domenica 22 dicembre 2019

L'arte è finita - 22 dicembre 2019


Luca Romano “La vita di Pantasilea” Corriere della Sera Arte 20 euro 7,90
[A: 29/11/2016 – I: 24/06/2019 – T: 27/06/2019] - &&-----     
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 392; anno 2012]
Ma domandiamoci pure che c’entra questo libro con l’assunto della collana? Si cita Benvenuto Cellini in poche pagine scarse e senza costrutto. Si parla di tal Marcello Corvini che forse, trenta anni dopo i fatti diventerà papa (e sarà l’ultimo che utilizzerà il proprio nome, facendosi chiamare Marcello II). Si parla, e molto, del sacco di Roma del 1527. Ma dov’è l’arte come romanzo? Boh! Se invece ci  asteniamo dal contesto, e cerchiamo di leggerlo come un romanzo a sé, pur nella considerazione che non lo avrei mai comprato, ha alcune parti che scorrono abbastanza. Altre meno, altre per nulla. Quello che esce fuori di positivo è un abbozzo della vita romana del 1500, incluse le vicende papali e imperiali. Si vede la vita dei vicoli, specie quelli dell’allora Borgo, mussolineamente distrutto ora. Si vede il castello dell’Angelo, il Passetto, Ponte Sisto, l’odierna via di Panico, ed altre bellezze centro-romane. Tra l’altro tutto centrato 426 anni prima della mia nascita. Quando i Lanzichenecchi, aiutati da mercenari di varia nazionalità, mettono a ferro e fuoco la città. Anche se in realtà, la storia narrata comincia due mesi prima, quando una delle amanti di Benvenuto Cellini, la giovane Pantasilea di Trastevere usciva dalla propria abitazione indossando un lungo abito elegante di taffettà ricoperto da una mantellina turchese che rivelava la sua condizione di cortigiana non ricca ma onesta, espressione che allora voleva dire colta e di buon gusto. La giovane sospetta di essere incinta e si avvia a pregare sulle reliquie di San Giuda, il santo delle cause disperate, nella Basilica di San Crisogono. Per non finire reietta da tutti, una donna senza onore, la sua speranza è di sposarlo. Ha messo da parte una dote quasi sufficiente, anche se il giovane Benvenuto Cellini (all’epoca ha 26 anni) sembra poco interessato a lei e al matrimonio. Anzi ha ceduto Pantasilea al suo amico pittore, il Bachiacca, per una prossima festa fra amici alla Locanda dell’Orso. Erano gli ultimi giorni del carnevale romano, ora più parco secondo il volere del parsimonioso Clemente VII Medici e di quella “sanguisuga” del suo camerlengo, il Cardinale Armellino. Il popolo romano abituato da sempre a principi e a imperatori, non poteva certo immaginare che i barbari fossero alle porte. Gli abitanti dell’Urbe non ci credevano, perché gli stranieri vanno e vengono, “noi siamo qui da due-mila anni e ci restiamo”. I barbari “morti di fame” di Carlo V acquartierati presso Bologna aspettavano solo un segnale per vilipendere, offendere, brutalizzare qualsiasi pietra e abitante di questa città considerata santa. Solo Brandano, il Cassandra di Roma, profeta di sventura, aveva intuito che il pericolo era imminente. Mentre si dirige verso la chiesa Pantasilea s’imbatta nella processione del cardinale Farnese, appena uscito dal suo palazzo ancora incompiuto. L’emerito cardinale rimane colpito dalle doti della cortigiana e, promettendole cento scudi d’oro, la invita a una «cena» con un giovane chierico «che avrà un grande futuro nella Chiesa». Una prospettiva allettante per Pantasilea, che deve completare rapidamente la sua dote e sposare Benvenuto. Una prospettiva che, tuttavia, deve fare i conti con l’esercito comandato da Carlo di Borbone che si avvicina inesorabilmente alla città. Da qui tutta la storia contorta della vita delle cortigiane a Borgo, dei rapporti tra Pantasilea e il futuro papa Marcello, e di questi con l’eretico Brandano. Nonché una serie di richiami a presunti diari germanici delle truppe in avanzamento e poi in Sacco di Roma. Pantasilea si salverà dal Sacco, e con l’aiuto segreto di Marcello potrà ambire ad una vecchiaia serena. Corvini diventerà papa. Brandano morirà quasi trent’anni dopo a Siena, in odore di santità. Cellini, con i soldi avuti (o forse rubati) a papa Clemente VII, continuò la sua carriera di orafo ed attaccabrighe, sino alla morte che avverrà una cinquantina di anni dopo in quel di Firenze. Ma tutta la parte romanzata mi ha lasciato freddino. Mentre ho trovato impagabili ed emozionanti, perché parte di una grande fetta della mia vita, tutti gli squarci descrittivi: la piazza in Agone (l’attuale Piazza Navona), la costruzione della chiesa della Santissima Trinità, la gigantesca Fabbrica di San Pietro, la Fabbrica di palazzo Farnese e Sant’Agostino nel rione Ponte, la Parrocchia preferita dalle cortigiane da quando alcuni anni prima era stata sepolta Fiammetta, la famosa amante cortigiana di Cesare Borgia. Insomma, un altro titolo di poco spessore per una collana dal destino migliore.
“È male prendere una decisione sbagliata, ma è peggio non prenderne alcuna.” (154)
“Chi è mal governato paga caro il malgoverno, mentre chi governa male ne gode dei frutti e di rado ne patisce. I mali del popolo sono interamente dovuti a governanti incompetenti o malvagi. E non può governare onestamente chi allo stesso tempo conduce una vita disonesta.” (e chi vuole intendere…) (237)
“Non è forse vero che … non esiste nulla di più scandaloso, velenoso, odioso della corte romana?” (243)
Maurizio Cohen “L’ombra di Artemisia” Corriere della Sera Arte 22 euro 7,90
[A: 13/12/2016 – I: 28/06/2019 – T: 29/06/2019] - &&--     
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 330; anno 2012]
Le ultime letture della collana del Corriere stanno riservando delle sorprese negative una dopo l’altra. Soprattutto perché poco si parla di arte, o solo di sfuggita, o solo come pretesto per parlare d’altro. Qui troviamo Maurizio Cohen, per altro anche regista e sceneggiatore, che, nelle premesse, sembrava aver scritto un libro su di un interessante momento di arte, soprattutto romana. Infatti, speravo, dal titolo, in un’opera che ritornasse sulla bella figura di Artemisia Gentileschi, ed invece poco o nulla si parla dei suoi quadri, e molto ci si sofferma sul processo per stupro. Mah! Quello che in particolare mi ha disturbato è il fatto che, per l’appunto, Artemisia sia solo un pretesto. Per parlare di un film che viene girato sulla prima pittrice donna degna di questo nome (cioè del nome di pittrice). Poiché inoltre, parlare d’arte in un film non è facile, l’attenzione dell’autore del libro e del regista del film si concentra sull’episodio topico della vita di Artemisia Gentileschi. Donna e pittrice in un mondo maschile, si fa abbindolare per anni da un sodale del padre, che però è già sposato. Quando si ribella e lo accusa di stupro, il processo sarà tutto volto a scandagliare la vita irregolare di Artemisia, come era costume ed uso precipuo all’epoca. Non si parla dei rapporti pittorici con il padre Orazio. Non si parla della frequentazione con Caravaggio. Questo è il plot del film che la bella Jenny, alla sua prima esperienza cinematografica si appresta ad interpretare. Jenny, attrice e donna libera, che gira per Roma come tutte le donne dovrebbero fare, senza alcun timore. Jenny che si sente attratta da Alain, tenebroso regista del film. Jenny che pochi giorni dopo l’inizio della lavorazione del film, dietro piazza Navona, viene stuprata da tre bellimbusti romani di buona famiglia. Mi ero dimenticato di dire che Cohen alterna capitoli storici con Artemisia a capitoli attuali con Jenny, cercando sempre di tirar fuori paragoni, similitudini, somiglianze. D’altra parte, che la condizione della donna non sia migliorata di tanto negli ultimi 400 anni non è che sia un mistero. In particolare, dal punto di vista sessuale. È sempre lei che provoca, ed il maschio non può che arrendersi alle schermaglie delle streghe dell’altro sesso. Cercando di ottenere il proprio piacere, con le buone (poco) o con le cattive (purtroppo più spesso di quanto sembri). Così assistiamo al parallelo del processo allo smargiasso Agostino Tassi ed ai tre furbetti che hanno violentato Jenny. Ci mette tempo e spazio, ma alla fine, il nostro scrittore ci fa arrivare alla stessa conclusione. In entrambi i processi, la donna vince “de iure” e perde “de facto”. Non entro nelle dinamiche “artemisiane” del post processo, del matrimonio per fuggire, e di quant’altro succede alla nostra pittrice (che altrove e meglio sono descritti). Citando solo l’unico tentativo indiretto di vendetta, laddove, nel dipingere “Giuditta e Oloferne”, dà a quest’ultimo, decapitato, le sembianze del Tassi. Nel presente di Jenny, che occupa poi stabilmente tutta la seconda parte del libro, assistiamo alla “rinascita” dell’attrice dopo il buio delle violenze. All’aiuto che Alain le fornisce, sia privatamente, sia decidendo con lei di riscrivere la storia di Artemisia tutta ribasandola sulla violenza verso le donne. E nel percorso di approfondimento, Jenny conosce altre vittime dei tre cattivi e strafottenti (di cui non veniamo mai a sapere i nomi, ma i soprannomi che ci fornisce Jenny, derivanti dal loro odore durante la violenza: Whiskey, Sudore e Tabacco). Così Jenny conosce la storia di Michela e Caterina, quest’ultima suicida dopo lo stupro subito e la conseguente non condanna di Whiskey. Vediamo come il nuovo film sia accolto e con grandi onori. Vediamo come Michela si trasformi nella Giuditta del quadro. Altro non accenno, avendo già detto troppo. Ripeto, non capisco l’assunto di mettere un romanzo basato sulla descrizione di un film che si basa sullo stupro di una donna, che incidentalmente ha dipinto dei quadri, all’interno di una collana dedicata all’arte come romanzo. Una collana in cui ci si aspettava narrazioni di pittori, di vicende cromatiche ed altre amenità, vere o presunte. Laddove le ultime prove continuano a battere sentieri vicini all’arte ma non, purtroppo, agli artisti. Sinceramente speravo meglio. In ultimo, anche la scrittura di Cohen non è che sia un fulmine di coinvolgimento. Certo, si vede la capacità da sceneggiatore. Ma non sempre chi sceneggia ben romanza.
“L’amore è fatto di cose semplici che diventano straordinarie e talvolta addirittura miracoli.” (292)
Osvaldo Guerrieri “Schiava di Picasso” Corriere della Sera Arte 24 euro 7,90
[A: 02/01/2017 – I: 25/08/2019 – T: 27/08/2019] - &&&-     
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 282; anno 2016]
Il critico teatrale de “La Stampa”, Osvaldo Guerrieri riporta ad un buon livello una serie che ha vissuto alcuni momenti interessanti, ma anche tante prove poco convincenti. Con un discreto occhio scenico, ci porta sul teatro della vita di Picasso, visto e seguito attraverso una descrizione non puntuale ma ben seguibile degli anni che il grande pittore visse in un rapporto difficile e problematico con la fotografa croato-francese Henriette Theodora Marković, meglio nota con il suo nome d’arte Dora Marr. In effetti, quello che seguiamo è il percorso di Dora, piuttosto che quello di Pablo. E benché si respiri il profumo dell’arte, il romanzo è molto sulle persone, anche se queste sono artisti (uso il plurale maschile solo per comodità). Quando si incontrano Dora è appena uscita da un rapporto tormentato, dolorosa, devastante con Georges Bataille, lo scrittore e filosofo teorico dell’erotismo e della trasgressione. La scena iniziale, che poi ci darà tutto il senso del libro e della vita di Dora, si svolge nel celebre caffè parigino “Les Deux Magots”, dove Dora si accanisce in un gioco pericoloso: mette la propria mano guantata a ventaglio e con un coltello inizia a pugnalare a velocità sempre crescente lo spazio tra le dita. Ferendosi, a volte. Picasso la guarda, e le viene presentato dal comune amico, il poeta Paul Eluard. Picasso le chiede in dono il guanto, e le dà un appuntamento. Noi già sappiamo che il focoso spagnolo è sposato con l’ucraina Olga, da cui ha avuto il primo figlio Pablo. Ma l’ha anche lasciata, anche se non otterrà mai il divorzio, per mettersi con la modella francese Marie-Thérèse Walter, da cui ha avuto una figlia, Maya. Dora ha ventisette anni, ha un’interessante carriera di fotografa ben avviata. Ma è attratta dal grande genio. Ed il grande genio è attratto da tutte le donne, le vuole tutte, e le vuole tutte ai suoi piedi, ai suoi ordini. Dora, rispetto alla sola bellezza delle altre conquiste, ha anche una testa, permette a Picasso di confrontarsi con un altro da sé che non è solo supino ai suoi piedi. Forse per questo, sempre più crudele si fa il suo gioco. Dora gli trova una casa vicino alla sua, in Rue des Grands-Augustins. Lo frequenta, ne viene sedotta. Ma quando Picasso dipinge la caccia in malo modo. E poi, per non privarsi delle visite di Maya, consente a Marie di frequentare la sua casa, e costringe Dora a fare da spettatrice ai propri tradimenti. C’è solo un momento di grande arte, e di adesione alle idee della collana. Quando, e non torno sui come ed i perché, fin troppo noti, a Picasso viene commissionato un grande quadro per denunciare le stragi tedesche effettuate dalle incursioni aeree tedesche in aiuto della rivolta del generale Franco. Vediamo la nascita e la costruzione del grande quadro “Guernica”, che Dora vede nascere (anche perché fa da modella ad una delle facce). Poi Dora riprende la macchina fotografica, e comincia a scattare foto. Una documentazione fotografica della nascita di un capolavoro che rimarrà unica nel suo genere. Ma oltre all’amore di Dora per Pablo (e non si riesce mai a capire se Pablo ricambi o sfoghi solo la sua incontentabile sessualità), c’è nel libro tutta la descrizione dei un’epoca, la Parigi tra la fine degli Anni Trenta ed i primi Anni Quaranta. Ci sono i “cafè”, ed i loro habitué: Paul Éluard, Jacques Prévert, Man Ray, Jean Cocteau, tanto per citarne alcuni a memoria. Ci sono le fughe verso la Costa Azzurra, ritrovo della banda di amici, dei pittori, dei fotografi, dei liberi costumi. E sempre in mezzo, con le sue tristezze, le sue incomprensioni, le sue idee, le sue sottomissioni che “la madonna che piange” (così la chiama Pablo). C’è Dora, che andrà fuori di testa quando, accantonata Marie-Thérèse, e quando lei pensa dia ver campo libero, ecco affacciarsi Françoise, che si accompagnerà a Pablo per una decina d’anni, dandogli altri due figli (Paulo e Paloma). Dora invece entrerà in cura da Lacan, e ne uscirà. Anche discretamente. Visto che alla fine è l’unica donna che sopravvivendo a Picasso, non finirà per togliersi la vita (a parte la prima moglie Olga, morta di cancro). Così farà Marie-Thérèse a 68 anni, così farà Jacqueline, la seconda moglie, a 60 anni. Picasso, lasciandola, le regala una casa in cui vivere e dei quadri, che Dora conserverà per tutta la vita, fino alla morte avvenuta nel 1997, a 90 anni. E fino alla fine, a chi le chiedeva conto, lei ripeteva il suo mantra: “Non fui l’amante di Picasso. Lui era il mio padrone.” Per questo Guerrieri giustamente qui ci parla della “schiava”. Guerrieri ci ha fatto fare un bel viaggio, mi ha fatto ritornare in angoli della mia amata Parigi che ricordavo ma non veniva più fuori. Non si parla molto di arte, e si parla molto d’amore. Forse sono l stessa cosa.
“Non ci fu mai rottura, anche se lei gli ripeteva: ‘Sarai pure un grande artista, ma come uomo sei una merda’. … E Picasso non faceva che dirle: ’Non puoi lasciarmi, nessuna donna lascia Picasso’”. (261)
Antonio Forcellino “Raffaello. Una vita felice” Corriere della Sera Arte 31 euro 7,90
[A: 21/02/2017 – I: 11/09/2019 – T: 22/09/2019] - && +     
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 284; anno 2006]
Speravo finalmente in un lavoro che, seppur romanzato, portasse acqua al mulino di un libro che facesse dell’arte una chiave di volta del racconto. Purtroppo, Forcellino, sicuramente mi si dice grande conoscitore dell’arte in genere e cultore del periodo gravitante intorno al 1500, non riesce a fornire una prosa scorrevole, un ritmo accattivante. Insomma, il libro si legge, è foriero di molte notizie, e di sicuro è analiticamente preparato sulla genesi e sul testo stesso dell’opera raffaelliana. Ma se questo doveva essere un’opera divulgativa, con l’intenzione di aprire anche agli ignoranti come me le porte del mistero del grande urbinate, devo dire che ha fallito sicuramente il compito. Probabilmente, chi già sa di Raffaello, della sua vita e delle sue opere, riesce a seguire meglio di quanto abbia fatto io il percorso personale ed artistico del pittore. Anche perché, idealmente, il libro si colloca mediano nella trilogia dedicata ai tre grandi che svoltarono quel quindicesimo centenario. Preceduto da “Michelangelo. Una vita inquieta” e chiuso da “Leonardo. Genio senza pace”. Ricordo ai meno attenti, che Leonardo (anzi Leonardo di ser Piero da Vinci)  nasce nel 1452 e muore nel 1519, e Michelangelo (Michelangelo di Ludovico Buonarroti) nasce nel 1475 e muore nel 1564. Raffaello Santi (nome poi storpiato in Sanzio, data l’abitudine del pittore di firmare le sue opere alla latina come “Sancti”) nasce in Urbino il 28 marzo 1483 (Venerdì Santo) e muore a Roma il 6 aprile 1520 (altro Venerdì Santo). Già in questa concordanza, l’autore avrebbe potuto trarre elementi di risonanza e di incroci cabalistici. Ma ciò non avviene, come non avviene un disvelamento di quanto le sue opere siano spesso state commissionate da donne e signore in genere. Che Raffaello era notoriamente un bel giovane, e sicuramente dedito a coltivare buoni ed intimi rapporti con l’altro sesso. Contrariamente a Leonardo, che si dice preferisse i giovani (e come si sa “non sono note relazioni di Leonardo con donne, non si sposò mai, non ebbe figli”) o a Michelangelo, che rimase austero per tutta la vita, sostenendo che le fatiche amorose, in ogni senso, lo privavano della forza di affrontare la sua arte (alcuni dicono tra l’altro che fosse affetto dalla sindrome di Asperger). Ma qui, sebbene passino e si vedano gli altri due grandi, ci si deve dedicare a Raffaello. Tuttavia, io, dal testo, non sono riuscito a seguirne bene né i movimenti, né le motivazioni. La madre muore che lui ha due anni, e non la ricorda. Il padre quando lui ne ha undici, e quindi si, il padre, pittore affermato, qualcosa gli ha di sciuro tramandato, ma non ha certo potuto avere gli influssi attribuitigli. Certo, rimane nella bottega paterna (cioè messa su dal padre) sino ai 16 anni, e lì apprende i rudimenti dell’arte che poi dispiegherà in maniera potente. Ed è probabile che molto ci fosse di un “dono” suo personale, anche quando passa a bottega dal Perugino. Conscio delle sue capacità, ha anche un altro elemento positivo. È capace di metterle a frutto, di sfruttare tutte le occasioni, e di sbaragliare sul campo i suoi avversari. Quando sa della presenza di Leonardo e Michelangelo a Firenze, nel 1504, abbandona le Marche e l’Umbria e lì si presenta per capire i grandi, e sfruttare le sue capacità. Ovviamente, con una lettera di presentazione firmata da una donna, Giovanna da Montefeltro. Lo stesso avverrà 4 anni dopo, che, capendo ormai il centro dell’arte gravitasse su Roma, sempre con i buoni uffici di Giovanna, e della di lei famiglia (che sposò un Della Rovere), lì si trasferisce, ottenendo, in virtù ovviamente delle sue capacità, prima una parte poi l’intera gestione delle “Stanze Vaticane” devote alla celebrazione del Papa Giulio II. Nella grande arena romana avrà modo poi di dispiegare tutta la sua arte, financo intervenendo, dopo il Bramante, nella Basilica di San Pietro. Non intendo addentrarmi oltre in questa disamina, sia perché meriterebbe la capacità almeno di mio cugino Alessandro per farvi capire quanto sia avvenuto in Vaticano, sia perché vorrei tornare a Forcellino. Terminando con il notare come la morte del trentasettenne pittore, secondo le fonti note, avvenne in seguito ad un sovraccarico di gesta amorose che lo avevano talmente prostrato da lasciarlo senza forze, anche perché la forte febbre venne curata da ingenti salassi che ho il sospetto ne accelerarono la fine. Dicevo Forcellino riesce, questo bisogna senza dubbio ammetterlo, a costellare la narrazione non lineare che ho cercato brevemente di riassumere, con la descrizione delle opere che hanno punteggiato tutti i momenti della vita di Raffaello. E poiché Forcellino è di sicuro un acuto conoscitore del periodo, riesce a descrivere queste opere con l’occhio acuto del critico. Ma sono tante, a me si confondevano l’una via l’altra, non riuscendo a tenere il conto delle Madonne, delle Pale, e poi anche dei palazzi e delle ville. Troppi dati generano rumore, questo mi disse un mio mentore informatico. Qui il rumore copre quella che sicuramente è stata una vita felice, piena di successi, piena di affermazioni, piena di donne. Una vita piena. Ma Forcellino non riesce mai a farmi capire se sia stata anche una vita appagante per Raffaello. Era questo che voleva? Era questa la gloria, la fama, cui ambiva? Come erano i suoi “giorni felici”? Mi è mancata questa parte della vita di Raffaello, lasciandomi alla fine più curioso che soddisfatto.
John North “Il segreto degli ambasciatori” Corriere della Sera Arte 33 euro 7,90
[A: 28/02/2017 – I: 22/11/2019 – T: 30/11/2019] - &&---    
[tit. or.: The Ambassadors’ Secret: Holbein and the World of the Renaissance; ling. or.: inglese; pagine: 380; anno 2002]
Con quest’ultimo libro abbiamo quindi finito il lungo viaggio attraverso due espressioni artistiche che in genere fanno funzionare i miei pur pochi neuroni. Il romanzo, espressione che tutti sanno essere tra i miei interessi di punta, e l’arte, che conosco solo di pancia, e che mi sembrava interessante poter esplorare meglio. Purtroppo, la collana non sempre ha risposto alle attese. Ci sono stati, nevvero, libri interessanti ed anche coinvolgenti, dove peraltro ci sono state molte, troppe prove al di sotto delle aspettative. Non è un caso, allora, che anche quest’ultimo si collochi nel solco negativo delle prove non esaltanti. Non perché in premessa non avesse un suo input di curiosità. Anche per quel sotto titolo che riporta “La nuova interpretazione di uno dei grandi enigmi della pittura”. È un peccato tuttavia, che non sia stata riportata nel titolo la menzione all’autore, ed al mondo in cui si è sviluppato il quadro, così come sapientemente riportava il titolo inglese: “Holbein ed il Mondo del Rinascimento”. L’autore era uno storico delle scienze inglese (era in quanto ci ha lasciato una decina di anni fa), che si è occupato nella sua lunga carriera accademica di matematica, filosofia, politica, economia nonché astronomia. Usando molti dei suoi dotti studi, nella massa dei suoi variegati scritti, qui si è dedicato ad un quadro e ad un periodo storico. Il libro, molto denso devo dire, ha una sua prima parte discretamente interessante, in cui si diletta nel narrarci del tempo della pittura, dell’autore e dei personaggi rappresentati. Purtroppo, questa parte, anche discretamente agile, viene poi annegata in una lunga e senz’altro dotta e documentata disamina di ogni minimo particolare del quadro, al fine di arrivare a quanto promesso dal sottotitolo italiano. Tuttavia, annegando il tutto in molte parti tecniche, questo benedetto segreto alla fine esce fuori un po’ malconcio. Il quadro viene dipinto nel 1533, ritraendo, a grandezza naturale, Jean de Dinteville, ambasciatore di Francesco I di Francia, ed il suo amico Georges de Selve, vescovo di Lavaur, recatosi a Londra in visita in  quel periodo. Per questo, il quadro prende nome de “Gli Ambasciatori”, uno, il Dinteville, della corte francese, l’altro, il de Selve, della corte papale. Holbein, facendo un passo indietro, è un pittore che nasce ad Augusta, nell’Impero Germanico, lavora molto a Basilea, per poi trasferirsi definitivamente a Londra, dove muore a 47 anni. Si intuisce subito che il quadro non può che contenere anche accenni al momento politico e religioso che l’Europa sta attraversando, essendo quegli gli anni dello scisma religioso inglese, con il re Enrico VIII alla testa del protestantesimo, sulla scia delle dottrine luterane coeve. Tra l’altro Holbein, in Svizzera, era stato sodale di Erasmo da Rotterdam, cui fece un famoso ritratto. Perché, per l’appunto, Holbein è fondamentalmente un ritrattista, e molti dei suoi quadri rimastici propongono cortigiani, proprietari terrieri, dotti, ed altre figure storiche (mentre pare sia andato perduto il suo ritratto di Anna Bolena). Quello che intriga, al di là della pesantezza del testo, è poi tutto quanto è rappresentato tra i due ambasciatori. Strumenti astronomici, quadranti, libri degli inni, un crocifisso, un liuto con una corda spezzata, un libro di calcolo aperto sulla pagina della descrizione di come effettuare una divisione, un teschio anamorfico. Senza entrare nella lunga e penso esatta disamina di North, il risultato della sua analisi (e di alcuni altri autori sulla sua scia), è interessante. Una serie di elementi astronomici fa collocare il tempo del quadro all’11 aprile 1533, il Venerdì Santo. Di certo un simbolo, visto che si colloca esattamente 1500 anni dopo il Venerdì Santo della Passione di Cristo. Non solo, tutta un’altra serie di elementi descrivono una configurazione celeste con un’altezza solare di 27°, praticamente la stessa della prima Pasqua cristiana. Inoltre, il 27 ricorre in molti punti del quadro stesso. Ad esempio, ponendosi a 27° lo spettatore sarebbe in grado di ricostruire il teschio alla base del quadro nelle sue esatte fattezze. Poi, 27 è, secondo l’iconografi cattolica, tre volte la Trinità. Con il Crocifisso che si pone al centro del quadro, a simboleggiarne una possibile unione tra politica e religione, contraddetta dal liuto con la corda spezzata, simbolo della discordia. Un ultimo elemento è il mappamondo rappresentato, che indica a chiare lettere dove verrà collocato il quadro, cioè a Polisy (espressamente dipinta) luogo natio di Jean de Dinteville, ma il quadro astrale è spostato su Roma, intendendo forse la centralità. L’analisi di North poi si addentra in altri segni misteriosi: la presenza di un esagramma che unisce una serie di simboli. E l’esagramma è simbolo sia giudaico (la stella di David) sia cristiano (la stella della Creazione). Infine, c’è il pavimento del quadro che riproduce il pavimento dell’abbazia di Westminster. Devo dire, che dopo l’iniziale interesse al contesto storico, il trasporto mentale per capire le capacità pittoriche di Holbein, tutta l’ultima parte, pur contenendo elementi geometrico-matematico-astronomici interessanti, è di un tale tecnicismo che alla fine fa perdere di vista il famoso segreto. Il cosiddetto messaggio che Holbein, secondo North, voleva inviarci. Io ho ritenuto a mente tanti particolari, ma alla fine mi sono perduto al quanto. Comunque, la prossima volta che andrò a Londra, cercherò di visitare la National Gallery per vederlo dal vivo.
Non so se riuscirò a produrre altre trame per questo 2019 intenso di tanti piccoli avvenimenti. Si preparano viaggi a medio e lungo raggio, per iniziare anche il nuovo decennio all’insegna di letture e viaggi. Che come mi ha etichettato un vecchio e gradito regalo. “Chi legge è un viaggiatore”. 

lunedì 16 dicembre 2019

Per fortuna che c'è Ricciardi - 15 dicembre 2019


Fabiano Massimi “Il club Montecristo” Mondadori euro 6,50
[A: 12/07/2017 – I: 27/01/2019 – T: 28/01/2019] - &&&+
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 191; anno 2017]
Ultimamente il famoso/famigerato Premio Tedeschi delle edizioni Mondadori non è che avesse riscosso molto successo tra le mie letture. Qui, invece, il vincitore del premio 2017 mostra una buona dose inventiva, un discreto intreccio ed una sicura tenuta di penna. Anche la trama si sostiene, con forse qualche calo verso il finale. Infine, tanto per mettere i puntini negativi tutti insieme, è troppo scontato il fatto che ci possa essere un seguito delle avventure degli Ammutinati. Intanto l’autore, con qualche “mistero”, risulta essere o essere stato editor per Einaudi, aver vissuto a Torino, mentre nel “risvolto” di Mondadori dice di dividersi tra Londra e Dubai, facendo però base a Modena. Di sciuro è uno che i libri li conosce, e li ama. Qualcuno ne saprà. Di sicuro Modena è al centro della trama, non con il suo nome ma con quello antico di Mutina, riservato ora ad una parte della città i cui scavi archeologici hanno fatto ritrovare l’insediamento etrusco del 183 a.C. Ma questa è una storia diversa. Quello che noi seguiamo è un’indagine svolta dagli appartenenti al club del titolo, che si riferiscono a sé stessi con il nome di Ammutinati. La caratteristica che li unisce è che sono ex-detenuti, che hanno ripreso una “retta” via, rimanendo in contatto come società di mutuo soccorso. La base del gruppo è nel retrobottega del Caffè Dantés, ed il capo di riferimento ha il nome di battaglia di Primo, essendo appunto il primo ad essere riuscito a rifarsi una vita. Il club si mobilita perché un carcerato in semi-libertà, Danilo, viene coinvolto nella morte, nell’uccisione di tal Viviana. Poiché gli ex non hanno tutte le competenze, uno degli ultimi usciti, Lans Iula, coinvolge il suo amico Marco, informatico di talento, nonché marito e padre un po’ scoglionato. Lans ha fatto sette anni di carcere per rapina, ma non ne veniamo a sapere molto di più. Prima era un promettente pittore ed amico inseparabile di Marco. Il quale però, lasciato a sé stesso, in questi anni si sposa con la danese Elsie, fanno due figli di 5 e 3 anni. Marco era invece il letterato, nonché informatico. Ora ne vediamo la routine familiare cui lui non si adatta, se non verso i figli, covando un rancore crescente verso Elsie. Comunque, Lans lo convince ad aiutarli, così che, tramite le competenze informatiche, un hackeraggio nascosto, ed altri piccoli interventi, veniamo a scoprire, pian pianino, i “misteri” di Viviana. Intanto è la figlia del direttore del carcere (qui chiamato Sant’Agnese mentre quello di Modena si chiama Sant’Anna, piccoli mascheramenti). È una pittrice di qualche talento, anche se non vuole vendere i suoi quadri, sempre campeggiati da una donna di spalle che guarda momenti di vita desolanti (ricorda lontanamente le idee del pittore assassino di Ernesto Sabáto). Ha una storia con tal Udo, anche lui artista, ma in special modo di nudi e trompe l’œil, e lavora nella galleria di Guy, forse stalker, sicuramente gay. Viviana ha anche storie tristi alle spalle: una madre suicida circa 18 anni prima, una sorella scomparsa e/o forse morta, abusi di droghe varie, da cui si è disintossicata (o forse no?). Inoltre, sembra essere dedita a puntate da escort, fino a che non si scopre che servono a coprire la sua amica Giorgia. Ma tutti sono dei potenziali assassini, il padre con cui ha rotto dal tempo delle droghe, Udo con cui ha fatto un furibondo litigio, Guy che la tempestava di telefonate, Giorgia o qualche cliente della stessa che potrebbe aver scoperto i giochi non certo pulitissimi delle due. I nostri Ammutinati (di cui man mano scopriamo appartenenti di sicuro interesse per le future puntate) indagano a tutto tondo, con l’unica certezza che Danilo è innocente, anche se il commissario capo Cassini lo vuole incastrare. Marco e Lans hanno un aiuto insperato da parte di Lana, anzi dell’ispettrice Lana, che lavora con Cassini, ma non è convinta della linea d’azione del suo capo. Inoltre, nasce un colpetto di fulmine tra Lana e Marco, in quanto entrambi lettori compulsivi, che si mandano messaggi trasversali attraverso libri e citazioni. Citazioni che aiuteranno anche Lans a decriptare tutto il mistero. Che alla fine i nostri risolvono il caso, Lans potrebbe riprendere a dipingere, Marco potrebbe riprendere a scrivere, e Lana potrebbe irrompere da amica o da amante nella vita di Marco. Tutti elementi che ci fanno ipotizzare in una seconda puntata interessante (come lo stesso Massimi confessa sul web di aver già quasi scritto). Ultima chicca personale (che credo non entri per niente nella storia). Mi ha dato sin dall’inizio un po’ di noia quel nome così poco usuale del co-protagonista. Utilizzando le magiche arti del mio amico Ennio, lo anagrammato in “Nulla Sai”, che ha un senso perché di lui, ora, in realtà, non sappiamo quasi nulla. Boh, saranno le mie solite elucubrazioni campate per aria.
Giovanni Cocco & Amneris Magella “Omicidio alla Stazione Centrale” TEA euro 11 (in realtà, scontato a 8,25 euro)
[A: 12/04/2017 – I: 22/09/2019 – T: 23/09/2019] - &&& --
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 305; anno 2015]
Ogni tanto si pesca nella grande fucina delle selezioni di “mystery TEA”, di cui ho (quasi) la collezione completa. Escono fuori allora romanzi almeno interessanti, se non di più. Cito soltanto che sono quelli che mi hanno fatto scoprire due grandi nordici come l’islandese Arnaldur Indridason e lo svedese Hakan Nesser, nonché affezionarmi ai personaggi di Gianni Simoni. Ecco allora, che dopo due anni e passa di silente attesa sugli scaffali, anche questo romanzo esce fuori con alcuni spunti, ed altri passi invero meno interessanti, tanto per essere precisi. Giovanni Cocco inizia a scrivere in solitaria, vincendo anche un premio “Selezione Campiello”, per poi dedicarsi, circa dal 2013, alla scrittura a quattro mani con il medico legale Amneris Magella. Sfornando, ad ora, credo quattro romanzi incentrati sul commissario Stefania Valenti. Tutti comunque ambientati in quel di Como e dintorni, con frequenti passaggi (e questo libro ne testimonia assai) nel vicino Canton Ticino. Dispiace, per la mia mania dell’ordine, che questo sia il secondo romanzo della serie, così che troviamo i personaggi principali abbastanza delineati, magari con qualche punto che avrebbe avuto miglior delucidazione se fossimo passati per il primo libro (cito “Ombre sul Lago” che chissà…). Intanto, per la cronaca e magari per il gossip, vediamo, a lato del “giallo” vero e proprio, la storia personale del commissario Valenti, matura negli anni e con figlia (Camilla) adolescente, avere una storia intensa e un po’ LAT (“Loving Apart Together”) con il più giovane (di quasi 18 anni) Luca. Quasi a ricalcare il rapporto tra i due scrittori, separati dallo stesso lasso temporale, anche se non so né mi interessa sapere se hanno altri vincoli intercorrenti. Tuttavia, la passione della descrizione, e dei dubbi su di un rapporto apparentemente sbilanciato, lanciano piccoli sassolini. Così come sassi troviamo nel rapporto tra Stefania e Camilla. Sempre per rimanere nel contorno, come ogni buona stazione di polizia moderna, il commissario è contornato da due valenti aiuti: il sardo Piras ed il toscano Lucchesi, tipizzati nelle loro attività e comportamenti quotidiani. Il sardo con figlia piccola ed il toscano con una maniacale cura dei dettagli. Un cammeo inoltre viene fornito dal medico legale che analizza corpi e dettagli del ramo poliziesco della storia, dove non possiamo non notare le capacità di riportare, magari trasponendolo, il quotidiano della dottoressa Magella. Ma questi sono i protagonisti, anche discretamente simpatici che viene la voglia di rileggerne. Meno intensa, ed un po’ ingarbugliata è la trama, che nasce da un incidente automobilistico nei pressi del lago di Como. Ma i testimoni riportano di aver sentito colpi di arma da fuoco ed una moto che fugge. Quindi almeno tentato omicidio. La stranezza è che il colpito è da poco uscito di prigione, dopo aver scontato 20 anni per omicidio. Giampiero Colombo, infatti, aveva ucciso nel 1992 alla Stazione Centrale (da cui il titolo) un tizio noto come “Il Giocatore”. Perché, benché poliziotto e forse infiltrato, era un forte giocatore di poker, e Colombo, negli anni della Milano da bere, gestiva un locale molto “in”, il Metropolis. Un locale dove giravano tanti soldi, che Colombo gestiva in parte con la sua compagna. Soldi che spesso finivano in Svizzera (e forse ci sono ancora). Locale che era anche punto di incontro di personaggi loschi e di rampanti. Personaggi poi riciclatisi nello sciacquio generale del berlusconismo, e che ora sono alla ricerca di nuove speculazioni, di nuove fonti di denaro, ora che per Milano si avvicina il grande momento dell’Expo. La nostra “commissari” Stefania, con i fidi Piras e Lucchesi, ricostruisce (quasi) tutti i tasselli della vicenda. Che forse, e non sarebbe strano, non avrà tutte le soluzioni che merita, laddove la politica, di sicuro, avrà modo di farsi sentire. Intanto ci godiamo un bel contorno di trama, mentre la trama su Milano, la malavita e il malaffare sembra troppo scontata. Il contorno è fatto, oltre che dei personaggi di cui sopra, dei paesaggi, tra il lago, la città di Como (che non conosco) e la Svizzera italiana. In particolare, Lugano, le sue banche ed i suoi personaggi, lì fittizi, qui, nella nostra vita, ben reali, anche se, purtroppo, passati per altre fortune.
Autori Vari “Capodanno Nero” Todaro s.p. (prestito di Fako)
[A: 01/03/2017 – I: 20/10/2019 – T: 22/10/2019] && ---
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 203; anno: 2000]
Un’operazione d’antan che grande alla ben fornita memoria bibliografia che mi fornisce l’amico Roberto con i suoi libri spesso introvabili, ci porta ad uno dei tanti tentativi di sfruttare il cambio di millennio con un libretto di racconti “a tema”. Purtroppo, nonostante siano presenti degne firme del giallismo italico, il risultato non è così interessante come sperato. Anzi, la maggior parte dei racconti non è che sia di fattura neanche sufficiente. Quello che resta maggiormente impresso, forse, sono considerazioni marginali. Da un lato i 13 autori e la curatrice, Tecla Dozio, che rappresentavano all’epoca uno degli elementi di punta del giallo italiano. Ora, quasi venti anni dopo, dobbiamo costatare che “La Tecla”, così come era conosciuta negli ambienti del giallo per la sua passione e la sua libreria (la Sherlockiana) è morta da tre anni, così come ci hanno lasciato Carlo Oliva (ah, i ricordi di “Radio Popolare”) e Andrea G. Pinketts (con quell’uso della frase ironica ed ammiccante che nascondeva sempre giochi di parole interessanti). Degli altri Bruno Gambarotta e Barbara Garlaschelli hanno sempre più dirottato verso altri interessi le loro scritture. Comunque, rimangono ben 9 autori che ancora scrivono di gialli, spesso con gli stessi personaggi di allora. C’è ancora Carlotto con il suo Alligatore, Colaprico con il commissario Binda, Danila Comastri Montanari con il senatore Publio Aurelio Stazio, Dazieri con il Gorilla, Lucarelli con tutti i suoi investigatori (De Luca, Coliandro, Grazia Negro), Solito con le sequenze di sherlockiana fattura, ed il decano, il grande Macchiavelli che ci delizia ogni tanto sia con il suo sodale Guccini che con le storie di Sarti Antonio, brigadiere. Rimangono infine due autori spuri ma a me sempre cari, il sardo Marcello Fois e la giallo-fantascientifica Nicoletta Vallorani. Uno degli elementi che rimangono di questo altrimenti inutile Capodanno è anche la mini-intervista inziale di Tecla agli scrittori, con alcune domande di rito (come vorresti il cenone o con chi vorresti passare la fine del Millennio), ed altre più interessanti. Come intitoleresti la tua autobiografia o di chi ti saresti innamorato. Delle prime vorrei ricordare quella di Carlo Oliva, che piacerebbe anche a me (”Non tutte le ciambelle”). Delle seconde, noto che un notevole numero di questi scrittori si sarebbe innamorato di Molly Bloom di Joyce. Per venire a dire qualcosa anche dei racconti, inizio con la solita dolenza. Non amo i racconti. In più, mentre a volte racconti mainstream si riesce a leggerne, i racconti gialli sono quasi totalmente inefficaci. Ricordo che solo alcune prove di Scerbanenco mi convinsero a suo tempo. quindi non sorprende che il miglior racconto sia per me quello di Colaprico, che è appunto un omaggio al grande maestro, che richiama nel titolo uno dei suoi migliori romanzi (“Traditore di tutti”, con al centro il grande Duca Lamberti). Gli altri sono talvolta scontati, talvolta poco utili. Scontata la storia della segretaria sexy-dark di Carlotto o delle finte implicazioni sataniche delle vergini di Fois. Potevamo dire la fine inversa già dopo le prime righe del raccontino di Gambarotta o le implicazioni culturali di un primo approccio tra la cultura cristiana e quella islamica nelle morti giovani di Solito. Dispiace poi l’inutilità della dimostrazione amicale della Garlaschelli (certo non un noir) o l’ironia meglio indirizzabile della mamma killer di Nicoletta Vallorani. Prevedibili i giochi di parole di Pinketts, che inscena una scena d’amore tra malavitosi, lui Silvestro e lei Titti (ah, i Looney Tunes). Scendiamo sempre più in basso, quando l’ottima Danila si sposta dalla Roma dei tempi di Claudio che sa maneggiare ad un anno 1000 che rimane appeso. Oppure quando Sandrone passa dal suo schizofrenico alter-ego ad un fruitore d’altri mondi attraverso inaspettati buchi neri. Impresentabile il libro assassino di Lucarelli. Mentre Loriano gioca con la memoria di Sarti Antonio per ricordarci la violenza della sua signora perbene (Guccini docet). Finisco con Oliva, che risale la china, collocandosi al secondo posto, giocando sulle differenze tra calendari giuliani e gregoriani. Una bella trovata, alfine. Sottolineo anche un piccolo refuso di stampa, laddove si indica con “Sansonite” una valigia che non poteva che essere una “Samsonite”. Beh, questo Capodanno poco atrabile (non è un refuso, uso questo termine desueto per la sua reminiscenza umorale) e poco nero è passato ormai da troppi anni. Ora ci avviciniamo ad uno nuovo, divertente nella sua ripetitività. Chissà cosa inventerà il mio amico Ennio per questo 2020!
Giovanni Ricciardi “Gli occhi di Borges” Fazi Editore euro 16 (in realtà, scontato a 13,60 euro)
[A: 25/07/2017 – I: 10/11/2019 – T: 12/11/2019] - &&& +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 238; anno 2016]
Come direbbe il buon recanatese: “E so legger di greco e di latino, / E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtù”, (credo che il mio omonimo capisca) ecco che ritroviamo la scrittura spero amicale di Ricciardi, con il commissario Ponzetti, la sua famiglia, l’ispettore Iannotta e l’ex-avvocato Galloni con il suo cane cieco Socrate. Ritroviamo anche sia il buon sapore della Roma che entrambi amiamo, sia qualche sapore in più di cui si parlerà. Purtroppo, la prima parte riesce di difficile presa, decolla a fatica, rendendo il libro gradevole come mi aspettavo solo dalla metà in poi. Di certo è anche pieno di citazioni e di rimandi, di giochi intelligenti, ma questa volta ci si affatica, più del dovuto, con un ritorno di piacevolezza leggermente inferiore all’aspettato. Anche perché si comincia con due storie parallele, che probabilmente prima o poi convergeranno (se non che ci stanno a fare?). ma la storia della solitudine di Anita, delle sue incomprensioni con la figlia Vanessa, dell’odioso ex-marito, delle scappatelle di Anita per uscire dalla solitudine, del mutismo e dell’involuzione della una volta solare Vanessa, di David che cerca di rompere la corteccia (a suon di citazioni da “Le notti bianche” di Fëdor Dostoevskij) non riesce a prenderci. Meglio l’alternanza con Ponzetti in primo piano. Tuttavia, l’idea risente di una certa stanchezza. Infatti, Ricciardi riprende il suo quarto libro (“Portami a ballare”) dove tal Angelo Perfetti uccide il suo sosia, il ballerino argentino Marcelo Morin, e fugge in Argentina. Il commissario viene chiamato a Buenos Aires per dirimere una complicata faccenda. Perché pare che Angelo sia diventato un ladro di libri rari, per cono di un simpatico libraio. Ma la polizia (e qui non si capisce perché) fa chiudere la libreria. Fuentes, il libraio, si rifugia a Ushuaia, dove c’è anche Angelo. Entrambi si mettono alla caccia della prima edizione del libro “Fervor de Buenos Aires” uscito in poche copie nel 1923 (in rete ne ho trovata una copia gratuita in un’università americana, così quel testo ora ce l’ho anche io). Caccia commissionata da un collezionista italiano. A far da tramite la poco chiara Evita (ma perché chiamare una ragazza con il nome del grande amore di tutti gli argentini?). Tra una ricerca a Buenos Aires, coadiuvato da un commissario locale di nome Belgrano (anche qui, poca fantasia, visto che Belgrano è un quartiere di Buenos Aires dedicato al patriota inventore della bandiera nazionale), ed un salto nella Terra del Fuoco, a colloquio con il buon Fuentes, Ponzetti si fa delle idee sugli avvenimenti, ma sente di essere messo in mezzo tra fuochi di cui non conosce la natura. Sarà in quel di Roma, tra Prati e Piazza Vittorio, che i nodi verranno al pettine e le storie, finalmente si completano. Vanessa, nell’ambito delle iniziative scuola-lavoro, ha fatto uno stage presso una rivista, “L’occhio di Borges”, che pubblica oroscopi intellettualoidi (sulla falsariga di quelli di Rob Brezsny pubblicati su “Internazionale”), scritti clandestinamente da Ramelli, un guru psichiatra radiato dall’albo. Ramelli ha plagiato Vanessa (per questo è sconclusionata, ma non si capiscono tutte le motivazioni), ed è lui, tramite Evita, che cerca i libri di Borges. Angelo sta al gioco, procura copie del libro, ruba l’unica autografa conservata nella Biblioteca Nazionale Argentina, e con questa carta cerca di uscire dal gioco infernale. Anche cercando (non si sa se con cognizione o solo per uscirne fuori) di far avere a Ponzetti notizie utili a riaprire il caso Morin. Alla fine, sarà il nostro buon Ottavio a comprendere i come ed i perché, ed a portarci verso il finale. Che non è scoppiettante, ma declina in sordina le idee dell’autore. Sulla giustizia, sulla redenzione, sull’amore e sull’amicizia. Nonostante il ritmo, e la poca presa della trama generale (mi è sembrata una forzatura riaprire il vecchio caso), leggo sempre con piacere gli scritti di Ricciardi, che non manca di fornirmi, tra gli altri, alcuni impagabili cammei. Il primo riguarda la storia di Gige e Candaule. Secondo Erodoto il re Candaule, per vantarsi della bellezza della moglie, riesce a farla vedere di nascosto alla sua guardia del corpo Gige. Ma la regina se ne accorge e convoca Gige imponendogli una scelta: o Gige si uccide per aver visto la regina nuda, o uccide Candaule. Ovvia la scelta di Gige, che uccide Candaule, sposa la regina e diviene re di Lidia, il primo della dinastia dei Mermnadi. Aneddoto che serve a Galloni per esemplificare la voglia di mostrare i propri tesori, peculiare dei possessori di grandi tesori nascosti. Il secondo mi ha portato con Oreste a Ushuaia, alle Terre della Fine del Mondo, alle storie degli “italiani d’Argentina” (citazione di Fossati), e dal mio viaggio di due anni fa in quelle terre, con tutte le storie (personali) che vi si sono intrecciate. L’ultimo (anche se prima ad essere incontrato) è l’accenno al mio quartiere, alle vie che secondo me sono ben segnate e ritrovabili, ma secondo Anita-Ricciardi ci si perde sempre intorno a via dei Gracchi. Soprattutto, però a quell’accenno al mitico Silvano Agosti ed al suo cinema “Azzurro Scipioni”. Un accenno, ma indimenticabile, anche perché è a 150 metri da casa mia. E lo conosco bene, il cinema e Silvano (anche per i buoni uffici del mio amico Emilio). Insomma, Ricciardi riesce sempre a muovere alcune mie corde personali, e non può che restarmi sempre caro.
“Quando uno è vissuto guardando l’oceano e l’immensità della pampa, non può desiderare di tornare uguale a sé stesso.” (170)
Terza trama ed allora, come sapete, parliamo di libri e felicità, anche se in modo veloce e di passaggio.
Mi scuso anche, verso i miei “aficionados”, ma questo dicembre non è molto lineare, ed al solito, piuttosto che anticipi, preferisco ritardi. Così intanto, s’è riparata una caldaia, e non è male. Poi, mancano dieci giorni al Natale, e tutti andiamo di fretta e (o) di regali. 

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
DICEMBRE 2019
Continuiamo anche questo mese nella citazione e nella disamina di libri con rilascio immediato di benessere.

SOLUZIONI A RILASCIO RAPIDO 3

LIBRO CITATO:STORIA DI UNA LADRA DI LIBRI di MARKUS ZUSAK (2005)

Se non credete fino in fondo che un libro possa considerarsi una medicina in grado di alleviare dolori e malumori, e non siete del tutto persuasi che una storia di fantasia possa influenzare la vostra storia, siete affetti da una spiacevole forma di scetticismo letterario che potrebbe incidere negativamente sulla riuscita della biblioterapia. La collaborazione del paziente e la fiducia nella cura sono fondamentali ai fini della guarigione. In caso presentaste questo disturbo, vi consiglio di iniziare il percorso terapeutico proprio da questa sezione in cui trovate alcuni romanzi che dimostrano il potere della letteratura nel modificare la nostra vita. Lasciatevi contagiare dalla loro influenza e scoprirete che, se i libri non cambiano il mondo, possono cambiare le persone. Possono cambiare noi. E noi, se ci applichiamo, possiamo provare a cambiare il mondo.
STORIA DI UNA LADRA DI LIBRI di MARKUS ZUSAK

Il «New York Times», nella cui classifica è rimasto per ben otto anni, ha definito questo super bestseller “Un libro che ti cambia la vita”. È proprio ciò che accade a Liesel, la piccola protagonista di questa intensa e originale storia. Affascinata dalle infinite combinazioni delle lettere e dalle incredibili possibilità delle parole, e una volta iniziata al piacere della lettura dall’amorevole guida del padre adottivo, Liesel non può più farne a meno. Inizia a salvare i libri dai roghi nazisti e poi a rubarli dalla fornitissima biblioteca della moglie del sindaco. Così, mentre gli orrori della guerra e le atrocità perpetrate dal nazismo seminano distruzione e orrore intorno a lei, Liesel trova nella lettura una protezione con cui difendere sé stessa e gli altri dal male e dal dolore, per infondere speranza e tenere in vita. A rendere originale il romanzo è la scelta di affidare il ruolo di narratore d’eccezione alla Morte: perseguitata dagli uomini, di cui ammira la capacità di reazione di fronte alle avversità, ma sconcertata dagli orrori che sono in grado di creare e stressata dal surplus di lavoro che le provocano, ha un’indole malinconica più che tetra, un certo “sense of humour” e soprattutto è dotata di un’umanissima parlantina che la rende una gran chiacchierona. Per assurdo è proprio la Morte a dimostrare come i libri possano essere una medicina per curare le ferite mortali dell’anima in momenti drammatici in cui vivere è sopravvivere. Incredibile a dirsi ma è lei a somministrare un rimedio (letterario) in grado di riportare alla vita. Grazie a questo inusuale punto di vista, anche il lettore può vedere le cose da un’altra prospettiva e si sa che cambiare posizione stimola la circolazione (di idee). Oltre a favorire la circolazione e quindi la capacità di continuare a muoversi quando gli eventi ci paralizzano, “Storia di una ladra di libri” risulta un buon integratore vitaminico per spiriti deperiti e afflitti, dimostrando chiaramente che la lettura nutre l’anima, alimenta la coscienza e, ravvivando l’immaginazione, rende più sopportabile la realtà. Il romanzo è, anche, un rimedio per esorcizzare la paura della morte, che nel libro è assai meno spaventosa e disumana dei nazisti. Dal momento che la protagonista è una bambina, il romanzo può essere somministrato con successo anche a giovani lettori. Il contesto drammatico della storia farà scoprire loro che spesso l’ignoranza è un nemico peggiore della morte, mentre un cervello attivo è sempre una risorsa per la sopravvivenza. I libri non servono ad alimentare il fuoco dell’intolleranza ma a renderci intolleranti verso ogni forma di potere che mira a bruciare la nostra mente e le nostre speranze.
Nel 2013 il romanzo di Markus Zusak è diventato un film per la regia di Brian Percival. Un po’ oleografico nella ricostruzione e nella narrazione, è meno vigoroso del romanzo e soprattutto manca di quell’ironia che è la chiave di successo del libro.

Commenti

La nostra Giulia Fiore cita un solo libro, in questo commento. Ed io quello ho letto, e quello vi riporto.
Markus Zusak “Storia di una ladra di libri” Pickwick euro 14
[pubblicato l’11 marzo 2018]
Storia di un libro di successo, un po’ furbetto ed un po’ no, da cui mi aspettavo qualcosa in più. Certo, il libro stesso e l’autore sono acclamati e classificati come autori specifici per “young adults”, ma dal clamore di questo libro, che nel 2014 è risultato il più venduto in Italia, pensavo fosse una storia più innovativa. Invece, seppur non posso negare che per un pubblico giovanile possa avere degli “appeal”, alla fine risulta un po’ scontato. Innegabile, ovvio, che non si possa rimanere freddi e distanti rispetto ad un libro che parla di avvenimenti in Germania tra il 1939 ed il 1943. Ovvio che il pensiero vada all’autore stesso, australiano figlio di due emigrati di lingua tedesca, se colleghiamo nomi e quanto ci viene accennato di sfuggita (ma non proprio da lasciarmelo sfuggire) verso il finale del poderoso (in quanto a lunghezza) romanzo. Quindi, libro letto in anticipo in quanto successo editoriale, in quanto film (anche se il film ha avuto meno risonanza). Libro che ripeto è troppo giovanilista per essere avvincente. Pieno, infatti, di piccoli trucchi che prendono i teenagers, ma che forse, a noi smaliziati, lasciano più indifferenti. La storia si colloca nel solco delle belle storie (ovviamente virgolettando belle) che trattano di guerra, di ebrei, di nazisti e di campi di concentramento. La storia ha al centro Liesel, una ragazzina figlia di un comunista (ahi, ahi, siamo già nei guai) e per questo strappata alla sua famiglia e data in affido ad una coppia che vive nella periferia di Monaco. Liesel che a dieci anni vede morire di freddo e stenti il fratellino piccolo, che ha un trauma lunghissimo per questo (e ci credo), che al cimitero ruba il suo primo libro (un’ottima lettura per chi vuole iniziare a leggere: il “Manuale del Necroforo”!!). Liesel che ha subito un buon rapporto con il padre adottivo Hans. Che rolla le sigarette, che lavoricchia, che suona la fisarmonica. Liesel che impiegherà molto tempo ad accettare la sua burbera madre adottiva Rosa. Che urla sempre, che tratta tutti rudemente, che ha un cuore grande. Liesel che, di tanto in tanto, si troverà in mano dei nuovi libri. Una decina in tutto, ma solo un adolescente può categorizzarla come “ladra di libri”. Comunque, i libri servono a Liesel per superare i suoi traumi, per uscire verso la vita, anche se una vita difficile per i giovani tedeschi in quegli anni. Markus tratta con leggerezza (anche se non tralascia) i rapporti tra ariani ed ebrei, tra nazisti convinti e nazisti “per necessità”. Ma non è un trattato filosofico, è un libro d’evasione. Allora, torniamo a Liesel che ha un buon rapporto solo con un coetaneo, Rudy. Uno pazzo quasi quanto lei, che viveva nel mito della velocità, tanto da dipingersi a sette anni la faccia di nero, e correre gridando di essere Jesse Owens. Un’eresia per i puri tedeschi che videro trionfare gente di colore nella “loro” olimpiade. Ad un certo punto, poi, entrerà in scena anche l’ebreo. Figlio di un commilitone di Hans, che ad Hans salvò la vita nella Prima guerra mondiale. Max, questo il suo nome, aveva vissuto una giovinezza dedicata ad uno degli sporti tedeschi per eccellenza, il pugilato (e come non ricordare per inciso uno dei tanti match del secolo che vide nel 1938 opporsi il nero Joe Louis al tedesco Max Schmeling?). Per poi doversi nascondere quando passano le leggi razziste e poi dover fuggire, accolto dal buon Hans, e dall’altrettanto buona Rosa. Tanto ben accolto anche dalla piccola, ma in via di crescita, Liesel. Che ne diventa amica, che quando si ammala legge per lui ad alta voce i libri che ha rubato sperando che la forza delle parole riesca a farlo guarire, che quando guarisce viene fatta omaggio da Max di libri illustrati da lui disegnati mentre sta in cantina. Poi la guerra incalza, Max deve fuggire, Hans ha una brutta storia con i nazisti locali, arrivano gli aerei delle forze alleate, Max viene arrestato, Max viene deportato a Dachau e passa per Monaco e Liesel lo vede. Piccoli rivoli coinvolgono altri momenti della vita della piccola comunità. Rudy soprattutto, ma anche la moglie del sindaco, una vicina di casa, e molto altro (bisogna pur riempire le oltre 500 pagine). Finché, per leggere un nuovo libro, Liesel si rifugia in cantina, non si accorge dei bombardamenti e… Beh, leggetelo, ma non vi dico altro. Parlo solo del fatto che tutto il libro è narrato in prima persona dalla morte, che ci racconta il suo andare in giro a raccogliere le anime che spirano, alla fatica di tutto ciò, ed al libro che Liesel scrive per scacciare le sue paure, che contiene la storia dei libri rubati, libro che capiterà in mano alla morte, libro che la morte legge e ci ripropone con le sue parole. Forse queste piccole invenzioni di Zusak hanno il pregio di ravvivare una materia altrimenti già letta e riletta. Come piacevole è la costruzione e la riproposizione dei libri che scrive Max per Liesel. Tuttavia, questa morte che narra, che ci comunica il suo dispiacere per le vite umane che deve accogliere (ma non è il suo lavoro? E allora di che si lamenta?), che ogni tanto si ferma per enunciare avvenimenti o stati d’animo che verranno palesati da lì a poche righe, diventa una lettura oltremodo pesante. Tanto che il primo capitolo l’ho dovuto leggere due volte prima di entrare nello spirito del romanzo. Speriamo sia utile al pubblico adolescente che tende a dimenticarsi di avvenimenti di ormai settanta anni fa.

Finalino

Soluzioni rapide, commenti veloci (o quasi). Ma meglio delle mie parole qui, son quelle precedenti cui vi invito a tornare.





domenica 8 dicembre 2019

E dopo Bora? - 08 dicembre 2019


Ben Pastor “Kaputt Mundi” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 11,25 euro)
[A: 17/04/2019 – I: 30/07/2019 – T: 02/08/2019] - && 
[tit. or.: Kaputt Mundi; ling. or.: inglese; pagine: 559; anno 2002]
Qui, nella cronologia della vita fittizia del nostro militare tedesco Martin (von) Bora facciamo un bel salto in avanti di 3 anni, mentre nella scrittura invece, saltiamo indietro di 12. Devo subito premettere che questo libro mi ha dato sentimenti ambivalenti, o forse anche tripartiti. La storia in sé non mi è piaciuta tantissimo, l’ho trovata involuta, frammentaria in alcuni punti, e non tanto in linea storicamente con gli avvenimenti. Alcuni punti, notoriamente e ne riparleremo, l’ambientazione del delitto principale, mi hanno commosso e coinvolto. Un punto finale, relativo alle Olimpiadi di Berlino del ’36 infine, mi ha fatto decisamente storcere. Intanto, come detto, saltiamo due puntate centrali, che ci portano dal 1941 di Creta, e facciamo un piccolo sforzo di memoria per ricordare il primo libro letto tre anni fa, quel “Luna Bugiarda” che portò Bora in quel di Verona nella seconda parte del ’43 e dove il nostro incontrò il poliziotto Guidi. Ricordo anche che nel Nord Italia, Bora fu vittima di un attentato e perse la mano sinistra, presto sostituita da un arto artificiale. Questa ottava cronologica puntata si svolge a Roma, nel primo semestre del ’44, un periodo cruciale per Roma e per la guerra stessa. Il motore è la morte di una segretaria tedesca, alla cui indagine Bora viene chiamato nella sua qualità di “Poliziotto” dell’Esercito (e sottolineiamo, esercito non SS). Nell’indagine gli viene affiancato proprio il buon Guidi, trasferito a Roma per meriti. Ma seppur nella collaborazione e nella iniziale simpatia, i due non hanno più né lo slancio, né le modalità anche ironiche che avevano nel precedente (ricordo anche che Luna è stato il secondo libro scritto, e questo il terzo). I due devono dribblare le imposizioni superiori, che il questore Caruso (veramente esistito) vuole sia condannato un caporione fascista, e il colonnello Kappler (e questo lo conosciamo bene) vuole non venga coinvolto un suo sottoposto. L’indagine si barcamena per mesi, scoprendo dettagli molto lentamente, incartandosi con le altre vicende del libro, per trovare una soluzione finale, che al solito, salva capra e cavoli ai nostri due. Che l’assassino non è stato né il camerata Merlo né il tenente Sutor, ma… Questo ve lo lascio scoprire, se volete. Intanto, però, la vicenda come detto, si incastra con tutto quanto avviene a Roma nel periodo. C’è la risalita dal Sud delle truppe alleate, che si fermano per lunga pezza a Cassino. C’è lo sbarco americano ad Anzio. Ci sono i comandanti tedeschi che tra il Monte Soratte (dove era di stanza il comando decentrato delle operazioni) e Fregene, tentano di arginare l’ineluttabile fine. Vediamo così agire sulla scena diversi personaggi storici: il feldmaresciallo Kesserling, il comandante della regione di Roma, Malzer, il colonnello della Gestapo Herbert Kappler ed il colonnello delle SS Eugene Dollmann (questa una figura assai controversa, che sembra, storicamente, possa essere stato un agente doppio al servizio anche degli Americani). C’è anche un cammeo per una confessione dove agisce l’allora Segretario della Santa Sede, Giovanni Battista Montini (futuro papa Paolo VI). Ovvio che, dato il periodo, un punto centrale avverrà il 23 marzo del 1944, quando (per la Storia) un comando partigiano coordinato da Giovanni Amendola, e guidato da Carla Capponi ed altri gappisti, con una bomba uccide 33 soldati tedeschi. Immediata la reazione nazista, che prende condannati, arrestati e gente di passaggio, per portarli alle Fosse Ardeatine, trucidando 335 persone (dieci per uno, questo l’ordine). Nella finzione, Guidi era stato inserito tra i fucilandi, in quanto in rotta con Caruso, ma Bora all’ultimo momento lo salva. Non può salvare altri, né il generale Foa (fittizio per il generale Simone Simoni) né tal ebreo Aldo Sciaba (nome fittizio per indicare il morto n.335; perché le altre 334 salme hanno tute un nome). Molta parte del libro è dedicata a questa sezione storica, ma la trovo poco aderente alla realtà, o poco incisiva. Come ad esempio l’impegno della Santa Sede per salvare il salvabile, intervento che porterà alla morte (violenta) di un cardinale impegnato in primo piano nei possibili salvataggi. Bora è molto colpito dalla vicenda (e chi non lo sarebbe) sempre più diviso tra la fedeltà all’Esercito e la deriva nazista e feroce di SS e Gestapo. Però c’è troppa indulgenza a personaggi come Kappler, o Priebke, o altri capi della repressione. Allo stesso tempo non viene a galla né l’idea che stava dietro all’azione da parte dei partigiani, né le azioni dei partigiani stessi. Ci sono accenni, come alla vicenda della possibile partigiana Francesca, di cui si era invaghito Guidi, ma è una figura ambigua, tanto che potrebbe essere anche un agente dei nazisti, cui forniva (forse) sottobanco elenchi di ebrei da deportare. Tanto forse, che Dollmann (quello che forse era agente americano) convince Bora ad ucciderla. Morte che segna profondamente Martin, già provato dalla decisione della moglie Dikta di chiedere (ed ottenere) il divorzio. Né vale il possibile idillio, non sbocciato, e solo fatto di sguardi, che Bora prova per l’americana Nora. Il romanzo si conclude con l’entrata degli americani a Roma il 4 giugno del ’44, e con la partenza di Bora verso il Nord per raggiungere la nuova linea di difesa tedesca. Tutto questo per ribadire, a parte il romanzo in sé, un po’ di disagio con una ricostruzione storica forse discretamente aderente alla realtà, anche se, vista la partecipazione dei miei genitori e parenti alla Resistenza romana, la mia ottica è leggermente (e giustamente) diversa. Anche perché, tra i morti c’era Romualdo Chiesa, amico di mio padre. Per la parte emozionale, devo dire che mi ha colpito che la morta sia caduta dal quarto piano di un palazzo di via Tolemaide (dove ho abitato per 20 anni), che una parte dell’azione della notte fatale si svolga in via Santamaura (dove abito da 15 anni). Inoltre, c’è un complesso cammeo dedicato dl dottor Leopoldo Mannucci della farmacia omonima, farmacia gestita ancora dalla famiglia Mannucci, e dove io mi servo da decenni. Infine, il battesimo di una bambina avverrà nella chiesa di Santa Francesca Romana, la chiesa dei miei genitori. Leggerne è girare nelle pagine insieme ai protagonisti. Per la parte invece, che mi ha innervosito, sapete della mia maniaca precisione nei dettagli. Ora si parla a lungo nell’ultima parte del romanzo di tal William Bader, come ostacolisti partecipante alle Olimpiadi di Berlino del ’36. Purtroppo, nessuno con tale nome ha corso le tre gare degli ostacoli bassi. E seppur si citano correttamente il vincitore Forrest Towns e la medaglia di bronzo Fritz Pollard, il terzo americano si chiamava Roy Staley ed arrivò quarto in semifinale, per cui venne classificato dopo l’ultimo finalista, il canadese Larry O’Connor. Infatti, nel libro delle Olimpiadi, nella Final Standing, così viene classificato Roy. E non quinto, come detto a pagina 499. In realtà, quinto fu l’inglese John Thornton. Penso che sulle Olimpiadi posso dare dei punti a molti (anche perché ho un archivio storico con quasi tutte le gare). Ritengo infine che se si vuole inserire un personaggio (quasi) storico in un contesto simile non vadano presi svarione del genere. Peccato.
“Il giusto, anche se muore prematuramente, troverà riposo.” (531)
Ben Pastor “Il morto in piazza” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 11,25 euro)
[A: 17/04/2019 – I: 02/08/2019 – T: 04/08/2019] - &&&- 
[tit. or.: The Dead in the Square; ling. or.: inglese; pagine: 410; anno 2004]
Qui, benché lontani nel tempo dalla scrittura, siamo abbastanza consequenziali nella cronologia di Martin Bora. In effetti, tra questo e il precedente, Pastor ha solo scritto il primo episodio della serie (quello che non riesco a trovare) relativo al tempo della Guerra Civile Spagnola del ’36. Invece, molto rapidamente, questo nuovo episodio inizia il giorno dopo la fine di “Kaputt Mundi”. Il secondo pregio della storia è che non si avventura in (troppe) citazioni storiche o del periodo, per cui c’è meno rischio di sbagliare. È una “puntata” un po’ intimista, quasi di passaggio per la parte finale delle avventure di Bora (e forse della guerra?). l’unico punto di tentativo di aggancio storico è l’avvio dell’impresa. Martin fugge da Roma per ricongiungersi ai suoi battaglioni, ma il Servizio Segreto dell’Esercito lo dirotto verso l’Abruzzo al fine di recuperare il carteggio segreto tra Churchill e Mussolini. Ora di questo carteggio si favoleggia molto. Soprattutto si pensa che sia stato ancora in mano a Mussolini al momento dell’arresto, e che, girando tra le mani di partigiani, esercito italiano e Santa Sede, sia stato poi recuperato dai Sevizi Inglesi. Ma nessuno lo ha mai visto realmente, per cui sul suo contenuto si favoleggia e si leggendeggia. Qui, addirittura, Pastor avalla la tesi che contenesse uno scambio di missive tra Italia, Inghilterra ed Esercito Tedesco (Esercito, mi raccomando, non SS né Gestapo) per organizzare un attentato a Hitler durante la sua visita in Italia, ottenere da parte di Mussolini dei vantaggi e da parte di Churchill concessioni ad italiani e tedeschi. Quindi delle lettere che, cadute in mani sbagliate, avrebbero messo in difficoltà tutte le parti interessate. Ora, fatta salva la circostanza che queste lettere non sono mai realmente esistite, questo è il pretesto per la missione segreta di Bora. Che sarebbero in possesso di un confinato nel paesino immaginario di Faracruci, nei dintorni de L’Aquila. Ma questo è solo il pretesto per l parte “politica” e per le scaramucce ideologiche tra Bora e l’avvocato Borgonovo. Perché poi il centro emozionale della vicenda si sposta sul paese, sui suoi abitanti, e sul rinvenimento, nella piazza del paese, di un morto senza nome e senza identità. Questa parte è molto più sapida, e direi coinvolgente. Che entriamo nelle interazioni tra i vari abitanti del paese, con le loro storie, di rancori, di soldi, di soprusi ed altro. Pastor riesce abbastanza efficacemente in questo tratteggio (tanto da vincere lo scorso anno il Premio Speciale Flaiano, relativo a opere ambientate nelle zone d’origine dello scrittore). Abbiamo il ristoratore Fioravante, fascista della prima ora, con la moglie Ginevra. Abbiamo il notaio, il farmacista, il dottore. Abbiamo l’imprenditore agricolo Di Donato, a suo tempo massaro del proprietario terriero Don Fifì. Abbiamo il contadino Giacinto. Abbiamo perfino Elvino, lo scemo del villaggio, che con le sue frasi oscure, solleverà lembi di storia antica sulla vicenda. Che il paese, come tanti, aveva avuto le sue storie torbide. Proprio 25 anni prima, sempre intorno al 10 giugno (ricordo che Bora si dirige verso il Nord dopo la liberazione di Roma del 4 giugno) in occasione della festa del paese dedicata la Santo Patrono, venne ucciso Don Fifì. Della morte fu incolpato dal Zopito Mazzacurati, che però fugge prima di essere catturato, e ripara in America. Dopo alterne vicende e ricerche varie, Bora e Borgonovo scoprono che il morto si chiama John Mazza, ed è americano. Due più due fanno quattro, e non ci vuole molto per collegare John al fuggitivo Zopito. Probabile, quindi, la sua venuta a Faracruci per vendicare il possibile parente (si ipotizza il padre). Che Don Fifì in effetti molti nemici aveva. Primo perché era uno sciupafemmine di prima grandezza. Che aveva circuito la figlia di Giacinto, poi perita miseramente, colpa che Giacinto ribaltava sul nobile. Aveva anche avuto una relazione con Ginevra, che poi si era allontanata, ma ritorna per sposare Fioravante. Inoltre, in guerra stava per morire, ma fu salvato da Zopito, che sosteneva aver avuto assicurazione di ricevere terre per questa sua azione. Ma c’era anche tutto un giro di terre, che Don Fifì acquisiva, e, compiacente il notaio, intestava a prestanome, in particolare a Di Donato. Quindi erano in molti a vedere piacevolmente una dipartita del proprietario. Sicuramente, in posizione preminente, Di Donato, che guadagnava terre, Mazzacurati, per le promesse mancate, Giacinto, per la morte della figlia e Ginevra (o qualcuno a lei vicino), per vendicarne l’onore. Bora con molta pazienza, ed aiutato dalle ricerche legali dell’avvocato al confine, riuscirà a dipanare la matassa, indicando il vero colpevole, e facendone giustizia sommaria. Se quindi la parte contadina ben entra nello spirito del luogo, anche ricordando che la scrittrice, pur nata a Roma, ha la famiglia originaria di Bisenti che, seppur nel teramano, è discretamente vicino ai luoghi narrati, la parte delle “costruzioni psicologiche di un personaggio”, lasciano un po’ di perplessità. Bora continua ad agire come se fosse “altro”, come se la sua rettitudine militare potesse spiegare la sua opposizione alle SS. Ma nonostante il tentativo di creare un “tedesco critico”, nonostante in ogni libro faccia azioni contrarie alle gerarchie imperanti (anche qui, salva due giovinette dalla rappresaglia nazista), Pastor non mi ha ancora convinto nel complesso percorso di sedimentazione del carattere di Bora. Tra l’altro, c’è tutto questo accenno al suo “innamoramento” verso l’americana Nora che lascia perplessi. Infine, il fantomatico “carteggio Mussolini” è messo lì quasi a spargere bagliori diversi sul Duce. E non mi sembra sia storicamente provabile. Se siamo conseguenti con la mente di Bora, prima o poi ci lascerà le penne.
“Si vale solo per quello che si custodisce nell’intelletto.” (121)
Ben Pastor “La notte delle stelle cadenti ” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 11,25 euro)
[A: 15/04/2019 – I: 08/08/2019 – T: 09/08/2019] - && + 
[tit. or.: The Night of Shooting Stars; ling. or.: inglese; pagine: 547; anno 2017]
Questo è l’ultimo scritto della “pastoride” di Martin Bora. Peccato che sia invece, cronologicamente, il penultimo, perché il nostro “nazista buono” (ossimoro poco felice) avrà ancora una sua avventura in Italia prima della fine della guerra. O chissà, anche dopo. Di certo non poteva mancare nel percorso di ripensamento di quegli anni bui da parte della nostra scrittrice italo-americana, un momento, un accenno, una puntata forse, dedicata alla famosa “Operazione Valchiria”, quella del fallito attentato ad Hitler del 20 luglio 1944. Non poteva mancare perché se Bora sono almeno 4 anni (storici) che si interroga sul suo ruolo, doveva per forza confrontarsi con chi, alla fine dei 4 anni, decide di fare qualcosa. Inoltre, Bora stesso è ricalcato, almeno parzialmente, sulla figura di von Stauffenberg. Quindi perché non fare incontrare Martin al suo ego (essendone Martin l’alter), ed inventarsi una chiamata precipitosa dall’Italia, con scuse barbine (funerale dello zio). Siamo nel luglio del ’44, torbidi momenti si addensano nel cielo sopra Berlino. Per farlo restare in loco, il capo della polizia, Arthur Nebe (personaggio reale, coinvolto anche lui nell’Operazione Valchiria, ed impiccato il 21 marzo ’45) lo coinvolge nelle indagini sull’assassinio di un famoso veggente, illusionista nonché ciarlatano. Walter Niemayer dispensava bugie ben pagato ad una clientela altolocata e credulona (d’altra parte c’è sempre un Himmler che guida la via dell’occulto…). Ucciso con un colpo d’arma da fuoco nella sua isolata villa, l’ispettore Florian Grimm, messo alle costole di Bora, gli fornisce un ricco piatto di possibili colpevoli: l’ex-amante del mago, la bella Ida Rudiger, il tuttofare della villa nonché delinquente di mezza tacca Berthold Kupinsky, l’orologiaio Gerd Eppner, la cui moglie aveva a lungo trescato con Walter, e l’editore Roland Glantz, ridotto sul lastrico dalle false promesse di uno scoop editoriale del mago. Tutti possono essere colpevoli, e la storia si intreccia con le vicende personale. Gli amanti di Ida, il comunismo di Berthold, la gelosia di Gerd ed il fallimento di Roland. Solo Florian sembra seguire una sua linea di pensiero, che non comunica pienamente a Martin, ma che Martin capirà, forse troppo tardi. Perché la morte del mago è strettamente legata agli avvenimenti che si stanno catalizzando in quella prima metà del luglio del ’44. E se tutti mentono, Martin, sciolto il nodo dell’omicidio, rispedito di corsa nell’Italia al tracollo, capisce che stiamo al tracollo di tante cose. Anche della guerra, cui si ributta a capofitto, scrivendo qualche riga nel suo diario, il 20 luglio 1944, e ricordando la breve parentesi avuto con l’infermiera Emmy, che poteva riportarlo a gustare la vita, ma… E mentre riannoda le fila del complotto che porta alla morte di Niemayer, Martin ha anche altri momenti importanti. L’incontro con Emmy, come detto. Ma ancor di più quello con la madre Nina, con la quale ha un legame forte e bellissimo. Quello con Max che ama Nina da sempre e che riuscirà a sposarla dopo la fine della guerra. Le paure del suo ex-capo e di un suo caro amico malato, che gli fanno intravedere che qualcosa di grande sta per succedere. Insomma, qui meglio che altrove, Pastor ci accompagna nella complessa rete mentale di Martin Bora, un soldato che non diventa mai nazista (come il suo alter ego von Stauffenberg), costretto dalla disciplina militare ad obbedire ad ordine che non capisce e non condivide (ma qualcuno potrebbe obiettare giustamente che c’è sempre la facoltà di ribellarsi…). Un uomo corretto, figlio di un grande musicista, sensibile al culto dell’amicizia e legato a quello della famiglia (tanto che non si riprende ancora dal divorzio con la moglie Dikta). Pastor riesce, discretamente, a riproporci la complessità della vita berlinese, sotto bombardamenti, con l’Armata Rossa alle porte, con poco cibo per i cittadini normali, e con le feste all’Hotel Adlon per le alte gerarchie militari. Al fine non mancano gli spunti di riflessione, anche se la materia storica ha una sua complessità che pagine romanzate non riescono a riprodurci. Benché sia l’ultimo romanzo scritto dalla nostra scrittrice italo-americana, forse (spero) la vicenda “Bora” potrebbe avere un nuovo epilogo. Dove finirà il numero “7” che la bella Remedios gli ha regalato nella prima avventura cronologica, durante la guerra di Spagna del 1937?
“A volte dobbiamo dire cose in cui non crediamo” (469)
Ben Pastor “La venere di Salò” Corriere della Sera Arte 21 euro 7,90
[A: 06/12/2016 – I: 04/08/2019 – T: 07/08/2019] - &&- 
[tit. or.: The Venus of Salò; ling. or.: inglese; pagine: 295; anno 2005]
Ed ecco l’ultimo atto delle storie di Martin Bora. Che paradossalmente è stato quasi il primo, che acquistai quasi tre anni fa all’interno di questa collana a me poco congeniale (per come è poi risultata). Tant’è che questo romanzo lo colloco fuori dalla collana, ma all’interno della “pastoreide”, cioè delle otto letture dedicate al militare tedesco. Come detto siamo all’ultimo atto, nel senso che, cronologicamente, le avventure in questo falso romanzo d’arte si collocano nell’ultimo trimestre del ’44. Dopo essere fuggito da Roma verso il Nord, dopo aver “risolto” il problema spinoso del carteggio Mussolini-Churchill e dopo l’intermezzo “berlinese”, che di certo non poteva mancare, mentre Bora cerca di farsi assegnare a qualche fronte di guerra, viene di nuovo invischiato in problemi altri. Nella ricerca di quadri scomparsi e alla ricerca di un nuovo assassino. Ripensando al percorso fatto da Bora (e da Pastor) in tutti questi libri, ed in tutti questi anni, vediamo come il nostro, coadiuvato dalla scrittura e dalle ricerche dell’italo americana Verbena, abbia attraversato tutte le crisi e tutti i momenti topici della guerra. Non poteva quindi mancare, come ultimo atto, una puntata all’interno della Repubblica di Salò. E non poteva mancare una rete sempre più fitta che la Gestapo gli sta tessendo intorno, perché, pur senza gesti visibilmente eclatanti, Bora si colloca su quel crinale che abbiam ben visto, sulle orme di Stuffenberg e compagnia, fedeli all’Esercito, ma non a Hitler, ai Nazisti, alle SS ed alla Gestapo. Qui intanto viene coinvolto, suo malgrado, nella ricerca di un quadro, “la Venere di Salò”, facente parte di una serie di quadri tizianeschi culminati con la “Venere di Urbino”, sottratto alla certo poco chiara famiglia Pozzi. Ovviamente finzione massima, che quella di Urbino è ben nota (sta agli Uffizi) mentre questa è inventata, serve solo come epitome di tutte le bellezze ed i quadri italici che le SS trafugarono dall’Italia per ordine di Göring e Himmler (rimando al già tramato “Monument Man” per una disamina più approfondita). Qui il furto serve ad innestare un percorso ad ostacoli per il nostro colonnello. Circondato da amici che non si palesano e da espliciti nemici, questo (che poi è il settimo libro scritto, nel lontano ormai 2005) non ha molto slancio, che deve, cerca di portare i fili seminati nei vari libri ad una omogenea conclusione. Al furto si affianca ben presto anche la ricerca di un omicida, che, a distanza di dieci giorni, uccide barbaramente donne locali, lasciandole nude, ed in pose che cercano di imitare suicidi. Bora non sarebbe investito di queste indagini, ma già che si trova, di certo non si tira indietro. Nel palcoscenico di Salò abbiamo quindi una serie di “squadre”. Gli amici, come Lipsky, aviatore amico anche del fratello morto di Martin, e Dollmann, colonnello delle SS ma che, come abbiamo detto ed appurato, probabilmente era un’agente americano. Il primo aiuterà a smascherare gli autori del furto, che, anche se confusamente, capiamo essere un personaggio delle alte sfere tedesche, aiutato da qualche antiquario svizzero, che voleva utilizzare il quadro come merce di scambio per una possibile salvezza post-bellica. Purtroppo, e non poteva essere diversamente, il quadro andrà distrutto in un bombardamento alla stazione di Merano. Il secondo sarà sempre pronto, anche in situazioni disperate, a tirar Bora fuori dai guai. I nemici sono i caporioni repubblichini italiani, con a capo il maresciallo Graziani, coadiuvato dal suo assistente, Emilio Denzo di Galliano, e il manipolo della Gestapo, impersonato dal cattivissimo Mengs, e coordinato dall’innominabile Kappler. Gli italiani, oltre ad altre stupidità, coinvolgono Bora in una caccia ai partigiani, anche sull’onda di una mediazione vaticana coordinata dal cardinale Schuster. Caccia fallimentare che porta la morte di Denzo (che comunque era un personaggio insopportabile) ed alla fuga di Bora, che verrà anche sospettato di ulteriori collusioni. Queste, e tutte le prove che in sette anni di guerra la Gestapo ha accumulato, portano Mengs, alla fine del libro, ad arrestare, torturare e portare prigioniero verso la Germania il nostro colonnello, che solo l’intervento di Dollmann (forse) tirerà fuori dai guai. Poi ci sono i “neutri”, da una parte la famiglia Pozzi, costituita dal padre Giovanni (quello cui fu rubato il dipinto), dal cognato Walter e dalla figlia Annie; e dall’altra la lunga scia di donne morte, e di commissari italiani che indagano insieme, anche senza volerlo, con Bora. Oltre che per il quadro, l’intreccio si mescola più volte che l’antiquario ebreo che fa l’expertise del quadro, è vicino di casa della prima donna morta. La seconda è una cameriera di un soprano che era stato visto più volte con Pozzi. La terza è la sarta di Annie. Tutto è anche complicato dal fatto che Annie è una bella ventottenne, e Bora, dopo essere stato lasciato dalla moglie, avrebbe bisogno di un bel rapporto d’amore per risollevarsi. Ovvio, che dei rapporti di sesso ne abbiamo letto nelle puntate precedenti, m Bora è un inguaribile romantico. Purtroppo, anche con Annie sarà solo sesso, interrotto nella prosecuzione verso possibili altri sviluppi perché Giovanni o Walter sono implicati nelle morti efferate, e Bora avrà ben presto da pensare più alle SS che al sesso (anche se questo ha una “s” in più).  Insomma, almeno cronologicamente, siamo alla fine. Bora ha attraversato tutti i momenti più cruciali del nazismo, uscendone ferito, malconcio, ma ancora vivo. Ha fatto molto all’amore, ma non si scorda mai della sua prima donna, la spagnola Remedios. E non ha trovato, né con la moglie, né con altre, una nuova incarnazione per la sua sessualità. Pastor cerca di spiegarci come si possa passare anni ed anni dalla parte sbagliata pur non condividendola. Un tentativo lungo alla fine 12 romanzi, ma che non lascia particolari segni. Meglio Bora come uomo e come investigatore, anche se non sempre le sue indagini si riescono a seguire. Pastor vorrebbe indurci a leggere meglio le pagine del Diario di Martin, dove il colonnello dovrebbe esternare i suoi tormenti. Ma, ripeto e chiudo, seppur alcuni libri hanno spunti interessanti, la saga di Bora alla fine poteva essere resa più avvincente e reale. Anche perché vorremmo sapere dove fuggirà, con la macchina dopo essere scappato ancora una volta alla morte. Un ultimo accenno al fatto che dicevo sopra: fortunatamente ho letto questo come elemento della storia di Bora, che se ne leggevo come libro d’arte mi sarei preso una solenne arrabbiatura.
“Le donne dipinte sono meno problematiche [delle donne in carne ed ossa]. Costano una volta sola, e aumentano di valore invece di perderlo.” (82)
Seconda trama del mese, e poiché non posso allegarvi un albero, come tradizione per l’8 dicembre, vi “delizio” con dei libri che dovrebbero (ma discutiamo) essere indicati ai settantenni.
L’India sembra sempre più vicina, così come vicino è (e non sembra) il Natale. E nonostante tutte le cose che possono andare di traverso, il nostro profondo ottimismo ci fa vedere sempre il bicchiere più pieno che vuoto. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
DICEMBRE  2019
Ogni tanto le nostre esimie libraie, più che di malattie ci parlano dio età. Ma che sia anche questa una malattia?
Settant’anni, avere
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER SETTANTENNI
Maro Douka                 ”L’antica ruggine”
Bohumil Hrabal             ”Una solitudine troppo rumorosa”
Nicole Krauss               “La storia dell’amore”
Giacomo Leopardi         “Le operette morali”
Gabriel Garcia Márquez  ”L’amore ai tempi del colera”
Deborah Moggach         “Marigold Hotel”
Ann Patchett                “Stupori”
Henri-Pierre Roche        “Jules e Jim“ 
Jonathan Safran Foer    “Ogni cosa è illuminata“
Jules Verne                  “Ventimila leghe sotto i mari”

Bugiardino

Alcuni libri furono letti nella giovinezza focosa, benché non si avesse ancora vent’anni. Hrabal, per esempio, con quel rapportarsi a libri e filosofi. Oppure Verne, anche se al capitano Nemo preferisco ora e sempre Phileas Fogg. Leopardi e Patchett sono assenti giustificati, uno di troppa complessa lettura, l’altra per difficile reperibilità. Maro Douka, al contrario, mi è completamente ignota (so solo da Internet essere scrittrice greca). DI “Marigold Hotel”, ovvio, ho visto il divertentissimo film. Gli altri quattro, infine, li riporto in ordine di lettura. Noterete come nel 2007 fossi un po’ più conciso!! Sottolineo inoltre che Nicole Krauss è una delle poche cinque stelle delle mie letture.
Jonathan Safran Foer “Ogni cosa è illuminata” Guanda 8 euro
[tramato il 2 gennaio 2007]
Il racconto intrecciato tra la ricerca delle radici in una improbabile Ucraina e la storia delle origini di queste radici è interessante. La resa in italiano è impossibile. Credo l’originale americano più “adeguato” (giochi di parole che si perdono, ecc.). Al solito in queste fantasie, il finale poi è un po’ “vagante”. Comunque mi rimangono, anche se staccate dal contesto, alcune frasi che mi hanno colpito.
“Ti sei mai innamorato? - Non credo. Credo che se mi fosse successo lo saprei”.
“Desidero che mi dica cosa tu pensi sia la cosa giusta. So che non è necessario che ci sia una cosa sola giusta. Potrebbero esserci due cose giuste. Potrebbero non esistere cose giuste.”
“Mi chiedo se riesci ad immaginare la mia vita senza di me. - Certo che riesco ad immaginarla, ma non mi piace”.
Nicole Krauss “La storia dell’amore” Guanda euro 12 (in realtà, scontato a 9,72 euro)
[tramato il 2 novembre 2014]
Una bella ed inaspettata lettura, frutto delle misteriose alchimie delle mie ricerche bibliografiche in giro per gli scaffali. Solo a libro chiuso ho scoperto l’autrice essere moglie di Jonathan Safran Foer (altra coppia interessante come Siri Hustvedt e Paul Auster) e che il libro uscì contemporaneamente al libro del marito “Molto forte, incredibilmente vicino”. Ma qui siamo a tramare la scrittrice ed il suo scritto, quindi usciamo dal contesto ed entriamo nel testo. Un testo che è di una semplicità quasi lineare a volerlo raccontare, ma che assume connotati di piacevole lettura e coinvolgimento per il modo in cui la scrittrice svolge la sua di trama. Passando da vari piani narrativi, saltando su e giù nel tempo e nello spazio. Riuscendo varie volte a farci perdere il filo, per poi ridarcelo, tutto intero, in una bella scrittura finale. Ed oltre ad essere un libro imperniato sul disvelamento di un libro che ha il suo stesso titolo, è sicuramente un libro sull’amore, e sui suoi modi esplicativi. Amore è quello di Leo per la sua Alma, per Zvi per la sua Rosa, per Alma verso suo padre e per Bird verso sua sorella Alma. Ed anche per Isaac verso i suoi genitori. La capacità e bravura di Nicole Krauss è di portarci per mano, attraverso tutti questi sentimenti, ogni volta usando la prima persona di un narratore diverso, senza perdere la concentrazione, sua e nostra. Alla fine, scopriamo che i narratori sono quattro: Leo, Alma e Bird in prima persona e Zvi in forma oggettiva e non soggettiva. Ognuno esce fuori per sé stesso, quasi a scrivere quattro diversi romanzi e poi fonderli in uno. Quello che stiamo leggendo. Quello dedicato ai nonni della scrittrice, con le loro belle facce in prima pagina. E da loro comincerebbe la vera storia. O meglio dalle loro origini, da un paesino della Polonia di prima della Guerra, dove vivono due amici, il giornalista Zvi ed il possibile scrittore Leo. Questi si innamora di Alma, e le scrive una lunga dedica d’amore, trasformatasi in un libro onirico e bellissimo. Ma la guerra incombe e scombina tutto. Alma fugge a New York ospitata da un cugino. Zvi ruba il manoscritto del libro (per delle gelosie ininfluenti alla trama) e ripara in Cile. Leo rimane, vede sterminare la sua famiglia, e solo a guerra finita riesce a varcare l’oceano. Dove trova Alma, che lo credeva morto, sposata e con due figli, il cui primogenito, Isaac fu frutto della loro unica notte d’amore. Ma Alma è fedele al marito. E Leo rimane in America, rifuggendo di toccare per sempre la penna, e si inventa una vita altra, da mille mestieri prima, e poi da fabbro. Per usare le mani per fare altro. Sempre rimanendo fedele alla sua Alma, e seguendola da lontano. Seguendo da lontano anche Isaac che cresce e diventa uno scrittore di talento. Leo, di cui ammiriamo la capacità della scrittrice di rendercelo settantenne ed acciaccato nelle vicende quotidiane, ha un sussulto di esternazione amorosa, quando scopre, dopo la morte di Alma, che anche Isaac è morto. Esce dal suo anonimato per il funerale del figlio ignoto (cioè lui è l’unico a saperlo), e ne escono bellissime pagine di tristezza. In tutto ciò non ci siamo dimenticati di Zvi che in Cile s’innamora della giovane Rosa, e per lei scrive un libro. O meglio traduce in spagnolo il libro dell’amico Leo, credendolo morto. Rosa fa pubblicare il libro, che non avrà molta risonanza. I due, dopo un passaggio in Israele, si sposano e vanno a vivere anche loro a New York, dove avranno due figli, Alma e Bird. Ma Zvi ben presto muore, lasciando i due figli piccoli sbalestrati. Alma è infatuata dal padre, e dalle sue cose (la capacità di sopravvivere all’aperto, come scoprirà chi avrà voglia di leggere il libro). Ed è in pena per la madre, la vorrebbe felice. Il giro di giostra si avrà con una lettera ignota (che scopriremo alla fine essere di Isaac) che chiede a Rosa di tradurre il libro dallo spagnolo all’inglese. Questo mette in moto Alma che cerca di comprendere se le persone del libro sono poi reali. E lo sono. Sarà il giovane Bird, che metterà tutti gli indizi in fila, e ci condurrà alla ricongiunzione finale. Ed alla comprensione di come tutti gli avvenimenti siano concatenati. Le morti, gli amori, le attività. Alla fine, vien quasi voglia di dire che sia un libro triste. Con Leo che vive una vita innamorato lontano dal suo amore. Con Zvi che sentirà sempre la colpa del furto e non saprà espiarla. Con Rosa che forse conosce la verità o forse no. Con Alma che dovrà ridimensionare la figura del padre. A me è proprio la giovane Alma che invece da speranza, perché credo sia positiva, e saprà superare le tragicità con lo spirito della giovinezza. Una bella storia. E ben raccontata. Perché, appunto come dicevo all’inizio, questa è la trama lineare. Ma il romanzo è tutt’altro che lineare. E ci sono momenti in cui si segue altro, soprattutto quando si leggono le parole di Alma giovane. In conclusione, è un libro che fa piacere leggere e farà piacere parlarne con chi lo leggerà.
“Forse significa questo, essere padre. Insegnare a tuo figlio a vivere senza di te.” (200)
“La cosa che mi ha sorpreso della vita è la capacità di cambiarti.” (282)
Henri-Pierre Roché “Jules e Jim” Adelphi euro 11 (in realtà, scontato a 8,25 euro)
[tramato il 30 agosto 2015]
C’è qualcuno che non ne ha mai sentito parlare? O qualcuno che, almeno, non ha visto o sentito parlare del bellissimo film che ne ha tratto Truffaut? Poiché sono certo che almeno una delle due domande abbia risposte positive, comincio subito con dire che, al fondo, non è che mi sia piaciuto tanto. Una scrittura interessante, forse un po’ troppo distaccata (si dice quasi come uno che scrivesse per sé e non volesse essere letto). Una storia che, dopo un inizio scoppiettante, si trascina per 2/3 del libro aspettandone l’ovvia conclusione. Però, nonostante tutto, è un libro che regge i suoi anni, e questo (scusate se è poco) mi sembra un grande pregio, soggettivamente. Abbiamo quindi tre linee da seguire, per capire e gustare tutto ciò: la vita, il film, il libro. Nella vita c’è appunto l’autore, critico d’arte ed amico di artisti da Picasso a Duchamp, dalla vita si direbbe “bohémien” spesa per molto tempo (dai 20 ai 40 anni) a Montparnasse, che nel 1910, trentenne, fa l’incontro clou della sua vita con il tedesco Franz Hessel, scrittore. Con lui condivide letture, amicizie, e soprattutto donne, che i due si scambiano spesso e volentieri. Nel ’13 Franz sposa Helen, da cui avrà due figli (Ulirch e Stéphane, di cui ricordiamo il secondo per essere stato eroe della resistenza, politico sempre impegnato ed autore di quel libro, tramato e di successo, che scrisse a novanta anni “Ribellatevi!”). Dopo la Guerra, Roché raggiunge a Monaco i coniugi Hessel instaurando quel rapporto a tre che sarà la base del libro. Intanto Pierre si sposa con Germaine nel ’23, continua la sua vita libertina con Helen e Franz, vive con la sua amante Denise da cui nel ’31 avrà un figlio. Nel ’33 rompe con Helen, e si allontana dai tedeschi, pur continuando ad aver cura dei due figli di lei. Nel ’41 in un campo di internamento muore Franz. Nel ’59, durante la scrittura della scenografia per Truffaut muore anche Roché. E solo nel 1982, a 96 anni, muore Helen. A seguito della scomparsa di tutti i protagonisti, Stéphane rivelerà la vera storia di “Jules e Jim”. Intanto nel ’61 Truffaut aveva girato il film che si incentra sul triangolo Jules (fatto diventare austriaco), Jim e Catherine (interpretata da una stupenda Jeanne Moreau). A parte gli aspetti peculiari del film stesso (capostipite di quella “Nouvelle Vague” che si andava formando in Francia), ci sono momenti epici (la presenza di 13 quadri di Picasso, ad esempio). Ma pur tacendo tutta la parte “non triangolare” della vicenda, ci si appassiona al prendersi e lasciarsi, al vivere la vita fino in fondo. Nel film, Catherine ha una figlia, ma il dramma della coppia impossibile ricalca abbastanza il libro. Di cui ora parliamo, che, appunto, ha altro, rispetto alle due espressioni precedenti. Ha una prima parte in cui assistiamo alla vita parigina di Jim e Jules, delle loro discussioni al caffè, delle loro amanti, e degli scambi amorosi, quasi a vivere una omosessualità latente attraverso il corpo della donna. Poi irrompe sulla scena Kathe (questo il nome nel libro, diverso dal film e dalla realtà). Di cui lo schivo Jules, sempre perso nei suoi libri ed alla ricerca di un rapporto “perfetto”, si innamora perdutamente. Ed avverte Jim “Non questa, Jim!”, intendendo che Kathe è solo sua. Tanto che la sposa, fa con lei due figlie, e tornano a vivere in Germania. Lì, dopo la Guerra, li raggiunge Jim. Kathe, irrequieta e vitale, non si può accontentare del troppo rilassato Jules. Ha avuto amanti, è andata e venuta dalla casa familiare. Ora, con Jim, ha il suo colpo di fulmine. Instaurando così un rapporto multiplo, in cui lei e Jim vivono “more uxorio”, e Jim e Jules continuano le loro peripezie mentali ed intellettuali. Ma anche Jim è un irrequieto. Pur amando totalmente Kathe, non rinunzia alle sue amanti parigine. Amanti solo nel corpo, che la testa ed il cuore sono di Kathe. Jules ormai si ritira sempre più sullo sfondo, così come le due figlie che non saranno mai un ostacolo alla vita libera di Kathe. Lei e Jim viaggiano, girano l’Europa, costruiscono una casa sul Baltico dove non andranno mai ad abitare. E mentre nella vita tutto si brucia nel giro di pochi anni, qui le storie si dilatano, i personaggi diventano simboli che inglobano altre vite ed altri scenari. La storia di base e le sue domande, però, sono sempre lì: quanto si ama, chi si ama, come si ama, cos’è l’amore, cos’è il rapporto tra le persone, dove finisce l’amore e rimane l’amicizia. E quando Jim confessa di voler sposare la sua nuova amante Michéle, comprendendo Kathe che ormai è tutto inaggiustabile, si arriva al dramma finale. Kathe lancia a folle velocità l’automobile nella quale con Jim sta costeggiando la Senna, e senza frenare si getta nel fiume, dove morranno insieme. Jules, dalla riva, assiste impotente al disastro. Roché sembra alla fine trasfigurare la rottura (quella del ’33) in una morte irreale ma concreta (non a caso in quegli anni lo scrittore intratteneva una fitta corrispondenza con Freud). Le molte domande del libro, nella vita e nel film sono risolte in modi diversi, come avete capito. Che nella vita, le strade andranno avanti, anche oscillando da rapporti singoli e multipli. Nel film Truffaut sembra invece volerci dire che l’unica via di salvezza è la coppia. Certo ci può essere liberalità, sensualità, ed altro, ma ad un certo punto si arriva davanti ad una barriera che si può passare da soli o al massimo in due. Il libro adombra tutto ciò, ma la parte migliore non è quella che poi Truffaut ben tratta nel film, ma tutto quel susseguirsi di prendersi e lasciarsi, i bagni nudi sulle rive dell’oceano, i balli a Parigi, le notti in soffitta a Montparnasse, la gita a Venezia, il sorriso greco ad Atene, l’isoletta sul Baltico, i treni fumosi che vanno in giro per l’Europa. Ma il libro non è riuscito pienamente, ha bisogno delle altre due gambe (la vita e il film) per essere gustato. Ancora un triangolo, ovviamente!
“Non perdonerò mai a una donna di amarmi così come sono.” (39)
“Il tempo passava. La felicità si racconta male. Si logora anche: e non ce ne accorgiamo.” (194)
“Se si ama qualcuno, lo si ama così com’è. Non si desidera influenzarlo, perché, se ci si riuscisse, non sarebbe più lui. Meglio rinunciare all’essere che si ama che cercare di modificarlo.” [notate la differenza tra il pensiero di Jules all’inizio della storia ed alla fine] (196)
Gabriel Garcia Marquez “L’amore ai tempi del colera” Mondadori euro 9,50 (in realtà, scontato a 7,15 euro) 
[tramato il 18 giugno 2017]
Mi ero accostato con un po’ di timore ad un ulteriore libro di Gabo, dopo che le ultime letture mi avevano sinceramente deluso. Non che volessi tornare all’epifania interna che mi sconvolse con “Cento anni”, ma mi sarebbe bastato tornare al piacere di una bella lettura come quella del giovanile “Racconto di un naufrago”, dopo aver passato le pene a sopportare la candida Erendira o il tramonto del patriarca. Timore che era un po’ mitigato dalla spinta verso la lettura che mi stavano dando sia le libropeute di “Curarsi con i libri”, che lo consiglia ai settantenni, sia l’allegra Giulia Fiore che lo consiglia come antidoto a “Il grande Gatsby”. Buoni consigli, ed altrettanto buona lettura. Qui, il quasi sessantenne Gabo riprende il bandolo dei suoi giri infiniti, dei suoi mille personaggi, che poi a ben vedere si riducono a due o tre, e ci trascina in meno di quattrocento pagine alla ricerca di uno sbocco ad una vicenda che, bene o male, durerà una sessantina di anni. Lo fa con la sua vecchia maestria, cominciando da un punto A, spostandosi a B, poi a C e D, ed intessendo tutto un intreccio di situazioni e di svolgimenti, che mi hanno tenuto incollato alla pagina più di quanto mi aspettassi. All’inizio ero un po’ dubbioso, seguendo le pagine sulla morte dello strano Jeremiah de Saint-Amour, starno personaggio, piombato all’improvviso nella cittadina teatro della vicenda, ricucitosi uno spazio di vita come fotografo e di relazioni come giocatore di scacchi. Personaggio che decide di non dover invecchiare ed a sessanta anni si uccide. Morte che coinvolge il suo compagno di scacchi, il dottor Juvenal Urbino. Di cui vediamo i turbamenti per la morte, che cominciamo a seguire con le sue manie di vita, con le sue esuberanze sociali, conosciamo di sfuggita la moglie Fermina Daza. Veniamo ben presto coinvolti nella vita del dottore, nel ricordo dei suoi viaggi giovanili a Parigi, delle sue dotte lezioni di medicina, delle sue letture. Venendo all’improvviso coinvolti nella sua morte, lo stesso giorno dell’amico, per una caduta accidentale e ben ridicola. Prende allora il centro della scena la moglie Fermina, che sembrava sino ad allora vissuta nell’ombra del marito importante, ma che esegue i giusti passi per il funerale, per il ricordo, per il rapporto con il figlio Urbino Daza, anche lui dottore, e con la figlia Ofelia. E nel momento culminante di questo inizio pirotecnico abbiamo lo squarcio che farà girare tutto il romanzo. L’anziano a sua volta Florentino (sia lui che Fermina sono poco oltre i 70), che alla fine del funerale dichiara il suo imperituro amore a Fermina. Un amore che dura quasi nascosto da 53 anni, 7 mesi ed 11 giorni. Dichiarazione che permette all’autore una capriola appunto di più di cinquanta anni all’indietro, dove ritroviamo la giovane Fermina, assediata dalle lettere e dalle poesie di Florentino. Siamo nella fine dell’Ottocento, non facili sono i rapporti tra maschi e femmine. Inoltre, Fermina è figlia di un oscuro malversatore, che finirà i suoi giorni tornando scornato in Spagna, mentre Florentino è figlio naturale di uno dei maggiorenti locali. Ma non riconosciuto, quindi di poco peso sociale. Inoltre, Florentino ha un suo aspetto triste, è aiuto-telegrafista, miope. Ha solo la parola dalla sua, novello Cyrano di sé stesso. Seguiamo allora Fermina che decide di lasciarlo per sposare senza amarlo il ricco Juvenal, con cui costruirà un rapporto bene o male felice nel corso degli anni, con picchi di bellezza e di amore e con abissi non proprio di dolore, ma di crisi. Che verranno superate, avendo sempre ormai la nostra buona Fermina seppellito il ricordo del giovane amore con Florentino. Che invece non si rassegna, che decide, lì sui venti anni che quella sarà sempre la sua donna. E che comincerà la sua scalata sociale, aiutato dalle sue capacità e dal padre naturale che gli offre la possibilità di sfruttarle. Vediamo Florentino perdere la verginità del corpo su di un battello fluviale. Ma anche salire, gradino dopo gradino, proprio le fortune dei battelli, di cui alla fine diventerà il capo e padrone indiscusso. Avrà anche la capacità di soddisfare i suoi ardori, andando a letto con 622 donne come puntigliosamente registra nei suoi diari. Il funambolismo di Gabo ci fa quindi saltare di donna in donna, seguendone brevemente il fugace rapporto con Florentino, ma dipingendole a tutto tondo. Anche l’ottima Leona, l’unica con cui non andrà a letto, ma che sarà il motore segreto della sua ascesa. Dopo questa lunga cavalcata, allora ritroviamo i nostri due eroi, anziani ma non vecchi. Dove vediamo Florentino riprendere il leggero corteggiamento, delicato e pieno di un tatto sempre presente nelle sue manifestazioni, anche quando sembra non essere capace di mantenersi centrato. Vediamo Fermina leggere le sue lettere, capire i percorsi suoi e del suo amor di gioventù. Gabo ci infioretta tutta una bella parte su queste basi, mettendoci dentro anche i corpi di questi due settantenni, il loro scivolare verso la inevitabile morte, che fortunatamente non vedremo. Fino però ad imbarcarsi su una delle navi della flotta di Florentino, quasi a ripercorrere una fuga giovanile di Fermina verso parenti che le facessero passare i dolori e quel momento d’amore di Florentino. Cosa succederà sulla nave, dovrete leggerlo, perché è il momento chiave del libro. E non vi anticipo cosa succederà. Tutto il libro è corso via su questi binari, l’ho letto legato alla pagina nei pochi momenti liberi di queste giornate ad altro dedicate. E vi confesso che avrei anche dato maggior punteggi, se non ci fossero alcuni passi che mi hanno lasciato un po’ di dubbi. Uno su tutti, il famoso diario di Jeremiah, di cui tanto si parla nelle prime pagine, che mi aveva solleticato, ma di cui poi se ne perde traccia. Con dispiacere. Un libro sulla vecchiaia e sull’amore e sul fatto che comunque possano convivere. A dispetto di tutti.
“Era ancora troppo giovane per sapere che la memoria del cuore elimina i brutti ricordi e magnifica quelli belli, e che grazie a tale artificio riusciamo a tollerare il passato.” (116)
“Un uomo sa quando comincia a invecchiare perché comincia ad assomigliare a suo padre.” (183)
“Con lei … aveva imparato quello che aveva già provato più volte senza saperlo: che si può essere innamorati di diverse persone al contempo … senza tradirne nessuna.” (293)
“È incredibile come si possa essere tanto felici per così tanti anni, in mezzo a tante baruffe, a tante seccature …  senza sapere in realtà se è amore o se non lo è.” (356)

Conclusioni

Come al solito, anche a 70 anni, si gira intorno al tema dell’amore. Non traggo conclusioni, ma vi invito a tornare alle citazioni, questa volta veramente “illuminanti”.