domenica 26 maggio 2013

Saggi(a)mente - 26 maggio 2013

Perché è una domenica strana in cui bisogna tenere a mente di essere saggi. Perché dopo qualche settimana di relax e dopo aver smaltito felicità (tante) e tristezze (poche) della grande festa, bisogna a volte tornare a pensare. Secondo direttrici consolidate ma non banali. Libri non facili, ma che vi segnalo assolutamente: la trasformazione delle idee in valori nel saggio del giurista Schmitt, due saggi sull’etica della morte e della vecchiaia, con lo spagnolo Savater che mi ha impegnato ma non convinto e con Marco Tullio Cicerone che mi ha sedotto con la sua semplicità, passando per un libro di Trevi che mi ha innamorato basandosi sull’assunto che nei libri ci può essere di tutto, basta saper scavare. E se non avete la pazienza né di leggere i libri, né di leggere queste trame, vi consiglio con forza ed amicizia di leggere le frasi che riporto. Già bastano per riflettere, magari insieme, su questi temi.
Carl Schmitt “La tirannia dei valori” Adelphi euro 5,50 (in realtà, scontato 4,40 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 21/01/2013 – T: 23/01/2013]
[titolo: Die Tyrannei der Werte; lingua: tedesco; pagine: 107; anno: 2008]
Anche questo libretto è uscito dal gran calderone dei miei autoregali di Natale: approfittando di un maxi sconto su Feltrinelli online, ho preso una quindicina di titoli poco reperibili pescando dalle mie lunghe e variegate liste. Così anche Carl Schmitt vi è entrato, provenendo dai suggerimenti della “Seconda” pagina dei Libri di Repubblica. Pur sperando che ci fosse qualche affinità con il mio amato Schmitt (che però è francese, e si chiama Eric-Emanuel, anche se entrambi sono alsaziani), immaginavo già fosse un libretto non facile. Tra l’altro nasce come contributo ad una serie di seminari su “Virtù e valore nella dottrina dello Stato” tenutisi ad Ebrach in Germania nel ’59, poi assemblati e prefati da Schmitt nel ’67 e solo in questa edizione accompagnati da un bel saggio didascalico esplicativo di Franco Volpi. Confermo, dopo la lettura, l’impressione della difficoltà avuta nel comprenderne i passaggi, dove si utilizzano categorie filosofiche e loro applicazioni ed implicazioni nella teoria dello Stato (non a caso Schmitt è eminentemente un giurista). Cosa mi rimane, a mo’ di riflessione sparsa dalle dense parole del pensatore tedesco? Innanzi tutto l’affermazione che coll’elevare un’idea o una convinzione a valore si finisce col giustificare qualunque mezzo e alla fine qualunque pretesa. Emerge con chiarezza sopratutto dal commento di Franco Volpi - nel quale è tracciata anche una puntuale e questa sì facilmente seguibile ricostruzione storica del concetto di valore - come il “valore”, sconfinando dalla sua sfera originaria - l'economia - e invadendo ogni ambito dell'esistenza sociale e politica, abbia prodotto, per Schmitt, una moralizzazione non scevra di pericoli. Perché il valore non è mai oggettivo, bensì solo soggettivamente riferito alla realtà; ciò significa, che "il valore non è, ma vale" e ciò che vale, sottolinea Schmitt, "aspira apertamente a essere posto in atto". È dunque l'uomo che definisce i valori ed è proprio il soggettivismo - sotteso ad ogni valore - a rendere pericolosa, agli occhi di Schmitt, ogni filosofia dei valori e ancor più ogni tentativo di "oggettivazione" degli stessi. Ma è sul terreno giuridico – politico, sostiene Schmitt e qui lo seguo con difficoltà, che gli esiti inquietanti di ogni valutazione evidenziano il portato discriminatorio di un pensare per valori. In quest'ambito - più che in ogni altro - l'appello ai valori rievoca elementi non condivisibili come la guerra giusta, mostrando i suoi tirannici effetti. Consapevole, nonché testimone, che il richiamo a ragioni morali - e la loro pretesa di universalità - conduce all'annientamento, Schmitt conclude esortando "Non usiamo con leggerezza le nostre parole", in particolar modo quando si parla di valori. Sia cauto, dunque, quel legislatore che fa ricorso ad essi, perché nulla più del valore necessita di mediazione. Di fronte al dilagante processo di valorizzazione "è compito del legislatore e delle leggi da lui decretate stabilire la mediazione tramite regole misurabili e applicabili e impedire il terrore dell'attuazione immediata e automatica dei valori" (p. 67). La logica di affermazione dei valori nello scenario globale attuale - magistralmente rappresentata dall'etica neocon della "lotta del bene contro l'asse del male" - mostra con evidenza quanto il messaggio schmittiano sia stato disatteso. Che cosa sono le guerre odierne - malgrado le "bombe intelligenti" e i loro inevitabili "effetti collaterali" - se non gli strumenti per l'attuazione dei propri valori, al prezzo dell'annientamento di quelli altrui? Una difficile lezione, questa di Schmitt, che ho letto (inconsapevolmente) come suggerisce il saggio di Volpi, senza sapere nulla dell’autore e badando alle parole. Che Schmitt, nella sua prima fase di vita pubblica, fu uno strenuo sostenitore dello stato forte contro lo stato liberale, dando anche elementi teorici giustificativi alla prima ascesa del nazismo. Per questo, e giustamente, fu emarginato dopo la Guerra. Ma non per questo le sue parole vanno solo bollate come “indifendibili”. Che queste conclusioni sono invece condivisibili, come poi mostrarono studi sul pensiero di Schmitt da parte di persone non sospettabili di compiacimenti, come Giorgio Agamben o Giacomo Marramao o Massimo Cacciari. Da qui, per noi, dovrebbe cominciare un percorso di riflessione che possa portare dalla critica dei valori verso la definizione di un comportamento etico, verso gli scritti di Baumann, ad esempio. Chissà. Un sottoprodotto della lettura è anche la riflessione di come sia difficile tradurre i linguaggi da un idioma all’altro. Chissà se “Werte” in tedesco ha la stessa valenza di “valore” in italiano? E da dove deriva questo, che in latino non veniva usato (si dice venga da “valere”, ma l’accezione è diversa)? Che abisso si apre…
"Non usiamo con leggerezza le nostre parole." (66)
“Quanto è più grave la crisi, tanto più grande è il numero di incapaci che si sentono chiamati a risolverla scrivendo di valori." (97)
Emanuele Trevi “Musica distante” Ponte alle Grazie s.p. (natalino dell’arabista di Rosanna, anche se poi era il mio regalo e non ci siamo visti ed allora l’ho letto io)
[A: 01/01/2013 – I: 27/01/2013 – T: 04/02/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 149; anno: 1997-2012]
Entrato di soppiatto nella mia libreria, come natalino di ritorno, ha fatto un’ottima riuscita, libro di contenuti e di riflessioni. Doppia la data di riferimento, che questa edizione è sì del 2012, ma il nostro simpatico autore l’ha scritto nel lontano 1997. Nel compimento del quindicesimo anno, quasi un’uscita dall’adolescenza per affacciarsi al mondo adulto, Ponte alle Grazie ce lo ripropone, con una nuova introduzione dello stesso Emanuele, che tuttavia, non toglie né aggiunge molto al fascino del libro. Un fascino che si basa sull’assunto che nei libri ci può essere tanto, basta avere la pazienza di scavare, sempre con occhi attenti ed aperti. Si parlava, poco sopra, di valori e della loro tirannia (cui rimando per non ripetermi). Qui si parla dell’altro corno del dilemma, delle virtù, anche se non affrontandone nella loro accezione etica (anche se immancabile), quanto nel modo che le suddette virtù vengono esemplificate e spiegate attraverso una lettura attenta di testi esimi. Per restringere il campo, Trevi fa riferimento a quelle che vengono etichettate come virtù “classiche”, cioè bibliche: le tre teologali e le quattro cardinali. Facendo un piccolo sforzo di memoria (dai che ce la potete fare), quindi, fede, speranza, carità, prudenza, giustizia, forza e temperanza. Senza cadere nel giacobinismo della rivoluzione francese (il famoso “terrorismo delle virtù”), lo scrittore ne abbozza i tratti concreti, perché ne vuole condividere la comprensione. E poiché comprendere significa anche poterne spiegare, si avvale dei mezzi a lui consoni per poterne parlare: testi letterari. Certo la fede è quella che più potrebbe tormentare l’orecchio attento alle disquisizioni attuali su relativismi ed altro, ma come non seguirne le mosse se la traguardiamo attraverso la “Gita al faro” di Virginia Woolf. Attraverso cioè tutto il percorso di Lilly e del suo ritratto della signora Ramsey, attraverso l’amore non dichiarato e la difficoltà del vedere in mezzo alle lacrime. Ma ancor di più seguiamo il percorso della speranza, con la Balena Bianca di Melville o “Il grande Meaulnes” del troppo presto dipartito Alain-Fournier. O ancor di più, nell’unico testo che, ad ora, mi trovo a gustare con piacere, di Conrad, quella “Linea d’ombra”, nella grande attesa di speranza della bava di vento da parte del neo-capitano. D’altra parte, la speranza (per Trevi e per me) è sempre legata ai viaggi, così come la carità al rapporto con il prossimo (ed andiamo a rileggere le brevi note che scrissi sul libro di Sofri, o sulle prediche di Enzo Bianchi o del cardinale Martini). Come non restare incollati alla pagina che ci descrive il San Martino di Simone Martini, o che ci porta, lettino dopo lettino, a visitare infermi e malati con Kafka, Flaubert e Bulgakov. Falsamente più semplici, perché sembrano più vicine al quotidiano di ognuno, la prudenza e la giustizia. Ma prudente è colui che si ferma prima di agire, per poi agire, o si ferma per poi non agire per nulla (l’immenso Bartleby di Melville con il magnifico “preferirei di no”)? O la giustizia che dopo un lungo giro per le strade del mondo, torna per esigere il suo tributo, utilizzando quel bellissimo racconto di Joyce “I morti”, ultimo della raccolta “Gente di Dublino”? Se la mia penna elettronica fosse capace di esprimersi al meglio, vorrei potervi portare a riguardare la teoria di sguardi e suoni che ci avvolge nell’immagine di Joyce attraverso lui che guarda lei che ascolta la ballata che riporta entrambi, anche se in modo diverso, a punti dolenti ed “ingiusti” del loro passato. Le ultime due virtù terroristiche vengono, e con ragione, accumulate dall’autore in un unico passo: laddove sono complementari, e la forza (o meglio fortezza, come dice il testo originario) è mitigata dalla temperanza, e questa è corroborata dalla fortezza. In questo caso, meglio che le parole, vedo i due quadri del Botticelli che si specchiano l’uno nell’altro, con la forza visione di donna con corazza e sguardo mitigato, e la temperanza, con una faccia similare (anche se dovrebbe essere Pallade Atena) che tempera la brutalità del centauro, assoggettandone la forza. Insomma, per finire con quel lato etico che a me sarebbe caro, le virtù possono far parte del nostro incidere giorno dopo giorno, guidandoci i passi con il loro sapiente utilizzo. Unico elemento, forse per me, è la mancanza (a volte) della parola scardinante, che trasforma (trasformerebbe?) ognuna di queste virtù in momenti (anche) di felicità. Per Lilly, per Achab, per Mikail, per Lord Chandos, per Gregory, e via citando. Perché (come diceva la mia mentore) le domande è sempre bene farle. Meglio affrontare un No espresso che un Si non detto.
“[Il medico] porta in sé senza troppe parole […] il confluire di innumerevoli patimenti.” (64)
“Un simbolo vale per l’interrogazione che produce, non per le risposte che consente.” (109)
“Non preoccupatevi del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso; a ciascun giorno basta la sua pena.” (137)
Fernando Savater “La vita eterna” Laterza euro 6,90 (in realtà, scontato 5,52 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 21/02/2013 – T: 22/04/2013]
[tit. or.: La vida eterna; ling. or.: spagnolo; pagine: 248; anno 2007]
Ci sono voluti due mesi per leggere questo denso libro, suggerito da “Filosofia e Idee di Repubblica”. Un Libro difficile, con alcune parti (soprattutto l’inizio) che ho dovuto affrontare più volte, non cerco capendo tutto (in fondo Savater è un fine filosofo, ed io un puro lettore), ma almeno (credo) dando una mia interpretazione allo scritto. Che, riassumendo per mia comodità, affronta tre argomenti: l’ateismo e la fede, la vita e la morte, il significato di laico nel mondo attuale. Certamente nelle parole di Savater questi argomenti sono anche (come pare ovvio) correlati, discussi in modo trasversale, e tante altre costruzioni (non solo filosofiche, ma anche morali, etiche, e chi più ne ha). Il primo argomento è, come si può capire, quello che mi ha impegnato di più, e da cui sono uscito senza credo comprendere a fondo le tesi di Savater. Mi ha dato solo un po’ fastidio una certa aria di, mi verrebbe da dire, irrisione verso credenze ed incredulità. E non riuscendo a confrontarmi con il filosofo, direi che ometto un confronto su questa parte. Più fertile mi è sembrato invece il discorso sulla vita e sulla morte. Sarà un retaggio dell’età attuale, ma sono riflessioni che mi accompagnano. Non a caso, ne ho estratte molte sentenze, che mi sono rimaste impresse durante la lettura. Sono, infatti, convinto che solo comprendendo realmente la nostra mortalità, possiamo fare qualcosa che abbia un senso, qui ed ora. Dobbiamo andare oltre la battuta di Duchamp (“a morire sono sempre gli altri”), rifiutando l’immortalità immanente, altrimenti nulla avrebbe senso. Niente utilità nel fare se, data l’eternità, prima o poi succederà. È quanto mi rimanda ad esempio la mia frequentazione con i popoli asiatici, dove invece vedo presente questo senso dell’infinto. Talmente presente che spesso mi sembrano immobili nell’accettare quanto di peggio esista ora. Ed è un discorso che, nel mio intimo, collego a quel bellissimo scritto di Hilmann sull’invecchiamento e sul compimento del proprio carattere giustamente in quella che viene definita “ultima fase della vita”. Altrettanto convincente, per me, il discorso sul bisogno di laicità nella vita pubblica. Come sottolineo più in basso, nessuno mi deve imporre un’adesione ad un credo, eppur tuttavia io, personaggio pubblico, io, Stato, devo vigilare che ognuno possa aderire a quella che ritiene vicina al proprio essere. Ma, ed è molto più importante, le leggi di uno Stato NON devono sottomettersi ad alcun precetto religioso. Ed è questa legge morale imperativa che mi disturba quanto visito molti posti dove invece viene rovesciata. Mi rendo conto che non sono queste umili righe che possono sviscerare una materia così ampia. E sono altrettanto convinto che però ne possiamo tutti trarre degli spunti. Lo scritto di Savater è mirabile, argomentato, pieno di citazioni utili per approfondirne aspetti. Non ultima, ad esempio, la scoperta dell’a me ignoto filosofo russo Lev Šestov, che già nel ’36 scriveva mirabili pagine su “Atene e Gerusalemme”, viste come i due corni della problematica politica e religiosa. Ma prendiamo infine questo scritto per i suoi spunti, e, spero, per quello che da me ne viene come stimolo a voi, amati lettori. Chissà se avremo spazio e tempo per poterci tornare su. Senza mascheramenti e con onestà. Confesso che il libro avrebbe molto altro da dire, ma per la densità di quanto scritto, e per la difficoltà di riuscire a farne un discorso che abbia un senso, credo che non posso che fermarmi qui. Che il dibattito (con buona pace del mio coevo Nanni) abbia inizio.
“Dobbiamo accettare la fede degli altri in Dio e nell’aldilà, nonostante non la si condivida, e prenderla sul serio.” (XIII)
“Noi esseri umani mentiamo con la stessa naturalezza con la quale respiriamo. Mentiamo per nascondere le nostre insicurezze, per far sentire migliori gli altri, per sentirci noi stessi migliori, perché la gente ci ami, per proteggere i bambini, per liberarci dal pericolo, per occultare le nostre cattive azioni o per puro divertimento.” (5)
“La psicologia … per quanto non dia la felicità, se non altro calma i nervi.” (31)
“Tutti gli uomini muoiono, io sono un uomo, quindi io devo morire.” (35)
“Borges: Morirono altri uomini, ma ciò accadde nel passato / che è la stagione … più propizia alla morte.” (35)
Sappiamo che moriremo, ma non ci crediamo.” (35)
“Come insegna Epicuro … la morte non ci raggiungerà mai, perché quando noi siamo essa non è, e quando arriva noi ormai non siamo più.” (43)
“È conveniente la verità o dev’essere vero quel che conviene?” (82)
“Agire come immortali … ma sapendo che siamo mortali … per questo dobbiamo comportarci eticamente nei confronti dei nostri simili.” (105)
“Kant disse che quanto è eticamente importante per i mortali non è riuscire ad essere felici, ma meritare la felicità.” (105)
“Libertà, altruismo, rispetto, eguaglianza, fraternità sono valori che si trovano in maggiore o minor misura in tutte le culture e che non sono affatto esclusivi della nostra civiltà occidentale.” (121)
“Le caratteristiche fondamentali della laicità … sono due: primo, lo Stato deve vigilare che a nessun cittadino venga imposta un’affiliazione religiosa o venga impedito di professare quella che ha scelto; secondo, il rispetto delle leggi del paese deve precedere i particolari precetti di ogni religione.” (134)
“Non è la nostra civiltà a essere tecnologica, è la tecnologia a essere la nostra civiltà.” (148)
“Sapere che siamo mortali ci trasforma in uomini, rifiutarci di ammetterlo conferma che lo siamo.” (170)
“La sua ispirazione… lascia a desiderare … è stato profondo come un posacenere e sottile come una mattonata.” (225)
“Per negarsi alla morte, bisogna scegliere un’impresa, una crociata, un obiettivo che si voglia invulnerabile e ci faccia vagare sulla faccia della terra – a noi che ci sappiamo mortali … – come se fossimo inaccessibili alla morte.” (232)
Cicerone “La vecchiaia” Feltrinelli s.p. (regalo collettivo “Almaviva”)
[A: 07/05/2013 – I: 15/05/2013 – T: 22/05/2013]
[tit. or.: Cato Maior De Senectute; ling. or.: latino; pagine: 174; anno 2008]
Ho affrontato subito, con l’opportuna precedenza, questo esiguo ma corposo libretto, frutto di una componente di regalo nel corso della mia celebrata festa sorianese, a merito di un collettivo regalante composto da ex-colleghi (come riporto in testa accumulandoli in un’etichetta che alcuni più non hanno). Non sono certo io che posso entrare nel merito della scrittura dell’arpinate, sia per la mia basica cultura classica, sia per i fiumi di inchiostro che i suoi scritti hanno fatto scorrere nel corso dei secoli. Devo però fare i complimenti con la fattura di questo libro. Un’ottima introduzione di Oscar Fuà, che chiarisce i termini ed i contorni del testo. Un’edizione con testo a fronte, dove (anche chi come me poco sa di latino) si può apprezzare la facilità dei passaggi maggiori del testo (scritto, tanto per collocarlo nel tempo, pochi mesi prima dell’uccisione di Giulio Cesare). Ed un corredo di note esaustive e stimolanti. Nello specifico, poi, tre sono gli elementi di riflessione che la lettura mi ha suscitato. Il primo, ovvio, dipende dall’esposizione del problema che ne fa Cicerone, dove con sapiente uso oratorio, pone quattro domande alla vecchiaia. Quattro accuse, che ribatte e confuta con stile e larghezza. Il secondo è uno stimolo, una curiosità derivante dai tanti uomini illustri citati. Illustri per Cicerone ed il suo tempo, non sempre, non tutti, rimasti tali negli anni. Ma vederne i nomi mi ha spinto, mi spinge a cercarne notizie anche altrove. Il terzo è una conseguenza della parte maggiore del testo, dedicata ai piaceri della campagna e della vita ritirata, dopo una vita ben vissuta (e vedremo cosa possa voler dire). E domandandomi come io, coevo allo scrittore mentre ne scrive, mi pongo verso la vita “quieta e contemplativa”. E rispondendomi che non è il prosieguo dei miei anni, quello. Posso restare del tempo in quiete, ma sarò presto rimesso in moto dai miei stimoli interiori. E riprenderò, finché ne avrò le forze, il viaggio per i luoghi del mondo. Dove anche con la quiete, e non più con l’irrequietezza giovanile, continuo ad accrescere il mio interiore bisogno di conoscenza. Risposto all’ultimo quesito, torno al primo, ed alle quattro accuse che retoricamente Cicerone porta alla vecchiaia: la vecchiaia distoglie dalle attività, rende il corpo debole, priva di quasi tutti i piaceri ed è troppo vicino alla morte. Se distoglie dalle attività, se rende l’uomo inattivo, questi non è più capace di grandi imprese. Che però (ed io con lui) non si compiono solo per forza o agilità, ma spesso e ben più grandi per saggezza ed autorità. Il secondo punto è quasi un corollario del primo. Possono venir meno le forze, ma l’intelletto progredisce e matura, tanto che, pur avanti con gli anni, una sua orazione riesce a tenere l’uditorio in ascolto più e quanto di un concione giovanile ed arrogante (a meno di non usare i mezzi vocali sopraffattori come spesso si usa nel mondo odierno). Di modo che gli anziani possono e debbono guidare il percorso formativo ed intellettivo dei giovani. Certo, volevamo tutto e subito un dì. Ma ora riconosco che il tutto bisogna poterlo capire. E sarò sempre grato a chi nel corso degli anni me lo ha spiegato. Il terzo, pur riconoscendo l’autore che alcuni piaceri non sono propri della sua età, spiega ed argomenta che quelli che restano (vuoi anche le soddisfazioni sessuali) pur diminuite nel numero aumentano nell’intensità, essendo accompagnate dall’intelletto. E poi si aumentano i piaceri meditativi e di condivisione, punto che mi trova completamente in accordo con Cicerone. Qui parte la sua digressione sulla campagna, di cui ho già espresso il mio sentire. L’ultima è la più forte, la più sentita dagli anziani. La morte si avvicina. Ma come già espresso nel commento ad altri saggi, solo l’esistenza della morte fa si che abbia senso quello di cui si è vissuto. Il termine, anche se non ne conosciamo la tempistica, implica una riflessione (che più si comincia per tempo meglio è) sulla futilità di certi comportamenti e certe mete. E sulla necessità di concentrare la propria attenzione sulla riflessione di cosa abbia un sé per il proprio io. Noi, a prescindere dai credi personali, rimarremmo comunque presenti al di là dello spazio fisico, con quanto abbiamo fatto, e con quanto abbiamo lasciato. Tanti sono gli esempi che Cicerone fa per questo punto, punto forte ovviamente. E come non dargli ragione, nel mio piccolo e personale pantheon, dove ci sono persone e personaggi, pubblici e privati, che purtroppo non frequento più fisicamente, ma con i quali continuo a ragionare internamente. E per sempre (almeno per il mio sempre). Sperando che altrettanto sia dopo di me. Idealmente, il breve scritto, mi si ricollega al da non molto citato libro di Hilmann sul completamento del carattere e della propria personalità giustamente nel tempo cosiddetto della vecchiaia. Il punto centrale poi, cui accenno solo per non allungare troppo lo scritto, meriterebbe un trattamento a sé, forse un saggio, dove poter citare ed elencare le gesta ed i comportamenti quotidiani di Fabrizio Luscino, di Curio Dentato, di Tiberio Coruncanio, di Marco Valerio Corvino, di Lucio Flaminino. Solo a sentirne i nomi, mi vien quasi voglia di farlo presto. Si torni però al testo, ricordando le molte metafore della vita come un’opera di teatro, dove tu attore potrai avere applausi, anche se non comparirai nell’ultima scena. Ma più ancora, a quell’immagine del vecchio che guida la nave usando senza sforzo il timone. La sua conoscenza (la mia?) della vita varrà più a tener ferma la barra sulla retta andatura, meglio del correre a destra e manca in preda alla paura. Paura che c’è e rimane, sempre, in ogni istante della vita, ma che va guidata dalla consapevolezza della finitezza terrena. Riflessione che è bene cominciare sin da giovani. Grazie Cicerone! (ed anche ai donatori.)
“I vecchi … devono diminuire le fatiche fisiche e aumentare invece l’attività della mente … La dissipatezza, se vergognosa in ogni età, nella vecchiaia specialmente è turpe. Se poi si aggiunge anche l’intemperanza dei piaceri, duplice è il male che ne deriva, poiché la vecchiaia riceve disonore per sé e rende più spudorata la sfrenatezza dei giovani.” (27) [da Cicerone ‘Sui doveri’ dedicato a SB]
“Seneca: ogni genere di piacere trova lo stadio più allettante nel momento finale.” (36)
“Ogni età della vita è gravosa per quelli che non trovano in se stessi un aiuto che li faccia vivere felicemente.” (55)
“Gorgia da Leontini [per i suoi cento anni]: Non ho nulla da rinfacciare alla vecchiaia.” (65)
“Solone si vanta nei suoi versi di invecchiare imparando sempre qualcosa.” (75)
“Ogni parte della vita possiede un che di naturale da cogliersi al tempo giusto.” (81)
“Non vi è delitto o atto disonorevole che non trovi spinta nella brama del piacere … dove esso regna… non può abitare la virtù.” (87)[sempre per SB]
“Ringrazio di cuore la vecchiaia che mi ha accresciuto il desiderio di conversare.” (93)
“I vecchi sono uggiosi, sospettosi, intrattabili e difficili: e se vogliamo anche avari. Codesti però sono difetti del carattere, non della vecchiaia!” (109)
“Non mi pento di aver vissuto perché l’ho fatto in maniera tale da non ritenere di essere nato invano.” (123)
“La vecchiaia è l’ultimo atto della vita … del quale dobbiamo evitare la stanchezza, specie quando sopraggiunga la sazietà.” (125)
“Seneca: ogni giorno ritienilo una vita; chi si prepara in questo modo e vive ogni giorno nella sua pienezza, è tranquillo.” (139)
“Temistocle, a chi gli voleva insegnare l’arte di ricordare, rispose di desiderare maggiormente l’arte di dimenticare.” (151)
“La qualità della vecchiaia è legata strettamente al tenore della vita trascorsa da giovani.” (154)
“Dalla nota sui convivi: i commensali devono essere non meno che le Grazie, non più che le Muse; cioè in numero non inferiore a tre e non superiore a nove.” (161)
“Il vecchio è in condizioni migliori rispetto al giovane, in quanto ha già conseguito ciò che l’altro può solo augurarsi.” (169)

Ed ancora più saggiamente dobbiamo riflettere in questa giornata che ci porterà un sindaco, speriamo nuovo, a Roma, speriamo … speriamo … speriamo… 

domenica 19 maggio 2013

Roma vs. Firenze - 19 maggio 2013


Scontro di città, e scontro di autori (Ricciardi vs. Vichi) e di commissari (Ponzetti vs. Bordelli). Infatti, questa settimana mettiamo da un lato la Roma moderna di Giovanni Ricciardi e del suo commissario che si aggira tra il quartiere Monti ed il resto della città, e dall’altro la Firenze del boom industriale dei primi anni ’60 di Marco Vichi e del suo commissario che invece porta ancora con sé i ricordi di una guerra da poco finita, e vede nascere un’Italia che non sempre gradisce. Ponzetti è invece ormai privo di illusioni, in questa Roma corrotta, ma sempre umana anche se, purtroppo, alemanna (speriamo ancora per poco).
Giovanni Ricciardi “Le indagini del commissario Ponzetti” Fazi euro 14,90
[A: 16/09/2012 – I: 08/02/2013 – T: 10/02/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 484; anno: 2012]
Torniamo alla grande sul commissario Ottavio Ponzetti, forti anche delle parole di amicizia che ho scambiato con l’autore. Parole che sottoscrivo ancora, al di là della prolificità di cui mi lamentavo. Scrivere poco ma scrivere bene è un precetto favoloso. E questa trilogia che Fazi fece uscire in vista del Natale lo ribadisce e se vogliamo, migliora le sensazioni che ho avuto alla lettura dei gatti. Su quello non torno, mentre mi soffermo sulle voci e sugli occhi, epicentro delle nuove avventure. Che sono gialli, ma forse di più e meglio sono momenti di una vita, o di vite che si intrecciano. Sì ci sono misteri, e forse chi più adatto di un commissario a traguardare queste vicende, avendo occhi attenti a tanto altro (Roma, la politica, i quartieri, la famiglia, i ragazzi). Ma pur andando con ordine, ribadisco qui il giudizio positivo su tutta l’operazione: storie solide, scrittura che si fa leggere (forse a volte nel libro sulle voci, con qualche citazione in exergo non semplicissima), ed una bella passeggiata nella vita romana. Penso che si passerà presto anche all’ultima fatica del commissario.
“I gatti lo sapranno” pag. 5 – 108 (2008)
Lo avevo comperato da solo, e già ne ho parlato ad Agosto del 2012, cui rimando per chi ne volesse rileggere.
“Ci saranno altre voci” pag. 109 – 276 (2009)
[T:09/02/2013]
Indagine, inchiesta, sparizioni. Si precisa in questo secondo romanzo sia il carattere del protagonista sia quello dell’autore. La vicenda prende le mosse dalla sparizione di un professore di liceo (forse un tentativo di immedesimazione?) durante il tempo delle elezioni romane del sindaco nell’aprile del 2008. Sparizione concomitante con un altro avvenimento epocale per il Commissario: il trasferimento da Monti ai Parioli. Questo da agio al nostro autore di darci altri squarci di Roma, non così intensi come la storica suburra, ma molto “giusti” visti con l’occhio di una persona che adora la sua città: un quartiere strano, atipico, accoccato tra la salita di San Valentino (da cui si vede l’Auditorium di Renzo Piano) e la montagna di Villa Glori, con gli eroici difensori della Repubblica Romana. E scavallando Belle Arti (memori delle battaglie del ’68) si plana poi verso Villa Borghese e lo zoo. In questo quartiere “liquido” come direbbe Baumann (che si adatta piuttosto che far adattare a sé), si precisa questa storia scolastica, punteggiata da molti riferimenti letterari (le voci). Anche qui, esce fuori, e prepotente, il mestiere di base di Ricciardi, con quelle frasi che solo chi maneggia di letteratura può riuscire a collocare qua e là nel testo, e poi a collegarne il filo. Quasi che ad ogni lettura in aula il pensiero partisse e accomodasse un qualche tassello. Paolo e Francesca che più “non vanno avante”, Pavese ed il mestiere di vivere. Ponzetti cerca anche di capire di più di questo professor Coen, per l’appunto scomparso. Chi frequenta? Che interesse ha la collega Musa, dal nome foriero? E gli alunni, dal destro Folco all’anoressica Ginevra? Coglie, collega, pensa, distratto anche dalla routine familiare, dalla figlia in crescenza Maria (e come non notarne l’attenzione ai giovani, che, a volte scapestrati, pur riescono ad aver guizzi di bravure insospettate) alla più grande Gisella tornata da Erasmus con fidanzato catalano. E si precisa anche il carattere del sodale Iannotta, che pur restando a Monti, non può fare a meno di essere vicino ed a volte decisivo nelle indagini. Certo, ci si aspetta fin dall’inizio un qualche collegamento con l’anima ebrea di Roma, laddove un Coen di certo è collegato. A me che ne narrò mio padre, risentire quegli anni fa comunque un dolce piacere per non cadere negli oblii. Come giusta e ben collocata la citazione del testo di Buzzati per commemorare il giorno della memoria. Tra votazioni e ballottaggi, purtroppo la città di Roma passa dai piccoli sacchi del Piacione ai saccheggi di Lupomanno. Ma questo porta il nostro Commissario ha trovare un senso a tutte queste voci, a sfatare possibili ed ingiuste accuse di circonvenzione di minori, a vedere un senso tra amanti veri e finti, tra sangue (poco) e passione (tanta). Arrivando a dipanare, ma senza troppa fretta, e con l’empatia che abbiamo apprezzato nei gatti, una vicenda che comincia appunto nel 1943 e che si risolve in un oggi, forse non con tutte le speranze che vogliamo, ma con quei barlumi di futuro che ci danno gli annunci di future nascite (che sia la moglie di Iannotta, per scelta, che la bella Gisella, per sbaglio, finiscono il romanzo in dolce attesa).
“Il silenzio degli occhi” pag. 277 – 485 (2011)
[T:10/02/2013]
Una volta terminate le voci, il tempo di passare una tranquilla notte, ho subito attaccato il terzo romanzo. E l’ho praticamente divorato. Perché quando un romanzo mi prende, non riesco poi a staccarmene, tirando tardi la notte, e cercando scuse diurne per aprirne le pagine. Sono passati pochi mesi, e siamo verso il Natale del 2008. I tempi delle puerpere si avvicinano al loro scadere. E Roma, e noi romani ben lo ricordiamo, è assediata da una delle più alte piene del nostro ex-biondo Tevere. In questo scenario acquatico parte la nuova vicenda, laddove il Commissario si trova in macchina inopinatamente un bimbo scalzo e addormentato. Avendo poco prima intravisto (ma sarà vero?) la faccia di una ragazza protagonista di un suo caso passato. Anche questa volta, e con piacere quasi si volesse far vedere le bellezze della nostra città nascoste nelle pieghe del testo, le indagini si muovono tra luoghi a me cari. C’è il lungotevere davanti a Regina Coeli (laddove nell’elementare dedicata a Tarquani Avati mio padre passò i suoi primi anni scolastici), stretto tra l’Orto Botanico ed il carcere (dove tenni una delle più difficili lezioni sulla musica popolare). C’è la Chiesa Nuova e il Teatro dell’Orologio (sede di gesta di molti miei amici attori). C’è anche il Bambin Gesù (funesto in gioventù, aduso a buone nuove con la Saretta piccola). In questo scenario complicato, stretto anche con le visite pre e durante parto all’Isola Tiberina, si dipana la storia. Anch’essa ben complicata, se vogliamo. Che il bimbo si scopre sordomuto, poi misteriosamente aiutato da qualcuno. Ponzetti e Iannotta risalgono la corrente come salmoni alla ricerca di brandelli di indizi. E mirabilmente (per il mio amore per la città) il commissario viene aiutato da misteriose foto di dipinti caravaggeschi. Tuffo al cuore, che adoro il pittore, ne ho seguito le tracce per Roma, ne ho cercato la tomba in quel di Porto Ercole, finendo anche a trovarne i dipinti nella cattedrale di Malta. Ah, quando si dice l’empatica fortuna. Seguendo la storia dei dipinti, la loro collocazione, lo squarcio di gomme ad una serie di SUV, nonché ad una Mercedes fuori dal coro, i nostri cominciano a vedere delle luci. Ma anche (tocco magistrale) a scontrarsi con i Servizi Segreti. Che il piccolo disabile è figlio di altolocata persona, che la madre sparì, che il padre cerca forse con intenti loschi, che la ragazza intravista sul Lungotevere c’entra più di quanto si pensasse. E c’entrano gli infermieri clown che allietano i piccoli ricoverati in Ospedale. Ed i tifosi della Roma e le loro radio cittadine. Ma poi ci sono gli ecologisti infuriati che un SUV uccise una ragazza in bicicletta. C’è il tentativo (ma è solo un tentativo o si avvina a verità) di mettere in mezzo il futuro genero di Ponzetti, il catalano Jorge, pericolosamente vicino a centri sociali. E c’è Gisella in cinta che recita una commedia di Terenzio. E nasceranno i due bimbi (e ne siamo contenti). E c’è il profugo cileno, vittima di tante storie, e tante volte pervicacemente a ricominciare da zero. Qui Ricciardi fa fare una bella pensata al commissario Ponzetti, che con un’azione magistrale riesce a risolvere il caso, uscendo dall’impasse cui lo avevano stretto i servizi segreti. E tutti ne escono bene (o almeno abbastanza).
Giovanni Ricciardi “Portami a ballare” Fazi euro 16,50 (in realtà, scontato a 10,40 euro con Mondadori Card)
[A: 01/12/2012 – I: 11/02/2013 – T: 12/02/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 224; anno: 2012]
Con questo ho quindi esaurito le storie pubblicate da Giovanni Ricciardi sul commissario Ponzetti. Devo dire che siamo tornati un po’ indietro nel gradimento generale, rispetto alla punta che, per me, è “Il silenzio degli occhi”. Anche se qui siamo un po’ più gialli, visto che il morto c’è, ed è centrale nel romanzo e nelle indagini. Purtroppo siamo verso l’estate, quindi si defilano un po’ i personaggi della famiglia (moglie, figlie e nipotina sono al mare a Lavinio). Ha un po’ più di spazio il (forse futuro) genero Jorge, che aiuta il commissario con un testo spagnolo, una biografia scritta dallo scrittore ombra Andrea come fosse l’auto-biografia del tanguero argentino Morin. Ed anche (ed è un personaggio che mi piace molto) l’avvocato in pensione Galloni con le sue riflessioni, che sembrano sghembe al romanzo, e non lo sono mai. C’è quindi questo cadavere trovato vicino a Porta San Sebastiano, occasione per alcune reminiscenze giovanili del commissario, con tutti i misteri del caso. Perché Andrea ha scritto questa biografia? Chi è la misteriosa “rossa” che appare e scompare dalla trama? Perché Andrea da Bolsena si reca spesso a Roma? E tanti altri interrogativi. Non ultimo il fatto che questo misterioso Marcelo Morin non viene mai cercato dal commissario, con la scusa che è tornato in Argentina. Ma per lunghe pagine mi sono domandato se esistesse davvero, visto che ne viene data assodata la presenza, ma non si fa nessuna ricerca in quella direzione. Anche il solerte Iannotta lo tralascia, per dedicarsi a scavare nella vita di Andrea, lasciando anche lui al mare la moglie con il figlioletto Gabriele. Come al solito, e questa costante è un piacere ritrovarla nella lettura, i temi di Ricciardi sono molteplici, e si accavallano sulle pagine, facendo in modo, a me lettore affamato, di staccarmi difficilmente dalla pagina. C’è la comparsa della sorella di Andrea, e la scoperta di una strana affinità tra lei e Iannotta, cosa che fa pensare (forse giustamente) a Ponzetti che ci sia odor di scappatella. C’è il ritrovamento delle tracce della rossa, che si scopre irlandese, di nome Kelly, e protagonista di un’avventura “piccante” con il Morin durante un viaggio verso Santiago di Compostela. C’è infine la scoperta di foto di Andrea e di Marcelo, da cui salta fuori una somiglianza impensata. Motivo che mi fa sempre più credere nella difficile esistenza del ballerino sudamericano. Per scardinare le basi dell’indagine, il nostro commissario decide anche di fare un salto lungo “el camino”, con Jorge da interprete. E questa trasferta si rivela essenziale alla comprensione di alcuni dei meccanismi base della vicenda. Per poi dedicarsi, Ponzetti e Iannotta, ad un lungo briefing, come si chiamerebbe ora, dove, davanti a bottiglie di birra, analizzano tutte le strade percorribili, tutte le ipotesi e le conseguenze deducibili, rendendo un omaggio (quanto mai da me gradito) a tutti quei gialli basati sull’analisi. Ricorda da vicino le discussioni dei pre-finali tra Nero Wolfe ed Archie Goodwin. e come nei casi classici, solo la mente alla fine ha l’illuminazione, anche se l’operazione di Ricciardi è divertente, perché in questo caso è la mente stessa che scrive e non il suo alter-ego. Non sarebbe male, piccolo inciso, vedere un Nero Wolfe scrivere la storia al posto di Archie. Arrivando così alla soluzione del caso, a capire chi è il colpevole (anche dopo aver inquisito e poi assolto diversi comprimari). Come sempre in Ricciardi, la soluzione non è poi legata alla punizione, che viene demandata a momenti altri. Il commissario scopre e deduce, non deve giudicare, altro elemento positivo della serie. Detto che il tutto è complicato dal fatto che Ponzetti non è il titolare delle indagini, ma serve a togliere castagne dal fuoco altrui (un po’ di critica non fa mai male, anche se preferivo quella del precedente), il romanzo è ben congeniato. Personalmente mi ha coinvolto meno, come se fosse più stanco in alcuni punti, meno pieno della voglia di raccontare di altre uscite. E soprattutto meno pieno di squarci romani che avevano solleticato anche a me rimembranze diverse. Ma continuo a gradire il poco prolifico (così l’ho descritto nella prima uscita) Ricciardi, scusandomi di questa definizione, visto che ha pubblicato ben 4 romanzi in poco tempo (e per il restante del tempo si dedica alla sua professione principale, che meglio usciva con piccoli squarci di luce in altri romanzi, soprattutto nel secondo). E sperando che voglia ancora continuare sia a scrivere che ad onorarmi di private corrispondenze.
“Il tempo sorride di noi. Abbiamo questa vita, non un’altra, e una sola morte. E dunque abbiamo solo quest’oggi per scegliere la via, ogni giorno.” (105)
Marco Vichi “Il nuovo venuto” TEA euro 9
[A: 13/05/2012 – I: 09/03/2013 – T: 11/03/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 426; anno: 2004]
Non un grande intreccio giallo: morte di un usuraio e ricerca (senza troppa fretta) dell’esecutore. Ma una buona descrizione dell’atmosfera italiana e toscana nel Natale del ’65. Siamo al terzo episodio della serie dell’ispettore Bordelli, ed anche se come già detto il giallo è solo “laterale”, a me è piaciuto leggerne ed immergermi nell’Italia del boom economico. Intanto ritroviamo i personaggi comprimari della serie, a volte più interessanti dello stesso ispettore. Ennio Bottarini, detto “Il Botta”, ladro ed amico di Bordelli, ma anche cuoco geniale (come non ricordare le sue gustose ricette riportate in finale e dal titolo “Vangelo secondo Ennio”?). Il dottor Diotivede, patologo puntiglioso, Totò, lo chef che apre la sua cucina per Bordelli ad ogni pranzo (e lo riempie di piatti super-piccanti), Dante l’eccentrico inventore eccentrico, e Rosa l’ex-prostituta che è ormai una sua compagna fissa di chiacchiere e rilassamento. C’è anche, ma lontano, il suo braccio destro. L’agente Piras, in convalescenza in Sardegna, dopo le ferite riportate nel finale della seconda storia. Ma anche con le stampelle, il giovane agente indaga in un altro mistero. Così che i gialli raddoppiano e si alimentano a vicenda. Anche il piano narrativo segue l’andamento dei primi romanzi. Che in parallelo alle vicende contemporanee Vichi ci narra storie di guerra, e ripercorre l’esperienza passata del giovane Bordelli e dei suoi compagni tra fascisti, tedeschi e partigiani, in un teatro di azioni e sentimenti contrastanti, che acquistano una valenza profetica nel rispecchiamento di un confuso e infelice presente. Ed è questa la parte forte del romanzo, quella che poi da un senso alle vicende che seguiamo in diretta. Bordelli, infatti, ostinatamente persegue un concetto della giustizia non sempre coincidente con i protocolli giudiziari, tanto che preferisce concedere amicizia e fiducia a ladri e prostitute piuttosto che ai suoi superiori gerarchici, con i quali è immancabilmente in conflitto. E benché seguiti a cercare prove per la scoperta dell’assassino, sentiamo che è ben più vicino con la testa a questi che all’usuraio ucciso. E la stanchezza con cui indaga si propaga un po’ troppo per tutte le pagine, scandite da quell’immancabile tormentone sulle sigarette, che accende, che spegne, che fuma e non vorrebbe. Insomma, la tira un po’ per le lunghe e ce ne stufiamo assai presto. Sappiamo anche tutto il meccanismo della vicenda, cercando di capire come Vichi cercherà di impostare il finale (e lo farà in modo che non mi aspettavo). In un certo senso, mi sento più coinvolto dalle ricerche di Piras, che faranno invece luce su di un finto suicidio, che in realtà porta alla luce i misfatti di un criminale di guerra. E vicino anche allo stesso Piras, ai rapporti con i suoi sardi genitori, in attesa di tornare dalla sua bella che lo aspetta a Firenze. In conclusione, un libro leggibile, che mi conferma il giudizio sempre positivo che ho dato dell’autore. E poi, ripeto, quando si chiude con ricette come “la ribollita di Totò”, gli “spaghetti alla come mi pare”, lo “spezzatino mamma li turchi” o “il coniglio alla Tex”, non si può che essere contenti di averlo letto, sperando che qualcuno ci faccia la grazia di cucinarci almeno uno di questi piatti. Buona lettura e buon appetito.
“- Che cavolo si vive a fare? … - Non lo so che minchia si vive a fare … ma a me vivere mi piace.” (425)
“La sua più grande paura era quella di diventare un vecchio pieno di rimpianti.” (426)
Marco Vichi “Perché dollari?” TEA euro 9
[A: 01/11/2012 – I: 25/04/2013 – T: 25/04/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 260; anno: 2005]
Veloce da leggere, e senza lasciar tracce. Innanzi tutto, sono 4 racconti e ½ e già questo mi ha un po’ disturbato, che la manchette riportava “un’inchiesta del commissario Bordelli”. Sono assolutamente d’accordo con i critici che dicono come Vichi sappia scrivere e tenere in mano la penna ed il lettore. Le sue ricostruzioni di Firenze nelle precedenti puntate del commissario Bordelli sono sempre interessanti, così come altri scritti (ne ricordo uno a quattro mani con Gori). Qui invece si perde. Le idee vagano per la pagina senza prendere direzioni concrete e/o coinvolgenti. Sono racconti sciatti, già sentiti, portati avanti senza molta convinzione. Eliminerei subito dal contesto il racconto “mezzo”, quello contrabbandato come inedito. Sono cinque pagine di “ossequi” ad un commissario andato in pensione (era ora Bordelli!), che si perde nella campagna toscana e si domanda se sia meglio perdersi o tornare in città. Domanda inutile. Come inutile è anche il primo racconto, ambientato nel 1957 ed imperniato su un Bordelli prima dei romanzi che ne costruirono la meritata fama. Ma non è un’indagine, come ci farebbe credere la quarta. Sono momenti di vita, la conoscenza della bella Rosaria (e poi si vedrà se avrà sviluppo). L’amicizia con il patologo Diotivede, che, proprio per amicizia lo coinvolge in una storia di spie e contrabbandi. Dove si intuisce tra le righe che le cosiddette spie sono in realtà degli strani “combattenti per la libertà”, e che i diamanti trafugati serviranno a finanziare la rivolta cubana del comandante Fidel. E che c’entra Firenze? E l’Italia del boom? Ed il rapporto tra Bordelli e gli istituti religiosi? Lascerei perdere, e passerei agli altri, se non si rischiasse di cadere ancora più in basso. Certo è ben costruito il secondo sul rapporto tra un giovane scrittore, un libraio anziano che presto andrà a morire, ed uno spazzacamino nano che lo aiuta a ritrovare una persona scomparsa. Data la fissa di Vichi con la Guerra, non è difficile capire che librario e scomparso furono artefici di un qualche cosa durante gli anni di Guerra. E non è difficile immaginare il librario giovane partigiano e lo scomparso repubblichino di mezza età. Il messaggio che ci vuole mandare Vichi è che i buoni sono meglio dei cattivi, quando continuano, nonostante tutto, a fare i buoni. Ma continuando ad essere buoni, si potrebbe finire come il protagonista del terzo racconto, il ragioniere Bartolini. Che trova un portafoglio per strada con un milione e mezzo di lire (la storia è ambientata negli anni ’90), decide di restituirlo al proprietario. Che lo accusa di averne rubato una parte, che lo fa andare in galera per accertamenti, dove è scambiato per un possibile maniaco, e la sua foto finisce sul giornale. Bartolini alla fine ne esce, ma con quale fiducia nella giustizia? Ovviamente nessuna, che la persona più umana, non a caso, è un carcerato che lo difende. E che dire dell’ultimo racconto, anch’esso di una cocente inutilità. Un finanziere si infiltra nelle maglie di piccoli spacciatori del verisiliese. Si fa amico un malvivente di mezza tacca. Riesce a trovare un bandolo per arrivare ad un giro di coca. E deve decidere se portare avanti l’indagine e la retata, mandando il malavitoso in galera, o mandare tutto in fumo. La scelta in realtà è pretestuoso, che tutti sappiamo quale può e deve essere. Solo che Vichi usa ben 40 paginette per arrivarci, condendoci le storie del finanziere con un suo amore francese, i rapporti con i genitori, con i superiori, la sua solitudine, l’amicizia verso gli sbandati. Insomma, posso dire complessivamente una palla. Non grandissima, non megagalattica, ma francamente da possibilmente evitare senza rischio di perdersi nulla del panorama editoriale mondiale. Speriamo che la prossima inchiesta del Commissario sia all’altezza della fama sua e del suo autore.
Come concludevo la trama scorsa, ho aggiunto nuovi lettori, nonché vecchi amici, a queste trame. Che ricordo sono (tendenzialmente) settimanali, che sono, come dice il titolo, “Tra me e voi là”, e quindi vi arrivano, le leggete se volete, e, come i miei più fedeli sanno, mi rispondete e mi suggerite altro da leggere. E sicuramente ne potete trarre indicazioni bibliografiche e circostanziali sulle mie letture (ogni libro è corredato da indicazioni su date, titoli originali, nonché Arrivo nella mia libreria, Inizio della lettura e Termine della stessa). Ormai la grande festa è un ricordo, ma molto gradito, e spero foriero di altro, che vedremo nel futuro. 

domenica 12 maggio 2013

Avventure in Egitto - 12 maggio 2013


Una settimana mono-tematica, tutta dedicata ad alcuni romanzi dell’inglese Elizabeth Peters che continuano a narrare le vicende dell’archeologa Amelia Peabody nell’Egitto a cavallo del XX secolo (le prime di cui scrissi cominciano intorno al 1885, le ultime che verranno si collocano intorno al 1920). Come scrissi e ripeto, scrittura agile, scorrevole, con qualche punta gradevole e qualche passaggio un po’ stanco. Ma stiamo in Egitto, amici, e come ci si può tirare indietro?
Elizabeth Peters “L’enigma della piramide nera” TEA euro 8,60 (in realtà, scontato 7,31 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 25/01/2013 – T: 30/01/2013]
[tit. or.: Lion in the valley; ling. or.: inglese; pagine: 359; anno 1986]
Sempre agile, ma mi aspettavo qualcosa di più. A cominciare dalla solita discussione sui titoli. L’inglese “Lion in the valley” indica uno degli attributi del dio Sethos, che ha un senso nella storia, come vedremo. I due titoli italiani con cui questo libro è uscito sono “allucinogeni”. Il primo (al tempo della prima pubblicazione nei gialli Mondadori) recitava addirittura “Amelia Peabody e il maestro del crimine”. Questo della TEA fa riferimento alla Piramide Nera, una delle piramidi in località Dashur non lontano da Il Cairo (quaranta chilometri a sud, molto vicino a Saqqara). Ma i nostri eroi non entrano mai nella piramide in questa storia (mentre vi erano rinchiusi nella precedente). Anzi lavorano alle due Piramidi di Snefru, la rossa e la romboidale. E l’enigma è tutto altrove. O meglio, di enigmi ne abbiamo pochi, e tutto si gioca sull’abilità della nostra veterana scrittrice di creare atmosfere ed intrecci, più o meno plausibili. Intanto abbiamo gli eroi della serie, che per ora rimangono fedeli a se stessi, come nelle fiction meglio riuscite. Amelia, la voce narrante, che ci guida lungo i passi della trama, non disdegnando (cosa quanto mai utile) sia digressioni archeologiche (anche se in questo libro meno che altrove), sia tirate contro la strapotenza maschile che relega la donna ad un ruolo di secondo ordine (quando va bene). Questi, in realtà, sono in questo libro i passi migliori: la donna è intelligente, sa fare il proprio lavoro al meglio (e sa anche organizzare gli affari domestici), ed altre frecciate che hanno senso sia all’epoca della vicenda (ricordo che questo romanzo si dovrebbe collocare tra l’ottobre 1895 e la Pasqua del 1896) ma anche all’epoca della scrittura, che anche nel 1986 (anno anagrammatico della vicenda quindi) non è che la donna sia meglio trattata. Poi ci sono i maschi della famiglia: il marito Emerson, rude all’esterno e tenero verso Amelia, con la quale cerca di appartarsi appena possibile per indulgere in piaceri privati, che sembrano essere graditi da entrambi. Ed il figlio Walter detto Ramses, che ad otto anni parla correntemente arabo ed inglese, legge i geroglifici, ed ha la spiccata tendenza a mettersi nei guai, per seguire le sue idee di giustizia, innescando simpatici duetti verbali con i genitori (che salto all’indietro quando chiede al padre notizie sulla sessualità, ed Emerson comincia dalle amebe…). Purtroppo nel romanzo precedente, pur sventando le minacce contro di loro, i nostri non hanno assicurato alla giustizia il colpevole, che qui puntualmente si ripresenta, sembra con la feroce intenzione di vendicarsi. E si scopre così che nell’ambiente criminale de Il Cairo è soprannominato Sethos, il dio dai mille volti. E mille saranno i travestimenti che utilizzerà nel corso della storia. La quale, al solito, viene allietata da Enid, una signorina ambiguamente in pericolo, che Amelia non potrà fare a meno di soccorrere. E da un ufficiale dell’esercito radiato dal corpo, che si sta perdendo in Egitto, ma che ben presto scopriamo che è innamorato di Enid e che è stato allontanato perché non ha voluto accusare il fratello cadetto, che tenta di proteggere benché questi non sia niente di buono. La vicenda si dipana così lungo binari un po’ statici: pericoli, agnizioni, scoperte, buoni che sembrano cattivi e viceversa, con Sethos il cattivo che imperversa. Non manca la solita scommessa tra Amelia ed Emerson su chi riuscirà a smascherare il cattivo. Tutto si risolverà, anche se non tutto sarà risolto. Con questo piccolo enigma lascio la storia, e passo a sottolineare l’altro aspetto che mi fa cari questi libri: le descrizioni egiziane e cairote, l’albergo Shepheard, piazza Tahir, il caffè arabo ed i vicoli di Muski. Ahi perché non siamo di ritorno a passeggiare lungo il Nilo, verso Zamalek? Bisognerà tornarci, e presto (primavere arabe permettendo).
Elizabeth Peters “Indagine nel museo Egizio” TEA euro 8,60 (in realtà, scontato 7,31 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 30/01/2013 – T: 03/02/2013]
[tit. or.: The Deeds of the Disturber; ling. or.: inglese; pagine: 408; anno 1988]
Continuiamo con il quinto episodio della serie che ha per protagonista la nostra eroina, Amelia Peabody Emerson, e le gesta del suo gruppo familiare di archeologi dediti alla scoperta dei misteri affascinanti dell’Antico Egitto. Questo episodio, purtroppo, continua la tendenza al ribasso delle storie narrate dalla Peters. Sono momenti che passano in tutte le avventure seriali, dove, appunto, non sempre si riesce a mantenere per libri e libri la stessa tensione. Intanto, visto che questa è una recensione abbastanza critica, cominciamo con la solita mania italiana di sostituire senza un vero perché i titoli originali. Che non a caso, recitava nell’originale, “Le gesta del disturbatore”, incentrando l’attenzione del lettore su un misterioso personaggio, che, per l’appunto, “disturba” la quiete del Museo Egizio di Londra, e non solo quello. Già la prima traduzione andava fuori le righe, forse perché il romanzo venne pubblicato nei Gialli Mondadori, e divenne subito “I delitti del Museo Egizio”. Fortunatamente, il tiro viene corretto in queste edizioni tascabili, visto che di delitti, nel Museo Egizio, non se ne verificano affatto, con il più soft “Indagine al Museo Egizio”. L’unico elemento che serve al lettore, ma lo si sarebbe scoperto leggendo, è appunto che questo episodio si svolge tutto a Londra, avendo come epicentro dei ragionamenti deduttivi, non tanto il Museo Egizio, quanto l’archeologia egizia ed i suoi eponimi presenti sulla piazza londinese. La famiglia Emerson, di ritorno dalla spedizione di cui narrata sopra, si appresta a passare un’estate inglese, per mettere a posto quanto scoperto e dedotto in Egitto (un libro per Radcliffe, un’analisi della Piramide romboidale per Amelia e gli esperimenti sulla mummificazione del piccolo Ramses). Questa routine è ben presto sconvolta da avvenimenti familiari (ad Amelia vengono lasciati per l’estate i suoi due nipotini, il perfido Percy e la piccola e bulimica Violet) e da avvenimenti “delittuosi”. C’è un morto nel Museo (ma si scoprirà che non è stato ucciso, bensì…), e c’è la stampa che (per aumentare le tirature) ci gioca sopra facendone nascere un caso. Soprattutto da parte di Kevin (che conosciamo per essere stato presente un paio di episodi fa) e della sua rivale miss Minton (nobile decaduta, ma di buona penna, che cerca in tutti i modi di entrare a suon di scoop in un mondo maschile). La bella è inoltre concupita, con discrezione, da Eugene, un archeologo del museo, che non si capisce se imbranato o furbo. Poi muore un archeologo legato al museo, ma viene ucciso sulle rive del Tamigi, vicino all’obelisco egizio. Amelia entra potentemente in azione, e, anche se non pienamente in accordo, ma sostenuta dal marito, scopre alcune possibili piste. Tutte legate appunto all’apparizione di un disturbatore, che si mette a recitare versi in antico egizio, davanti ad una mummia da poco arrivata a Londra. Mummia donata da un parente cadetto della regina Vittoria. Parente dedito sicuramente all’oppio, che va a fumare nella casa del fumo della bella Aysha. La quale poi non era altro che una vecchia (temporalmente) amante dello stesso mr. Emerson, prima che questi passasse (e definitivamente) ad Amelia. Ma la tresca scatena anche la gelosia della nostra. Si avviluppano così tutta una serie di storie. Percy che cerca di “mettere in cattiva luce” Ramses per entrare lui nelle grazie dei ricchi Emerson (con tentativi miserelli e fallimentari). Ramses che continua a fare il saccente (ed un po’ stufa), ma anche a divertirsi con i travestimenti trafugati al cattivo Sethos della puntata precedente (e stranamente Sethos non compare in questo libro), e ad utilizzarli per salvare la situazione finale. Poi c’è il possibile scandalo del coinvolgimento della famiglia reale nelle tresche, anche se i gaudenti aristocratici hanno sicuramente qualche colpa ed organizzano qualche festino di troppo. Poi ci sono i giornalisti, le possibili storie d’amore, e la scoperta dell’insospettabile cattivo, questa volta preso ed arrestato, così che almeno questa parte di storia possa avere un punto fermo. Ma come detto è tutto un po’ lento, un po’ macchinoso, troppo “inutilmente fumoso” per dare qualche area di mistero alla vicenda. E non c’è (cosa che almeno aveva un suo fascino) l’aggirarsi per le vie polverose del Cairo, tra caffè e vecchi bazar. Insomma, una lettura minore, giusta solo per distrarsi in un momento di difficile organizzazione di vita, tra lavori ed impegni. E per finire ancora con qualche tirata d’orecchi agli editor della TEA, che iniziano la quarta chiedendosi se la paura può uccidere, e sviando l’attenzione del lettore su un terreno che non verrà mai toccato durante la narrazione. Rimane qualche nebbia londinese, ma Londra non è una città che ami troppo, quindi rimane nebbia e non si dirada.
“Non ho mai creduto che la casualità della nascita comporti obblighi per le parti interessate, neppure tra genitore e figlio, una volta superato il periodo di dipendenza, quando la prole ormai adulta, cui è stato garantito ogni vantaggio in termini di salute e istruzione, è ormai in grado di reggersi per conto suo. L’affetto, invece, va guadagnato. Per quelli che mi stanno a cuore darei la vita, il mio onore e tutti i miei beni terreni … e do per scontato che loro farebbero lo stesso per me.” (66)
Elizabeth Peters “Il mistero della città perduta” TEA euro 9 (in realtà, scontato 8,65 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 15/02/2013 – T: 19/02/2013]
[tit. or.: Last Camel died at Noon; ling. or.: inglese; pagine: 446; anno 1991]
Sono rimasto un po’ deluso da questo nuovo episodio delle storie della famiglia Peabody-Emerson nelle lande egizie. Già il precedente era risultato un po’ moscio, tutto ambientato a Londra sulla scia di misteri “da cartolina”, del tipo di quelli che anni dopo hanno regalato al cinema le ignobili serie de “La Mummia”. Questo, come la stessa autrice confessa nel finale, a mo’ di ringraziamenti e note autorali, è in realtà un piccolo omaggio alla letteratura inglese dell’Ottocento. Quella dedicata ai Mondi Perduti, per intenderci, che ebbe come capostipite Rider Haggard e i sui romanzi “Lei o La donna eterna” e “Le miniere di Re Salomone”. Intanto, e fortunatamente, siamo ormai lontani dal Kent e dalla piovosa Albione. Amelia, con il marito Radcliffe ed il figlio Ramses, sono di nuovo in Egitto, e per di più, non nei dintorni de Il Cairo. Questa volta hanno ottenuto un firmano (ebbene sì, questo è il nome giusto e corretto, un decreto che consente all’archeologo di svolgere lavori sotto l’egida dei governatori egiziani) per scavare al confine tra Egitto e Sudan, nel pieno della zona nota come Nubia. Incidentalmente, è la stessa zona, che, prima di partire, un lord inglese aveva loro nominato come luogo della scomparsa del figlio e della nuora. Ed in quella zona verranno visitati ben presto dal fratello dello scomparso, per il momento unico erede del venerando Lord. Si susseguono avvenimenti poco significativi (almeno come presa per il pubblico che già conosce i nostri eroi). Piccole avventure, il solito affaccendarsi del piccolo Ramses (che credo ormai vada per i 12 anni), il contrasto tra inglesi archeologici, scavatori locali e truffatori che si aggirano per quel mondo ancora da scoprire (dovremmo essere, infatti, intorno al 1897). C’è la mappa dello scomparso Mr. Forth, ma non sembra che i nostri abbiano intenzione di agire. Sarà Reggie, allora, che comincerà a muovere le acque, decidendo di partire con uno sparuto gruppo di cammellieri. Al suo mancato ritorno, Amelia & Co vedono che non c’è altro da fare, se non partire a loro volta. Qui si consuma la prima parte un po’ neutra, come dice poi il titolo originale, che recita letteralmente come l’ultimo cammello sia morto a mezzogiorno. Vedremo anche noi morire i nostri eroi? Sicuramente no! Ed ecco venire in soccorso i Mondi Perduti di Rider Haggard. Perché è una tribù ignota, che vive all’interno di una non meglio (e mai più) identificata Oasi Perduta. Vive isolata, senza contatti con l’esterno, in un mondo mutuato dall’Antico Egitto, con rigide caste sociali. Da un lato i nobili, dall’altro la plebe che lavora. Sono loro che salvano i nostri dalla morte. Ma, ed è ovvio e non si può immaginare sviluppi differenti, è anche la tribù che non li lascerà mai andare via vivi. Così come aveva fatto con i coniugi Forth una dozzina di anni prima. Tribù che ha anche preso prigioniero Reggie. Tribù che si trova in un grande conflitto dinastico, essendo morto il re padre padrone, e vedendo ora contendersi il trono i due fratellastri: Tarik e Nastas. Anche tutti i nobili, e le guardie si schierano (non apertamente, è ovvio). Si costruisce così un castello di inganni e di doppi giochi, abbastanza semplici (se letti con l’occhio alla scrittura) o molto complicati (se letti con l’occhio al tempo della trama). Unica costante, le strizzatine d’occhio che ci fa la nostra Amelia - narratrice quando riesce ad appartarsi con il suo bel marito, per fare cose che poi (sfortunatamente) non ci descrive, ma che ben capiamo. Tarik, scopriamo presto, è stato anche allievo di mr. Forth, che gli ha inculcato alcuni cosiddetti valori occidentali che poco si adattano alla cultura, ferma a mille anni prima di Cristo, in cui vive la tribù perduta. I nostri scoprono inoltre che i coniugi, lì nel mondo perduto, hanno anche messo al mondo una figlia, la bella Nefer, più o meno coetanea di Ramses. Immaginate bene che ci sarà, nel più puro stile ottocentesco, una catarsi finale, in cui ognuno troverà il suo posto, e dove, ovviamente (altrimenti non ci sarebbero altri libri da scrivere), Amelia ed i suoi riusciranno a fuggire portando con sé solo Nefer. E già mi immagino che la bella verrà adottata nei prossimi romanzi (vedremo se vincerò la scommessa). Detto che ci fa piacere vedere le birichinate di Ramses, che a poco a poco si rivela la persona più saggia del trio, poco altro resta del romanzo. Che, ripeto, sarà un sentito omaggio, ma scorre via senza dare molti altri piaceri. Certo, non mi tiro indietro quando si sente parlare di luoghi del deserto. E la nonnetta Peters non solo sa scrivere, ma è ben documentata su luoghi e situazioni. Però, questo è in minore.
“Gran parte dei ragazzini sono autentici barbari. È un miracolo che riescano a sopravvivere quanto basta per diventare adulti.” (63)
Elizabeth Peters “La maledizione di Nefertiti” TEA euro 8,60 (in realtà, scontato 7,31 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 24/02/2013 – T: 28/02/2013]
[tit. or.: The Snake, The Crocodile and the Dog; ling. or.: inglese; pagine: 455; anno 1992]
Purtroppo, e con dispiacere, noto che stiamo scendendo sempre più in basso, cara Barbara Meltz (questo il vero nome della nostra quasi novantenne scrittrice). Dopo aver tentato di innervare il filone dell’egittologa Amelia Peabody in Emerson facendo il filo a libri d’epoca come quelli di Rider Haggard (vedi commento precedente), qui cerca di tornare in un solco più consono alla serie così come era iniziata: scavi, archeologia e misteri egiziani. Purtroppo, però, decide di far tornare in campo, proprio per riprendere le tematiche iniziali, il vecchio antagonista dei primi libri, il criminale di cui non si conosce il volto e che risponde al nome di Sethos. Peccato che, invece, l’inizio sembrava promettente: il figlio so-tutto-io Ramses rimane in Inghilterra perché, dodicenne, comincia ad invaghirsi della bella quattordicenne Nefer che gli Emerson sembrano aver adottato, e l’azione si svolge nella piana di Amarna, teatro delle gesta del cosiddetto faraone eretico, Akhenaton, sostenitore del dio unico, sposo della bella Nefertiti, nonché padre del più noto (ma solo per la famosa tomba) Tutankhamon (che però, secondo recenti teorie, non è figlio di Nefertiti ma della concubina Kiya). Su questa base, che sembrava promettente, la nostra scrittrice mette su un guazzabuglio un po’ intricato. Qualcuno rapisce il baldo Radcliffe Emerson, per carpirgli chissà quale segreto. Con l’aiuto di Abdullah, Amelia libera il marito, che però rimane “senza memoria”. Ora questa tipologia di finzione avrebbe avuto una sua valenza se fosse (come poteva essere) un espediente di Radcliffe per proteggere la sua famiglia. Invece la nostra sostiene che l’uso massiccio di oppio ha sconvolto la mente del noto archeologo, imbastendo su questo alcune scene, gustose ma poco in linea con l’andamento generale. Perché poi si viene a scoprire che il segreto che si vuole dai nostri è l’ubicazione del mondo perduto del romanzo precedente. E mentre Radcliffe si espone in tutti i modi per far uscire i cattivi allo scoperto, il codazzo di persone che si reca ad Amarna con Amelia & co è tra i più eterogenei. C’è la bella Bertha, mezzo sangue salvata insieme a Radcliffe dalle grinfie di un cattivo, c’è Vincey, un avventuriero già noto per tristi commerci di reliquie egizie, e c’è Cyrus Vandergelt, milionario americano, molto (forse troppo) preso dalle grazie di Amelia ma che Amelia tiene a freno. Il tutto si snoda, però, secondo un’antica leggenda egiziana, quella del principe sfortunato, che, in pericolo per sorti strane, viene salvato dalla sua bella da tre trappole micidiali costituite da un serpente, un coccodrillo ed un cane. Che guarda caso è il titolo originale, e ben più pregnante delle malaugurate traduzioni italiane, non ultima quella con cui ci viene presentato qui, che Nefertiti non pare abbia fatto nessuna maledizione, se non qualche improperio per la follia del marito Akhenaton che si alienò la casta sacerdotale e che per questo fu ucciso. Lei, la bella tra le belle, pare prendesse la reggenza, riportando la capitale da Amarna a Tebe. Motivo per cui (all’epoca dei fatti) non si sapeva l’esatta ubicazione della sua tomba. E questo succede, che i nostri si salvano dagli attacchi dei tre animali, il veleno del serpente, la palude dei coccodrilli e l’idrofobia del cane (anche se poi, sembrano tutti un po’ caricati, come se, in realtà, si volesse spaventare i nostri e non farli fuori). Ed alla fine si scopre che, proprio come si sospettava da tempo, i cattivi sono in realtà due schiere entrambe alla ricerca del Mondo Perduto, ma in gara tra loro. Una con appendici in Inghilterra, dove da gustose lettere di Ramses apprendiamo alcuni degli avvenimenti colà svoltosi. L’altra solo egizia, ma con una propensione (che sappiamo propria di Sethos, così come l’aveva annunciato in un romanzo precedente) a fare di tutto, eccetto che del male alla bella Amelia. In un finale catartico, muoiono tutti (e non vi diciamo di che cattivi si tratta), Radcliffe riacquista la memoria, ed uno dei “morti” riappare poi nella capitale, che il morto lo aveva rapito e sostituito in quanto maestro dei travestimenti. Ma tutto è un po’ monotono, un po’ confuso, ed alla fine anche il momento finale (che nella scrittrice in genere era il momento chiarificatore) rimane un po’ oscuro, come se non si vedesse l’ora di chiudere una storia poca riuscita, per dedicarsi ad altre avventure. Che speriamo siano migliori!
E quando si parla di viaggi io sono sempre in prima linea. Anche se oggi avrei potuto parlare dei miei viaggi, reali e immaginari. Ed anche vicini e lontani. Che a volte, come tutti i miei amici sanno, un viaggio di sessanta chilometri è ben più duro di viaggi con molti zeri in più. Ma questa è una storia che verrà forse narrata altrove. 

domenica 5 maggio 2013

Meta-hystoriografìa - 05 maggio 2013


Torniamo su questa tematica che mi aveva incuriosito ed interessato alla lettura del degno “Loanda” di Isabela Valadão. E ci torniamo con una dose massiccia di Spagna (da cui il titolo ispanico). Anzi, con una dose massiccia, quasi letale della spagnola Asensi. Che però non riesco a portare al quarto titolo (troppo deluso dal terzo). E vi unisco quindi un portoghese, Tiago Rebelo, che speravo risollevasse questa uscita. Che invece rimane molto in minore.
Matilde Asensi “Tutto sotto il cielo” SuperPocket euro 6,90 (in realtà, scontato a 6 euro)
[A: 13/05/2012 – I: 11/11/2012 – T: 19/11/2012]
[tit. or.: Todo bajo el cielo; ling. or.: spagnolo; pagine: 465; anno 2006]
Peccato! Una buona occasione un po’ buttata via. L’idea di base del romanzo, infatti, ha un suo interesse, e poteva portare sviluppi interessanti o coinvolgenti. Siamo nel 1923. Una benestante donna spagnola, che vive in Francia con i soldi del marito francese il quale però vive in Cina (così ognuno fa la sua vita senza intralciarsi, visto il matrimonio fu di convenienza), è costretta a recarsi in Cina che muore il marito. L’accompagna la nipote sgraziata Fernanda, cui sono morti i genitori e di cui lei è tutrice. A Shangai scopre che il marito era: oppiomane, pieno di debiti, un po’ truffaldino, un po’ antiquario, e soprattutto che è morto ucciso da una Banda in cerca di un qualche tesoro. In breve tempo, la nostra Elvira, sotto i consigli di uno scozzese unico amico vero del marito morto, conosce un antiquario che le fa scoprire quale fosse il tesoro nascosto del marito. Uno scrigno che, decifrando i misteri in esso contenuto, dovrebbe portare alla tomba del Primo Imperatore. Il mitico Qin Shi Huang Di (che significa Primo Imperatore della Dinastia Qin, dalla cui pronuncia deriva il nome Cina). Da qui parte l’avventura che porta Elvira, Fernanda, Biao (un orfano cinese dalle grandi capacità matematiche) e l’antiquario Lao Yiang ad un lungo giro con molti mezzi per la Cina dell’epoca. Per decifrare i misteri dello scrigno. Per scampare le insidie ed i pericoli nascosti. Per trovare (forse) i tesori del Primo Imperatore. Questa trama poteva svilupparsi e dipanarsi in modo piacevole, magari giocando sul contro-altare delle differenze Oriente – Occidente, viste soprattutto da una giovane signora. Ed in parte utilizza questa chiave. Ma che viene annegata in alcune (troppe) didascaliche discussioni e/o elencazioni di “must” cinesi. La divinazione con l’I Ching. Le interpretazioni dello Yin e dello Yang. Il taoismo. Il Tai chi. I monaci shaolin. La supremazia cinese in tutti i campi (hanno inventato tutto loro molto prima e meglio che l’Occidente). Per poi scendere (poco) nel campo dei costumi e nel campo alimentare. Ed infine per imbastire tutta una disquisizione sullo stato della politica cinese. Senza però avere la verve pronta per suscitare empatia o interesse. Siamo nell’epoca di Sun Yat-sen. L’ultimo imperatore Pu Yi è rinchiuso nella Città Proibita. Il Kuomintang ed il Partito Comunista sono alleati contro le possibili inferenze dei Giapponesi. Insomma, c’era, eccome, materia per narrare ed intrigare. Purtroppo, le corde della Asensi in questo campo sembrano meno vibranti di quelle, ad esempio, che incontrammo nelle storie con gli aymara (cfr. “L’origine perduta”). Non coinvolge. Elenca, ma la narrazione rimane esterna. Vediamo i nostri quattro risalire fiumi, scalare montagne, visitare monasteri e tempi vari. Vediamo Elvira entrare meglio in sintonia con l’ambiente. Vediamo Fernanda crescere, dimagrire e maturare. Vediamo Biao risolvere enigmi più o meno complicati (tra cui viene proposto un quadrato magico d’ordine 9, che si risolve in tre minuti…). Vediamo infine l’antiquario Lao Yiang passare attraverso mille sfaccettature: antiquario, filosofo, nazionalista, comunista. Alla fine i nostri (o almeno alcuni o forse altri, ma questo non ve lo dico) troveranno la famosa tomba. Ma potranno prendere solo alcuni (ma di molto valore) gioielli, per poi far crollare tutto. E far perdere le tracce della scoperta. Perché, come molti sanno, la tomba è stata poi realmente scoperta con il suo meraviglioso esercito di terracotta solo nel 1974 (e cioè 50 anni dopo le vicende narrate). La fine fila via liscia, anche molto velocemente, ed in una decina di pagine seguiamo le vicende di almeno quaranta anni seguenti ai tre mesi narrati per 400 pagine. Insomma, come detto un’occasione perduta. Qualche inesattezza (per preservare per duemila anni alcune preziosità l’autrice utilizza mercurio, laddove i cinesi usavano il solfuro di mercurio che seconda la tradizione taoista è un attivatore della lunga vita). Da utilizzare per qualche lettura distensiva, all’ombra di una palma o davanti un caminetto accesso. Non molto di più.
“Sì, il mio pensiero era stato esattamente questo: voglio fare della mia vita un’opera d’arte.” (135) [da ricordare perché in 3 degli ultimi 6 libri ricorre questa frase, cfr. Hilmann e Bianchi]
Matilde Asensi “Terra ferma” BUR euro 8,90
[A: 31/01/2012 – I: 27/11/2012 – T: 29/11/2012]
[tit. or.: Tierra firme; ling. or.: spagnolo; pagine: 217; anno 2008]
Una prova di riscatto. Un’avventura, certo, e con un tocco (piccolo) di metastoriografia. Ma questa volta scorre, non ha intoppi, non si imbarca in descrizioni che portano lontano senza aiutare il povero lettore. Sarà che si parla di problematiche connesse al mondo spagnolo, ma senz’altro si sente sono più consone all’autrice. Intanto utilizza una scrittura più accattivante: sempre in prima persona, ma Catilina sembra proporsi in modo più simpatico rispetto alla stravagante dama scaraventata dall’Europa in Cina. Qui abbiamo fatto un bel balzo all’indietro (siamo verso la fine del 1500) e torniamo nelle terre di lingua ispanica. Siamo alla nascita ed allo sviluppo delle colonie spagnole nel primo secolo dopo Colombo. La storia si sviluppa poi proprio intorno alle isole caraibiche, ed alla costa colombiana in particolare, con epicentro logico in quel di Cartagena de Las Indias, appunto in Colombia. La quindicenne Catilina, figlia di una famiglia in disgrazia, viaggia verso le colonie per un matrimonio di convenienza. Per non cadere in mano ai pirati fugge dalla nave vestita da ragazzo e salvandosi su di un relitto alla maniera del buon Ismaele della Balena Bianca. Dopo giorni di deriva, si ritrova su di un’isola, dove vive, alla Robinson Crusoe, per più di un anno. Finalmente viene salvata da un buon battello di mercanti. E qui cominciano le sue fortune. Il comandante è un brav’uomo che le consiglia di rimanere vestita da ragazzo e poi da uomo. La porta in salvo sulla sua isola di Santa Marta, dove comincia la seconda parte della vita di Catilina ora Martin. Viaggi per nave, mercati e mercanti, crescita, amicizia con la donna di Esteban, tenutaria di un bordello. Tanto brava riesce (ed è ovviamente intelligente) che il nostro mercante, senza figli, decide di adottarla per lasciarle il suo impero (piccolo ma redditizio) in eredità se e quando si ritirerà dagli affari. Nel frattempo si assiste alla fuga degli schiavi dalle disumane condizioni dei coloni. Alla lotta tra negri liberati e coloni stessi, un po’ sulla falsariga dell’Isola sotto il mare della Allende. Inciso: in effetti, sembra quasi che la nostra scrittrice faccia un patchwork di diverse situazioni e diversi libri, per creare, comunque, un’atmosfera interessante e godibile. Ed Esteban aiuta gli ex-schiavi a rifornirsi di armi, entrando in contatto con pirati e corsari. Alcuni incisi non pedanti si aprono su queste tematiche, che non hanno la pesantezza e la saccenza di quelli cinesi, anzi stimolano a saperne di più sulle guerre da Corsa (così venivano chiamate le scorribande all’epoca, tra spagnoli, inglesi ed olandesi). Ma Esteban è strangolato da un sordido usuraio spagnolo, di origine sivigliana (e già immagino che qualche cosa succederà nel successivo romanzo della Asensi, che sembra ambientarsi nella città spagnola per me foriera di bei ricordi). La nostra Catilina allora ordirà un meccanismo complicato, ma molto ingegnoso, per liberare il padre adottivo e castigare il cattivo Melchiorre. Non ve ne svelo i dettagli, ma nello svolgersi complicato delle vicende finali, riusciamo a sapere anche che lo sposo di Catilina muore per un’epidemia di vaiolo. E la nostra bella eroina si trova alla fine erede di due fortune: quella come Catilina sulla terraferma e quella come Martin sull’isola e sulle navi. Quale sarà la sua scelta, anch’essa è motivo di silenzio da parte mia, ed in un certo senso anche la scrittrice non svela/rivela tutto il bandolo della matassina. E forse questa parte sul dualismo uomo/donna di Catilina andrebbe ripresa meglio. In finale, torno solo a ribadire la piacevolezza degli scritti della Asensi quando si pongono obiettivi raggiungibili, e li affrontano con senso della misura. Arrivederci a Siviglia, Matilde.
Matilde Asensi “La vendetta di Siviglia” BUR euro 8,90 (in realtà, scontato 7,56 euro)
[A: 04/10/2012 – I: 17/04/2013 – T: 18/04/2013]
[tit. or.: Venganza en Sevilla; ling. or.: spagnolo; pagine: 263; anno 2010]
Un libro inutile. Ed è un peccato, perché in realtà ha una sua storia, che prescinde dal testo, ma attiene al contesto, che avrebbe meritato di meglio. Infatti, la mia storia verso la Asensi comincia nel 2010 al tempo dell’organizzazione del viaggio a Siviglia (molto bello seppur caldo). Girellando in libreria mi sembrava un colpo del caso vedere proprio un libro intitolato “Vendetta a Siviglia”. Scoperto che fa parte di una serie di libri, e scoperto che l’autrice (nonostante pensassi fosse italiana) è spagnola, pensai di dedicarmi alla lettura dei suoi libri. Sono partito così dalla “Camera d’Ambra” e sono andato avanti. Finalmente dopo 6 libri di diversa resa, con alti e bassi, arrivo a quello che doveva essere il primo. Soprattutto, dopo aver letto “Terra ferma” che riportava la scrittura dell’autrice quasi ai livelli di “Origine perduta”. Ed, infatti, finivo la trama precedente con un saluto alla città. Ora, tutto mi aspettavo meno un libro così piatto. Sparisce quasi completamente quella metastoriografia che mi aveva incuriosito e di cui avevo parlato in passato. Viene lasciato da parte, e molto, il dualismo uomo/donna nelle vicende di Catalina/Martin. Certo a volte si veste da uomo, a volte da donna, ma non sembra tirare fuori i conflitti che condivano la parte finale del primo libro. Inoltre la vicenda è non solo piatta, ma anche molto scontata. Era ovvio che i Curvo, una volta passato del tempo, avrebbero cercato la vendetta sulla famiglia di Esteban. E così, accusandolo ingiustamente, cercano di uccidere tutte le persone a conoscenza delle loro losche trame (senza riuscirci). Catalina, allora, prende i soldi del suo tesoro, e con i suoi bravi fa vela verso Siviglia. Dove troverà aiuto da un’anziana sodale della Madre adottiva, ex-prostituta anche lei. E farà in modo di accogliere le ultime parole del padre morente: “Vendetta!”. E vendetta sia. Con l’aiuto di Clara e dei suoi soldi, si crea una posizione nella società sivigliana, in veste di Catalina. Così conosce e comincia a frequentare il bel mondo, Curvo inclusi. Il giovane Diego, il più depravato, che sarà punito attraverso una prostituta affetta di sifilide. Isabel uccisa con il curaro. Juana fatta cadere nelle trappole d’amore utilizzando un servo, sbugiardata in pubblico, e giustiziata da padre e figlio per vendicarne l’onore. E Ferdinando, il capo famiglia e più anziano dei fratelli, affrontato in duello. Unico momento intenso delle scarne duecento pagine. Con momenti di cui non vi dico, e strascichi che vedremo in futuro. Certo, in questo modo spende tutta la sua fortuna, viene ovviamente bandita dalla Spagna. Ma la sua astuzia, scoperto il modo con cui i fratelli Curvo facevano fior di soldi tra le miniere d’argento di Potosì in Perù (anche se ora è in Bolivia, ma allora tutta la zona Perù, Bolivia e Nord del Cile era chiamata Perù) e la Spagna natia (inciso: gli unici momenti gradevoli sono quelli di citazioni geografiche, quando si parla di Perù, delle isole caraibiche, o di città tra Spagna e Portogallo, non ultimo l’Arenal sivigliano, il suono delle campane cittadine, la Giralda…), farà in modo di ricostruirne e recuperarne molto. Anche qui non vi svelo nessun segreto, che qualcuno, più paziente di me, forse vorrà leggerne, per passare qualche ora sotto un ombrellone, guardando il mare e “wasting time”, come diceva Otis Redding. Tuttavia, ci meravigliamo che un Curvo sia ancora vivo? Si tratta di Arias, quello rimasto in Sudamerica. E la vendetta di Catalina non si fermerà sino alla totale riuscita (o sconfitta). E guardando gli scaffali, vedo che è uscito l’ultimo volume della trilogia. Per ora mi ha un po’ saturato. In futuro…
“Se la donna vuole essere libera … non deve prender marito, altrimenti perde non solo i suoi beni, ma anche il governo di sé e persino il diritto di parlare.” (157)
Tiago Rebelo “Il tempo degli amori perfetti” Beat euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 01/11/2012 – I: 26/04/2013 – T: 28/04/2013]
[tit. or.: Tempo dos Amores Perfeitos; ling. or.: portoghese; pagine: 496; anno 2006]
Peccato! Un’altra buona occasione un po’ buttata via. Pensavo di rinverdire non dico la migliore Asensi e le sue storie spagnolo - caraibiche, ma almeno di emulare la Valadão di Loanda. E invece è solo una brutta copia di quest’ultimo romanzo spostato duecento anni dopo. Siamo, infatti, sul versante delle colonie portoghesi, e quindi ci spostiamo nella fascia sub-tropicale. L’autore avrebbe potuto ben inserire la sua storia, che secondo la sua datazione si svolge intorno al 1895, nella crisi che il Portogallo cominciò ad avere alcuni anni prima, dovendo subire i diktat inglesi e tedeschi in quella zona australe. Dai fasti del grande impero (quello che avevamo visto nell’epica di Loanda) decennio dopo decennio il Portogallo inizia a ripiegarsi su se stesso. Mancanza di regimi sicuri, di persone di spicco, distacco dalla Spagna, e poi la perdita del Brasile nel 1820, stanno facendo precipitare i lusitani in una crisi che non credo sia ancora passata, nonostante il bellissimo riscatto di 40 anni fa (e andate a vedere “Un treno per Lisbona”, così rinverdite le informazioni sul periodo). Se Rebelo avesse inquadrato la sua storia in questo contesto avrebbe potuto fare un affresco, utilizzando l’altrove (l’Angola per intenderci) al fine di darci un buon esempio di meta-storiografia. Ed invece… Sì, nei primi capitoli c’è un po’ di accenno al contesto. Ma poi si perde, da un lato nella lunga e sfortunata storia d’amore tra Carlos e Leonor. Dall’altra nelle vicende militari del tenente Carlos Montanha detto “Muxabata”, cioè l’invincibile. I due si conoscono nella nave che da Lisbona li porta nella colonia. Nasce subito l’amore. Ma il tenente è destinato all’interno, in una guarnigione dove, vittoria dopo vittoria, troverà giustamente il suo soprannome di Muxabata. Con il conseguente rispetto dei nativi e l’invidia dei militari (un po’ scontato…). Leonor rimane a Luanda, accudita da Benvinda, una negretta che all’inizio sembra ripetere le gesta della mulatta della Valadão, scappando dai negrieri. La cameriera di Leonor però dopo di ciò non fa più nulla di rimarchevole. Se non far precipitare tutte le storie nel peggiore dei modi. Il negriero la ritrova, e cerca di rapirla. Lei si salva, e quello viene imprigionato. Peccato che Carlos, per tornare vicino a Leonor, chiede il trasferimento a Luanda. Ed ottiene il posto a capo delle guardie carcerarie. Ma Carlos è un uomo d’onore, e vedendo il negriero senza accuse lo libera. E dopo l’unica notte d’amore con Leonor, il cattivone pensa bene di tentare di uccidere la famiglia di Leonor in chiesa. Dove Carlos li salva, ma viene colpito quasi a morte. E qui l’autore ci propina pagine a pagine di inutili rimandi. Carlos è malato. Leonor non lo va a trovare pensando che sia stata la sua dabbenaggine a creare la quasi tragedia. Il padre di Leonor lo bandisce dalla città. Carlos torna nella guarnigione, a fare conquiste inutili. Ma lo scandalo porta il padre di Leonor ad essere allontanato da Luanda e messo a governare la regione dove agisce Carlos. E per vendetta lo manda in missioni suicide, durante una delle quali tutta la guarnigione viene uccisa, ma di lui non si trova il corpo. Leonor, a questo punto ravvedutasi, scappa di casa e vaga nella giungla alla ricerca di Carlos. Carlos vaga nella giungla per salvarsi. E non riescono mai ad incontrarsi. Qualcuno morirà e chi sopravvive vivrà il resto della vita nel rimpianto. Insomma, si era partiti bene con un passo tra storia alta e storia bassa, poi si scade nel melenso. Il brutto è che l’autore impiega tre pagine per volte a dire quanto può enunciare in tre righe. Usando anche quei trucchetti tipo commentare una situazione, anticipando quanto potrà succedere una decina di pagine dopo. Ma non crea né suspense né voglia di sapere. Tanto che tutto sembra scritto nel primo capitolo. Le altre 450 pagine sono inutili. E non sono certo una “Via col vento” africana come commenta La Spina o la storia di un amore che supera ogni difficoltà come dice Marilia Piccone nei commenti. Che l’amore non ne supera una di difficoltà. Anzi si arena subito. Una prova inutile, sconsigliata a che cerca anche una riga di piacere nella lettura. Peccato!
“L’Africa è il luogo più affascinante della terra, un luogo del quale un uomo si innamora irrimediabilmente. Non c’era il minimo dubbio che una volta abituata alla vastità di quel territorio spaventoso, una persona, qualunque persona, non sarebbe stata capace di essere nuovamente felice nel continente europeo.” (168)
Inizia foriero di buone sensazioni questo mese di maggio. Purtroppo sono sensazioni personali, che il contorno economico e politico non ci sorregge. Allora andiamo ad elencare le letture del mese di febbraio. In una normale media numerica, ma con qualche buono spunto. Innanzi tutto i due seppur datati libri di Trevi ed Atzeni, i primi episodi del commissario Ponzetti e l’interessante libro della israeliana Liebrecht.
#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Elizabeth Peters
Indagine nel museo Egizio
TEA
8,60
2
2
Emanuele Trevi
 Musica distante
Ponte alle Grazie
s.p.
4
3
Carlo Giorgi
Vado in Senegal
Terre di Mezzo
7,50
3
4
Michael Connelly
Utente sconosciuto
Piemme
11
3
5
Andrea Vitali
Una finestra vistalago
Garzanti
12
3
6
Giovanni Ricciardi
Le indagini del commissario Ponzetti
Fazi
14,90
4
7
Sergio Atzeni
Passavamo sulla terra leggeri
Ilisso
7
4
8
Giovanni Ricciardi
Portami a ballare
Fazi
16,50
3
9
Jean-Christophe Rufin
Asmara et les causes perdues
Folio
7,10
3
10
Elizabeth Peters
Il mistero della città perduta
TEA
9
2
11
Savyon Liebrecht
Prove d’amore
E/O
7,75
4
12
Camilla Läckenberg
Il predicatore
Marsilio
14
3
13
Michael Connelly
La città delle ossa
Piemme
11
3
14
Cristiana Astori
Tutto quel rosso
Mondadori
4,90
2
15
Elizabeth Peters
La maledizione di Nefertiti
TEA
8,60
2

Comunque non finiremo mai di citare il titolo di un vecchio lavoro della mia amica Rosa (“Invecchiare è l’unico modo per non morire”). Per questo continuiamo a fare quello di cui siamo capaci: leggere, viaggiare, condividere con gli amici, e mandare a tutti