domenica 5 gennaio 2025

Continuiamo con il colore - 05 gennaio 2025

Abbiamo finito l’anno in giallo (Mondadori) e ne cominciamo uno nuovo in nero, tra Repubblica, Feltrinelli e Sellerio, Abbiamo due letture seriali: la nuova protagonista della svedese Anne Holt (riuscita fino ad un certo punto) e due nuove puntate della “sezione Q” del danese Jussi Adler-Olsen. Finendo con l’ultimo, credo per età, episodio dell’Aristotele della canadese Margaret Doody (di certo il peggio riuscito del gruppo).

Anne Holt “La pista” Repubblica Brivido Noir euro 8,90

[A: 26/08/2020– I: 16/08/2024 – T: 17/08/2024] - &&

[tit. or.: En grav for to; ling. or.: norvegese; pagine: 534; anno 2018]

Dopo dieci romanzi dedicati a Hanne Wilhelmsen (almeno fino alla scrittura di questo, che poi ne scriverà altri due) e cinque e conclusivi libri con al centro Johanne Vik e Yngvar Stubø, nel ’18 Anne Holt introduce un nuovo personaggio, Selma Falck, che dopo questo apparirà in almeno altri due romanzi.

Prima di addentrarci nel personaggio, nella scrittura e nella trama, innalzo il solito grido di dolore sul titolo. Certo, uno degli argomenti centrali del libro è lo sci, ed in particolare lo sci di fondo. Ma parlare di pista fa perdere tutto il senso del titolo, che, tradotto letteralmente, significa “Una tomba per due”, e, secondo uno dei personaggi, viene da una citazione di James Bond, che in “Solo per i tuoi occhi”, afferma “Prima di cominciare una vendetta, è meglio che scavi due tombe”. In realtà è una citazione di citazione che l’originale deriverebbe da alcuni detti di Confucio, che ricordava ai suoi discepoli come la vendetta possa rivelarsi negativa anche per chi la compie.

Secondo punto dolente è la copertina. Mentre la prima traduzione di Einaudi portava, correttamente, una striscia di neve battuta tra gli alberi, l’edizione di Repubblica è curata da una società di grafica ma disegna una pista di sci alpino, con le relative porte. Cosa assolutamente sbagliata visto che, se si parla di sci, nel libro, si parla solo di sci di fondo.

Veniamo allora a Selma, che, almeno per gran parte di questo primo libro, non è che risulti gran che simpatica. È stata una campionessa sportiva (medagliata nella pallamano, credo), poi avvocato di successo con marito e due figli. Sicuramente empatica verso i più sfortunati, o quelli che secondo lei meritano di essere avvicinati. Ora la troviamo sull’orlo della fine. Ha sempre amato il rischio e le scommesse, sia sui titoli azionari che nei giochi (specialmente poker), riuscendo sempre a pareggiare i bilanci. Peccato invece che nell’ultimo periodo abbia avuto un crollo, tale che Jan Morell, cui ha sottratto milioni di corone, la mette all’angolo. Per non denunciarla deve restituire i soldi, lasciare lo studio di avvocato, e farsi curare la ludopatia. Cosa che in parte Selma fa, ma per le prime due richieste è costretta anche a lasciare la famiglia e vivere in un appartamento ai limiti dell’abitabilità.

Caduta in fondo al pozzo, è lo stesso Morell che le offre un’ancora di salvezza. Se risolve il suo problema di famiglia, le abbona tutto, meno lo psicologo (che tra l’altro è l’unica cosa che Selma non farà mai). Entriamo così nel vivo dell’azione, che, purtroppo, è spezzettata da Anne in mille capitoli dove si cambia continuamente soggetto narrativo, dove non si riesce a seguire concretamente la trama, perdendosi anche in una ridda di nomi. Dove, oltre agli attori della vicenda, per motivi vari, vengono tirati in ballo atleti fondisti che solo la mia onnivorità sportiva mi ha permesso di collocare al giusto posto (come anche le Olimpiadi invernali di Pyeongchang del 2018, dove, tra l’altro, la Norvegia vinse 14 ori, di cui la metà nello sci di fondo).

Tutto comincia dall’incriminazione per doping di Hege Chin, figlia adottiva di Morell e campionessa di fondo. Poi prosegue con la morte di Haakon, altro campione di fondo, travolto da una macchina durante un allenamento, figlio di Vanja, amica di Selma nonché psicologa. Sembra una storia di doping, ma Selma non si lascia ingannare dalle apparenze e persegue una sua pista, suggerita dal suo amico Einar (su cui torneremo): a chi giova? O meglio a chi nuoce?

Con molta difficoltà, dovuta ad una enorme massa di nomi ed a salti di prospettiva in ognuno dei brevi capitoli, capiamo che in effetti ci sono varie personalità cui tutta la vicenda sta nuocendo. Morell, in primis, sempre paladino dell’antidoping, coinvolto nel doping della figlia. Selhus, il tesoriere della federazione, colpevole a volta di piccoli ammanchi, ma ora travolto da spostamenti indebiti di denaro che, pur non essendone il motore, fanno risalire a lui la causa. Denaro che transita anche tra le mani di Haakon, e che lui minaccia di rendere pubblico. Poi c’è una vicenda parallela e collegata: Klaus, amico stretto di Morell, soffre di claustrofobia e lo vediamo capitolo dopo capitolo rinchiuso in una stanza senza uscita. Tanto che finirà per morirne.

E Selma scopre anche che, da giovani, Morell, Selhus e Klaus erano molto legati. Da qui a trovare chi muove i fili della trama nera ci vuole poco, anche perché ogni macro-capitolo (relativo ad ogni giorno che passa) riporta la sceneggiatura di una trama che, letta con attenzione, ha delle forti attinenze con quanto succede. E benché solo noi ne leggiamo, capiamo che tutto si tiene. Che Hege, Haakon, Morell, Selhus, Klaus e Vanja sono legati da un filo che Selma riuscirà a dipanare.

Ma la trama non prende. Troppi personaggi, troppi spezzatino di capitoli, poca incisività nei personaggi, e, alla faccia di Van Dine, una serie di spunti di trama che nascono all’improvviso senza essere coordinati con il resto. Resta Selma che risulta un buon personaggio, anche se ancora pieno di ombre. Capace, intuitiva, ma non positiva come ci si aspetta. È brava in tutto, ma l’unica cosa che le farebbe fare uno scatto (curare la ludopatia) non esce fuori.

L’unico altro personaggio ben trattato è Einar, un ex-poliziotto che quando scopre che la persona che ha arrestato causò la morte di sua figlia, lo uccide a sangue freddo. Dopo le dimissioni ed il carcere, fa la volontaria vita da barbone, rimanendo l’unico vero amico di Selma (e viceversa). L’unico che ragionando con Selma fa fare reali passi avanti all’indagine. E spero che negli altri due episodi scritti rimanga ancora.

Insomma, un inizio non proprio esaltante, illuminato solo dalla citazione che riporto. Staremo attenti al seguito.

“[Quando guidava] da sola, preferiva ascoltare un audiolibro. Aveva quasi finito il quarto volume di Elena Ferrante.” [24]

Anne Holt “La tormenta” Repubblica Anima Noir 7 euro 8,90

[A: 03/08/2021– I: 14/10/2024 – T: 15/10/2024] - && e ½

[tit. or.: Furet/værbitt; ling. or.: norvegese; pagine: 549; anno 2019]

Eccoci allora al secondo episodio della serie dedicata all’ex-avvocato, investigatore privato e ludopatica Selma Falck. In un libro denso di cose “altre” rispetto al giallo classico, nonché un filo troppo lungo, e sicuramente appesantito dal continuo spostamento temporale, anche se qui non si tratta di anni ma di mesi. Avevo lasciato il primo episodio sperando in un miglioramento. Qualcosa c’è, ma è ancora decisamente insufficiente.

Intanto cominciamo dal titolo, che, data la mia quasi nulla conoscenza del norvegese (forse dovrei chiedere a Vivi) non sono riuscito a tradurre, anche se ipotizzo cerchi di proporre due accezioni del termine “Tormenta”, sia inteso come tempo atmosferico che come azione atta a distruggere. Fatto sta che il termine è di certo centrale nel romanzo, anche se per la maggior parte del tempo (ed è qui la critica ai traduttori) usato senza l’articolo.

Legata al titolo è poi la copertina. Nella prima edizione Einaudi c’è la foto di una tormenta di neve, che ci può stare. In questa edizione di Repubblica c’è una casa che brucia, che certo rimanda all’inizio del libro, ma è fuori contesto con il resto (a meno di non creare una metafora legando la casa che brucia con la possibilità che il mondo conosciuto, rappresentato dalla casa stessa, bruci anche lui).

Per quanto riguarda invece il testo vero e proprio, devo dire che, personalmente, l’ho trovato non facile da digerire. Come spesso accade, si muove su due spezzoni temporali, che solo nel finale si ricongiungono. Tempi che sono sfasati di poco. Da un lato c’è una specie di presente in cui seguiamo una settimana circa della vita di Selma, da quando la troviamo nuda ed in fin di vita, sperduta in una landa norvegese, fino al suo (ovvio) salvataggio e ricongiungimento con l’altro tempo. Dall’altro un periodo che parte il 18 maggio per arrivare al 16 settembre, punto finale della storia, e momento in cui tutto si ricompone.

Spezzo subito una lancia mortale verso la storia di Selma che lotta con la neve, con il fuoco, con il freddo, con la tormenta, con la memoria (è stata picchiata, ridotta in fin di vita, ed ha subito una piccola amnesia temporale). È una parte lenta, che coinvolge poco o nulla, che poteva essere collocata nel filone normale del tempo, ed avrebbe avuto lo stesso risultato. Vedere come si disseta con la neve sciolta o si fa aiutare e guidare da un cane randagio mentre recupera, neurone dopo neurone, i brandelli di memoria per ricostruire quello che leggiamo nell’altro filone del racconto, l’ho trovato poco coinvolgente.

Il filone principale, invece, in cui c’è un morto, ma anche tanto altro, si segue meglio, anche se alcune parti sembrano scontate ed alcune denunce sociali sono forse poste in un contesto che non riescono a colpire come dovrebbero. Da attenta conoscitrice della realtà norvegese (nonché anche ex-ministro della Giustizia), Anne Holt ci fa immergere nel clima dei nostri giorni, in un mondo, norvegese ma potrebbe essere qualsiasi paese occidentale, assediato dai problemi dell’immigrazione, della mancanza di lavoro, dalle esacerbate proteste di frange estremiste, di destra e di sinistra. Un mondo in cui l’uso dei social diviene uno strumento di democrazia e di tirannia. Come si afferma ad un certo punto, e ne sono convinto anch’io, i social vengono usati da tutti, dall’uomo della strada al presidente americano (ricordo che l’azione si svolge durante la presidenza Trump). Ed in ciò è insito un grande pericolo, perché parliamo (scriviamo) prima di pensare. Questo uso dei social consente ad uno strumento che in linea di principio è adatto a connettere e collegare le persone, di ingrandire il solco tra noi e ci separa ancora di più.

In questo contesto, un residuo dei servizi segreti norvegesi sorti durante la Seconda guerra mondiale per opporsi al nazismo resta ancora in funzione con il compito, autoimpostosi, di salvaguardare la democrazia, anche usando azioni non ortodosse. Holt descrive efficacemente come esaltati di ogni risma attacchino il sistema democratico, per poi descrivere, attraverso questo gruppo, il modo meno democratico per mantenere la democrazia.

Fatto sta che uno dei principali accusatori, da destra, del sistema muore durante il pranzo di nozze per uno shock allergico. Il punto di partenza è qui, dato che il tipo stava sposando la figlia di Selma. Quindi la nostra, un po’ per cercare di riavvicinarsi alla figlia (sappiamo dal precedente libro come i rapporti tra Selma e la famiglia siano stati troncati di netto) sia per assolvere il cuoco delle nozze dall’accusa di incuria alimentare, incomincia ad indagare.

Ma sono indagini un po’ mosce, che si ravvivano solo quando nel narrato si passa a parlare del responsabile del gruppo di cui sopra, Tryggve Mejer (tra l’altro Ministro della Giustizia), dei suoi tormenti politici ma anche e soprattutto della crisi familiare che coinvolge la figlia Mina e la moglie. Tryggve può scatenare la “Tormenta” per eliminare i pericolosi attentatori alla democrazia, sia con azioni illegali (tipo uccisioni nascoste) che con azioni para-illegali, imbavagliando la stampa ed altre simili attività.

Noi, ed altri, pensano che sia stato lui a chiedere la morte dello sposo molesto. Ma Selma, aiutata dal fido barbone Einar Falsen (che ora vive in una casa, ma rimane barbone dentro e per me l’unico personaggio veramente divertente e positivo), ricostruisce la catena degli eventi risalendo alla vera concatenazione di azioni che hanno portato alla morte durante le nozze.

Tuttavia, Tryggve non era stato inerte, avendo autorizzato le azioni collaterali: chiusura di giornali online attraverso il taglio della pubblicità, denigrazioni che portano a dimissioni incomprensibili, nonché l’arresto per (falsa) droga di una coppia che in realtà gestiva una rete di hacker finanziata dai russi. Inciso: queste considerazioni, sugli hacker e sulle ingerenze sovietiche fatte nel 2019 sono di una preveggenza sconcertante.

Ovvio che all’interno del gruppo segreto, comunque, nascano attriti sulle modalità di azione, nonché sul fatto che Selma si stia avvicinando troppo alla verità. Per cui qualcuno decide che va eliminata, così che finalmente capiamo perché sia stata quasi uccisa nel primo filone del libro. Ma Selma si salva, anche se la sua verità verrà sopravanzata dagli avvenimenti, in un finale che è decisamente un po’ moscio, un po’ scontato e molto proiettato ad aprire la strada ad un nuovo episodio.

Non è un giallo entusiasmante, dal punto di vista del “giallo puro”. È di certo un libro che tocca molti punti dolenti del mondo attuale. Vediamo descritto con capacità e somiglianza il nostro come un mondo pieno di odio, di violenza, dove risorge il razzismo più deleterio. C’è tutta una parte in cui narra in modo efficace l’utilizzo eccessivo e negativo dei social che diventano veicolo di comunicazione anche quando diffondono notizie false. C’è una grossa parte che indica l’esistenza di complotti, nazionali e sopranazionali, dove sempre più predominante diviene il ruolo dei potenti. Ma c’è anche, sia nelle schermaglie tra Selma e la figlia Anine, sia tra quelle di Mina con il padre Tryggve tutto il difficile rapporto tra genitori e figli.

Certo non è compito di un thriller portarci soluzioni, ma il merito di questo libro, pur nella sua incompletezza, è di aver posto e descritto queste tematiche. Come nella precedente trama, vedremo cosa ci riserva il futuro.

Finisco con un richiamo storico. In Norvegia esisteva realmente un gruppo “Stay Behind” composto da cinque persone e smantellato soltanto nel 1978. Come dice Einar, è Wikipedia che ci fornisce molte informazioni (che bisogna scremare), e ci descrive (purtroppo solo in norvegese) la “Norsk okkupasjonsberedskap i etterkrigstiden”, cioè la “Preparazione all'occupazione norvegese nel dopoguerra”. Cercatela e leggetene, breve ma interessante.

Jussi Adler-Olsen “Il messaggio nella bottiglia” Feltrinelli euro 12

[A: 06/08/2021 – I: 24/08/2024 – T: 26/08/2024] - &&&

[tit. or.: Flaskepost fra P; ling. or.: danese; pagine: 557; anno 2009]

Jussi Adler-Olsen è qui alla terza entrata nella mia libreria da dove seguo con interesse la sua serie gialla dedicata alla “Sezione Q” (o come dice il danese in cui scrive “Dipartimento Q”). Pur se laureato in medicina, in fondo ha sempre gravitato in ambito editoriale: prima con fumetti e la gestione di una libreria, poi come editore, infine a quasi cinquant’anni come scrittore a tempo pieno. Fuori dai confini nazionali è noto appunto per questa serie, iniziata nel 2007 e che ora è giunta al suo decimo episodio.

Come detto, sei anni fa ho letto i primi due episodi, con una critica che ne riportava una discreta sufficienza. Poi le evoluzioni letterarie mi hanno un po’ allontanato dallo scrittore, che solo ora riprendo. Poiché penso che abbiate scordato gli inizi faccio una breve ricapitolazione degli elementi principali.

Dopo un episodio sfortunato della sua squadra (con morti e feriti di polizia) l’ispettore Carl Mørck, per non essere licenziato, viene messo a capo di una struttura, all’inizio inesistente, denominata “Q” che si occupa di casi irrisolti. A Carl si associano un profugo di origine araba, Assad, ed una segretaria tuttofare molto punk Rose Knudsen. Carl ha anche una vita privata incasinata: un figlio, Jesper, in crisi adolescenziale, una ex-moglie, Vigga, che non lo vuole lasciare, ed un innamoramento verso Mona, la psicologa che lo ha seguito nel percorso di riabilitazione dopo l’episodio iniziale della serie.

Il nostro autore, sull’onda dei volumi zeppi di avvenimenti della tradizione del giallo scandinavo e seguendo in parte l’onda dei “procedural thriller” americani, riempie il romanzo di molte attività ed inchieste, pur seguendo il profilo centrale delle inchieste. Noi seguiremo solo il filone centrale, essendo il resto un modo di rendere partecipe il lettore del clima dell’azione stessa. Lasciando ai lettori il piacere di immergersi nell’atmosfera del Nord Europa (anche se tecnicamente la Danimarca non è Scandinavia).

Il filone principale è un “cold case” che arriva a Carl tramite una bottiglia rinvenuta in Scozia e recapitata ai nostri solo dopo molti anni. La bottiglia era stata fatta scivolare in mare da un ragazzo danese, tenuto prigioniero insieme al fratello da un fanatico serial killer. Dalle poche parole che si riescono a comprendere, l’azione relativa alla bottiglia si era svolta tredici anni prima della storia che siamo seguendo.

Ben presto conosciamo questo serial killer. Nasce in una famiglia devota ad una delle tante sette presenti nel Nord, succube di un padre violento. Il nostro si ribella ma senza successo, finché, in una sera di tragedia, lanciando una bottiglia di soda caustica, rende cieca sua sorella ed il padre ha un infarto e muore. Da lì nasce il suo odio per le sette religiose ed il tentativo di vendicarsi su tutte queste deviazioni religiose. Il modo che trova è ingegnosamente perverso.

Studia le sette, ne individua particolarmente chiusa, ed al suo interno una famiglia possibilmente facoltosa e numerosa. Rapisce due figli, ricatta la famiglia, intasca il riscatto, poi libera un figlio ed uccide l’altro, creando nella famiglia stessa un clima di terrore che non consente ai superstiti nessuna strada di ribellione. Jussi ha buon modo, nelle more, di lanciare strali sulla grettezza di queste sette, sulla pericolosità della loro chiusura al mondo.

Il killer (di cui non sapremo mai il vero nome) accumula beni e denaro, e parallelamente si costruisce anche una famiglia normale, sposando Mia e mettendo al mondo il piccolo Benjamin. Rallenta molto le sue attività, ma tracolli finanziari lo costringono a riprendere i suoi ricatti. Così lo vediamo entrare in contatto con i “Servi di Maria di Dio”, individuare la famiglia, e rapire i due figli. Commette solo un errore, per entrare nel giro si accompagna con Isabel, una ragazza, che si rivelerà un osso duro quando la lascia senza motivo.

Isabel capisce le sue mosse, e si mette in contatto con la famiglia, cercando di dare scacco al killer. Anche Mia si ribella, ma viene scoperta, messa quasi in condizione di non nuocere, e portando il piccolo Benjamin da Eva, la sorella cieca.

In tutto ciò non ci scordiamo di Carl, che partendo dal messaggio nella bottiglia, dalla data, e dalla firma (il titolo originale dice infatti “Messaggio in bottiglia da P”), trovando la famiglia di quel rapimento e ricostruendone la storia. Piccoli elementi (sangue, carta, legno, lische di pesce) portano la squadra Q a restringere il campo delle ricerche del luogo dove vengono tenuti i prigionieri, anche se non sa che ce ne sono due nuovi.

L’incontro con Isabel farà collassare le informazioni, portando Carl a trovare il luogo ed inscenare una lotta senza esclusione di colpi con il killer. Chi si salverà? E si salveranno i rapiti? Che fine faranno i genitori dei due che si erano votati all’azione ed all’aiuto di Isabel? Si salverà Mia? Verrà ritrovato Benjamin?

Tanti gli interrogativi che la lunga sequenza finale porterà tutti alla conclusione che vi lascio scoprire se vi va. Restando che, nonostante la lunghezza, è comunque un buon thriller. Certo, alcuni passaggi sono un po’ lenti, ma tuttavia efficaci. E certo, non tutti i personaggi sono tratteggiati con uguale maestria. Ma di certo Carl risulta simpatico ed empatico, come i suoi aiutanti, ed una serie di personaggi di contorno.

La bravura di Jussi sta anche nel tratteggiare il killer non come uno psicopatico facilmente riconoscibile, ma come una persona con un grande autocontrollo, ma che potrebbe essere (quasi) un uomo qualunque. Jussi si concentra sulla psicologia di tutti i personaggi (e non a caso uno dei personaggi è proprio una psicologa). Pur spaziando nella cattiveria e nella crudeltà, e spezzando lance molto forti contro il fanatismo religioso, Jussi ci ricorda che nessuno “nasce con il marchio di Caino sulla fronte”. Le situazioni, e le scelte, creano i mostri.

Ho messo le virgolette perché mi rifaccio a quanto di poco noto segue la vicenda di Caino dopo che uccide il fratello Abele. Leggetene altrove la storia, molto interessante, e a mio dire poco divulgata.

Un buon thriller, infondo.

Jussi Adler-Olsen “Paziente 64” Feltrinelli euro 12

[A: 22/03/2021 – I: 03/10/2024 – T: 05/10/2024] - &&&---

[tit. or.: Journal 64; ling. or.: danese; pagine: 522; anno 2010]

Eccoci giunti, attraverso i libri del danese Jussi Adler-Olsen, al quarto volume della sua scrittura seriale, intitolata: “I casi della Sezione Q”, dove la sezione in questione è un dipartimento di polizia dedicato alla risoluzione di “cold case”.

Jussi, con la sua preparazione medica pregressa, ed una discreta capacità affabulatoria, riesce sempre ad imbastire situazioni intriganti, che hanno anche il pregio di sollevare alcuni dubbi sul perbenismo avvolgente della società pubblica danese.

Ricordiamo brevemente i protagonisti della Sezione. Il responsabile è Carl Mørck, che dopo uno sfortunato caso, in cui rischia di venir ucciso, viene dirottato in questa sezione, dove, nonostante una non completa riabilitazione, può esercitare le sue notevoli doti deduttive. Ha una vita privata complicata che comprende una moglie divorziata che vuole sposare un indiano, un figlio che vuole tornare a vivere con lui, una nuova relazione con la psicologa Mona, nonché un collega tetraplegico che decide di tenersi in casa.

La sezione comprende anche Assad, un profugo siriano che nasconde qualcosa (non sappiamo ancora cosa), ma che di sicuro ha contatti con ambienti non ortodossi, e la segretaria Rose, che non si capisce ancora se sia molto intelligente o schizofrenica (sembra un paradosso, ma leggetene e capirete cosa intendo).

Come tutte le storie abbastanza “procedural thriller”, l’autore ci fa seguire diversi filoni di indagini, che si sovrappongono e si intersecano nel tempo. Poiché a noi interessa il discorso centrale, ci occuperemo soltanto di questa che riporta il discorso su di un paziente che tiene un diario (benché anonimo). Il “Diario 64” appunto.

Lo spunto nasce dal fatto che, per distogliere Carl da vicende che stavano incartando la sua sensibilità, Rose propone di occuparsi della scomparsa di una prostituta (forse drogata) Rita Nielsen. Appena cominciano ad approfondire il caso, i nostri bravi poliziotti scoprono che, nello stesso giorno della scomparsa di Rita, nella capitale sono avvenute altre quattro sparizioni, non tutte denunciate per mancanza di parenti prossimi. Si tratta di Tage Hermansen, Gitte Charles, Viggo Mogensen e Philip Nørwig.

Indagando sulle cinque persone scomparse, cominciano a comparire dei possibili segni di convergenza. Philip era un avvocato che spesso aveva difesa il ginecologo Curt Wad da accuse di sterilizzazioni ed aborti forzati. Gitte era stata un infermiera in una struttura, la Kellerske Anstalter (su cui torneremo) nel tempo in cui ne era responsabile Wad. Struttura dove Viggo era un guardiano e Rita una paziente psichiatrica. Rimane per lungo tempo fuori Tage, fino a che non si scopre che era il cugino di Nete, una donna a sua volta paziente nella struttura sopracitata, e stranamente l’unica ancora in vita insieme a Curt.

Come in tutti i romanzi seriali che seguono più storie, Jussi ci delizia andando su e giù tra i vari personaggi, ma alla fine la nostra attenzione è focalizzata su Curt e Nete. Curt Wad ora ottantenne e non più medico operante, è diventato il capo di una fazione di destra estrema che tenta di farsi spazio nel panorama politico danese. Una formazione che in danese si chiama “klare grænser”, cioè “Confini chiari”, intendendo i confini come limiti territoriali e morali. Cioè un gruppo che vuole impedire l’immigrazione e dedicarsi all’eugenetica in modo anche drastico, magari (esempio, ma potrei continuare a lungo) sterilizzando le prostitute. Purtroppo, la traduzione italiana fa perdere un po’ questa stortura, traducendo il nome del gruppo come “Linee Pure”.

Non solo ma il gruppo ha al suo interno un “Nucleo d’acciaio” votato alle azioni estreme per mantenere puliti i confini di cui sopra, dal nome “Den Hemmelige Kamp”, cioè “Lotta segreta”.

L’altra parte della storia ci fa seguire la vita di Nete, da sempre ribelle, poi violentata e messa in cinta, e per questo rinchiusa nel Kellerske Anstalter di cui sopra, dove conosce la prostituta Rita, da cui subisce una sorta di tradimento, l’infermiera Gitte, di cui si innamora, ed il guardiano Viggo, che di nuovo la violenta. E finisce nelle mani di Curt, che la fa abortire, e le asporta l’utero.

Seguiamo altre storie della vita di Nete, che tralascio per non entrare troppo nella trama. Fatto sta, che, ad un certo punto, divenuta più forte psicologicamente, decide di invitare tutti i suoi carnefici ad un pranzo. Vengono tutti, meno Curt. Non torna indietro nessuno, o forse sì.

Attraverso le ricerche correlate a queste sparizioni, la nostra Sezione Q, utilizzando gli scritti nel diario di una paziente di cui non voglio dire il nome, ed indicata con il numero 64, non solo trova la soluzione alle sparizioni, ma trova anche le prove per incriminare e fermare il tentativo quasi golpista di Curt Wad.

La scrittura, benché al solito troppo saltellante tra passato e presente, e tra i vari personaggi, si mantiene abbastanza gradevole. Un solo neo, è che ci si aspetta che i componenti della sezione vengano resi con maggior risalto, mentre, soprattutto Carl, ha degli alti e bassi che ancora non mi spiego. Forse usciranno meglio in altre prove, se saranno lette.

Finisco con riprendere il discorso sulla Kellerske Anstalter, il più grande complesso per disabili esistente in Danimarca con sede centrale a Brejning, soprattutto per sordi, e sedi decentrate sulle isole di Livø (per gli antisociali maschili) e Sprogø (per quelli femminili). In quella femminile furono effettuate sterilizzazioni forzate tra il 1923 ed il 1961, senza che, tuttora, il governo danese abbia risarcito le vittime. Come ci dice lo stesso Jussi, ora si dibatte se deportare su un’isola i criminali, gli stranieri clandestini ed altri emarginati. Ebbene in questo libro lui dice ai danesi: lo abbiamo già fatto, ed abbiamo causato tanto male.

Non ho altre parole, ma, seppur la trama gialla non è sempre all’altezza, basta questo a far sì che questo libro abbia ragione di esistere.

Margaret Doody “Aristotele e la Montagna d’Oro” Sellerio euro 16 (in realtà, scontato a 15,20 euro)

[A: 05/07/2021– I: 21/11/2024 – T: 23/11/2024] - & e ½    

[tit. or.: Aristotle and the Mountain of Gold; ling. or.: inglese; pagine: 484; anno 2021]

Margaret Doody con questo dodicesimo libro credo metta un punto quasi finale alla lunga storia del suo rapporto con Aristotele. Un rapporto iniziato con un veloce libretto, quasi un divertimento intellettuale (“Aristotele detective”) scritto nel 1979, dove aveva l’agio di mostrare il filosofo che, usando la ragione per perseguire il bene, trova il modo di risolvere un piccolo giallo. Un libro scritto in un’epoca in cui i “thriller storici” non erano ancora di moda.

Ed in effetti, il libro non ebbe grande risonanza. Ci è voluta la lungimiranza della casa editrice Sellerio che lo pubblica verso la fine del secolo. Una pubblicazione che riscuote un discreto successo in Italia, tanto che sono proprio i Sellerio a chiedere se la scrittrice canadese avesse già o avesse intenzione di continuare gli episodi. Visto che stava avvicinandosi la pensione, Margaret ci prova, e sforna nel corso degli ultimi venti anni una decina di romanzi (circa uno ogni due anni).

Devo però dire che, con l’andare del tempo, la scrittura, pur rimanendo di livello, si appesantisce nei contorni. Il thriller rimane, ma spesso sono abbastanza poco incisivi e se ne intuisce presto lo svolgimento. Mentre aumenta il peso prima delle considerazioni filosofiche, e poi anche di quelle storiche. Così come ben vediamo in quest’ultimo libro.

Intanto, rispetto alla cronologia delle pubblicazioni, dopo che nel precedente scritto la scrittrice aveva fatto un passo indietro temporale per dar modo di descrivere una situazione di un certo interesse anche filosofico, qui si riprende il corso del tempo proseguendo quindi direttamente dal penultimo libro, che ricordo finiva con la morte di Alessandro Magno. Siamo quindi nel 323 a.C., con Aristotele che si avvia verso i sessantadue anni.

Sappiamo, e Doody ben ne accenna, che dopo la morte del Grande ci furono molte turbolenze in tutta l’area che costituiva l’Impero Macedone. Tra i primi a sobillarsi furono proprio gli Ateniesi che pensarono bene di inscenare una grande faida antimacedone, decidendo di esiliare o di costringere alla fuga tutti i residenti in Atene che non fossero “ateniesi” puri. Quindi uno dei primi ad essere colpito è proprio Aristotele che si vede costretto a chiudere la sua scuola filosofica, il Liceo, e poi (ma questo avverrà dopo la fine del romanzo) a riparare a Calcide poco a nord della capitale. Città dove l’anno seguente muore pare per una malattia allo stomaco (anche se esistono versioni romanzate che non ci interessa approfondire).

Ma tra la chiusura del Liceo e la fuga verso Calcide, si collocano gli avvenimenti di questo libro. Che, nella parte di indagine, affronta il possibile mistero della tomba di Alessandro. Una volta morto, una fazione imperiale lo voleva in Macedonia, ma il faraone egiziano Tolomeo ruba la salma per seppellirla nella città fondata dal grande, Alessandria d’Egitto. Gli stessi macedoni, intanto, nella città di Filippi costruiscono un mausoleo dove riporre le ceneri di Efestione, il grande amore di Alessandro. Lì, a Filippi (ora Kavala) c’era anche una fornitissima miniera d’oro, fonte di molti dei tesori del re.

Ed a Filippi e dintorni si intrecciano i destini delle varie fazioni. C’è chi vuole rubare (o ha rubato) il vero corpo di Alessandro, una fazione che si divide in due: chi vuole seppellirlo nel tumulo dell’amato chi vuole restituirlo a Tolomeo. Una seconda fazione che a sua volta si scinde con una costola che vuole sostituire il corpo con un altro morto e, restituito il falso feretro agli egiziani, sbugiardarli prendendosi una rivincita e scatenando una nuova guerra.

Aristotele-Holmes e Stefanos-Watson vengono coinvolti con la promessa di ricompense in oro per i loro servigi ad Alessandro. Ma è solo una mossa per coinvolgerli nella scatola cinese delle macchinazioni. Che ovviamente portano ad una serie di morti, dell’una e dell’altra fazione, con lo stesso Aristotele più volte a rischio come capro espiatorio di contese altrui.

Questa, che poi è la parte preponderante del testo, è realmente un po’ lunga e lenta, non si fa una chiara luce sulle fazioni in gioco, si mescola molto, purtroppo senza trovare il modo di coinvolgere intellettualmente il lettore. Aristotele mostra la solita razionalità arrivando alla descrizione dei contorni di tutti i complotti nell’ultimo quinto del libro. Stefanos mostra la consueta abilità sia di cacciarsi nei guai sì di prendere contatto con diverse delle parti in causa e, eloquio del filosofo permettendo, trovando il modo di far fare ad ognuno il giusto mestiere.

Credo sia lungo e complicato seguire i nomi dei personaggi, le giravolte delle persone, e tutta la trama. Lungo e forse poco utile, e di certo poco coinvolgente. Rimangono un paio di discussioni filosofiche dei nostri intorno al significato del “corpo” di un defunto dopo che questi sia passato a miglior vita. Con Aristotele che razionalmente sostiene l’uso del corpo solo per le persone in vita. Dopo la morte le spoglie della carne sono “non-vitali” essendo venuto meno a mancare il soffio intellettivo che ne faceva qualcosa di unico. Questa, forse, l’unica parte un minimo degna di essere approfondita.

Rimane invece molto sterile e defatigante tutta la serie di rimandi che durante la narrazione vengono fatti a situazioni e personaggi presenti nel primi dieci romanzi. Filologicamente giusto, ma narrativamente inconcludente.

L’unico altro accenno, ma questo stimolante solo per me ed i miei, è l’imbarco dei protagonisti su di una nave dallo splendido nome di “Argo”. Che di certo a noi rimanda al cane di Ulisse, alla nave di Giasone, via via sino al nostro cane, ma che era un nome molto usato per le navi greche dell’antichità, venendo infatti dal greco “αργός” che porta con sé connotati legati alla velocità.

Comunque, la nostra scrittrice ormai ha raggiunto gli 85 anni, e giustamente sono tre anni che null’altro viene prodotto. Infatti, dopo che Aristotele alla fine di questo libro torna verso Atene con l’oro ottenuto per i suoi servigi, e da lì, con la famiglia, si rifugia nell’Eubea, passerà meno di un anno prima che lo colga la morte. E non credo si riesca a trovare materiale utile per trame giallo-filosofiche.

Un saluto allora a Doody, in ricordo del complesso della sua opera.

“Un aiuto può mancare proprio quando se ne ha più bisogno.” (19)

“Tu sei ancora così giovane, non puoi immaginare cosa si provi ad aver superato i sessant’anni.” (62) [vogliamo parlarne?]

Essendo la prima trama completa del nuovo anno, inseriamo le letture del mese di ottobre 2024. Diciassette titoli, guidati da quello che resta il TOP READ dell’anno, il Dizionario giallo di Pierre Lemaitre. Seguito a poca distanza da tre buoni gialli (Dennis Lehane, Gaetano Savatteri e Alessandro Robecchi) e da un buon premio Pulitzer (Hernan Diaz). In fondo alla scala, i due libri illeggibili di Rino Cammilleri.

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Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Rino Cammilleri

Nuovi delitti nella camera chiusa

Mondadori

6,50

1

2

Dennis Lehane

Buio prendimi per mano

Repubblica Brivido Noir

8,90

3,5

3

Jussi Adler-Olsen

Paziente 64

Marsilio UEF

12

3

4

Nico Orengo

Di viole e liquirizia

Repubblica Montagna

9,90

2,5

5

Anne Perry

Tre volte colpevole

Mondadori

5,90

2,5

6

Louise Penny

Il regno delle ombre

Repubblica Brivido Noir

8,90

3

7

Francesco Guccini & Loriano Macchiavelli

La pioggia fa sul serio

Repubblica Noir

8,90

2,5

8

Hernan Diaz

Trust

Feltrinelli

22

3,5

9

Anna Holt

La tormenta

Repubblica Anima Noir

8,90

2

10

Pierre Lemaitre

Dizionario amoroso del giallo

Mondadori

18

4,5

11

Rino Cammilleri

I misteri della camera chiusa

Mondadori

6,50

1

12

Gaetano Savatteri

La Magna Via

Sellerio

15

3,5

13

Haruki Murakami

L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio

Corriere

8,90

4

14

Arnaldur Indriðason

In silenzio si uccide

Repubblica Profondo Noir

8,90

3

15

Alessandro Robecchi

Le verità spezzate

Rizzoli

16

3,5

16

Paolo Forcellini

Vipere a San Marco

Marsilio

15

2

17

Abraham Verghese

La porta delle lacrime

Neri Pozza

22

3

 

Visto cha abbiamo avuto una densa trama gialla, vi propongo alcune brevi annotazioni sul viaggio estratte da un libro di un grande antropologo, Marco Aime. Nel suo “Eccessi di cultura” mi rimangono due citazioni di citazioni di due grandi viaggiatori:

“Thor Heyerdhal: Le frontiere? Esistono eccome. Nei miei viaggi ne ho incontrate molte e stanno tutte nella mente degli uomini” (6)

“Amadou Hampaté Ba: Il sapere è l’unica ricchezza che si può donare interamente senza che diminuisca” (127)

Ed una considerazione antropologica che invierei a tutti i Salvini di questo mondo:

“- Siamo tutti uguali – In questo modo si legittima l’altro solo perché è uguale a noi, non perché è diverso e come tale va rispettato” (61)

Non vi tratterò ancora a lungo, che questa prima trama è molto densa di commenti sui gialli scandinavi. Dove per ora non torniamo, visto che abbiamo deciso di dirigere le mete di questo 45 quadrato verso il Sud America piuttosto che verso Europa ed Asia. Vi terrò aggiornati, mentre continuo ad augurarvi un sereno anno, vi avvolgo in un abbraccio.