domenica 17 luglio 2022

Arte varia - 17 luglio 2022

Come lo spettacolo che l’avvocato di Asti cantava qualche anno fa. Arte anche come l’ottimo libro di Botta sulla pittura. Variata come l’inclassificabile libro di Stewart sulla matematica. Ancora arte, e molto varia, sulle storie di famiglia della famiglia Maeght (e se non siete stati a Saint-Paul-de-Vence vi siete persi molto). Forse non sarà un’arte ma chi mi sa, conosce insane passioni verso lo snooker, e quindi verso il mitico Ronnie. In fondo, perché lo scritto non è il parlato, uno dei tanti libri post-fazio della bella Lucianina.

Luciana Littizzetto “La bella addormentata in quel posto” Mondadori s.p. (prestito di Alessandra)

[A: 09/10/2021 – I: 17/01/2022 – T: 18/01/2022] & e ½  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 187; anno: 2016]

Mi ero sempre chiesto come si sviluppassero gli scritti di “Lucianina” a partire dalle discretamente divertenti uscite che settimanalmente ci propone a “Che tempo che fa”. Finalmente colmo anche questa lacuna, rimanendone passabilmente insoddisfatto. Cioè, l’autrice è brava, coglie i momenti essenziali della (brutta) vita quotidiana. Non sbaglia un congiuntivo. Non ci sono errori di citazioni o altro. Però ci sono due difetti fondamentali: uno è la ripetitività, soprattutto se si leggono i capitoletti uno dopo l’altro, senza soluzione di continuità; l’altro è la mancanza della spalla comica, cioè di Fazio che rimprovera le troppe parolacce e fa finta di scandalizzarsi quando parla di “Walter” e “Jolanda”, magari rivolgendosi a papa Frank.

L’idea, ed anche la sensazione, è proprio quella di seguire la TV e leggere con lei le sue battute. Anzi questo è forse il maggior pregio, che, leggendone, sembra proprio sia lei a parlarcene. Così facciamo un lungo viaggio tra le mille storture quotidiana, tra le mille notiziole che magari ci sono sfuggite, tra le mille pubblicità che offendono, sempre le donne, spesso l’intelligenza.

Cogliamo dal mazzo gli spunti migliori. La tirata d’orecchie a Banderas che parla alle galline (lo spot del Mulino Bianco, e ricordiamoci che il libro ha cinque anni). La descrizione di un reality spagnolo intitolato “Voglio esser suore”, con cinque ragazzotte che millantano chiamate divine e passano giorni in un convento di Madrid. Notizia che cinque anni fa, fece scalpore, ma che ora sappiamo essere stato ripreso, come spunto, da Discovery+, un super canale da far concorrenza alla “Grande Fabbrica di Merda” di Robecchi.

Poi c’è l’invenzione della pillola rosa. Che non porta ottimismo, ma che è il contraltare della pillola azzurra (il Viagra, insomma), destinata quindi a far crescere la libido femminile, anche se giustamente Luciana sottolinea le marcate differenze tra le due pillole. L’idea balenga della scienziata di Cleveland che vuol far partorire gli uomini. O quella di un altro sito di ricerca che sostiene la ricrescita dei capelli dopo esperimenti esilaranti sui topi. La presentazione del film più lungo del mondo, lo svedese “Ambiancé” dalla durata di 720 ore (e qui, forse l’unico errore, che a me risulta esserci un film più lungo, sempre svedese, dal titolo “Logistics” e dalla durata di 857 ore, cioè quasi 36 giorni). Si parla di crescita del seno a comando, attraverso l’uso di sali particolare. Si sottolinea l’improbabile promessa di Madonna per spingere all’elezione Hillary (ed in effetti, in quell’elezione vinse Trump). Si cita sommessamente la notizia della scomparsa dell’inventore del Billy, e del conseguente boom di Ikea all’epoca. Ma anche della follia della stessa Ikea che, dopo averti prestato una borsa gialla per fare acquisti alla cassa ti pone la fatidica domanda: “Ti è piaciuta la borsa gialla? Allora comprane una blu!” I commenti sono già tutti nell’esposizione della frase.

Per finire, anche qui un po’ alla rinfusa, con la notizia dell’apertura di un Fast Food in Vaticano, della signora che perde la chiave della sua cintura di castità, con gli europarlamentari che discutono animatamente sulle misure delle vongole, o con Andy Garcia che fa la pubblicità sfoggiando un’orrenda barba ed una ancor più orrenda pancetta.

Quello che riesca alla Littizzetto è di interpretare il pensiero (e l’incazzatura) di noi comuni attori del presente, rispetto, ad esempio, alla costruzione di una statua di Padre Pio alta 85 metri, o alla quotidiana dose di inutili telefonate degli operatori dei Call Center. Per poi stravolgere tutto in senso anche critico: con la colpa è di chi dona la pubblicità ai call center, o di chi manda i rider in giro a far consegna a 3 euro l’una.

Lucianina ha il suo linguaggio, il suo modo di esprimersi, il suo modo di coinvolgerci nell’assurdità della vita quotidiana. Come detto anche altrove, può piacere o meno, ma questa è lei. A me piace in TV, piace in teatro, non è piaciuta in questa scrittura, un po’ troppo fredda senza la sua presenza.

Finisco citando bonariamente il fatto che è torinese, tifa Juventus, e, come dice nelle sue note biografiche, di professione fa la scema. 2/3 di convergenza.

Gregorio Botta “Pollock e Rothko. Il gesto e il respiro” Einaudi s.p. (regalo di Giovanni&Clara)

[A: 25/12/2021 – I: 20/02/2022 – T: 21/02/2022] &&&&-  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 191; anno: 2020]

La prima lettura dei regali dell’ultimo Natale, graditi e vari. Questo proviene dal cugino acquisito (spiega: acquisito in quanto cugino della “nupsisse” e non marito di una cugina di primo grado) e dal suo amore per l’arte. In realtà, in effetti, Botta l’ho conosciuto nella sua galleria al tempo di una interessante mostra. Io ne sapevo del giornalista, lì ho scoperto l’artista, allievo del grande Toti Scialoja. Qui ne vedo le doti di sintesi tra quei due mondi che sembravano separati, esteriormente, ma che non possono scindersi. Laddove noi siamo, in genere, uno.

Un libro interessante, che si legge in modo facile, pur laddove si avventura in sentieri esplicativi della produzione artistica che non sempre a me riesce facile seguire. Alla fine, tuttavia, mi verrebbe quasi da definirlo un libro-ossimoro. Un libro utile ed inutile. Utile, perché ripercorre momenti artistici del Novecento, laddove uno scettro di “primus inter pares” si sposta da Parigi a New York. Utile perché mi avvicina a due giganti della pittura, di cui ho visto in giro per il mondo, anche se solo qui, devo dire, approfondendone la conoscenza posso pensare di approfondirne anche la comprensione. Inutile visto che quel passaggio viene preso come dato e poco argomentato. Inutile perché una volta fatti i due nomi, Jackson Pollock e Mark Rothko, ed una volta enucleata la loro visione contrapposta non dell’arte, ma del modo di fare arte, poco resta da dire. Soprattutto, una volta battezzati con i loro momenti eponimi, si può dire altro?

Perché, da un lato è tutto lì, nel titolo. Pollock autore dedicato al gesto, all’action painting. Rothko dedito al respiro, alla fissità delle tonalità cromatiche che si confondono nell’occhio portando con sé corpo e cervello verso altro. Limitiamoci allora all’utilità.

Botta in effetti ci porta a percorrere in parallelo la vita e le opere dei due grandi che, pur quasi contemporanei, e pur sicuramente americani, poco ebbero in comune nell’incontro reciproco. Forse, l’unico momento reale è la foto di gruppo dedicata alla scuola newyorchese detta de “Gli irascibili”, dove compaiono entrambi, dove entrambi firmano la protesta verso le scelte artistiche del Metropolitan Museum. In una lettera dove, curiosamente (visto che non sembra esserci alcun ordine prestabilito), le loro due firme appaiono una dopo l’altra, vicine.

Una foto dove la loro postura è, come ci spiega Botta, paradigmatica. Pollock al centro, di tre quarti ma con lo sguardo verso l’obiettivo, e la sigaretta in mano. Rothko in prima fila, ma defilato, e con lo sguardo verso fuori. Pollock che voleva sempre essere perno di tutto, guardato, citato, amato, odiato. Rothko che preferisce essere guardato per quello che fa e non per quello che è, che quasi si nasconde dietro i suoi colori.

Facendo ora un passo indietro, ricordiamo che Mark Rothko nasce come Markus Yakovlevich Rothkowitz nella città di Dvinsk allora nell’Impero Russo (ora Daugavpils in Lettonia), il 25 settembre 1903, a 7 anni la famiglia emigra in America a Portland, poi a vent’anni inizia la sua vita a New York. Ci sono mille diversi sviluppi della sua carriera e della sua arte (che potete leggere sia nel libro che altrove). Io ricorderei solo che, a poco a poco, il colore diventa l’unico oggetto del quadro. Tanto che alla fine la cosa più importante non è comprendere il dipinto ma guardarlo.

Jackson Pollock, invece, è più giovane, nasce il 28 gennaio 1912 a Cody (inciso, città che deve il suo nome a Buffalo Bill, e dove ho dormito una volta prima di entrare nel Parco di Yellowstone). Anche lui negli anni Venti si trasferisce a New York, sulle orme del fratello, e per suo merito entra in contatto con la pittura, le avanguardie, ed altre tecnicherie varie. Il suo modo di dipingere, quello che poi lo porta alla fama (ma mai al successo, almeno in vita), è il “dripping” (scolatura), laddove mette la tela sul terreno, e vi fa colare sopra il colore.

Visto che siamo nella collana di contrapposizione, la loro morte invece fu convergente. Pollock, ubriaco dalla mattina alla sera, si schianta alla guida della sua Oldsmobile nel ’56. Rothko, accanito fumatore, dopo la diagnosi di un cancro, si suicida nel ’70 con un’overdose di barbiturici.

Ripeto, non sono io a poter parlare di arte, forse qualche mia esimia amica lo farà e farebbe meglio di me. Io posso concludere che il libro mi è piaciuto, in un contesto dove ultimamente non ci sono state molte letture di livello.

Un penultimo pensiero lo dedicherei ad una frase che Rothko riprende spesso per la sua arte: ”Less is more”. Una frase attribuita al grande architetto Ludwig Mies van der Rohe, ma che in realtà proviene da una poesia del 1855 di Robert Browning dedicata al grande pittore Andrea del Sarto. Ma che a me risuona come una parafrasi dell’aforisma di Gustave Flaubert dedicato alla scrittura “Il vero problema dello scrivere non è tanto di sapere ciò che dobbiamo mettere nella pagina, ma ciò che da questa dobbiamo togliere”. Perché “Meno è meglio”.

Finirei, infine, con un soprassalto verso l’inutilità di una collana come questa di Einaudi, anche se a volte interessante, che cerca in ogni volume di andare alla contrapposizione di due elementi, di due scuole, di due personaggi. Non a caso, la collana si chiama “VS”. citando a memoria ricordo uscite come “Oriente e Occidente”, “Sparta e Atene”, “Caravaggio e Vermeer”, “Beatles e Rolling Stones”. Aspetto solo l’uscita di “Coppi e Bartali”, ed il ciclo sarebbe chiuso.

Ronnie O’ Sullivan “Ronnie. The autobiography” Orion s.p. (regalo di Francesco)

[A: 25/12/2021 – I: 24/02/2022 – T: 01/03/2022] - &&  

[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 291; anno 2003]

Per le feste natalizie, l’ottimo Francesco ha trovato un regalo originale e gradito. Sapendo la mia (insana) passione per lo snooker, non potendo regalarmi un biliardo, ha scovato questo libro, l’autobiografia di quello che credo sia il più grande giocatore di snooker in attività, Ronald Antonio O’ Sullivan.

Un libro raccontato da Ronnie e riversato in forma editabile da Simon Hattenstone, un giornalista del Guardian. Volevano forse fare meglio del libro “Serious” di John McEnroe (e forse lo hanno fatto, che non ho letto il libro). Di certo, ora, fanno un’impressione in minore dopo aver letto “Open” di André Agassi.

Ma di certo, non è un libro che scala (o ha scalato) le classifiche di vendita. Per il contenuto, di certo, ma anche perché, fuori dai paesi anglofoni, siamo in pochi a seguire questo sport. E se non conosci lo snooker, non avrai molta voglia di leggerne. Anche se, nella parte più strettamente biografica, vediamo il costruirsi di un personaggio, a prescindere dal dato sportivo.

Partiamo allora da questa parte, dove, malgrado un po’ di autocompiacimento ed autoindulgenza, il nostro giocatore si narra abbastanza apertamente.

Ronnie nasce nei sobborghi di Birmingham (che per i non geografi, ricordo che è a metà strada tra Liverpool e Londra) nel 1975 (e precisamente il 5 dicembre, un sagittario quindi). Il dato caratteristico è l’ambiente familiare. La madre, Maria Catalano, ha origini siciliane, ed in Sicilia passerà molte estati giovanili. Ha zii e parenti che si cimentano nello snooker. Il padre, invece, gestisce una catena di sexy shop a Soho. Tutto porta il bambino Ronnie a frequentare le sale da biliardo. Dove si trova a passare molto tempo, sia dopo la scuola, sia per l’ambiente quasi familiare che vi si crea, dato che anche il padre usa la stecca (anche se molto blandamente).

Dato poi il momento economicamente familiare, e dato che dimostra buone capacità, viene a vivere presso i biliardi molto tempo. Il padre, in mancanza di meglio, gli paga già qualche ora al tavolo. Ed è così che, visto che lo studio non lo appassiona tanto, si trova a vivere intorno al panno verde molto tempo che gli altri ragazzi vivono altrove. Ed è così che comincia anche a vincere piccoli tornei locali. Mostrando una superlativa tecnica di gioco. Per i conoscitori del gioco, Ronnie sigla il suo primo centone a 10 anni e la sua prima serie perfetta a 15. Quindi, a 16 diventa professionista, status che mantiene tuttora, dopo 31 anni.

La svolta, nella vita e nella psicologia del personaggio, avviene l’anno successivo: il padre, durante una rissa, uccide un uomo e viene condannato a 18 anni di carcere. Alcuni anni dopo, anche la madre andrà un anno in prigione per evasione fiscale. Tutto ciò non passa indenne, Ronnie utilizza lo snooker come rivalsa nella vita. Rimane sempre legato al padre (e nello scritto minimizza il comportamento violento del genitore), ma, fuori dal tavolo verde è assai sbandato. Non ha mai un grande e stabile rapporto con le donne. Ha diverse compagne, per più o meno tempo, ed ora, ha anche tre figli da due donne diverse, e si è, un mese fa, lasciato anche dalla sua terza compagna. Anche se tutto ciò è fuori dal libro, che scrive a 27 anni, cioè venti anni fa.

Il libro è tutto concentrato quindi sulla nascita del fenomeno “Ronnie” e sulla conquista del primo titolo mondiale. Seppur vediamo accenni dei suoi travagli, non ultimo la dipendenza, mai sopita, verso la cannabis, non riesce a filtrare i motivi anche tecnici della sua eccezionale bravura. Che poi, nei seguenti venti anni, lo porterà a vincere altri 5 titoli mondiali, e ad altri record che non sarà facile battere (il numero di “century” ottenuto, ora sopra i 1.100, dove il secondo è intorno agli 800, il numero di serie perfette, 15, con il secondo fermo a quota 11; so che per i non addetti significano poco, ma per me sono cifre impressionanti).

Insomma, un libro un po’ autocompiaciuto ed imperfetto. Ma l’ho letto con gusto, durante una sua ulteriore vittoria in un torneo che ho seguito online. Perché, lo devo pur dire, lo snooker è un gioco affascinante. Sia per il biliardo usato, ed è bello vedere le palle muoversi su traiettorie e su colpi di un’esattezza impressionante, sia per il meccanismo stesso del gioco. Devo infine confessare che solletica anche le mie non sopite passioni verso geometrie e matematiche.

Finisco quindi con l’accenno al gioco stesso. Il biliardo utilizzato è un rettangolo ben proporzionato, in inglese misura 12 piedi per 6, cioè sono due quadrati 6x6, cosparsi, in modo geometrico, di biglie colorate, che il giocatore colpisce attraverso la stecca, usando una biglia bianca. La geometria simmetrica del tavolo si riflette poi nelle traiettorie che le biglie stesse disegnano sul panno verde. Un ricordo di mio padre, appassionato di biliardo, seppur all’italiana (cioè con i birilli) e di mia madre, anche lei televisivamente dedita allo snooker. Nonché un ricordo di mio fratello, che dopo un viaggio in Inghilterra, regalò a mio padre una bellissima stecca smontabile da snooker.

Un libro che risveglia ricordi, e ringraziamenti per chi, non potendo regalarmi un biliardo, mi ha fatto viaggiare sui tavoli verdi e dentro fumosi pub inglesi.

Yoyo Maeght “La saga Maeght” Robert Laffont s.p. (regalo di Alessandra)

[A: 02/01/2022 – I: 07/03/2022 – T: 09/03/2022] - && e ½

[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 425; anno 2014]

Nella seconda parte della nostra luna di miele, abbiamo deciso di dedicarci ad una settimana in Costa Azzurra, e nel suo entroterra. Per vedere alcuni dei posti e delle case dei nostri amati pittori: Picasso, Matisse, Renoir, Mirò, anche un po’ di Chagall (che io amo meno), ma anche Giacometti e le sue sculture. Niente di più facile, allora, che tornare dopo più di quindici anni a vedere un altro dei musei cult della mia vita: la fondazione Maeght.

Lì, tanti anni fa, vidi la riedizione di una delle mostre più interessanti che mi sia capitato di vedere: “Il nero è un colore”. Lì, questa volta, abbiamo visto in mostra i capolavori di tutta la famiglia Giacometti: il padre pittore Giovanni, ed i tre fratelli, lo scultore Alberto, il designer Diego e l’architetti Bruno.

Per rendere omaggio a tutto ciò, e per entrar meglio in quel mondo, alla fine del viaggio, ho ricevuto questo graditissimo regalo, che, seppur in modo parziale, mi ha fatto fare un lungo viaggio artistico nel mondo “Maeght”. Parziale non perché mancante, ma perché di parte, essendo Yoyo parte in causa della grande diatriba familiare dei Maeght, dove quindi, alla lettura, bisogna accostare una buona dose di elementi altri di indagine.

Non è facile narrare del libro, che tuttavia si può suddividere in tre grandi fasce di ricordi. Nella prima parte, Yoyo parla della sua infanzia, cominciando dalla storia curiosa della sua nascita. Narra infatti che i suoi genitori, insieme al loro amico Jacques Prévert trovano una bambina abbandonata, poggiata su di un giornale, “France-Soir”. Dopo varie peripezie, i due adottano la piccola, ed in onore del giornale, la chiamano Françoise, anche se da tutti verrà sempre chiamata Yoyo. Solo dopo molti anni, la madre confessa di aver inventato la storia, perché Yoyo era “molto brutta”, lontana dalla bellezza delle sorelle Isabelle e Florence. Non poteva essere sua figlia, ed inventò la bizzarra storia. Un dolore che Yoyo non superò mai.

L’unico modo per “sopravvivere” fu di avvicinarsi al nonno Aimé ed ai suoi amici. Così, ci si narra di una giovinezza passata tra Giacometti e Mirò, con i pastelli che le regalava Matisse. Che leggendone sembra quasi una fiaba, tuttavia reale, come poi si sviluppa quando Yoyo passa a narrarci la meravigliosa storia dei nonni Aimé e Marguerite.

Una storia che comincia nel 1930, quando il giovane Aimé Maeght e sua moglie Marguerite, aprirono un negozio chiamato Arte a Cannes. Aimé era un litografo di professione, di grande talento, tanto che l'artista Pierre Bonnard lo utilizza per realizzare stampe dei suoi quadri. Ne nasce una forte amicizia, e per casi strani della vita i Maeght diventano gli agenti di Bonnard. Non solo, ma, trasferendosi a Vence per sfuggire alla guerra che si fa sempre più dura, incontrano un amico di Bonnard, Henri Matisse, che entra anche lui nel cerchio magico.

Questi gli inizi, poi una galleria a Parigi, di grande successo, con la prima mostra di Matisse, ed altri avvenimenti mondani, così che i Maeght e la loro galleria diventano un punto di riferimento, per tanti artisti come Mirò, Braque, Picasso e Chagall, per intellettuali, tra cui Albert Camus e Jean-Paul Sartre, ed anche per sarti famosi come Dior e Hermès.

La svolta arriverà negli anni ’50, quando il piccolo Bernard muore di leucemia. I Maeght sono distrutti, ma gli amici artisti convincono i due ad andare avanti. Ed Aimé comincia a lavorare al suo grande sogno: una Fondazione che nell’entroterra della Costa Azzurra possa diventare un punto di riferimento per l’arte. Nasce così il progetto ospitato in un edificio progettato dall'architetto catalano Josep Lluís Sert che si fonde perfettamente con i giardini e consente ai visitatori di godere contemporaneamente sia dell'arte che della natura circostante.

Tutto procederà per il meglio, fino al ’77, quando muore Marguerite, e cominciano le liti tra Aimé e suo figlio Adrien, e poi, alla morte di Aimé, tra Adrien spalleggiato da sua figlia Isabelle e Yoyo sostenuta dalla sorella Florence. Questa è l’ultima parte del libro, la più opinabile, la meno riuscita, troppo piena di visioni parziali e di rancori. Tanto che anche io, lettore ma anche ricercatore di notizie, non ho capito bene quale sia la verità. E soprattutto, se ce ne sia una.

Per questo, lascio in ombra questa mesta fine, ricordandomi solo delle grandi mostre che negli anni Sessanta organizzava la Fondazione, i grandi concerti di jazz, e la vista, ora, di Saint-Paul-de-Vence, con tutta la sua bellezza, e tutte le opere che riempiono il giardino e gli occhi.

Una storia da vedere, delle opere da non perdere, a prescindere da tutti i pettegolezzi che vi girano intorno.

Io sono solo un lettore, ed un amante delle cose belle. Questo è un libro interessante, non proprio bello. Il mondo e gli artisti descritti, quelli sì, sono belli, e inarrivabili.

Ian Stewart “I numeri uno. La vita dei più grandi matematici del mondo” Le Scienze euro 15

[A: 28/11/2020 – I: 02/06/2022 – T: 04/06/2022] &&& e ½ 

[titolo: Significant Figures. Lives and Works of Trailblazing Mathematicians; lingua: inglese; pagine: 299; anno: 2017]

Durante un break della prima pandemia, il mio amico edicolante mi mise da parte, senza che io glielo chiedessi, questo libro. Non ero molto attirato, ma sembrava una scortesia. Ora, quasi due anni dopo, ne leggo, e ne ricavo sentimenti ambivalenti. Ian Stewart è di certo un valente divulgatore, ed ha scelto con cura le figure che sono, o possono essere, significative dell’evoluzione della matematica, dagli albori sino ad oggi, ma spero che mio cugino Stefano, valente fisico, possa fare di meglio.

Alcuni problemi tuttavia sorgono. La scrittura, che per i primi pionieri è facile e coinvolgente, andando avanti nella complessità della materia, a volte diventa una sorta di messaggio per noi adepti della disciplina. Non è bello, in un’opera divulgativa. Secondo problema, quel “Numeri uno” appiccicato nel titolo. Che non solo non compare nell’originale, ma nulla ci azzecca neanche con il testo. Stewart voleva parlare di “Figure significative. Vite e opere di pionieri della matematica”. Non solo spariscono le figure, ma anche la menzione alle opere, ed i pionieri della materia diventano “i più grandi”, traslazione non automatica. Terzo, e solo cavillosamente, certo scegliere 25 persone dal mazzo è un’operazione di scelta, qualcosa rimane fuori. Peccato che ne faccia spese Pitagora, che avrei inserito benevolmente.

Tra il prologo e l’epilogo, due sono i messaggi, forti e condivisibili, che manda Stewart. La matematica non nasce nel o dal vuoto, è una scienza creata dalle persone. Persone che non hanno caratteristiche comuni, né classe sociale, né istruzione, né stato civile. C’erano savi e c’erano pazzi, c’erano uomini, donne e gay. Una sola cosa avevano ed hanno tutti in comune: un profondo amore per la matematica.

La scelta dei 25 matematici procede poi, ed è un bene, in modo progressivo nel tempo, partendo dai primi greci (anche se siculi) ed arrivando ai giorni nostri, alle scoperte della geometria iperbolica.

Partiamo allora da Archimede di Siracusa che tra le altre cose trova le formule per calcolare la superficie ed il volume della sfera, ancorché utilizzando la geometria piuttosto che la matematica in senso stretto. Stewart sa anche che dai greci al Medioevo, i numeri presero la via dell’Oriente. Così passiamo per la Cina con Liu Hui (III secolo), con i suoi straordinari commentari matematici, dove tra l’altro, attraverso lo studio delle frazioni, trova un valore di Π migliore di quello di Archimede, nonché formule per le soluzioni di equazioni a più incognite. Come tutti sanno, poi, dalla Cina, si passò al mondo arabo, dove visse, intorno al 900, Muhammad ibn Mūsā al-Khwārizmī, cultore delle scienze esatte in quel di Baghdad, che, con la sua opera maggiore, in arabo al-jabr, diede nome alla nostra “algebra”, e con il suo nome, lui cultore dei calcoli, ci porta al nostro “algoritmo”. Infine, come la denominazione araba si estende ad Est, abbiamo il primo grande indiano Madhava of Sangamagrama, originario del Kerala, nel sud dell’India, ideatori dei metodi trigonometrici e degli sviluppi in serie. Si suppone poi che essendo il Kerala il porto di passaggio verso l’Europa, questi calcoli vengono al mondo occidentale.

Cominciamo allora con Gerolamo Cardano, fondatore del calcolo delle probabilità, ma anche grande truffatore e baro, nonché a lungo in lotta con il coevo Niccolò Fontana detto Tartaglia, tanto per sottolinearne un difetto fisico, sulla scoperta della formula risolutiva dell’equazione cubica. Poi in grande successione vediamo Pierre Fermat, per secoli detentore di una scoperta (il suo teorema) che solo in epoca moderna viene dimostrato, e che era un avvocato appassionato di numeri. Vediamo Isaac Newton, che oltre ad essere matematico e fisico (non ci dilunghiamo sulle sue scoperte che non voleva pubblicare temendo di essere critico) era anche dedito all’alchimia ed al soprannaturale (pare fosse anche gay, ma non è acclarato). Vediamo lo svizzero Eulero, i cui contributi furono cruciali in svariate aree: analisi infinitesimale, funzioni speciali, meccanica razionale, meccanica celeste, teoria dei numeri, teoria dei grafi, oltre ad essere inventore di un numero che porta il suo nome per la risoluzione dei logaritmi. Vediamo i primi dell’Ottocento con il (quasi) rivoluzionario Jean Baptiste Joseph Fourier, famoso per le sue serie numeriche, Carl Friedrich Gauss che abbandona lo studio delle lingue dopo aver scoperto il modo di dividere il cerchio in 17 segmenti uguali e diventando uno dei padri dell’analisi matematica, il russo Nikolaj Ivanovič Lobačevskij fondatore delle geometrie non euclidee, il francese Evariste Galois, morto in un duello a 20 anni, capostipite degli studi in algebra astratta. In quegli anni compare anche la prima donna, Ada Lovelace, figlia illegittima di Lord Byron, ritenuta il capostipite del calcolo analitico e dell’uso di algoritmi che porteranno un secolo dopo alla nascita dei calcolatori (non a caso, Ada si chiamò il primo linguaggio per elaboratori).

Nello stesso anno di Ada, nasce George Boole, il fondatore della logica matematica, e poco dopo Bernhard Riemann, noto per una funzione particolare, la Funzione zeta di Riemann. In Russia nasce il tedesco Georg Cantor, padre della teoria degli insiemi, ma anche molto labile psicologicamente, tanto che muore per la depressione. Sempre dalla Russia viene la seconda donna, Sof'ja Vasil'evna Kovalevskaja, risolutrice di equazioni differenziali alle derivate parziali, nonché prima donna al mondo ad ottenere una cattedra universitaria.

Ci avviciniamo al Novecento, con il fondatore della topologia, Henri Poincaré, con il sistematizzatore delle teorie matematica David Hilbert, con la terza donna, studiosa delle simmetrie in fisica teorica, Emmy Noether, l’indiano (secondo gay) Srinivasa Ramanujan dalle geniali intuizioni sui numeri primi.

Un inciso, a Poincaré le idee venivano mentre saliva sull’omnibus per andare all’Università, a mio zio, che mi fece innamorare della matematica, mentre andava al cinema, riempendo i biglietti d’entrata di formule su formule.

Manca poco alla fine, dove incontriamo due altri “disturbati”: Kurt Gödel, un logico che dimostra l’indimostrabilità della matematica, ma è anche paranoico, mangia solo quello che gli cucina la moglie, e quando questa si ricovera per sei mesi in ospedale, Kurt muore di anoressia, e Alan Turing, l’inventore dei moderni computer, esperto di crittografia, terzo e più perseguitato gay, che per questo si suicida, forse, con il cianuro.

Finendo con i due “moderni”: l’inventore dei frattali Benoît Mandelbrot e l’analista della topologia tridimensionale William Thurston.

Mi spiace essermi dilungato a lungo sui 25 pionieri di Stewart, ma di certo sapete che i numeri sono da sempre la mia passione (un tempo anche professionale). Per cui finisco con due aneddoti. Uno storico: l’indiano Ramanujan vedendo passare un taxi con la sigla 1729 esclama “quello è il primo numero che si può scrivere come somma di due cubi in due modi diversi”. Uno personale: ritengo particolarmente affascinante il numero 72.

Grazie allora Stewart, anche se avrei preferito una trattazione più elementare.

P.S.:

1729 si può scrivere come 123+13 e come 103+93

Su 72 vi lascio ragionare.

“Fisicamente non siamo nati tutti uguali.” (298)

Continuiamo a svariare senza allegati, senza citazioni, visto che siamo in situazioni di precaria stabilità di scrittura e di pensiero. Lontano dal rassicurante studio, sballottati tra mare e campagna (anche se piacevolmente, devo dire), pensierosi tra un ritorno lusitana ed un agognato ma quanto mai problematico proseguimento vichingo. Ma sempre con l’ottimistico pensiero che tutto anche se non al meglio, va positivamente. Così che collegandomi con l’ultimo libro, vi abbraccio in modo immaginario.

 

domenica 10 luglio 2022

Seriali di Repubblica - 10 luglio 2022

Continuiamo questa calda estate con alcuni noir italiani delle collezioni proposte dalle edizioni di Repubblica. Non una riuscita proprio esaltante, ma una buona lettura estiva. In particolare, con l’ispettore Mirko Stucky, un seriale del poliedrico Fulvio Ervas. Anche gli altri sono personaggi seriali, ma l’’unica che si eleva un po’ sopra l’ordinario è il PM Imma Tatarianni di Mariolina Venezia, forte anche delle uscite televisive. Sulla soglia della leggibilità la psicologa Anna Pavesi di Alessandro Perissinotto e l’ex-carabiniere Corrado Genito di Piero Colaprico. Ancor più distante la “Squadra Speciale Minestrina in Brodo” di Roberto Centazzo.

Fulvio Ervas “Pericolo giallo” Repubblica Passione Noir 18 euro 7,90

[A: 15/10/2018 – I: 01/10/2021 – T: 03/10/2021] &&& 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 221; anno: 2016]

Un’altra lettura veloce durante il breve ma intenso viaggio di nozze. E sempre con al centro lo strambo ispettore Stucky. È anche il terzo libro degli otto che Ervas dedica all’ispettore che leggo, e stranamente, rispetto alle mie abitudini, non ne ho letto in maniera ordinata, anche se pur sempre sequenziale. Ho letto, infatti, il terzo, il sesto e questo che è il settimo. Letto anche in buona pace, cullato dal rumore delle onde su di un lettino in una grande spiaggia di Ibiza. Un riposo meritato, per un libro che migliora il gradimento verso l’autore.

Ervas, di cui prima o poi leggeremo anche le opere non “poliziesche”, parte da un fatto di cronaca reale per costruire una riflessione su di un pezzo d’Italia che, tramortito dalla crisi economica (che forte era già nel 2016) viene aggredito, sbranato e riproposto su altre vie da una consorteria criminale che mette le radici fuori dall’Italia, vuoi nei paesi slavi, vuoi, e molto, dalla lontana Cina. Lì, appunto, dove nasce il “pericolo giallo”.

Il fatto di cronaca è un’Audi gialla che sfreccia a velocità elevata per la Marca Trevigiana, senza riuscire ad essere fermata, forse mettendo a segno rapine. Solo con fatica, dopo che l’auto stessa viene trovata bruciata, attraverso il DNA sul volante, verrà arrestato e condannato un albanese che risultava al volante. Ma questa è cronaca.

Ervas, da questo spunto, mette su un romanzo che si svolge su più piani. Certo, c’è l’Audi gialla che nessuno ferma. Audi con targa svizzera, rubata alla Malpensa, che provoca incidenti, anche mortali, e, forse, prepara rapine. Ma c’è anche una consorteria cinese che si fonda su di una rete di bordelli con prostitute asiatiche. In questa rete cerca di entrare il nostro ispettore Mirko Stucky, sempre affascinante, sempre elegante con le sue scarpe a punta, sempre misteriosi come le sue origini persiane, che spesso ritroviamo quando va a trovare lo zio Cyrus.

A questi due piani, si aggiunge il terzo elemento di ricerca poliziesche. Che Stucky viene coinvolto dalla sua amica e collega veneziana, Laura Bertelli, nella ricerca di un senso all’omicidio-suicidio del suo collega Manuel e della moglie Veronica. Indagine complicata sia dall’indole di Laura, che pende dalla parte delle donne, sia dalla presenza, anche qui, anche a Marghera, di possibili connessioni con mafiosi cinesi.

Ovvio che i tre piani, le tre inchieste, meritano una soluzione. Ma Ervas è troppo fine conoscitore del nostro mondo italico (e della Marca Trevigiana) per non condurci verso una fine che non potrà essere un finale. L’Audi verrà trovata, come nella realtà, anche se gli scorrazzatori finiranno per andare via, forse presi, forse altrove.

In quel di Venezia, Stucky scopre il gioco fine del cinese Wang, bel tipo di ingegnere, con una propensione al gioco (al go in particolare) ed alle belle donne. Con l’aiuto di una delle ragazze del bordello, lo metterà davanti alla conclusione della vicenda di Manuel e di Vittoria. Lei si era invaghita di Wang, Manuel era decisamente borderline mentalmente, Vittoria non voleva tornare indietro. Manuel fa la sua scelta, e Wang dovrà comprenderla.

Anche sul fronte prostituzione, Stucky fa i suoi passi, sventando varie situazioni, ma, e lo sappiamo, e lo vediamo, si può chiudere qualcosa ma non fermare un fenomeno talmente vasto, che, come la fenice, risorge dalle ceneri per prosperare in altro luogo.

Quello che resta sono i momenti marginali, le figure di contorno, soprattutto quelle ricorrenti. Lo zio Cyrus, in primo piano, ma anche il cane Argo (sul quale non aggiungo commenti, troppo scontati), oppure Sandra e Veronica, le terribili sorelle di vicolo Dotti. Mi ha anche divertito come Ervas tramuta gli insuccessi della polizia in oggetto di scommessa dei buontemponi trevigiani radunati a bere ombre in osteria. Nonché, e non è poco per me, un ricordo di paesaggi italiani, anche questi da rivedere si spera tra poco: Treviso, Mestre, ed ovviamente Venezia.

Ervas è sempre efficace nello stendere una fotografia della nostra Italia da una prospettiva diversa, ma forse non per questo meno vera, meno rispondente alla realtà. Poi, come detto, si leggerà anche il resto della sua produzione, avendone forse voglia se non tempo.

Roberto Centazzo “Operazione Portofino” Repubblica Passione Noir 25 euro 7,90

[A: 01/12/2018 – I: 15/02/2022 – T: 16/02/2022] && -- 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 233; anno: 2017]

Non è che sia personalmente un grande fan di Centazzo, ma Repubblica, nelle sue serie su polizieschi e dintorni, continua a riproporlo. Ed allora io continuo a leggerlo.

Qui siamo alla seconda puntata del suo seriale “noironico”, mio neologismo ad indicare un noir che tenta di fare ironia. Infatti, come dice il sottotitolo, seguiamo le nuove avventure della “Squadra Speciale Minestrina in Brodo”. L’idea, come avevo accennato nel primo libro, è di prendere tre pensionati ex-poliziotti, che non si rassegnano a stare con le mani in mano (o di mettersi a vedere i lavori della metropolitana, se ce ne fosse a Genova), ed invece di impegnarsi in attività altre, tentano (e riescono) di inserirsi nelle pieghe delle indagini, per dare il loro apporto. Che non a caso risulta sempre decisivo. I poliziotti in servizio, legati dalle pastoie burocratiche, non portano a compimento le indagini? Ecco che i nostri, con più libertà di tempo e di spazio, ricucire le magagne e risolvere i casi. Mi sembra in ogni caso, una critica ingiusta al funzionamento investigativo italiano.

In ogni caso, abbiamo i nostri neopensionati, Ferruccio Pammattone, detto Semolino, Eugenio Mignogna, detto Kukident, e Luc Santoro, detto Maalox, che si imbarcano in una nuova impresa, il cui maggior pregio è la localizzazione, tra la Liguria, da Genova a Portofino, senza scordare la mia Varazze, e la Costa Azzurra, ricordando Antibes dai recenti trascorsi epifanici.

Per non confonderci con nomi ed altro, useremo direttamente i soprannomi dei nostri. Semolino, di costituzione forte, è aduso al mangiar troppo, dopo di che, per rimetterlo in riga, la sua compagna lo forza ad una dieta di semolino. Compagna ben più giovane di lui, di colore, e di nome Jasmina.

Kukident, vedovo con figlia da qualche parte, ha ovvi problemi di dentizione, ma è l’unico che vorrebbe fare altro. Il suo sogno è comprarsi un camion attrezzato, e girare per fiere vendendo pane e porchetta (ma non sa che noi mangiamo solo quella sorianese).

Maalox invece ha problemi digestivi, che tutto gli rema contro, in particolare la figlia, che fintamente lo induce a credere di voler sposare un marocchino, che noi capiamo subito sia una bufala. Talmente evidente che, quando Maalox cerca di vedere il bluff, capiamo subito che il trucco serve a nascondere tendenze sessuali falsamente ritenute non ortodosse.

La storia gialla in sé è risibile, e non porta particolari patemi d’animo nel suo svolgimento. I nostri vengono coinvolti nella ricerca di un bandolo ad una matassa di furti d’auto di pregio ed eventuali riciclaggio di motori rubati. Sappiamo ben presto uno dei bandoli della matassa, legato, guarda caso, ad un titolare di un salone di automobili. Dobbiamo solo capire chi altro c’è nel giro, e come avviene.

Il primo dubbio è presto sciolto: ovvio che ci sia di mezzo un carrozziere. Inoltre, dato che molti furti avvengono in Costa Azzurra, è lì che bisogna cercare e trovare il terzo uomo. detto fatto, Semolino (il più acuto dei tre) organizza un trappolone, e tutto si risolve. Facendo i nostri un passo indietro, che altrimenti la polizia ci sforma.

L’unico momento interessante sono gli spiegoni di un ladro di automobili e di un informatico specializzato su come avvengono i furti delle auto, usando “disturbatori di frequenza” ed altri meccanismi che hanno ragione degli inutili mezzi di sicurezza. E su come tracciare telefonate da cellulare, utilizzando triangolazioni, celle agganciate ed altri tracciamenti.

Tutto il resto è la storia dei nostri, dentro e fuori le indagini. Con qualche salto nel passato, per illustrarne passi di quando avevano le divise. Vite private, problemi con cani e con figlie, ed altre amenità. Con il dolente accenno, che ci sia una sorta di piccolo risentimento verso i diversi in qualche cosa. Magari è un impressione, ma Jasmina, la coloured, al massimo fa la donna di pulizie ad ore, non parla ancora bene l’italiano. Anche se quando serve per le indagini è di sicuro più sul pezzo di altri poliziotti. Lo stesso dicasi del poco rilievo verso immigrati o donne dedite alla professione più antica del mondo.

Centazzo ha comunque agio di scrivere così in modo ironico, essendo anche lui stesso Ispettore di Polizia. Per cui accettiamo questi pseudo-scivoloni come tentativi di dire altro, di dare forma diversa al pensiero. Io almeno lo credo, anche se non sempre la scrittura riesce a tramutarsi in una effettiva ironia.

“Gli scemi sono come le piume: più sono leggeri, più volano in alto.” (150) [una fulminante fotografia del mondo attuale]

Piero Colaprico “La strategia del gambero” Repubblica Passione Noir 11 euro 7,90

[A: 10/09/2018 – I: 17/03/2022 – T: 18/03/2022] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 406; anno: 2017]

Cominciamo subito entrando nel merito senza tanti giri di parole: in fondo, mi ha un po’ deluso. Colaprico ne leggevo su “La Repubblica” quando comperavo ancora quel giornale (qui si aprirebbe una parentesi diversa che non è per queste righe), e ne leggevo piacevolmente. Altrettanto gradevoli, con spunti stimolanti, anche le prime storie gialle, quando Colaprico elaborava le storie del commissario Binda, di cui parlava a ruota libera Pietro Valpreda. Storie che rimasero interessanti, anche quando alla scrittura il nostro si dedicò in solitaria.

Qui, volendo mettere troppa carne al fuoco, si toccano tanti punti, si gira, si va avanti indietro, nel crimine e nelle trame criminali, nere, mafiose o altro che siano. Ma proprio questo alla fine non dà un senso robusto alla scrittura. Anche perché non ci si riesce ad empatizzare con il personaggio principale, il famoso (famigerato) ex capitano dei Carabinieri, Corrado Genito.

L’impianto generale pensato (e descritto) da Colaprico prevede la costruzione di un complesso quadro criminale, nell’ambito di quella provincia lombarda, che il nostro conosce bene, e dell’ampia rete di infiltrazioni mafiose e collusioni varie, pane quotidiano della fotografia del luogo in tempi pre-pandemici.

Ci troviamo a Ranirate, fittizio (credo) paesino del Varesotto. Il bello ed il cattivo tempo lo fanno due famiglie d’origine calabrese, gli Spanò, gestori di spaccio e prostituzione, ed i Corallo, dediti all’usura. Il via viene dato dall’uccisione di un geometra, abbastanza corrotto, pare, ma della cui morte non sembra beneficiare nessuno. Tra l’altro, le due famiglie sono in vena di accordo, visto che si vogliono celebrare le nozze tra Leo “Kurt” Spanò e Ada Corallo.

Per mettere ordine, sbaragliare il campo dei mafiosi, insomma fare polizia, i Servizi guidati da Milo “Osso” Carannante ingaggiano il nostro Corrado. Ex-capitano, capitato in brutte acque, dai modi poco felici (in generale) e tormentato dalla morte del collega Francesco, di cui si sente (è) responsabile. L’hanno incastrato, Corrado. Ma Osso gli promette mano libera e libertà futura se riesce nell’operazione pulizia.

Quindi, Corrado si mette sul sentiero di guerra, utilizzando le armi che sa. Rete di amici, sempre ai margini tra il bianco ed il nero. Usando una strategia, che Colaprico attribuisce al gambero, ma che, a ben vedere, non è altro che mettere le due fazioni una contro l’altra, attribuendo ad ognuna delle parti delle colpe (morti, furti o altro) che è lo stesso Corrado a gestire.

E mentre monta le sue trappole, altri altari si scoperchiano. Che la morte del geometra è sempre fuori fuoco. Finché non si coinvolge la moglie, finché partendo dai fili che lei gli suggerisce, escono fuori altri intrecci. Esce fuori un politico potente, con delle idee sue e di suoi amici, su Ranirate e dintorni. Escono fuori anche i Servizi, laddove Osso, che mai pulito sembra, forse è ancora meno pulito.

Troppi fili scoperchia Corrado, che alla fine rischia (o riesce?) a bruciarsi anche lui. La capacità, questa sì derivante dal suo buon giornalismo, di Colaprico è, tenendo sempre alta la barra di navigazione di Corrado, mettere sotto l’occhio della sua prosa i vari elementi del puzzle. Un po’ sui malviventi venuti dal Sud (ma solo per motivi geografici, senza giudizi di sorta). Un po’ sulla cerchia che attornia Corrado. Un po’ sui politici che hanno usato mezzi e mazzetti per collocarsi in alto. Un po’ sui Servizi, che si sentono sempre sopra ed oltre la legge, ma che, dal ’69 in poi, hanno spesso fatto altro che il bene del Paese.

Se il discorso parte piano, e bene, nella prima parte, il voler dire tanto e su tutto, nelle ultime due sezioni, ingarbuglia il discorso. Così, una narrazione che poteva essere agile, si perde in molti rivoli per descrivere cattiverie, per disegnare complessi piani, per i cattivi e per i buoni. Che ci si domanda se esistono. Tra tutti colpevoli quindi nessun colpevole, ed un’onesta verità, ci dovrebbe essere un modo per salvare qualcuno. E qualcuno si salva, ma non vi dico chi né come.

“Se vuoi andare veloce, vai da solo, se vuoi arrivare, trovati degli amici.” (96)

Alessandro Perissinotto “L’ultima notte bianca” Repubblica Passione Noir 30 euro 7,90

[A: 07/01/2019 – I: 27/03/2022 – T: 28/03/2022] &&+ 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 238; anno: 2007]

Se i miei appunti non mentono, credo che il primo libro che lessi di Perissinotto risalga al 2009. Ed era anche lì, come questa, una storia della psicologa Anna Pavesi. In mezzo, le tre letture dei “gialli storici” dello scrittore torinese. Gialli che ho ben gradito e ben descritto a suo tempo, e credo siano il meglio della sua produzione.

Oltre a quelli, ed alle storie della Pavesi, l’autore ha scritto altro, magari anche premiato, ma non ne ho avuto ritorni personali interessanti. Dove devo confessare che anche questo libro, pur con delle punte di interesse, ed a volte di divertimento, non mi ha entusiasmato. Forse anche per il clima che n viene descritto, ormai perduto nella memoria, e relativo alle Olimpiadi invernali di Torino del 2006.

Sebbene abbia anche gradito il primo libro della trilogia di Anna (“Una piccola storia ignobile”), questo secondo episodio è meno riuscito, anche se, come detto, con alcuni spunti. Il primo libro, forte anche degli incarichi universitari dell’autore, ci rimandava un’interessante Bergamo, quasi invogliando una visita. Qui, tornato all’Alma Mater di sociologia in quel di Torino, è proprio della città natale che si narra, ed il filo narrativo, come da suo retroterra, lavora sul doppio (o triplo) filone: il contrasto cittadino tra l’opulenza olimpica e la miseria delle periferie, la psicologia e la povera vita degli emarginati, nonché (seppur non riuscitissima) la trama “noir”.

Intanto ritroviamo Anna Pavesi, la psicologa fuggita da Torino dopo i fallimenti matrimoniali, che viene ingaggiata da una sua vecchia sodale torinese per la ricerca di una persona scomparsa. Germana è un’operatrice sociale, che si adopera, con la struttura cooperativa cui appartiene, per cercare di alleviare e, forse, di tirar fuori dalla palude, emarginati e drogati. Germana misteriosamente scompare, ed Anna fatica a trovarne traccia.

Nulla sa la (presunta) amica Maddalena, per un certo periodo nodo delle ricerche, che però dalla metà del libro in poi si perde tra le pieghe della trama. Nulla sa Piera la responsabile della cooperativa. Qualcosa forse sa Andrea, amico di Germana, reticente nel suo parlare. Più di qualcosa sa Elsi, una svizzera che dorme dove capita con i suoi tre cani. Centra forse la sua amica Kathrina, invischiata in un rapporto mortifero con il drogato-pusher Franco. Centra di sicuro Franco che viene trovato morto lo stesso giorno della scomparsa. Ma la ricerca di Germana, che verrà trovata, alla fine, e di cui verrà spiegata la storia della scomparsa e della fuga, serve più che altro da sfondo agli altri due filoni del racconto.

Quello più in prima luce, è la descrizione del mondo degli emarginati, dei drogati, della prostituzione, che lo sfavillio olimpico cerca di nascondere, ma che è ben presente, allora come ora. È facile per l’autore parlarcene, con tutti gli orrori che ne conseguono: donne che si vendono per una dose, drogati ammalianti che regalano le prime spade per irretire i malcapitati in una rete da cui si esce solo con i piedi in avanti. Mentre Anna, cercando Germana, gira per questo sottobosco, lei stessa deve attraversare il bagliore olimpico, le “Medal Cerimonies”, il caffè con il cioccolato, i lungopò (che strano vederli scritti, noi abituati ai lungotevere…), i parchi.

Facendo i suoi giri e le sue ricerche, Anna incontra donne perdute, come Jennifer, prostituta, drogata, massacrata di botte dal suo cosiddetto protettore. O come la stessa Elsi, una specie di punkabestia colta e ripulita, che rifiuta società e benessere, preferendo dedicarsi a letture rubate, ed ai suoi cani. Anche il mondo che gira di notte intorno al camper della cooperativa, che cerca dosi di metadone, o siringhe pulite o preservativi efficaci, è ben descritto.

Per non farci mancare anche qualche lato umano, c’è l’incontro di Anna con l’ex-marito e la sua nuova compagna, ci sono le telefonate di Anna con il suo nuovo amore bergamasco (che però è sposato con figlio). C’è infine, e questo ben lo ricordo nei miei studi con la carissima Maria Luisa, il burnout, lo stress cronico associato al contesto lavorativo, quando, non riuscendo a gestirlo, la gente prende strade, forse, senza uscite: depressioni, isolamenti, scelte sbagliate.

Un discorso che Perissinotto tocca, che forse vorrebbe più centrale al romanzo, ma che non esce bene dalle pieghe della trama. Quali sono le scelte non dico corrette, ma meno dannose, da fare in momenti di incapacità di reazione? Questa la domanda che dovrebbe venire fuori, ed a cui Germana e Anna danno la loro risposta, che non vi dico e che andrete a leggere.

Due notazioni finali. Tutta una buona parte delle storie del libro vengono etichettate come “Metodo Keyser Söze”, nome ben noto ai cinefili per essere il perno della trama del film “I soliti sospetti”. Un colpo di genio di Perissinotto, che però non vi delucido, che servirebbe ad entrare troppo dentro la trama.

Il secondo punto è il piatto che Anna mangia a casa di Piera: le rolatine. Io non ne conoscevo il nome, ma leggendo la ricetta è un piatto che ha attraversato tutta la mia infanzia, il piatto preferito da mia madre, che però chiamava “i messicani”: involtini di vitello, ripieni di prosciutto e fontina. Anche se, spesso, da noi si usavano le sottilette. Una sottile madeleine mi ha accarezzato durante la lettura.

Mariolina Venezia “Maltempo. Imma Tataranni e gli inciampi del presente” Repubblica Emozione Noir 24 euro 7,90

[A: 26/11/2019 – I: 28/05/2022 – T: 29/05/2022] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 250; anno: 2013]

Come dicevo quasi cinque anni fa, una scrittura interessante che allora pensavo di lasciar perdere, in attesa di leggere il suo libro d’esordio. Invece, come accaduto per il commissario Lobosco, come anche per Mina Settembre, il PM Immacolata Tataranni, detta Imma, ha avuto un discreto successo televisivo, per cui ho deciso di percorrerne anche le orme letterarie.

Non entro quindi nel merito dell’esposizione della scrittura di Mariolina, che rimanderemo ad altri momenti. Ci limitiamo a queste che sono servite di base per gli sceneggiati televisivi, senza tuttavia entrare nel merito se e come questi e quelli divergano o adottino soluzioni differenti. Noi stiamo sullo scritto, e di quello parliamo.

Come già nella prima puntata (“Come piante fra i sassi”) la scrittura si muove su diversi piani che si intrecciano. La vicenda personale, il privato diremmo, di Imma. La vicenda noir, laddove comunque c’è un morto, anzi, una morta. E la terra in cui ci si muove, la Basilicata, che tutti, da Imma a Mariolina, a Donata (la morta) e a Valentina (la figlia di Imma) amano dell’amore che si dà alla propria terra, a chi la abita, a chi la vive ancora come se il tempo fosse immoto.

Come, ad esempio, per le indicazioni stradali, che mi ricordano quelle dei primi tempi dell’estate a Tortoreto, e dove appunto, una vecchia dice a Imma: «Vai dove una volta stava il mulino, gira al serbatoio, oltrepassa la chiesa caduta – ecco le loro indicazioni. Come se vivessero in un paese fatto solo di ricordi».

L’azione si svolge nel 2005, quando si comincia a scoprire la Basilicata come terra di possibili sbocchi industriali. Laddove, solo l’anno prima si era cominciato il boom della regione, dopo il film di Mel Gibson, tanto che la stessa Imma riflette così: “Un tempo la Basilicata, o Lucania, la gente non sapeva nemmeno dove stesse, tranne qualcuno che aveva letto Cristo si è fermato a Eboli. C’erano voluti gli americani per scoprirla: si può dire che la regione avesse iniziato a esistere a tutti gli effetti dopo che Mel Gibson ci aveva girato La passione di Cristo.”

Ma prima c’è il personaggio Imma, con i suoi vestiti dai colori improbabili, con quelle scarpe con il tacco altissimo per sopperire ad una non certo elevata altezza. Un personaggio che deve essere duro a forza, visto che deve farsi largo in un mondo di uomini, e spesso di maschilisti senza remore. Lei, PM in quel di Matera, a lottare con la pletora di donne dell’ufficio, che non vedono di buon occhio la sua rettitudine. Come non la vede il suo capo, sempre pronto a toglierle le indagini, quando queste si avvicinano troppo a potenti, locali e nazionali. Lei con una figlia pronta alle nuove aperture sociali, con un marito a volte estraneo, a volte troppo assillante. Lei che ha una sua scivolata sentimentale verso il carabiniere Ippazio Calogiuri, anche se si ferma sempre in tempo, pur continuando a sognarlo eroticamente.

La vicenda nera che tutto lega ruota intorno a Donata Miulli, ragazza giovane, amante della sua terra, che viene trovata morta ai piedi di un viadotto. Un suicidio abbastanza probabile se non fosse che…

Se non fosse che Donata aveva cercato Imma per rivelarle alcuni imbrogli sulle trivellazioni dei petroli in Val d’Agri (scoperto nel 1987, nel territorio viene trovato il più grande giacimento terrestre europeo, e dato in concessione ad una società 2/3 ENI ed 1/3 Shell), sulla costruzione dell’oleodotto e sugli intrecci con i politici, tra cui un Onorevole candidato alla Regione. Imma, quindi, sente puzza di bruciato.

Puzza che aumenta quando Donata risulta essere stata vista in giro, dopo l’ora della morte. Puzza che aumenta quando si scopre che l’Onorevole non solo era stato per alcuni mesi amante di Donata, ma che in gioventù era stato anche l’amante della madre di Donata. Tanto che è convinto di esserne il padre (convinzione che viene dopo il periodo d’amore).

Ci si sballotta sempre tra le due possibili verità, sulla scomparsa di un registratore che contiene ammissioni morali compromettenti, sulla presenza e la scomparsa verso la Spagna di tal Maddalena Bartoli conosciuta come Lolita Tiger. Una Lolita sempre alla ricerca di soldi, e molto assomigliante a Donata.

Con l’aiuto di Calogiuri, con trasferte a Roma (dove assistiamo ad un remake del film con Audrey Hepburn), ed una puntata sino a Barcellona, Imma riesce a sbandolare una matassa che di sicuro non era verso un suicidio, ma forse neanche troppo verso una morte voluta.

La scrittura si sente piena d’amore per questa terra troppo presto abbandonata dai giovani (e verso quell’abbandono Donata lottava con tutte le sue forze), anche se il risultato finale non è completamente riuscito. Anche perché la storia noir si ingarbuglia un po’ troppo, e la sua risoluzione finale arriva un po’ smozzicato. Ma, a parte tutto, Matera ne esce bene, e se non l’avete vista ancora, sbrigatevi a farvi un tour.

Il bello di avere una routine consolidata di scrittura che si ripropone settimana dopo settimana da più di dieci anni, è che si può cambiare ogni tanto. Non la struttura, non i riferimenti, ma questo caldo luglio fa obnubilare il cervello. Quindi, niente allegati, nessuna citazione, solo un pensiero (ancora) al Portogallo fresco da poco lasciato, ed uno a possibili riposi campagnoli, che colorano di verde il nostro agosto.