Poi c’è un libro che è una pietra miliare
del nostro presente. Si tratta di “Snow Crash” di Neal Stephenson che nel 1992
pensò e scrisse di una realtà virtuale dove si muovevano le proiezioni delle
persone reali. Chiamò queste proiezioni “avatar” ed il mondo reale “Metaverso”.
Vi dice nulla?
Arthur
C. Clarke “Le sabbie di Marte” Mondadori Urania 1 euro 6,99 (in realtà,
scontato a 4,55 euro)
[A: 10/02/2022 – I: 10/06/2025 – T: 11/06/2025]
- &&
[tit. or.: The Sands of Mars; ling. or.: inglese; pagine: 247; anno 1951]
Arthur C. Clarke, inglese, è uno dei grandi
numi di questa letteratura, non fosse che per aver scritto quel piccolo
racconto che permise a Stanley Kubrick di realizzare uno dei più bei fil della
storia del cinema, “2001 Odissea nello spazio”. Ma, questo racconto a parte,
Clarke era, insieme ad alcuni pionieri, uno degli elementi di punta di quelli
che consideravano la “science-fiction” una letteratura d’anticipazione. Ciò un
modo di buttare l’occhio al di là dell’ostacolo per vedere come poteva evolversi
la tecnologia e come poteva l’uomo adattarsi ad essa (o anche il contrario che
non sono sempre rosa e fiori). Un filone di letteratura di genere che insieme a
lui vede nella (mia) top3, Robert A. Heinlein e Isaac Asimov.
Il rilievo italiano è legato proprio a
questo romanzo. Nei primi anni Cinquanta, sotta la spinta dei “Gialli
Mondadori”, la casa editrice cercava altri sbocchi per la letteratura di
genere. Sotto la spinta di Giorgio Monicelli (fratellastro del regista Mario)
si diede mano alla costruzione di un filone di letteratura di anticipazione. O
come lo stesso Giorgio battezzò, di fantascienza. Iniziando nel 1952, e per
l’esattezza il 10 ottobre, la pubblicazione di romanzi riuniti sotto
l’etichetta “Urania”, giunti ora (giugno 2025) al numero 1739.
Molti sanno che da ragazzo avevo passione e
collezione di questi volumi, riuscendo a procurarmi anche questo primo numero.
Passati gli anni e gli interessi, vendetti tutto ad un rivenditore in Prati. Ma
tre anni fa, con piacere, accolsi la proposta celebrativa della casa Mondadori
che decise di pubblicare 45 libri di Urania, iniziando e finendo con due libri
di Clarke.
Fatte queste premesse di contorno, e
sottolineando che il libro, come scritto sopra, è uscito nel 1951, vediamo
allora quali sono i punti principali e le linee di forza del testo.
La trama segue le vicende di Martin Gibson,
uno scrittore di fantascienza, che viene invitato a seguire il volo inaugurale
di una astronave che dovrà essere dedicata in futuro ai collegamenti tra la
Terra e Marte. Qui entriamo in uno dei grandi temi del genere: la
colonizzazione di mondi fuori della terra. Ancora le conoscenze erano
abbastanza generiche, per cui ci si accontentava di ipotizzare colonizzazioni
“vicine”. Ma poiché la luna non ruota (niente alternanza giorno/notte), il più
vicino mondo appetibile è Marte.
Nel corso della trama sapremo che sono
almeno dieci-venti anni che è iniziato lo sfruttamento di Marte, con la
creazione di città-bolle, dove è possibile generare quel minimo di ossigeno
necessario a vivere. Comunque, Marte è ancora lontano, visto che ci vogliono
tre mesi di viaggio interplanetario per giungervi. Ed è quindi non un caso che
abbiano invitato uno scrittore a produrre dei report per invogliare la gente al
viaggio.
Nella prima parte quindi assistiamo alla
vita nell’astronave, alle scaramucce scientifiche tra i vari componenti
dell’equipaggio. Che sono solo 6, tutti a gravitare intorno a Gibson.
Soprattutto il giovane Jimmy, che non ha specializzazioni ma vorrebbe diventare
un astro-qualcosa. Più incisiva si fa la narrazione sul pianeta rosso. Gibson
scopre le difficoltà di vita, ma anche i successi raggiunti. Incontra il
presidente del pianeta, che sicuramente sta tramando qualcosa, affinché la
colonia diventi autosufficiente.
In questa parte, sempre un po’ “descrizione
di coloni alla ricerca” (un po’ epopea da Far West, un po’, da buon inglese,
rappresentazione dell’India coloniale), ci sono qualche elemento di capacità
anticipativa degli scrittori di genere. Tute, modi di trasportare ossigeno,
trasporti terrestri ed un po’ di piccole cose. Durante una gita all’esterno
della bolla, il mezzo con Gibson ed altri incappa in una tempesta di sabbia (le
sabbie di Marte del titolo) che porta a due scoperte. Una plausibile, una pianta
che attraverso processi particolari e abilmente descritti in modo marginale,
sembra poter produrre ossigeno in quantità rilevanti. Ed una non solo non
plausibile, ma direi assolutamente inutile nell’economia del testo: la scoperta
di animali dall’aspetto simile a canguri, con piccole capacità intellettive.
Fatto salvo che questo filone non è
sfruttato (ed è anche abbastanza inutile), è il primo che invece ha rilevanza.
Per sviluppare la capacità delle piante, i colonizzatori distruggono con bombe
atomiche particolari una delle lune di Marte (Fobos) facendolo diventare un
piccolo sole che potrà alimentare per un congruo numero di secoli lo sviluppo
della vita locale.
Gibson alla fine ha due agnizioni: scopre (e
non vi dico né come né perché) che Jimmy è suo figlio e che è innamorato della
figlia del presidente di Marte. Decide quindi di rimanere sul pianeta ed usare
le sue capacità di scrittore per fare marketing a favore di Marte.
Allora, qua e là, il fatto ironico di
mettere uno scrittore di fantascienza al centro della vicenda, crea qualche
momento di ilare rilassatezza. Dal punto di vista della tensione narrativa,
assolutamente da bocciare l’introduzione dei canguri marziani. Mentre sarebbe
da sviluppare l’idea di lavorare per l’autosufficienza delle colonie. La
capacità di Clarke di conoscere la tecnologia e di anticiparne alcune possibili
applicazioni, oltre ad essere usate nei suoi romanzi, lo hanno portato ad un
contributo scientifico e ad una profezia interessante.
Il contributo deriva da un suo articolo del
1945 dove prendeva in esame l'idea che i satelliti geostazionari potessero
essere il sistema ideale per le telecomunicazioni. Un’idea ora realtà. La
profezia era contenuta in un suo intervento radiofonico del 1974 dove prevedeva
che dal 2001 in ogni casa ci sarebbe stato un personal computer collegato ad
una rete globale (considerate che nel ’74 non c’erano PC né tanto meno Internet).
Nonostante i successi di romanziere e di
scienziato, fu abbastanza osteggiato in quanto gay pur non dichiarato, tanto
che dal 1956, a meno di 40 anni, si trasferì a vivere nello Sri Lanka, dove
rimase sino alla morte nel 2008.
Comunque, pur con alcune ingenuità, è una
lettura filologicamente interessante.
Murray
Leinster “L’incubo sul fondo” Mondadori Urania 12 euro 6,99
[A: 26/04/2022 – I: 16/06/2025 – T: 16/06/2025]
- & e ½
[tit. or.: Creatures of the Abys; ling. or.: inglese; pagine: 178; anno 1961]
Murray
Leinster è stato uno dei pochi “long seller” della storia della fantascienza,
visto che pubblica il suo primo testo nel 1919, a 23 anni, e continuerà a
scriverne sino alla morte nel 1975. Con ciò dimostrando, per chi conosce la SF
che si può evolvere la propria scrittura dagli ambienti arcaici e forse solo
sensazionalistici alla Hugo Gernsback (il fondatore del genere) a John W.
Campbell (colui che lo trasformò in una solida letteratura).
Tra
l’altro, l’autore ha il merito di aver introdotto per primo, nel 1934, con il
racconto lungo “Sidewise in time” (“Bivi nel tempo”) il concetto di “universi
paralleli”. Dove, rimanendo in tema di “alternate reality”, l’autore in realtà
si chiama William Fitzgerald Jenkins, e cambierà il suo nome con questo, con
cui diverrà famoso e rispetto nel mondo SF, usando “Murray” come omaggio al
cognome da nubile della madre (“Murry”) e “Leinster” ipotizzando un’improbabile
contatto con la casata dei duchi di Leinster, che, come si sa, si chiamano
“nome di battesimo” FitzGerald. Tanto per far vedere come, in generale, chi si
occupa di SF non ha sempre tutte le rotelle al loro posto.
Scrittore
comunque di SF classica, ha sempre cercato di mantenere le sue opere in una
vicinanza fattiva con il mondo reale, laddove le sue costruzioni usano
tecnologie che sono ragionevoli evoluzioni dell’esistente. Così che, in
effetti, quando si legge un suo libro, si ha l’impressione che ci si poco di
SF. Come appunto sembra succedere in questo testo.
L’inizio
del romanzo, tra l’altro, non sembra proprio trattarsi di SF. Siamo a Manila, e
seguiamo le vicende di un bravissimo tecnico elettronico, Terry Holt, che
sviluppa apparecchi da utilizzare in mare. Diremo qualcosa tipo sonar (una
tecnologia che in Italia viene sviluppata proprio all’inizio degli anni
Sessanta, quasi insieme all’uscita di questo libro). Terry è stato truffato dal
socio, e mentre sta chiudendo baracca e burattini per debiti, viene avvicinato
da Deirdre, la figlia del professor Morton, che lo vogliono ingaggiare come
tecnico alle apparecchiature per una loro spedizione scientifica.
Non
vengono fornite notizie, Terry (e noi) brancola nel buio sfidato ad accettare
la missione più per stare vicino alla ragazza che per altri scopi. Cominciata
comunque la navigazione, i membri della Espérance si imbattono in una diatriba
forte tra un’imbarcazione, la Rubia, che ogni volta che esce fa abbondanti
pesche di pesci ed altri animali marini, mentre il resto della flotta di
pescherecci non riesce quasi a pescare nulla. Come se sapesse dove si addensano
i pesci, utilizzando un rilevatore di suoni e movimenti marini realizzato
proprio da Terry.
Andando
avanti per mare, Terry, Deidre ed il professore cominciano ad accorgersi di
strani comportamenti marini, legati ad un fenomeno che i filippini chiamano “las
orejas de ellos”, come se ci fossero orecchi di qualcuno che sentono nel
profondo del mare. Lo stesso nome viene utilizzato da Terry per lo sviluppo
avanzato dei suoi apparati. E quando li mettono in funzione, ecco che
cominciano a succedere avvenimenti fuori dal normale.
Ci
sono strane concentrazioni di pesci, ci sono specie di pesci che escono in
superficie ma che non dovrebbero farlo, altri che hanno attaccati al loro corpo
oggetti di uso non identificato. Si comincia ad avere un’idea più vicina alla
realtà di quanto succeda quando una nave scompare tra la schiuma delle onde,
quando mostri marini attaccano la loro nave.
Collegando
quanto avviene ad altre informazioni che il professore fornisce a Terry ed a
noi durante diverse conversazioni che cercano di spiegare gli accadimenti,
capiamo che c’è una sottile invasione di una specie aliena che per qualche
elemento connaturato alla loro struttura, deve vivere negli oceani, e
possibilmente, a grandi profondità. Ovvio che si scatena una guerra senza
esclusione di colpi, anche se non riesce a coinvolgerci nei modo in cui si
svolge, e nelle misure che Terry ed i suoi utilizzano per debellare e far
fuggire gli alieni.
Insomma,
una SF poco tecnologica, e radicata nel tempo del suo svolgimento. Poche
invenzioni, solo una sfilza di “cattivi comportamenti” da addossare all’alieno
di turno. Vogliamo ricordarci che siamo nel 1961, che siamo nel pieno della
Guerra Fredda, e che l’americano medio, allora, aveva un sacro terrore del
comunismo e delle sue “cattiverie”, mentre oggi si va a braccetto con il
dittatore russo.
Un
romanzo naif, poco coinvolgente, molto filologicamente utile per ricostruire un
tipo di SF ed un tipo di autore. E di sicuro un testo che non regge al passare
degli anni.
Neal
Stephenson “Snow Crash” Mondadori Urania 23 euro 6,99
[A:
03/07/2022 – I: 19/06/2025 – T: 21/06/2025] - &&&
e ½
[tit. or.: Snow Crash; ling. or.: inglese; pagine: 587; anno 1992]
Se non lo sapete, Neal Stephenson con “Snow Crash” ha
praticamente creato il mondo in cui viviamo. Certo, è un’iperbole, ma nelle sue
pagine visionarie ci sono germi che hanno influenzato lo sviluppo del mondo
digitale in cui siamo immersi. Basta solo menzionare che il libro si svolge su
due binari diversi. Il mondo reale, con alcune estrapolazioni che non sono
molto lontane da sviluppi possibili. Ed un mondo virtuale, in cui si muovono
proiezioni del nostro io reale, chiamati “avatar”. Un mondo virtuale chiamato
“Metaverso”. Fermi, avete capito bene, e Stephenson scrive più di trenta anni
fa, con una rete internet nata ma ancora non sviluppata ed interconnessa come
ora. E Metaverso è un concetto che non esisteva prima di questo libro; non
solo, gli sviluppatori di VR (Virtual Reality) hanno confessato di essersi
ispirati potentemente al libro di Neal, e che gli sviluppatori del relativo
software erano obbligati a leggerlo prima di essere assunti.
In
genere, le opere di fantascienza che più resistono all’usura del tempo, sono
quelle che fanno salti quantici su altrove, che ci e si trasferiscono così
lontano nello spazio e nel tempo da non poter incorrere in ridicoli superamenti
da parte della realtà. O sono quelle opere distopiche che prevedono che, ad un
certo punto, il corso dell’umanità prenda una via diversa da quella di oggi
(per fare esempi, penso a “Dune” o a “La svastica sul sole”). Neal scrive un
opera terrestre che potrebbe essere scritta oggi, e che non farebbe (quasi) una
piega, né per il linguaggio, né per la storia che racconta.
Il
testo è una lunga immersione in un contesto definibile “cyberpunk”, cioè di uno
sviluppo incontrollato della tecnologia che stravolge il mondo attuale, non
solo in termini di vita quotidiana, ma anche, e soprattutto, di linguaggio e di
modalità di rapporti tra le persone. Una tipologia di testi che prende piede
agli inizi degli anni ’80, e che con Stephenson avrà sviluppi immediati e
vertiginosi.
Il
mondo in cui si muovono i protagonisti del libro è un’America in cui
l’iperinflazione ha stravolto la vita quotidiana, costringendo il governo a
cedere pezzi di territori in franchising a grosse corporation. Nascono così
l’impero cinese di "Super HongKong di Mr. Lee" o quello del
predicatore Reverendo Wayne "Le Porte del Paradiso", senza farci
mancare i colombiani di "Narcolombia", o la "Nuova Sicilia"
di proprietà della "Mafia" guidata da zio Enzo.
Il
ruolo centrale è assunto da Hiro Protagonist (qui cominciano i giochi di parole
di Neal, che chiama protagonista il protagonista, ed altri che riporto senza
commenti). È un hacker di rango, che rastrella informazioni per il CIC (il “Central
Intelligence Corporation” nato dalla fusione tra la CIA e la Biblioteca del
Congresso). Un lavoro che però non porta tanti soldi, così che per arrotondare
fa anche il fattorino per “CosaNostra Pizza”, ovviamente una creatura di zio
Enzo.
Qui,
ad esempio, c’è un’altra anticipazione che più reale non si può: se il
fattorino non consegna la pizza in 30’, il cliente ha diritto al rimborso (ed
ovviamente il fattorino al licenziamento). Hiro in una spericolata consegna
conosce una skater che fa da fattorino per una diversa organizzazione, Y.T.
(che sta per Yours Truly). Si va così componendo la squadra dei buoni, che si
rimpolpa con Juanita, l’ex-ragazza di Hiro, inserita nei giri di sostanze
illegali, che per prima parla dello “Snow Crash”. Si viene a sapere che è un
duplice elemento. Nel mondo reale è una droga che sballa, nel Metaverso è un
virus (anzi un Metavirus) che se attivato potrebbe riuscire a distruggere il
sistema.
Il
cattivo di turno è un miliardario che viaggia sul Pacifico su una portaerei (ha
comprato la US Enterprise) è con una cascata di navi ad essa collegata si
occupa della tratta di asiatici verso la California (anche qui, la realtà è
molto vicina). Il virus è stato studiato a lungo da Lagos, un amico di Hiro,
che ha anche costruito il software per creare il “Bibliotecario” (un assistente
in 3D per collegare informazioni ed usato dai nostri per ricostruire tutte le
informazioni su Snow Crash, contenute nell’immensa biblioteca elettronica della
CIC (una sorta di Wikipedia unito a ChatGpt).
Qui
gli intrecci di Neal si fanno ingarbugliati. Da una parte, tra realtà e
Metaverso, Hiro che cerca di capire la natura della droga, dall’altra vicende
al limite del classico hard boiled americano. Hiro decifra il virus, facendo un
papocchione tra parallelismo del linguaggio umano e linguaggio macchina,
facendo risalire il tutto alle vicende sumere della Biblica Torre di Babele da
dove nacquero tutte le lingue del mondo. Tra l’altro, tutte le informazioni per
comprendere questa parte sono affidate a spiegoni un po’ pedanti del
Bibliotecario.
Dall’altro
per bloccare Hiro, Rife rapisce Y.T, ma sul complesso navale si è infiltrata
Juanita, che con Hiro debug il Metavirus, sciogliendo il controllo sulle barche
che vanno alla deriva. Rife muore e Hiro e Juanita, forse, si riconciliano. Ma
il finale è un po’ confuso ed involuto. Forse neanche tanto interessante per
Neal, cui premeva soprattutto la costruzione del mondo reale e del mondo
virtuale.
Il
libro è volutamente caotico ed eterogeneo, usando diversi registri, passando
dal reale al virtuale a volte senza che in un primo tempo si capisca. Ha poi
questa parte del Bibliotecario che sembra un po’ filosoficamente troppo
ingarbugliata per essere vera o compresa.
Ma
non è quello che mi ha interessato. Sono le invenzione, il Metaverso in primis.
Ma anche il concetto stesso di “Snow Crash”, a parte il modo in cui viene qui
usato. Cioè quella specie di neve che si vedeva nelle televisioni quando non si
prendeva bene il segnale tanti anni fa, ed anche quella sequenza di numeri a
prima vista casuali, che comparivano sui primi terminali quando il sistema
andava in “dump” (e spero che i miei lettori con qualche ricordo informatico se
ne ricordino a loro volta).
Non
un libro facile da leggere, a volte ironico e comico, a volte pedante. Per
questo alla fine, pur veleggiando alto, non raggiunge i livelli di eccellenza
cui poteva aspirare.
Roger
Zelazny “Morire a Italbar” Mondadori Urania 15 euro 6,99
[A:
10/05/2022 – I: 09/07/2025 – T: 12/07/2025] - &&
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[tit.
or.: To Die in Italbar; ling. or.: inglese; pagine: 186;
anno 1973]
Roger Zelazny è uno scrittore di SF dalla non lunga
carriera, riuscendo tuttavia a raggiungere un numero significativo di premi del
settore (tre Premi Nebula e sei Premi Hugo). Mente fervida, ha scritto un
altissimo numero di libri, intrecciando, spesso i maniera arguta, molti dei suoi interessi
personali. La mitologia, in primo luogo, usandole quasi tutte quelle note
(cinese, egiziana, greca, hindu, navajo, scandinava ed altre ancora). Ed in
secondo luogo le due sue passioni principali: le arti marziali (era un esperto
di aikido, sino a diventare maestro) e la passione per il fumo (quasi tutti i
suoi personaggi fumano tantissimo, anche se poi questa passione lo porterà a
morire a 58 anni di un tumore ai polmoni).
Dopo
svariati lavoretti, e dopo aver cominciato a scrivere con un certo successo,
decide, poco più che trentenne, di diventare scrittore professionista. Così nel
1969 scrive un romanzo breve, ma gli editori cui lo sottopone lo rifiutano
tutti. Si dedica ai primi libri imperniati sulle sue passioni, ottenendo un
discreto successo con il primo volume della serie che gli darà maggior successo
(“Cronache di Ambra”). A questo punto riprende in mano il primo scritto, lo
aumenta di un quarto, aggiungendo personaggi presi da altri scritti del
periodo, e questa volta viene edito, con un piccolo successo di pubblico.
Un
successo in parte immeritato, che il libro non è particolarmente ben riuscito,
né bilanciato nelle sue parti. Ci sono sviluppi possibili che poi vengono
lasciati per strada, ed anche la fine, pur con una sua ragion d’essere, più che
un finale sembrerebbe un’apertura verso un nuovo episodio, che non vedrà mai la
luce. Tra l’altro, in una conversazione pubblicata a corredo di uno dei suoi
maggiori successi (“IO, l’immortale”) Zelazny confessa di ritenere questo il
romanzo più brutto che abbia mai scritto.
La
linea principale della storia segue le vicende di un ex-archeologo, Heidel von
Hymack, conosciuto anche solo come “H”, che, in seguito ad un contatto con
qualcosa ritenuto divino (una “Signora” dai poteri magici, e qui non entro
nella liceità della linea di racconto, che poteri magici e simili invenzioni
sono spesso usate per risolvere impasse della storia), riceve nel suo DNA una
specie di dono. Una mutazione tale che gli permette di sopravvivere a qualsiasi
malattia, e, una volta uscitone, con il suo tocco può guarire le altre persone
che ne sono colpite.
Ma
questo dono ha il suo rovescio. Nel volgere di un tempo limitato, questa
capacità si muta nel suo opposto, e H con la sua presenza, scatena epidemie
incontrollabili. Così succede nel pianeta del titolo, Italbar, dove va per
salvare una ragazza, la cura, ma per riprendersi dalle fatiche dell’uso del suo
potere, si addormenta troppo a lungo, così che si scatena il contrario, e
Italbar viene colpita da un’epidemia devastante. Con la conseguenza che H viene
cercato dagli abitanti per poterlo punire. Una fase in cui assistiamo quindi
alla fuga ed ai tentativi di H di salvarsi, da solo o aiutato da pochi altri,
personaggi di secondo piano che ignoreremo.
Il
secondo filone si impernia su il comandante Malacar Miles, unico abitante di
una Terra devastata da guerre nucleari ed altre nefandezze, in cui Malacar
rimane l’unico ad opporsi ad un cartello stellare denominato “Leghe Combinate”.
Saputo dell’esistenza di H, si mette alla sua ricerca, in modo da poterne
sfruttare i poteri per lanciare una guerra basata sul bioterrorismo verso i
suoi nemici.
Nella
parte aggiunta tre anni dopo la prima scrittura, Zelazny introduce la figura di
Francis Sandow, protagonista di un suo ben più interessante libro, “L’isola dei
morti”, un personaggio anche lui entrato in contatto con la divinità come H, ma
da cui ha acquisito un potere positivo: quello di terraformare i pianeti (il
termine penso sia autoesplicativo).
In
una sarabanda finale, Sandow entra in scena al fianco di H, riuscendo ad
isolare e sconfiggere Miles, e terminando con l’idea che Sandow usi il suo
potere sulla nuova terra.
Come
in altri scritti, per quasi tutto il romanzo, le linee narrative di H e di
Miles sono separate, permettendo all’autore di spiegare i motivi e le azioni
dei due protagonisti. Solo nel finale, per mezzo del demiurgo Sandow, si
riuniscono e sene capisce meglio l’intreccio. Un intreccio che (a parte il
fumo, poco presente) tocca i temi dell’immortalità, o meglio del rapporto tra
morte e vita, discettando dei poteri di H. Ma anche delle arti marziali, quando
seguiamo il protagonista ingaggiare combattimenti e seguirne le descrizioni
abbastanza accurate.
Ma
nel complesso, è realmente un operazione puramente filologica, che gli editori
italiani hanno spesso spinto solo per il fatto dell’assonanza del pianeta
teatro dell’azione tra la nostra Italia e lo scombinato Zanzibar. Un po’ poco,
e di sicuro non per il meglio dell’autore. Che ora a distanza di tanti anni ho
riletto, e come da giovane, questo testo mi ha lasciato poche sensazioni
positive. Meglio altro, peccato.
Nnedi
Okorafor “Binti + Ritorno a casa” Mondadori Urania 18 euro 6,99
[A:
06/06/2022 – I: 13/08/2025 – T: 15/08/2025] - &&
e ½
[tit.
or.: Binti – Binti Home; ling. or.: inglese; pagine: 197;
anno 2015-2017]
Nnedi Okorafor, pseudonimo di Nnedimma Nkemdili
Okorafor, è una scrittrice americana di origine nigeriana. I suoi genitori, di
etnia “igbo”, lasciano la Nigeria per studiare i America, dove rimangono
bloccati allo scoppio della guerra civile in patria. Rimangono lì, e lì nasce e
cresce Nnedi. Non entro troppo al solito nelle biografie personali, che in rete
c’è molto e scritto meglio di me. Ricordo solo che, nella sua abbastanza vasta
produzione, c’è uno spazio rilevante di opere di SF, che tra l’altro, le hanno
consentito di vincere i più prestigiosi premi del settore, il Premio Nebula ed
il Premio Hugo per il romanzo breve.
Romanzo
breve che compare in questo doppio libro come la prima parte dello scritto.
Purtroppo, il ciclo completo sarebbe una trilogia, mentre qui appaiono solo i
primi due testi. Il terzo sarebbe stato utile perché mentre il primo romanzo è
abbastanza contenuto in sé stesso, il secondo alla fine risulta leggermente
monco.
L’interesse,
comunque, per Okorafor deriva proprio da quanto si evince da questi testi. Una
espressione dell’afrofuturismo, dove la costruzione di mondi futuri è
imprescindibilmente legata alle tradizioni derivanti dalle origini della
scrittrice, il mondo africano: non a caso, la protagonista è di etnia “himba”,
una razza autoctona della Namibia, come non è un caso che le radici profondi
del sapere terrestre derivano da una razza denominata “Popolo del Deserto”.
Ricordo
ai meno addentro alla problematica che con afrofuturismo viene indicata una
corrente culturale ed estetica che esplora l'intersezione della cultura della
diaspora africana con la scienza e la tecnologia. Con esponenti quali Okorafor
nella letteratura, ma anche Basquiat nelle arti e Sun Ra nella musica.
“Binti” (tit. or. “Binti”, anno 2015)
Come
spesso accade nei romanzi brevi, entriamo subito nel pieno dell’azione e delle
vicende, entrando nel mondo costruito da Nnedi senza troppe spiegazioni.
Impareremo a conoscerlo durante lo svolgimento delle vicende, anche se molte
descrizioni vengono tralasciate, lasciando a noi lettori il compito di
immaginarle. Così, ad esempio, accade per uno strumento strambo denominato
“astrolabio”, una sorta di computer
miniaturizzato che contiene tutte le informazioni relative alla persona. Tanto
che, gli eventuali controlli su chi si tu e cosa faccia nell’universo vengono
espletati interrogando il tuo astrolabio personale.
La
protagonista dei romanzi si chiama Binti Ekeopara Zuzu Dambu Kaipka di Namib
(appunto dalla Namibia, e che, per semplicità, come tutti, la chiameremo
Binti). Giovane, dotata per la matematica (grande pregio, ovvio) di mestiere
dovrebbe fare l’armonizzatrice, che già mi sembra un bel nome. Una persona,
insomma, che dovrebbe trovare il modo di attutire se non eliminare i conflitti,
di modo che il mondo possa vivere in ragionevole serenità.
Serenità
minacciata da una grande guerra in corso, di cui non si sanno molti motivi, tra
un popolo denominato Meduse, per il loro aspetto simile ai nostri animali, e
dei terrestriformi di nome Khoush, che vivono sullo stesso pianeta di Binti, di
cui non si sa molto, se non, per quello che si vede in questi romanzi, che sono
antipatici in grado massimo.
Comunque,
grazie alle sue capacità, prima Himba nella storia, viene ammessa
all’università Oomza, fugge da casa per entrarvi, si imbarca su una nave
iperspaziale umanoide, che, prima dell’arrivo, viene attaccata dalle Meduse,
che uccidono tutti meno lei. Motivi poco chiari legati da una parte all’otjize
(un miscuglio di argilla, la terra Himba, e fiori profumati) dall’altra ad uno
strumento di tecnologia arcaica chiamato “edan” (che attraversa tutta la serie
ma di cui non sapremo mai la natura).
Fatto
sta che le Meduse volevano un “artiglio meduseo” tenuto ad Oomza, e per
riaverlo erano capaci di distruggere il pianeta. L’abilità armonizzatrice di
Binti porta tutto verso una nuova direzione. Primo, le viene immesso nel sangue
del DNA meduseo così che capisce e parla la loro lingua; secondo, convince i
reggenti di Oomza a restituire il maltolto; terzo entra alla grande nel mondo
universitario, dove l’accompagnerà Okwu, una medusa con cui entra in amicizia e
con cui cercherà di gettare ponti per l’armonizzazione del mondo.
“Ritorno a casa” (tit. or. “Binti Home”, anno 2017)
Il secondo libro è di sicuro più debole del
precedente, laddove incontriamo Binti che dopo un anno di studi, decide di
tornare a casa (come dice il titolo, appunto, “Casa Binti”, intesa come casa
della tribù e non “Ritorno a casa”, anche se di significato analogo). Facendosi
accompagnare dal suo amico, la Medusa Okwu. Ma è un ritorno complicato. Primo
perché i familiari non perdonano a Binti di essere andate via. Secondo perché,
benché ambasciatore di pace, Okwu è sempre visto come un nemico.
Per purificarsi del tutto, Binti decide di
fare il pellegrinaggio rituale degli Himba. In questo viene accompagnata dalla
nonna (madre del padre) che gli dice appunto che il padre è un meticcio con il
Popolo del Deserto. Inoltre, attraverso le azioni e le parole della nonna,
capisce anche che il Popolo del Deserto è più colto e preparato di molte
popolazioni dell’Universo. Solo che tende a tenere per sé questi poteri.
Dopo aver visto un essere che solo gli uomini
potrebbero vedere (la “Maschera della Notte”) e dopo aver ricevuto
l’iniziazione della massima autorità del Deserto, Ariya, Binti stessa riceve i
poteri e capisce che Okwu è in pericolo. Si precipita allora verso casa, per
completare la sua opera di armonizzatrice.
Purtroppo, a questo punto, il romanzo
finisce, e la soluzione sarebbe affidata al terzo volume, che si intitola
appunto “La Maschera della Notte”, ma che non è compreso in queste stampe.
Peccato, perché in questo modo, il giudizio sul testo cala di molto. Il primo
libro è interessante e ben congeniato. Il secondo è solo propedeutico ad una
fine che non c’è e quindi rimane molto al di sotto del normale.
Rimane
solo, ed in modo positivo, prima di tutto un “space opera” tutta declinata al
femminile, cosa da non sottovalutare. Inoltre, di certo anche per averle
vissute sulla sua pelle, Nnedi non si tira indietro nel denunciare le
ingiustizie che vengono alla luce in mondi inondati da razzismo ed ignoranza.
Ed è proprio qui, nell’analisi del diverso e del conseguente razzismo che ci
sono gli spunti migliori del testo. Mentre rimane un po’ sospeso un giudizio
sulla costruzione generale del testo. Razze, pianeti, capacità individuale,
modalità di essere di Binti e delle sue abilità sono descritte in modo coevo al
lettore, che quindi è supposto conoscerle. Un modo intelligenti di evitare di
perdersi in difficili e spesso errate descrizioni. Ma anche un modo per lasciare
il lettore in confusione.
Insomma,
un buon risultato finale, che poteva essere migliore.
“Essere
curiosi è l’unico modo per imparare.” (171)
Siamo
ad inizio mese, quindi mandiamo il riassunto delle “poche” letture di luglio
(influenzate dalla presenza di bei viaggi). Un mese comunque di livello, con
solo due libri poco sotto la sufficienze. Ma soprattutto con tre libri di
assoluta eccellenza. Due saggi (Anna Foa su Israele e Luciano Canfora sulla
Democrazia) ed un romanzo giapponese di Masako Togawa, della cui vita ed opere
vi invito alla ricerca (oppure aspettate che ne parli io).
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
1 |
Kenzaburō Ōe |
La foresta d'acqua |
Corriere Giappone |
8,90 |
3,5 |
2 |
Cristina Cassar Scalia |
La carrozza della Santa |
Einaudi |
13
|
3 |
3 |
Davide
Longo |
Una
rabbia semplice |
Repubblica Anima Noir |
8,90 |
2,5 |
4 |
Roger Zelazny |
Morire a Italbar |
Mondadori |
6,99 |
2 |
5 |
Gioconda Belli |
Nel paese delle donne |
Repubblica Latino-americana |
9,90 |
2,5 |
6 |
Cristina Cassar Scalia |
La banda dei carusi |
Einaudi |
s.p.
|
3 |
7 |
Masako Togawa |
Residenza per signore sole |
Repubblica Giappone |
8,90 |
4 |
8 |
Luciano Canfora |
L’invenzione della democrazia |
Laterza |
s.p.
|
4 |
9 |
M. C. Beaton |
Amore, bugie e liquori |
Repubblica Anima Noir |
8,90 |
2 |
10 |
Anna Foa |
Il suicidio di Israele |
Laterza |
15
|
4 |
11 |
Marco Malvaldi |
Piomba libera tutti |
Sellerio |
s.p.
|
3 |
12 |
Georges Simenon |
La casa dei Krull |
Repubblica |
9,90 |
3 |
13 |
Luigi Nacci |
Trieste selvatica |
Laterza |
14
|
2,5 |
14 |
Antonio Pascale |
Cose umane |
Einaudi |
19
|
3 |
15 |
Linda Castillo |
L’anima del male |
Corriere Oggi |
8,90 |
3 |
Per il solito contrappasso, questa volta mi sono rivolto a tre autori italiani, di diversa espressione letteraria. C’è Alessandro Perissinotto che nel suo giallo storico “L’anno che uccisero Rosetta” ci fornisce un’interessante interpretazioni delle incomprensioni: “La verità è che non possediamo lo stesso vocabolario. Sì, certo le parole sono le medesime, ma rispondono ad un diverso repertorio di situazioni e stati d’animo. In mancanza di un unico universo di riferimento ogni catalogo di fatti, reali o immaginari, perde valore” (20).
C’è
l’ormai considerato classico “La
solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano con una forte descrizione dell’indolenza maschile: “Alzò gli occhi
verso la lampadina che pendeva dal centro del soffitto, spenta. Si era
fulminata appena un mese dopo il suo arrivo e lui non l’aveva mai sostituita.
[Erano sette anni che] mangiava ancora con la luce accesa nell’altra stanza.”
(208)
Infine c’è il sempre interessante Marco Malvaldi che in un giallo senza il BarLume, “Odore di chiuso”, ci
fornisce una frase lapidaria: “Dev’esser vero che più si invecchia e più
si diventa minchioni.” (145)
Poiché è una trama dedicata al futuro, niente di sorprendente che pensiamo ai nostri futuri prossimi venturi. Ai tanti compleanni ottobrini, cominciando dal mio pronipote Filippo. E gli altri che sappiamo e non diciamo. E poi ai viaggi, forse a Natale o forse prima. Come diceva il grande Lucio, “lo scopriremo solo vivendo”. Per adesso allora, solo un grande abbraccio.