domenica 5 ottobre 2025

Omaggio al futuro - 05 ottobre 2025

Con la dovuta lentezza, dato che si tratta di rendere omaggio ad una collana storica dell’editoria italiana, e che quindi non abbiamo l’urgenza della novità, rendiamo omaggio ad altri cinque autori di fantascienza. Abbiamo qui una serie di autori “storici” del genere, ed alcune entrate nuove e di interesse. C’è Arthur C. Clarke che dovremmo sempre ringraziare per aver fornito lo spunto a Kubrick per il suo capolavoro. E ci sono Roger Zelazny e Murray Leinster, due onesti scrittori (anche se il secondo ha perso molto con gli anni). E c’è Nnedi Okorafor, una scrittrice nigero-americana che ci fa fare un viaggio nel futuro del razzismo. Tutte oneste espressioni, che non raggiungono una sufficienza piena e decisa.

Poi c’è un libro che è una pietra miliare del nostro presente. Si tratta di “Snow Crash” di Neal Stephenson che nel 1992 pensò e scrisse di una realtà virtuale dove si muovevano le proiezioni delle persone reali. Chiamò queste proiezioni “avatar” ed il mondo reale “Metaverso”. Vi dice nulla?

Arthur C. Clarke “Le sabbie di Marte” Mondadori Urania 1 euro 6,99 (in realtà, scontato a 4,55 euro)

[A: 10/02/2022 – I: 10/06/2025 – T: 11/06/2025] - &&

[tit. or.: The Sands of Mars; ling. or.: inglese; pagine: 247; anno 1951]

Qui entriamo a gamba tesa nel mondo della fantascienza in generale ed in quello italiano in modo particolare ed anche soggettivo.

Arthur C. Clarke, inglese, è uno dei grandi numi di questa letteratura, non fosse che per aver scritto quel piccolo racconto che permise a Stanley Kubrick di realizzare uno dei più bei fil della storia del cinema, “2001 Odissea nello spazio”. Ma, questo racconto a parte, Clarke era, insieme ad alcuni pionieri, uno degli elementi di punta di quelli che consideravano la “science-fiction” una letteratura d’anticipazione. Ciò un modo di buttare l’occhio al di là dell’ostacolo per vedere come poteva evolversi la tecnologia e come poteva l’uomo adattarsi ad essa (o anche il contrario che non sono sempre rosa e fiori). Un filone di letteratura di genere che insieme a lui vede nella (mia) top3, Robert A. Heinlein e Isaac Asimov.

Il rilievo italiano è legato proprio a questo romanzo. Nei primi anni Cinquanta, sotta la spinta dei “Gialli Mondadori”, la casa editrice cercava altri sbocchi per la letteratura di genere. Sotto la spinta di Giorgio Monicelli (fratellastro del regista Mario) si diede mano alla costruzione di un filone di letteratura di anticipazione. O come lo stesso Giorgio battezzò, di fantascienza. Iniziando nel 1952, e per l’esattezza il 10 ottobre, la pubblicazione di romanzi riuniti sotto l’etichetta “Urania”, giunti ora (giugno 2025) al numero 1739.

Molti sanno che da ragazzo avevo passione e collezione di questi volumi, riuscendo a procurarmi anche questo primo numero. Passati gli anni e gli interessi, vendetti tutto ad un rivenditore in Prati. Ma tre anni fa, con piacere, accolsi la proposta celebrativa della casa Mondadori che decise di pubblicare 45 libri di Urania, iniziando e finendo con due libri di Clarke.

Fatte queste premesse di contorno, e sottolineando che il libro, come scritto sopra, è uscito nel 1951, vediamo allora quali sono i punti principali e le linee di forza del testo.

La trama segue le vicende di Martin Gibson, uno scrittore di fantascienza, che viene invitato a seguire il volo inaugurale di una astronave che dovrà essere dedicata in futuro ai collegamenti tra la Terra e Marte. Qui entriamo in uno dei grandi temi del genere: la colonizzazione di mondi fuori della terra. Ancora le conoscenze erano abbastanza generiche, per cui ci si accontentava di ipotizzare colonizzazioni “vicine”. Ma poiché la luna non ruota (niente alternanza giorno/notte), il più vicino mondo appetibile è Marte.

Nel corso della trama sapremo che sono almeno dieci-venti anni che è iniziato lo sfruttamento di Marte, con la creazione di città-bolle, dove è possibile generare quel minimo di ossigeno necessario a vivere. Comunque, Marte è ancora lontano, visto che ci vogliono tre mesi di viaggio interplanetario per giungervi. Ed è quindi non un caso che abbiano invitato uno scrittore a produrre dei report per invogliare la gente al viaggio.

Nella prima parte quindi assistiamo alla vita nell’astronave, alle scaramucce scientifiche tra i vari componenti dell’equipaggio. Che sono solo 6, tutti a gravitare intorno a Gibson. Soprattutto il giovane Jimmy, che non ha specializzazioni ma vorrebbe diventare un astro-qualcosa. Più incisiva si fa la narrazione sul pianeta rosso. Gibson scopre le difficoltà di vita, ma anche i successi raggiunti. Incontra il presidente del pianeta, che sicuramente sta tramando qualcosa, affinché la colonia diventi autosufficiente.

In questa parte, sempre un po’ “descrizione di coloni alla ricerca” (un po’ epopea da Far West, un po’, da buon inglese, rappresentazione dell’India coloniale), ci sono qualche elemento di capacità anticipativa degli scrittori di genere. Tute, modi di trasportare ossigeno, trasporti terrestri ed un po’ di piccole cose. Durante una gita all’esterno della bolla, il mezzo con Gibson ed altri incappa in una tempesta di sabbia (le sabbie di Marte del titolo) che porta a due scoperte. Una plausibile, una pianta che attraverso processi particolari e abilmente descritti in modo marginale, sembra poter produrre ossigeno in quantità rilevanti. Ed una non solo non plausibile, ma direi assolutamente inutile nell’economia del testo: la scoperta di animali dall’aspetto simile a canguri, con piccole capacità intellettive.

Fatto salvo che questo filone non è sfruttato (ed è anche abbastanza inutile), è il primo che invece ha rilevanza. Per sviluppare la capacità delle piante, i colonizzatori distruggono con bombe atomiche particolari una delle lune di Marte (Fobos) facendolo diventare un piccolo sole che potrà alimentare per un congruo numero di secoli lo sviluppo della vita locale.

Gibson alla fine ha due agnizioni: scopre (e non vi dico né come né perché) che Jimmy è suo figlio e che è innamorato della figlia del presidente di Marte. Decide quindi di rimanere sul pianeta ed usare le sue capacità di scrittore per fare marketing a favore di Marte.

Allora, qua e là, il fatto ironico di mettere uno scrittore di fantascienza al centro della vicenda, crea qualche momento di ilare rilassatezza. Dal punto di vista della tensione narrativa, assolutamente da bocciare l’introduzione dei canguri marziani. Mentre sarebbe da sviluppare l’idea di lavorare per l’autosufficienza delle colonie. La capacità di Clarke di conoscere la tecnologia e di anticiparne alcune possibili applicazioni, oltre ad essere usate nei suoi romanzi, lo hanno portato ad un contributo scientifico e ad una profezia interessante.

Il contributo deriva da un suo articolo del 1945 dove prendeva in esame l'idea che i satelliti geostazionari potessero essere il sistema ideale per le telecomunicazioni. Un’idea ora realtà. La profezia era contenuta in un suo intervento radiofonico del 1974 dove prevedeva che dal 2001 in ogni casa ci sarebbe stato un personal computer collegato ad una rete globale (considerate che nel ’74 non c’erano PC né tanto meno Internet).

Nonostante i successi di romanziere e di scienziato, fu abbastanza osteggiato in quanto gay pur non dichiarato, tanto che dal 1956, a meno di 40 anni, si trasferì a vivere nello Sri Lanka, dove rimase sino alla morte nel 2008.

Comunque, pur con alcune ingenuità, è una lettura filologicamente interessante.

Murray Leinster “L’incubo sul fondo” Mondadori Urania 12 euro 6,99

[A: 26/04/2022 – I: 16/06/2025 – T: 16/06/2025] - & e ½  

[tit. or.: Creatures of the Abys; ling. or.: inglese; pagine: 178; anno 1961]

Murray Leinster è stato uno dei pochi “long seller” della storia della fantascienza, visto che pubblica il suo primo testo nel 1919, a 23 anni, e continuerà a scriverne sino alla morte nel 1975. Con ciò dimostrando, per chi conosce la SF che si può evolvere la propria scrittura dagli ambienti arcaici e forse solo sensazionalistici alla Hugo Gernsback (il fondatore del genere) a John W. Campbell (colui che lo trasformò in una solida letteratura).

Tra l’altro, l’autore ha il merito di aver introdotto per primo, nel 1934, con il racconto lungo “Sidewise in time” (“Bivi nel tempo”) il concetto di “universi paralleli”. Dove, rimanendo in tema di “alternate reality”, l’autore in realtà si chiama William Fitzgerald Jenkins, e cambierà il suo nome con questo, con cui diverrà famoso e rispetto nel mondo SF, usando “Murray” come omaggio al cognome da nubile della madre (“Murry”) e “Leinster” ipotizzando un’improbabile contatto con la casata dei duchi di Leinster, che, come si sa, si chiamano “nome di battesimo” FitzGerald. Tanto per far vedere come, in generale, chi si occupa di SF non ha sempre tutte le rotelle al loro posto.

Scrittore comunque di SF classica, ha sempre cercato di mantenere le sue opere in una vicinanza fattiva con il mondo reale, laddove le sue costruzioni usano tecnologie che sono ragionevoli evoluzioni dell’esistente. Così che, in effetti, quando si legge un suo libro, si ha l’impressione che ci si poco di SF. Come appunto sembra succedere in questo testo.

L’inizio del romanzo, tra l’altro, non sembra proprio trattarsi di SF. Siamo a Manila, e seguiamo le vicende di un bravissimo tecnico elettronico, Terry Holt, che sviluppa apparecchi da utilizzare in mare. Diremo qualcosa tipo sonar (una tecnologia che in Italia viene sviluppata proprio all’inizio degli anni Sessanta, quasi insieme all’uscita di questo libro). Terry è stato truffato dal socio, e mentre sta chiudendo baracca e burattini per debiti, viene avvicinato da Deirdre, la figlia del professor Morton, che lo vogliono ingaggiare come tecnico alle apparecchiature per una loro spedizione scientifica.

Non vengono fornite notizie, Terry (e noi) brancola nel buio sfidato ad accettare la missione più per stare vicino alla ragazza che per altri scopi. Cominciata comunque la navigazione, i membri della Espérance si imbattono in una diatriba forte tra un’imbarcazione, la Rubia, che ogni volta che esce fa abbondanti pesche di pesci ed altri animali marini, mentre il resto della flotta di pescherecci non riesce quasi a pescare nulla. Come se sapesse dove si addensano i pesci, utilizzando un rilevatore di suoni e movimenti marini realizzato proprio da Terry.

Andando avanti per mare, Terry, Deidre ed il professore cominciano ad accorgersi di strani comportamenti marini, legati ad un fenomeno che i filippini chiamano “las orejas de ellos”, come se ci fossero orecchi di qualcuno che sentono nel profondo del mare. Lo stesso nome viene utilizzato da Terry per lo sviluppo avanzato dei suoi apparati. E quando li mettono in funzione, ecco che cominciano a succedere avvenimenti fuori dal normale.

Ci sono strane concentrazioni di pesci, ci sono specie di pesci che escono in superficie ma che non dovrebbero farlo, altri che hanno attaccati al loro corpo oggetti di uso non identificato. Si comincia ad avere un’idea più vicina alla realtà di quanto succeda quando una nave scompare tra la schiuma delle onde, quando mostri marini attaccano la loro nave.

Collegando quanto avviene ad altre informazioni che il professore fornisce a Terry ed a noi durante diverse conversazioni che cercano di spiegare gli accadimenti, capiamo che c’è una sottile invasione di una specie aliena che per qualche elemento connaturato alla loro struttura, deve vivere negli oceani, e possibilmente, a grandi profondità. Ovvio che si scatena una guerra senza esclusione di colpi, anche se non riesce a coinvolgerci nei modo in cui si svolge, e nelle misure che Terry ed i suoi utilizzano per debellare e far fuggire gli alieni.

Insomma, una SF poco tecnologica, e radicata nel tempo del suo svolgimento. Poche invenzioni, solo una sfilza di “cattivi comportamenti” da addossare all’alieno di turno. Vogliamo ricordarci che siamo nel 1961, che siamo nel pieno della Guerra Fredda, e che l’americano medio, allora, aveva un sacro terrore del comunismo e delle sue “cattiverie”, mentre oggi si va a braccetto con il dittatore russo.

Un romanzo naif, poco coinvolgente, molto filologicamente utile per ricostruire un tipo di SF ed un tipo di autore. E di sicuro un testo che non regge al passare degli anni.

Neal Stephenson “Snow Crash” Mondadori Urania 23 euro 6,99

[A: 03/07/2022 – I: 19/06/2025 – T: 21/06/2025] - &&& e ½ 

[tit. or.: Snow Crash; ling. or.: inglese; pagine: 587; anno 1992]

Se non lo sapete, Neal Stephenson con “Snow Crash” ha praticamente creato il mondo in cui viviamo. Certo, è un’iperbole, ma nelle sue pagine visionarie ci sono germi che hanno influenzato lo sviluppo del mondo digitale in cui siamo immersi. Basta solo menzionare che il libro si svolge su due binari diversi. Il mondo reale, con alcune estrapolazioni che non sono molto lontane da sviluppi possibili. Ed un mondo virtuale, in cui si muovono proiezioni del nostro io reale, chiamati “avatar”. Un mondo virtuale chiamato “Metaverso”. Fermi, avete capito bene, e Stephenson scrive più di trenta anni fa, con una rete internet nata ma ancora non sviluppata ed interconnessa come ora. E Metaverso è un concetto che non esisteva prima di questo libro; non solo, gli sviluppatori di VR (Virtual Reality) hanno confessato di essersi ispirati potentemente al libro di Neal, e che gli sviluppatori del relativo software erano obbligati a leggerlo prima di essere assunti.

In genere, le opere di fantascienza che più resistono all’usura del tempo, sono quelle che fanno salti quantici su altrove, che ci e si trasferiscono così lontano nello spazio e nel tempo da non poter incorrere in ridicoli superamenti da parte della realtà. O sono quelle opere distopiche che prevedono che, ad un certo punto, il corso dell’umanità prenda una via diversa da quella di oggi (per fare esempi, penso a “Dune” o a “La svastica sul sole”). Neal scrive un opera terrestre che potrebbe essere scritta oggi, e che non farebbe (quasi) una piega, né per il linguaggio, né per la storia che racconta.

Il testo è una lunga immersione in un contesto definibile “cyberpunk”, cioè di uno sviluppo incontrollato della tecnologia che stravolge il mondo attuale, non solo in termini di vita quotidiana, ma anche, e soprattutto, di linguaggio e di modalità di rapporti tra le persone. Una tipologia di testi che prende piede agli inizi degli anni ’80, e che con Stephenson avrà sviluppi immediati e vertiginosi.

Il mondo in cui si muovono i protagonisti del libro è un’America in cui l’iperinflazione ha stravolto la vita quotidiana, costringendo il governo a cedere pezzi di territori in franchising a grosse corporation. Nascono così l’impero cinese di "Super HongKong di Mr. Lee" o quello del predicatore Reverendo Wayne "Le Porte del Paradiso", senza farci mancare i colombiani di "Narcolombia", o la "Nuova Sicilia" di proprietà della "Mafia" guidata da zio Enzo.

Il ruolo centrale è assunto da Hiro Protagonist (qui cominciano i giochi di parole di Neal, che chiama protagonista il protagonista, ed altri che riporto senza commenti). È un hacker di rango, che rastrella informazioni per il CIC (il “Central Intelligence Corporation” nato dalla fusione tra la CIA e la Biblioteca del Congresso). Un lavoro che però non porta tanti soldi, così che per arrotondare fa anche il fattorino per “CosaNostra Pizza”, ovviamente una creatura di zio Enzo.

Qui, ad esempio, c’è un’altra anticipazione che più reale non si può: se il fattorino non consegna la pizza in 30’, il cliente ha diritto al rimborso (ed ovviamente il fattorino al licenziamento). Hiro in una spericolata consegna conosce una skater che fa da fattorino per una diversa organizzazione, Y.T. (che sta per Yours Truly). Si va così componendo la squadra dei buoni, che si rimpolpa con Juanita, l’ex-ragazza di Hiro, inserita nei giri di sostanze illegali, che per prima parla dello “Snow Crash”. Si viene a sapere che è un duplice elemento. Nel mondo reale è una droga che sballa, nel Metaverso è un virus (anzi un Metavirus) che se attivato potrebbe riuscire a distruggere il sistema.

Il cattivo di turno è un miliardario che viaggia sul Pacifico su una portaerei (ha comprato la US Enterprise) è con una cascata di navi ad essa collegata si occupa della tratta di asiatici verso la California (anche qui, la realtà è molto vicina). Il virus è stato studiato a lungo da Lagos, un amico di Hiro, che ha anche costruito il software per creare il “Bibliotecario” (un assistente in 3D per collegare informazioni ed usato dai nostri per ricostruire tutte le informazioni su Snow Crash, contenute nell’immensa biblioteca elettronica della CIC (una sorta di Wikipedia unito a ChatGpt).

Qui gli intrecci di Neal si fanno ingarbugliati. Da una parte, tra realtà e Metaverso, Hiro che cerca di capire la natura della droga, dall’altra vicende al limite del classico hard boiled americano. Hiro decifra il virus, facendo un papocchione tra parallelismo del linguaggio umano e linguaggio macchina, facendo risalire il tutto alle vicende sumere della Biblica Torre di Babele da dove nacquero tutte le lingue del mondo. Tra l’altro, tutte le informazioni per comprendere questa parte sono affidate a spiegoni un po’ pedanti del Bibliotecario.

Dall’altro per bloccare Hiro, Rife rapisce Y.T, ma sul complesso navale si è infiltrata Juanita, che con Hiro debug il Metavirus, sciogliendo il controllo sulle barche che vanno alla deriva. Rife muore e Hiro e Juanita, forse, si riconciliano. Ma il finale è un po’ confuso ed involuto. Forse neanche tanto interessante per Neal, cui premeva soprattutto la costruzione del mondo reale e del mondo virtuale.

Il libro è volutamente caotico ed eterogeneo, usando diversi registri, passando dal reale al virtuale a volte senza che in un primo tempo si capisca. Ha poi questa parte del Bibliotecario che sembra un po’ filosoficamente troppo ingarbugliata per essere vera o compresa.

Ma non è quello che mi ha interessato. Sono le invenzione, il Metaverso in primis. Ma anche il concetto stesso di “Snow Crash”, a parte il modo in cui viene qui usato. Cioè quella specie di neve che si vedeva nelle televisioni quando non si prendeva bene il segnale tanti anni fa, ed anche quella sequenza di numeri a prima vista casuali, che comparivano sui primi terminali quando il sistema andava in “dump” (e spero che i miei lettori con qualche ricordo informatico se ne ricordino a loro volta).

Non un libro facile da leggere, a volte ironico e comico, a volte pedante. Per questo alla fine, pur veleggiando alto, non raggiunge i livelli di eccellenza cui poteva aspirare.

Roger Zelazny “Morire a Italbar” Mondadori Urania 15 euro 6,99

[A: 10/05/2022 – I: 09/07/2025 – T: 12/07/2025] - && ---

[tit. or.: To Die in Italbar; ling. or.: inglese; pagine: 186; anno 1973]

Roger Zelazny è uno scrittore di SF dalla non lunga carriera, riuscendo tuttavia a raggiungere un numero significativo di premi del settore (tre Premi Nebula e sei Premi Hugo). Mente fervida, ha scritto un altissimo numero di libri, intrecciando, spesso i  maniera arguta, molti dei suoi interessi personali. La mitologia, in primo luogo, usandole quasi tutte quelle note (cinese, egiziana, greca, hindu, navajo, scandinava ed altre ancora). Ed in secondo luogo le due sue passioni principali: le arti marziali (era un esperto di aikido, sino a diventare maestro) e la passione per il fumo (quasi tutti i suoi personaggi fumano tantissimo, anche se poi questa passione lo porterà a morire a 58 anni di un tumore ai polmoni).

Dopo svariati lavoretti, e dopo aver cominciato a scrivere con un certo successo, decide, poco più che trentenne, di diventare scrittore professionista. Così nel 1969 scrive un romanzo breve, ma gli editori cui lo sottopone lo rifiutano tutti. Si dedica ai primi libri imperniati sulle sue passioni, ottenendo un discreto successo con il primo volume della serie che gli darà maggior successo (“Cronache di Ambra”). A questo punto riprende in mano il primo scritto, lo aumenta di un quarto, aggiungendo personaggi presi da altri scritti del periodo, e questa volta viene edito, con un piccolo successo di pubblico.

Un successo in parte immeritato, che il libro non è particolarmente ben riuscito, né bilanciato nelle sue parti. Ci sono sviluppi possibili che poi vengono lasciati per strada, ed anche la fine, pur con una sua ragion d’essere, più che un finale sembrerebbe un’apertura verso un nuovo episodio, che non vedrà mai la luce. Tra l’altro, in una conversazione pubblicata a corredo di uno dei suoi maggiori successi (“IO, l’immortale”) Zelazny confessa di ritenere questo il romanzo più brutto che abbia mai scritto.

La linea principale della storia segue le vicende di un ex-archeologo, Heidel von Hymack, conosciuto anche solo come “H”, che, in seguito ad un contatto con qualcosa ritenuto divino (una “Signora” dai poteri magici, e qui non entro nella liceità della linea di racconto, che poteri magici e simili invenzioni sono spesso usate per risolvere impasse della storia), riceve nel suo DNA una specie di dono. Una mutazione tale che gli permette di sopravvivere a qualsiasi malattia, e, una volta uscitone, con il suo tocco può guarire le altre persone che ne sono colpite.

Ma questo dono ha il suo rovescio. Nel volgere di un tempo limitato, questa capacità si muta nel suo opposto, e H con la sua presenza, scatena epidemie incontrollabili. Così succede nel pianeta del titolo, Italbar, dove va per salvare una ragazza, la cura, ma per riprendersi dalle fatiche dell’uso del suo potere, si addormenta troppo a lungo, così che si scatena il contrario, e Italbar viene colpita da un’epidemia devastante. Con la conseguenza che H viene cercato dagli abitanti per poterlo punire. Una fase in cui assistiamo quindi alla fuga ed ai tentativi di H di salvarsi, da solo o aiutato da pochi altri, personaggi di secondo piano che ignoreremo.

Il secondo filone si impernia su il comandante Malacar Miles, unico abitante di una Terra devastata da guerre nucleari ed altre nefandezze, in cui Malacar rimane l’unico ad opporsi ad un cartello stellare denominato “Leghe Combinate”. Saputo dell’esistenza di H, si mette alla sua ricerca, in modo da poterne sfruttare i poteri per lanciare una guerra basata sul bioterrorismo verso i suoi nemici.

Nella parte aggiunta tre anni dopo la prima scrittura, Zelazny introduce la figura di Francis Sandow, protagonista di un suo ben più interessante libro, “L’isola dei morti”, un personaggio anche lui entrato in contatto con la divinità come H, ma da cui ha acquisito un potere positivo: quello di terraformare i pianeti (il termine penso sia autoesplicativo).

In una sarabanda finale, Sandow entra in scena al fianco di H, riuscendo ad isolare e sconfiggere Miles, e terminando con l’idea che Sandow usi il suo potere sulla nuova terra.

Come in altri scritti, per quasi tutto il romanzo, le linee narrative di H e di Miles sono separate, permettendo all’autore di spiegare i motivi e le azioni dei due protagonisti. Solo nel finale, per mezzo del demiurgo Sandow, si riuniscono e sene capisce meglio l’intreccio. Un intreccio che (a parte il fumo, poco presente) tocca i temi dell’immortalità, o meglio del rapporto tra morte e vita, discettando dei poteri di H. Ma anche delle arti marziali, quando seguiamo il protagonista ingaggiare combattimenti e seguirne le descrizioni abbastanza accurate.

Ma nel complesso, è realmente un operazione puramente filologica, che gli editori italiani hanno spesso spinto solo per il fatto dell’assonanza del pianeta teatro dell’azione tra la nostra Italia e lo scombinato Zanzibar. Un po’ poco, e di sicuro non per il meglio dell’autore. Che ora a distanza di tanti anni ho riletto, e come da giovane, questo testo mi ha lasciato poche sensazioni positive. Meglio altro, peccato.

Nnedi Okorafor “Binti + Ritorno a casa” Mondadori Urania 18 euro 6,99

[A: 06/06/2022 – I: 13/08/2025 – T: 15/08/2025] - && e ½ 

[tit. or.: Binti – Binti Home; ling. or.: inglese; pagine: 197; anno 2015-2017]

Nnedi Okorafor, pseudonimo di Nnedimma Nkemdili Okorafor, è una scrittrice americana di origine nigeriana. I suoi genitori, di etnia “igbo”, lasciano la Nigeria per studiare i America, dove rimangono bloccati allo scoppio della guerra civile in patria. Rimangono lì, e lì nasce e cresce Nnedi. Non entro troppo al solito nelle biografie personali, che in rete c’è molto e scritto meglio di me. Ricordo solo che, nella sua abbastanza vasta produzione, c’è uno spazio rilevante di opere di SF, che tra l’altro, le hanno consentito di vincere i più prestigiosi premi del settore, il Premio Nebula ed il Premio Hugo per il romanzo breve.

Romanzo breve che compare in questo doppio libro come la prima parte dello scritto. Purtroppo, il ciclo completo sarebbe una trilogia, mentre qui appaiono solo i primi due testi. Il terzo sarebbe stato utile perché mentre il primo romanzo è abbastanza contenuto in sé stesso, il secondo alla fine risulta leggermente monco.

L’interesse, comunque, per Okorafor deriva proprio da quanto si evince da questi testi. Una espressione dell’afrofuturismo, dove la costruzione di mondi futuri è imprescindibilmente legata alle tradizioni derivanti dalle origini della scrittrice, il mondo africano: non a caso, la protagonista è di etnia “himba”, una razza autoctona della Namibia, come non è un caso che le radici profondi del sapere terrestre derivano da una razza denominata “Popolo del Deserto”.

Ricordo ai meno addentro alla problematica che con afrofuturismo viene indicata una corrente culturale ed estetica che esplora l'intersezione della cultura della diaspora africana con la scienza e la tecnologia. Con esponenti quali Okorafor nella letteratura, ma anche Basquiat nelle arti e Sun Ra nella musica.

“Binti” (tit. or.Binti”, anno 2015)

Come spesso accade nei romanzi brevi, entriamo subito nel pieno dell’azione e delle vicende, entrando nel mondo costruito da Nnedi senza troppe spiegazioni. Impareremo a conoscerlo durante lo svolgimento delle vicende, anche se molte descrizioni vengono tralasciate, lasciando a noi lettori il compito di immaginarle. Così, ad esempio, accade per uno strumento strambo denominato “astrolabio”,  una sorta di computer miniaturizzato che contiene tutte le informazioni relative alla persona. Tanto che, gli eventuali controlli su chi si tu e cosa faccia nell’universo vengono espletati interrogando il tuo astrolabio personale.

La protagonista dei romanzi si chiama Binti Ekeopara Zuzu Dambu Kaipka di Namib (appunto dalla Namibia, e che, per semplicità, come tutti, la chiameremo Binti). Giovane, dotata per la matematica (grande pregio, ovvio) di mestiere dovrebbe fare l’armonizzatrice, che già mi sembra un bel nome. Una persona, insomma, che dovrebbe trovare il modo di attutire se non eliminare i conflitti, di modo che il mondo possa vivere in ragionevole serenità.

Serenità minacciata da una grande guerra in corso, di cui non si sanno molti motivi, tra un popolo denominato Meduse, per il loro aspetto simile ai nostri animali, e dei terrestriformi di nome Khoush, che vivono sullo stesso pianeta di Binti, di cui non si sa molto, se non, per quello che si vede in questi romanzi, che sono antipatici in grado massimo.

Comunque, grazie alle sue capacità, prima Himba nella storia, viene ammessa all’università Oomza, fugge da casa per entrarvi, si imbarca su una nave iperspaziale umanoide, che, prima dell’arrivo, viene attaccata dalle Meduse, che uccidono tutti meno lei. Motivi poco chiari legati da una parte all’otjize (un miscuglio di argilla, la terra Himba, e fiori profumati) dall’altra ad uno strumento di tecnologia arcaica chiamato “edan” (che attraversa tutta la serie ma di cui non sapremo mai la natura).

Fatto sta che le Meduse volevano un “artiglio meduseo” tenuto ad Oomza, e per riaverlo erano capaci di distruggere il pianeta. L’abilità armonizzatrice di Binti porta tutto verso una nuova direzione. Primo, le viene immesso nel sangue del DNA meduseo così che capisce e parla la loro lingua; secondo, convince i reggenti di Oomza a restituire il maltolto; terzo entra alla grande nel mondo universitario, dove l’accompagnerà Okwu, una medusa con cui entra in amicizia e con cui cercherà di gettare ponti per l’armonizzazione del mondo.

“Ritorno a casa” (tit. or.Binti Home”, anno 2017)

Il secondo libro è di sicuro più debole del precedente, laddove incontriamo Binti che dopo un anno di studi, decide di tornare a casa (come dice il titolo, appunto, “Casa Binti”, intesa come casa della tribù e non “Ritorno a casa”, anche se di significato analogo). Facendosi accompagnare dal suo amico, la Medusa Okwu. Ma è un ritorno complicato. Primo perché i familiari non perdonano a Binti di essere andate via. Secondo perché, benché ambasciatore di pace, Okwu è sempre visto come un nemico.

Per purificarsi del tutto, Binti decide di fare il pellegrinaggio rituale degli Himba. In questo viene accompagnata dalla nonna (madre del padre) che gli dice appunto che il padre è un meticcio con il Popolo del Deserto. Inoltre, attraverso le azioni e le parole della nonna, capisce anche che il Popolo del Deserto è più colto e preparato di molte popolazioni dell’Universo. Solo che tende a tenere per sé questi poteri.

Dopo aver visto un essere che solo gli uomini potrebbero vedere (la “Maschera della Notte”) e dopo aver ricevuto l’iniziazione della massima autorità del Deserto, Ariya, Binti stessa riceve i poteri e capisce che Okwu è in pericolo. Si precipita allora verso casa, per completare la sua opera di armonizzatrice.

Purtroppo, a questo punto, il romanzo finisce, e la soluzione sarebbe affidata al terzo volume, che si intitola appunto “La Maschera della Notte”, ma che non è compreso in queste stampe. Peccato, perché in questo modo, il giudizio sul testo cala di molto. Il primo libro è interessante e ben congeniato. Il secondo è solo propedeutico ad una fine che non c’è e quindi rimane molto al di sotto del normale.

Rimane solo, ed in modo positivo, prima di tutto un “space opera” tutta declinata al femminile, cosa da non sottovalutare. Inoltre, di certo anche per averle vissute sulla sua pelle, Nnedi non si tira indietro nel denunciare le ingiustizie che vengono alla luce in mondi inondati da razzismo ed ignoranza. Ed è proprio qui, nell’analisi del diverso e del conseguente razzismo che ci sono gli spunti migliori del testo. Mentre rimane un po’ sospeso un giudizio sulla costruzione generale del testo. Razze, pianeti, capacità individuale, modalità di essere di Binti e delle sue abilità sono descritte in modo coevo al lettore, che quindi è supposto conoscerle. Un modo intelligenti di evitare di perdersi in difficili e spesso errate descrizioni. Ma anche un modo per lasciare il lettore in confusione.

Insomma, un buon risultato finale, che poteva essere migliore.

“Essere curiosi è l’unico modo per imparare.” (171)

Siamo ad inizio mese, quindi mandiamo il riassunto delle “poche” letture di luglio (influenzate dalla presenza di bei viaggi). Un mese comunque di livello, con solo due libri poco sotto la sufficienze. Ma soprattutto con tre libri di assoluta eccellenza. Due saggi (Anna Foa su Israele e Luciano Canfora sulla Democrazia) ed un romanzo giapponese di Masako Togawa, della cui vita ed opere vi invito alla ricerca (oppure aspettate che ne parli io).

 

#

Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Kenzaburō Ōe

La foresta d'acqua

Corriere Giappone

8,90

3,5

2

Cristina Cassar Scalia

La carrozza della Santa

Einaudi

13

3

3

Davide Longo

Una rabbia semplice

Repubblica Anima Noir

8,90

2,5

4

Roger Zelazny

Morire a Italbar

Mondadori

6,99

2

5

Gioconda Belli

Nel paese delle donne

Repubblica Latino-americana

9,90

2,5

6

Cristina Cassar Scalia

La banda dei carusi

Einaudi

s.p.

3

7

Masako Togawa

Residenza per signore sole

Repubblica Giappone

8,90

4

8

Luciano Canfora

L’invenzione della democrazia

Laterza

s.p.

4

9

M. C. Beaton

Amore, bugie e liquori

Repubblica Anima Noir

8,90

2

10

Anna Foa

Il suicidio di Israele

Laterza

15

4

11

Marco Malvaldi

Piomba libera tutti

Sellerio

s.p.

3

12

Georges Simenon

La casa dei Krull

Repubblica

9,90

3

13

Luigi Nacci

Trieste selvatica

Laterza

14

2,5

14

Antonio Pascale

Cose umane

Einaudi

19

3

15

Linda Castillo

L’anima del male

Corriere Oggi

8,90

3

Per il solito contrappasso, questa volta mi sono rivolto a tre autori italiani, di diversa espressione letteraria. C’è Alessandro Perissinotto che nel suo giallo storico “L’anno che uccisero Rosetta” ci fornisce un’interessante interpretazioni delle incomprensioni: “La verità è che non possediamo lo stesso vocabolario. Sì, certo le parole sono le medesime, ma rispondono ad un diverso repertorio di situazioni e stati d’animo. In mancanza di un unico universo di riferimento ogni catalogo di fatti, reali o immaginari, perde valore” (20).

C’è l’ormai considerato classico “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano con una forte descrizione dell’indolenza maschile: “Alzò gli occhi verso la lampadina che pendeva dal centro del soffitto, spenta. Si era fulminata appena un mese dopo il suo arrivo e lui non l’aveva mai sostituita. [Erano sette anni che] mangiava ancora con la luce accesa nell’altra stanza.” (208)

Infine c’è il sempre interessante Marco Malvaldi che in un giallo senza il BarLume, “Odore di chiuso”, ci fornisce una frase lapidaria: “Dev’esser vero che più si invecchia e più si diventa minchioni.” (145)

Poiché è una trama dedicata al futuro, niente di sorprendente che pensiamo ai nostri futuri prossimi venturi. Ai tanti compleanni ottobrini, cominciando dal mio pronipote Filippo. E gli altri che sappiamo e non diciamo. E poi ai viaggi, forse a Natale o forse prima. Come diceva il grande Lucio, “lo scopriremo solo vivendo”. Per adesso allora, solo un grande abbraccio.