan Karlsson ha cento anni. Nella casa di riposo fervono i festeggiamenti in suo onore, ma lui ha ben altri programmi. Anzi uno solo: evadere. Così esce dalla finestra e si dirige, in pantofo­le alla fermata dell’autobus. In attesa di prendere il primo mezzo per una qualunque destinazione, il suo aspetto da vecchietto conquista la fiducia di uno strano giovane che, pressato da bi­sogni urgenti, gli chiede di custodire la sua valigia mentre va al bagno. Ma l’occasione fa l’uomo ladro, arriva l’autobus, Allan ha fretta, una valigia fa sempre comodo, soprattutto quando ci si mette in viaggio, e così l’arzillo e un po’ sbadato centenario la porta con sé. Solo che niente è mai come sembra. Allan non è un ingenuo e rimbambito vecchietto e il giovane è un criminale disposto a tutto per riavere la sua valigia piena di soldi. Inizia così l’esilarante avventura di questo imprevedibile centenario, una comica girandola d’incontri, scontri, fughe, inseguimenti, minacce, equivoci, omicidi e divertentissimi flashback in cui scopriamo che il nostro amico ha un passato rocambolesco e un ruolo in quasi tutti i più importanti eventi che hanno deter­minato la storia del Novecento, un po’ come Forrest Gump. Tutt’altro che ingenuo, Allan è un tipetto esplosivo che celebra l’arrivo della cifra tonda non come un traguardo ma una nuova partenza. Decide di saltare dalla finestra per non scomparire e continuare a essere protagonista della storia, quantomeno della sua. Questo fortunatissimo romanzo svedese è un ottimo ricostituente per i lettori in età geriatrica dal momento che la sua azione principale è rivolta a inibire il deterioramento della memoria ricordando che, acciacchi dell’età a parte, non è mai troppo tardi per vivere intensamente, neanche a cento anni, perché «quando pensi di non avere tanto tempo, puoi permettere certe libertà», tra cui la libera scelta di non annoiarsi e sfruttare al massimo il tempo a disposizione. Nei soggetti affetti da osteoartrosi emotiva che, inclini a credere che la vecchiaia sia la fine del viaggio, tendono a sedersi aspettando l’autobus per il viaggio definitivo, la somministrazione del romanzo migliora la funzionalità delle articolazioni e previene la degenerazione della malattia garantendo un ritrovato slancio motorio e vitale. Grazie al rilascio continuo di endorfine messe in circolo dalle situazioni folli e deliranti in cui il protagonista e i suoi compagni di viaggio si trovano coinvolti, la storia del centenario ha un effetto positivo sull’umore scatenando frequenti e prolungati attacchi di risate. Allan è portatore sano di ottimismo e, pertanto, l’esposizione prolungata alla sua capacità disarmante di vedere il lato positivo in ogni situazione è altamente contagiosa anche per chi non è vecchio anagraficamente ma emotivamente.
A quei pazienti afflitti da scetticismo letterario, convinti che tutto questo sia possibile solo in un romanzo, consiglio di leggere la dedica all’inizio del libro per convincersi che quelli che dicono la verità non sono degni di essere ascoltati
Il best seller di Jonas Jonasson è stato portato sullo schermo da Felix Herngren in un film ad alto dosaggio di buon umore, ottimo per una terapia cinematografica sostitutiva.
Un consiglio: per continuare la cura a base di arzilli vecchi che il giorno del proprio compleanno soffiano la noia dalla propria vita al posto delle candeline sulla torta, segnalo la divertente e commovente lettura de La fantastica storia dell’ottantunenne investito dal camioncino del latte” di J.B. Morrison. Essere investiti dal camioncino del latte non è il massimo. Essere investiti dal camioncino del latte il giorno del proprio compleanno è deprimente. Essere investiti dal camioncino del latte il giorno proprio ottantunesimo compleanno potrebbe essere visto addirittura come un invito a chiudersi in casa limitandosi a guardare la televisione. Invece, proprio in seguito a questo incidente e nonostante un braccio e un piede fratturati, Frank scopre che la vita è sempre una fantastica e unica avventura.
L’audace colpo dei quattro di Rete Maria che sfuggirono alle Miserabili Monache, Marco Marsullo.
Agile è un borbottone che odia tutto e tutti, indistintamente, Guttalax ha il cuore tenero e l’intestino intoppato. Rubirosa è un playboy che parla in spagnolo con il vizio delle over sessanta e del Viagra. Brio è il braccio armato del gruppo, un cecchi­no con la fionda, nonostante il Parkinson. Questi quattro arzilli vecchietti sono i protagonisti della surreale bravata raccontata con scoppiettante ironia da Marco Marsullo. Una gita a Roma, organizzata dalle miserabili monache che gestiscono la casa di cura Villa Betulla, diventa l’occasione per evadere e mettere in atto un audace, irriverente e sacrosanto piano: occupare la sede dell’emittente televisiva cattolica Rete Maria e porre fine allo strazio del rosario delle 18:00, recitato da padre Anselmo da Procida con un’insopportabile zeppola. Questo atto di ribellione innesca un effetto domino fatto di eventi inaspettati e situazioni ad alto tasso di comicità beffarda e irriverente e, tra nemici (capitan Findus e le Monache Miserabili), fughe, battaglie, furti, feste e amore, l’avventura dei quattro compari si trasforma in un tragicomico (molto comico) guizzo di libertà per chiudere i conti con la vita prima che la vita chiuda con loro.
Arguto, intelligente e tenero ritratto della vecchiaia come non siamo soliti immaginarla, L’audace colpo...” è un notevole aiuto per affrontare con brio la terza età: sgangherati come la combriccola de “I Soliti ignoti” di Mario Monicelli e per di più sciancati, ma con un briciolo di perfidia che ricorda gli scorrettissimi Amici miei” (sempre di Monicelli), i quattro vecchietti si prendono una rivincita con il tempo, dimostrando che a qualun­que età, il carattere e l’intraprendenza sono tutto nella vita. Se ne consiglia l’uso a qualsiasi età per neutralizzare l’idea che le bravate siano una prerogativa dei ragazzi. In confronto ai suoi protagonisti, molti giovani sono dei bacucchi rammolliti. Precari e sballottati in un presente di totale incertezza, hanno spesso difficoltà perfino a ribellarsi mentre gli anziani, ormai liberi da ogni vincolo sociale perché spesso ritenuti socialmente inutili, possono permettersi di essere i veri disubbidienti, ardimentosi nel tentativo di correggere ciò che non funziona, fosse anche il difetto di pronuncia di un predicatore TV. «Quindi: non fatevi ingannare quando si parla di vecchi e giovani, c’è sempre la fottitura. È il potere che ringiovanisce. Quello non lo fotte nem­meno l’osteoporosi». Il riferimento è al potere del denaro, ma i quattro di Rete Maria rafforzano la convinzione che è il potere del carattere a mantenere giovani, quantomeno nello spirito. E per l’osteoporosi basta un po’ di calcio, anche un calcio ai pregiudizi. Se pensate che la vita si esaurisca con la giovinezza e tutto il resto è noia, alcune gocce di Marco Marsullo prima dei pasti nuocciono gravemente alla noia.
Avvertenza: tra i possibili effetti collaterali è stato riscontrato il desiderio di occupare Rete Maria e punire tutti gli speaker radiofonici e televisivi con difetti di dizione. Ovviamente, po­trebbe anche essere forte l’impulso di evadere dalla casa di cura (o da qualunque casa soffochi il vostro anelito di libertà).
Un consiglio: stesso principio attivo (una banda di vecchietti) e stessi eccipienti (umorismo e gioia di vivere) nel farmaco equivalente La banda degli insoliti ottantenni” di Catharina Ingelman-Sundberg. Grazie alla sua composizione scoppiettante a base di una combriccola di vecchietti che evade dall’ospizio per mettere a segno il furto del secolo, contrasta lo stress ossidativo, principale causa dell’invecchiamento e aiuta a mantenersi efficienti, attivi e di buon umore. Sarebbe opportuno proseguire la cura con l’esilarante La piccola ottantenne che cambiò tutte le regole”, seconda impertinente avventura che vede l’arzilla banda di pensionati alle prese con un nuovo piano criminosamente divertente.
Terapia cinematografica sostitutiva
Se gli acciacchi dell’età non vi permettono di alzarvi dalla poltrona, sappiate che la cura letteraria risulta particolarmente efficace proprio perché consente di vivere mirabolanti avventure per interposta persona. Tutti i rimedi anti-age fin qui proposti soddisfano in pieno il bisogno di evasione anche intellettuale. Sognare arricchisce e allunga la vita, mentre ridere aiuta a mantenersi giovani e in forma. Perché l’importante è restare attivi con il cervello quando il corpo comincia a fare i capricci. A que­sto proposito, se volete continuare a divertirvi e commuovervi con storie di arzilli vecchietti, consiglio Cocoon”. In questo delizioso film diretto da Ron Howard, un gruppo di simpatici over-age ritrova forza e vigore dopo ripetuti e clandestini bagni in una piscina. Cosa si nasconde dietro? Se i (fortunati) protagonisti di Cocoon” ringiovaniscono grazie a immersioni miracolose, voi po­tete ritrovare tutto l’entusiasmo di quando eravate bambini con “Up”, poetico cartoon della Pixar. Protagonisti di questa delicata e commovente storia di sogni, amore e amicizia, sono un burbero vecchietto, un piccolo e paffuto boyscout e una casa che prende il volo sollevata da palloncini colorati alla volta di un’avventura straordinaria. Se non volete proprio saperne di stare con i piedi per terra e avete bisogno di continuare a credere che tutto può succedere, anche quando ciò che deve succedere deve farlo presto perché il tempo stringe, “Up” è perfetto. La visione di entrambi i film è consigliata a un pubblico multigenerazionale.
E poi, Paulette …, Barbara Constantine
Da quando è rimasto vedovo, Ferdinand vive solo nella sua grande fattoria. Non ha un buon rapporto con il figlio e non vede gli adorati nipotini quanto vorrebbe. Le cose cambiano, anzi Ferdinand decide di cambiare le cose quando, dopo aver scoperto che un temporale ha reso inagibile la casa della sua vicina Marceline, ha l’audace e inaspettata idea di proporle di trasferirsi da lui. La donna si aggrappa a questa mano tesa e accetta l’offerta d’aiuto, portandosi dietro un cane, un gatto, un asino e pure un violoncello. Presto si aggiungono altri coinquilini, un amico di Fernand rimasto vedovo e due simpatiche vecchiette più vecchiette degli altri. L’arrivo dei giovani Muriel e Kim abbasserà l’età media di questa inconsueta comunità sentimentale che ritrova la forza di affrontare insieme i problemi. Ah, e poi arriva Paulette, la piccola Paulette, e la vita ricomincia da capo. Con i toni leggeri di una favola moderna, il best seller della scrittrice francese è formulato come un vero e proprio antidoto contro il cinismo, un elogio dei buoni sentimenti che non risulta mai buonista ma racconta con dolcezza l’avventura di una piccola società di mutuo soccorso intergenerazionale che sembra aver trovato la ricetta della serenità nella collaborazione, nella generosa condivisione delle proprie esperienze, anche di vita, facendo fronte comune contro le difficoltà. Perché a volte non serve neanche mettere in atto un colpo audace o saltare da una finestra e scomparire per compiere un’azione coraggiosa in grado di dare una scossa alla propria anziana vita. Ferdinand e i suoi amici non vanno più in là del piccolo paese dove abi­tano, eppure intraprendono ugualmente un viaggio incredibi­le concedendo a sé stessi e ai giovani che si uniscono a loro la possibilità di ricominciare, dimostrando che anche la terza età può offrire una seconda chance. Basta saperla cogliere al volo o avere l’ardimento di crearla, oltre alla forza di perseguirla.
Se ne consiglia la somministrazione a qualsiasi età per contra­stare il precoce invecchiamento dell’anima e l’insorgere di malattie gravi come il cinismo e l’individualismo, che ostruiscono le arterie causando problemi cardiaci anche gravi. Rasserenante e tranquillizzante, allegro e commovente, stimola il dialogo intergenerazionale e rialza i livelli di altruismo nel sangue grazie alla produzione di ossitocina, “l’ormone dell’amore” che aumenta l’empatia, induce fiducia e favorisce la disposizione a creare legami. Se vi è stata diagnosticata un’intolleranza ad alcuni zuccheri, al termine del trattamento si consiglia di osservare una dieta a basso dosaggio di glucosio ristabilendo i giusti valori con l’irriverenza dei precedenti gruppi di vecchietti alla riscossa.

Commenti

Non abbiamo ancora né ottanta né cento anni, ma abbiamo letto molti libri. DI tutti questi citati, però, ne abbiamo solo uno nei miei archivi. Letto, devo dire, con molto, molto piacere.
Jonas Jonasson “Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve” Bompiani s.p. (regalo di Alessandra)
[trama pubblicata il 13 maggio 2012]
Un libro divertente per una scoperta di un autore (di 13 giorni + piccolo di mio fratello) che non conoscevo. Ingredienti di un ottimo regalo. Ed è anche scritto in modo che ti prende un po’ tutte le parti del corpo, e ti si piazza là, finché non vai avanti. Cervello, gambe, stomaco sono coinvolti, forse solo il cuore rimane un po’ fuori, anche se di lato e di lontano fa le sue comparse. Un Forrest Gump dall’intelligenza di Zelig attraversa le oltre 400 pagine portandoci in un turbine di avvenimenti che riescono a non stancare e a non essere neanche ripetitivi (rischio che poteva esserci). Seguiamo così Allan il centenario che fugge dall’ospizio il giorno del suo centesimo compleanno, ed avventurandosi per il mondo con le sue forze limitate ma con quell’acume che scopriremo ben presto ha, si incarta in una serie di vicende che potrebbero portarlo presto fuori strada. Ed invece… Invece si ritrova in fuga con una valigia piena di milioni, inseguito da una banda di spacciatori scalcagnati. E trova man mano l’aiuto di Julius un ladro sessantenne, di Benny un quaranta-cinquantenne che si è quasi laureato in dieci discipline diverse e di Bella una signora di 43 anni, con cane ed elefante (una delle tante invenzioni di Jonas, farci trovare una fattoria nella profonda Svezia dove si rifugia un elefante in fuga da un circo). E questa banda di svitati riesce a mettere in scacco i malviventi della banda “Never Again” (cioè mai più… dietro le sbarre di una prigione). Ed anche a prendere in giro la polizia svedese, ed il pubblico ministero incaricato delle indagini sulla morte dei malviventi. Da ricordare tutto il controinterrogatorio in cui i 4 mettono sotto scacco il GIP, con un dialogo che sembra essere il contro esempio di un manuale di comunicazione di Paul Grice, dove tutto è consequenziale, ma interpretato fuori dal contesto, in modo che per il GIP diventa assurdo ma farà in modo che la nostra banda esca vincente dalla contesa. Già questo sarebbe un bel romanzo, ma lo scrittore – giornalista Jonas lo inframmezza con la storia della vita del nostro centenario. E qui vengono fuori gli altri momenti da un lato esilaranti, dall’altro che, coinvolgendo tutti i grandi attori del secolo, ne tratteggiano tutto il possibile di modo che ne esce un ritratto della storia del Ventesimo secolo, disincantato ed un po’ anarchico. Cominciando dal padre di Allan, comunista sfegatato, che fugge in Russia, dove conosce Fabergé e si mette in contrasto con Lenin quando questi sale al potere. Allan, rimasto solo ed orfano, si dedica allo studio degli esplosivi (d’altra parte siamo nella patria di Nobel), e questo lo porterà in giro per il mondo, e per le sue vicende, nel corso degli anni. Nella fabbrica di esplosivi conosce un rifugiato spagnolo, e con lui decide di andare in Spagna quando scoppia la Rivoluzione. Per la sua esperienza viene reclutato nel far saltare i ponti, cosa che fa con coscienza, ma cercando di non uccidere nessuno. Tanto che quando qualcuno sta per saltare in aria con il ponte lo salva. Peccato che sia il generalissimo Franco. E questo lo imbarca in una serie di improbabili avventure. Franco gli fa una lettera di encomio e lo imbarca su una nave spagnola, che arrivata a New York viene sequestrata. Ma lui non è spagnolo ed è esperto di esplosivi, per cui viene mandato a Los Alamos. Lì, suggerisce ad Oppenheimer il modo di far funzionare la fissione con l’esplosivo. Quindi si ubriaca con il presidente Truman, che lo invia in missione “esplosiva” in Cina con Chiang Kai-shek. Ma Allan non sopporta i boriosi e presupponenti. Quindi abbandono il Kuomintang, salvando nel contempo la moglie di Mao Tse-Tung. Vuole tornare a casa, e si avvia a piedi dalla Cina verso l’Europa. Ma in Iran viene coinvolto in altri attentati, e per salvare la pelle (sua) salva anche quella di Winston Churchill. Tornato in patria, viene reclutato dai russi per fabbricare la bomba atomica russa. Aiuta il buon Popov, ma entra in urto con l’antipatico Stalin, che lo spedisce in Siberia. Dove fugge dopo 5 anni verso la Corea. Per trovare il modo di tornare a casa, riesce ad avere un colloquio con Kim Il-Sung, che vorrebbe però ucciderlo, ma viene salvato da Mao, presente al colloquio, quando questi scopre che lui salvò la moglie. E così si ritrova a passare 15 anni di ozio a Bali a spese della Cina comunista. E tanto altro, in modo che sarà a Parigi nel maggio del ’68 ed a Mosca nell’89. Per finire chiudendo il cerchio, centenario recalcitrante nella moderna Svezia. Il bello della scrittura di Jonas è l’uso del paradossale come se fosse normale. Con il nostro Allan - Forrest Gump che non si meraviglia di nulla, basta che non lo opprimiamo con lunghe discussioni su politica e religione e che gli facciamo avere un po’ d’acquavite. Non ci chiediamo qui se il verosimile delle storie sia anche plausibile, perché ne godiamo il lato ironico pensando che, anche se non fosse così, sarebbe carino fosse stato così. Alla fine un libro che merita il successo che ha avuto. E che mi ha fatto piacere leggere, tanto che riusciva a farmi ridere fra me e me come non succedeva da tempo. Un piccolo appunto all’editore che ha lasciato un refuso nell’indicazione del titolo originale (certe attenzioni ormai sono fuori dalle logiche di chi stampa libri, peccato).
“Lei è un pensionato …. Particolare che gli fece capire che, contro tutte le previsioni e senza averci mai pensato prima, era inaspettatamente invecchiato. E lo attendevano ancora molti, molti, molti anni di vita.” (435)

Finalino

Se l’età diventa un acciacco, meglio non pensarci e continuare a leggere, a far di posturale, ed a camminare, sempre, tanto. Magari facendo le scale a piedi senza ascensore. Se proprio non ce la fate, leggere di questi libri, allevierà gli acciacchi di tutti.