domenica 12 maggio 2024

Ancora sul nero giapponese - 12 maggio 2024

Ne avevo parlato un paio circa di settimane fa, ed ora ci torno su, approfittando del passaggio di letture tra il capostipite del giallo giapponese, Edogawa Ranpo, al più noto e variegato Jun’ichiro Tanizaki, con alcuni racconti “neri” degli anni Venti di pregevole fatture, ed un buon romanzo sempre di quegli anni. Per poi venire nel nostro secolo con due prove di diversa riuscito di uno degli epigoni del nero giapponese, Yoshida Shuichi.

Seppur molto legata alla cultura locale, e spesso non facilmente interpretabile in occidente, grazie anche alle ottime traduzioni, abbiamo un buon panorama di letture che ci portano vicino una cultura lontana.

Jun’ichiro Tanizaki “Racconti del crimine Volume 1” Capolavori Giapponesi 7 euro 8,90

[A: 22/03/2023 – I: 04/11/2023 – T: 05/11/2023] - &&&      

[tit. or.: originale (antologia italiana di testi giapponesi); ling. or.: giapponese; pagine: 237; anno 2019]

È ben noto, Jun’ichiro Tanizaki, per i suoi scritti molto intrisi di erotismo (come “La chiave” portato poi sugli schermi da Tinto Brass). In realtà fu molto altro, e non dico meglio (non ne ho le capacità) ma di sicuro a più ampio spettro, spaziando su tutti i generi, sino ad arrivare ad una letteratura composita, ma innegabilmente personale. Opere storiche, autobiografiche, poliziesche, ed ovviamente erotiche. Tanto che per sette volte, dal 1958 all’anno della sua morte nel 1965, fu candidato al Premio Nobel, senza riuscire però mai a vincerlo.

Io ne ho collezionato un paio di libri che vengono inseriti, a torto o a ragione, nel filone “giallo”, anche se si tratta più che altro di indagini, introspezioni, momenti narrativi, in cui sono inseriti “crimini”, come dice anche questo titolo antologico. Tanizaki, infatti, dopo un primo periodo di scrittura in maniera tradizionale, dagli anni ’10 dello scorso secolo viene sempre più influenzato dalla cultura occidentale, cui era venuto in contatto. Tanto che molti sui libri, da quel periodo in poi, vertono proprio sulla dicotomia tra le due culture, mostrandone le inevitabili ed insormontabili fratture.

È in quel periodo che diventa un assiduo lettore di Edgar Allan Poe, e di alcuni suoi epigoni. Così che non ci si meraviglia che molti racconti del periodo vengano a trattare argomenti simili o assimilabili a quelli del grande maestro americano.

Qui, prima l’editore Marsilio poi l’editrice GEDI per Repubblica, propongono una antologia di sei racconti (cinque brevi ed uno lungo) in un accostamento che non è presente nella bibliografia del maestro giapponese. Motivo per cui non abbiamo in alto il titolo originale, e motivo anche che indico la prima comparsa sul mercato. Anche se poi i racconti spaziano nella scrittura dal 1918 al 1926, per cui ne ho inserita la lettura prima di altre opere dello stesso Tanizaki. Inoltre, ho preferito leggerne in ordine cronologico di scrittura (dopo una assidua ricerca in rete) e non secondo lo scadenziario proposto dall’editore. E con lo stesso andamento ne vado brevemente ad illustrare qualche punto saliente.

Cronologicamente quindi cominciamo con Il caso ai bagni Yanagi (Yanagiyu no jiken 柳湯の事件 1918). Come spesso in Tanizaki, c’è uno scrittore che narra la storia. Mentre era presso un suo amico avvocato, irrompe un giovane, stravolto, che racconta la strana storia della sua ossessione per una donna. Racconto molto onirico, dove compaiono gli accenni alla Poe indicati: capelli di donna che avvolgono i piedi del giovane mentre si lava nella vasca dei bagni Yanagi. Alla fine del racconto, il giovane viene arrestato, ma è un assassino? E nel caso chi è il morto?

Meglio articolato è Per la strada (Tojō 途上 1920) considerato uno dei maggiori esempi di giallo “alla giapponese”. Un uomo viene avvicinato per la strada da un detective che gli illustra come sia possibile che l’uomo abbia organizzato e poi realizzato l’omicidio della prima moglie. Anche qui, si arriva sempre alla domanda finale: racconto fantastico o descrizione realistica di fatti avvenuti?

L’anno successivo scrive altri due racconti: Io (Watashi 1921) e Uno stralcio di verbale – Dialogo (Aru chōso no issetsu – Taiwa ある調書の一節 1921). Nel primo, un uomo racconto un episodio della sua gioventù: da studente avvengono furti nel collegio. È forse lui il ladro? Nel caso, come mantenere un rapporto sereno con i suoi amici? Nel secondo, come dice il titolo, c’è il lungo interrogatorio di una persona accusata di un delitto. Un bellissimo scontro verbale tra l’accusato ed il poliziotto.

Meno coinvolgente ho trovato Il movente di un delitto (Aru tsumi no dōki ある 1922) dove c’è un omicidio avvenuto, un colpevole confesso e la polizia che cerca di risalire ai motivi del gesto. Un andamento troppo orientale nella trama, che resta fredda.

Per ultimo ho letto il primo e più lungo testo Storia di Tomoda e Matsunaga (Tomoda to Matsunaga no hanashi 友田と松永の話 1926). Anche qui abbiamo uno scrittore narratore che viene contattato da una sua ammiratrice. Suo marito, Matsunaga, scompare e ricompare ogni quattro anni. È un uomo schivo e gracile, ma dentro una borsa ha una cartolina inviata dallo scrittore a un tal Tomoda. Perché? Lo scrittore indaga, e scopre che anche Tomoda appare e scompare ogni quattro anni, ma Tomoda è grasso, alcolizzato e gestore di un bordello a Tokyo. Un caso che deve molto a Stevenson o c’è una diversa soluzione?

Non sono di certo i classici gialli, non c’è indagine. Inoltre, nella maggior parte dei casi la narrazione vede al centro il criminale stesso, attraverso di cui Tanizaki cerca di spiegarci i meccanismi che sovraintendono le azioni criminali. È un sottile gioco letterario che sapientemente usa un genere per parlare di tutto.

Di certo, non è facile per noi occidentali entrare in tutti i meccanismi che l’autore ci propone. Per fortuna c’è una buona introduzione della curatrice Luisa Bienati, che consiglio di leggere dopo i racconti, quasi a farsene una nuova tappa mentale. Non sono un esperto, ma fonti autorevoli mi dicono che anche le traduzioni sono di buon livello. Io sottolineo solo che ho anche imparato l’italiano, dove nel secondo racconto al protagonista risulta gradita “l’illuvie del mio corpo”. Grande mistero!

 Forse, poi, chi ha visitato il Giappone può avere qualche elemento i più. Come personalmente quando l’autore mi parla dei luoghi dove si svolgono le vicende: Ueno, Shinjuku, Asakusa. Bisognerà tornarci ancora.

Jun’ichiro Tanizaki “Nero su bianco” Giappone, crimini e misteri 9 euro 8,90

[A: 13/12/2022 – I: 25/11/2023 – T: 27/11/2023] - &&&      

[tit. or.: 黒白 - Kokubyaku; ling. or.: giapponese; pagine: 265; anno 1928]

Secondo libro di Tanizaki che leggo nel quadro di quella parte delle sue opere genericamente iscritte nell’ambito del “giallo psicologico”. In realtà, anche se c’è una parte vagamente gialla, è di sicuro un romanzo psicologico, che tiene sospeso il lettore nell’attesa che si sveli l’esatta natura della mente del protagonista. Ma non si riuscirebbe ad inquadrare il libro e la scrittura dell’autore se non facendo riferimento all’ambiente letterario degli anni Venti in Giappone.

Il dibattito all’epoca tra gli scrittori di rango era una diatriba tra due termini di definizione dell’ambito letterario. Da una parte si andava definendo il modo esplicito dello “shishōsetsu”, il romanzo-confessione, uno dei generi più praticati in Giappone. Una narrazione in prima persona di quanto avvenga al protagonista, quasi, appunto, a farne una pubblica confessione. Dall’altra, i generi meno canonici, come lo “hanzai mono” (traducibile come racconto del crimine), dove invece si parla della realtà (o di quella che viene considerata vita quotidiana), magari sostituendo “hanzai mono” con “mainichi mono” (romanzi della vita di ogni giorno).

Tanizaki entra a gamba tesa nel contesto letterario, mescolandoli, facendo anche della confessione un possibile elemento criminale. Come in questo caso, dove fin dal titolo gioco sull’ambiguità, laddove 告白 – Kokuhaku che vuol dire confessione si trasforma nel quasi omofono 黒白 – Kokubyaku (appunto il titolo “Nero su bianco”). Titolo che ridonda sia il tema della confessione (scrivere nero su bianco), sia la scrittura stessa, dove i giapponesi scrivevano all’epoca con pennarelli di spazzola fine con inchiostro nero su foglio bianchi.

Dato, appunto, che oltre alla componente gialla, a quella psicologica, il romanzo è incentrato sulle vicende che succedono ad uno scrittore.

La domanda interiore che Tanizaki si pone scrivendo il romanzo è quanto la scrittura della finzione sia, possa essere un avvenimento che accade nella realtà. In questo gioco di specchi multipli, seguiamo quindi la vicenda dello scrittore Mizuno. Uno scrittore di una antipatia unica, a me lettore, esponente di quella che viene chiamata all’epoca “akumashugi” (diabolismo), con il quale si indica appunto uno scrittore dedito a trame nere ed intricate (diaboliche).

Una corrente cui era stato spesso accomunato lo stesso Tanizaki nelle opere giovanili, dove si intrecciano trame paranoiche di uno scrittore nevrotico mescolate con le sue avventure sessuali. Abbiamo, infatti, Mizuno che ha appena finito di scrivere un racconto dal titolo “Fino ad uccidere un uomo”, dove immagina i percorsi mentali di un assassino alle prese con l’idea di compiere un delitto senza scopo ma soprattutto senza essere scoperto.

Mizuno costruisce un’intrigante trama, commettendo tuttavia una svista: nelle ultime pagine del racconto, invece del nome di fantasia, usa quello reale del personaggio che lo ha ispirato. Un redattore di riviste, con cui si è spesso incontrato casualmente, e che trova decisamente sgradevole. Ma la svista lo butta nel panico: e se qualcuno, seguendo la sua trama, realmente uccidesse Kojima?

Mizuno è scapestrato, inaffidabile, non si tira indietro nel tentativo di sfruttare gli altri per il proprio tornaconto personale, ma quel tarlo del nome sbagliato lo porta anche ad un parossismo di paranoia. Così, capitolo dopo capitolo, assistiamo alla sua discesa verso la confusione totale. Ne vediamo (ed in lui vediamo il riflesso di Tanizaki) le ossessioni erotiche, l’amore per il cinema, il voyeurismo, nonché l’attrazione per una femme fatale.

Avendo descritto un delitto che potrebbe avvenire il 25 novembre, giorno di plenilunio, cerca di trovarsi un alibi per quel giorno e lo fa imbattendosi in una donna molto occidentalizzata, una che, nel gergo dell’epoca, viene definita “modan garu”, nome derivante dalla pronuncia giapponese di “modern girl” (una ragazza che seguiva la moda ed i comportamenti mutuati dalle donne occidentali). Peccato che sia tanto fatale da essere introvabile quando serve a Mizuno.

Peccato anche che, proprio nella data indicata, qualcuno uccide realmente Kojima.

È con grande apprezzamento di stile che seguiamo i tormenti di Mizuno, che riempiono le pagine di teorie, di deduzioni, di analisi sbagliate, il tutto nella mente di questo scrittore totalmente egocentrico, ed anche totalmente incapace di rapportarsi e di comprendere la realtà che lo circonda. Tipica la descrizione del casuale incontro con la sua ex-moglie.

Ma a Tanizaki non interessa risolvere il dramma, non ha senso per lui sapere chi ha ucciso Kojima, né se l’ispettore Watanabe riuscirà a far cadere in contraddizione Mizuno, né se Mizuno stesso sia o meno colpevole. Il percorso di Tanizaki è mostrarci la psicologia di Mizuno ed il suo evolversi (o involversi) verso un finale che non è detto sia all’interno del romanzo stesso. Non è questo l’importante. Quello che interessa è descrivere un mondo.

Una descrizione che serve anche, di passaggio, a fare un discorso sulla letteratura, sul modo di scrivere, sui rapporti tra gli scrittori e tra questi ed i lor editori. Non si tira indietro lo scrittore nel portare avanti critiche e recriminazioni, in un caleidoscopio di scatole cinesi intrecciate. Un bell’esercizio di fantasia e di scrittura.

Tuttavia, e questa è la domanda finale, dove finisce la fantasia? Dove finisce (o dove inizia) la realtà? Un romanzo inventato che descrive un delitto inventato dove, nel romanzo, avviene un delitto descritto nell’invenzione. Magistrale.

Jun’ichiro Tanizaki “Racconti del crimine Volume 2” Capolavori Giapponesi 33 euro 8,90

[A: 13/12/2023 – I: 09/01/2024 – T: 12/01/2024] - && +      

[tit. or.: originale (antologia italiana di testi giapponesi); ling. or.: giapponese; pagine: 263; anno 2020]

Eccoci allora ad un altro e forse per il momento ultimo scritto del grande Tanizaki che analizziamo per le nostre trame. È la prosecuzione di quel primo volume di “Racconti del crimine” di cui ho parlato poco sopra. Non ritorno quindi sulla figura di Tanizaki, né sull’impianto di questi volumi. Anche perché se nel primo c’erano, anche, momenti di ricerca poliziesca mutuati di esempi occidentali, qui l’autore ci mostra crimini, cioè devianze, dall’ordinario senza che ci sia una vera e propria “crime story”.

Anche qui, per il mio gusto personale, ne parlo in ordine cronologico che spesso non coincide con l’ordine di presentazione nel volume. E sempre per la mia sensibilità, devo dire che, globalmente non mi hanno coinvolto granché, pur riconoscendone la bellezza stilistica.

Il primo racconto Il segreto (Himitsu - 秘密 1911) è uno dei primi in assoluto che scrive l’autore. Delicatamente, all’inizio, ci inserisce nei tormenti di un uomo che, non riuscendo a trovare stimoli nella propria vita, comincia a travestirsi da donna. Con sempre maggior successo e spensieratezza, per girare nel quartiere e divertirsi. Così travestito incontra una donna che aveva conosciuto anni prima, e comincia con lei un gioco erotico di incontri e di nascondigli. Quando, per un eccesso di stimoli, decide di scoprire il segreto della donna, perde il senso del mistero e si dedica a cercare altri piaceri.

Alcuni anni dopo, sul finire della Prima Guerra mondiale, esce Un tumore dal volto umano (Jinmenso - 房の髪 1918). Un racconto tutto pervaso dall’attenzione verso la nuova arte che comincia a stravolgere il mondo dello spettacolo: il cinema. È un racconto a più piani, con una struttura che piacerà senza dubbio a mio cugino Alessandro: cinema nel cinema nella letteratura, con abbondanza di “close-up”, di avvicinamenti progressivi all’immagine descritta. Il testo narra di una attrice che scopre un suo film che non ricordava aver girato, che lo vede assistita da un proiezionista in un rapporto uno a uno tra lei ed il film stesso.

Il misterioso film narra di una cortigiana che, ingannando un mendicante, ne subisce la maledizione. Il mendicante si incarna nel ginocchio della donna in forma di tumore, ne stravolge la vita sociale, diventando sempre più somigliante ad ogni “caduta” della donna. Fino a che lei uccide il suo amante e si suicida, e contemporaneamente il tumore prende definitivamente i lineamenti del mendicante. Ma non è solo il narrato del film che interessa Tanizaki, quanto esplorare le risposte emotive del pubblico che guarda il film: la faccia malefica diventa un incubo che provoca incubi agli spettatori. L’altro elemento che Tanizaki indaga è la reazione dell’attore che guardando in solitario il suo film, diventa sempre meno consapevole della sua presenza fisica.

Ci sono poi due quasi coevi racconti, che, in realtà, esplorano pur con modalità diverse, un segmento di realtà molto simile. Sono Il pregiudicato (Zenkamono - 前科者 1918) e Oro e argento (Kin to gin - 金と銀 1919). Infatti, in entrambi c’è il rapporto tra due artisti (o due amanti dell’arte), anche se sviluppato secondo direttrici differenti.

Nel primo c’è il rapporto tra artista e studioso. Il primo ha sempre bisogno di soldi, che usa spesso e volentieri per assoldare prostitute volte alla soddisfazione delle sue fantasie. È l’artista che assume il ruolo del narratore e racconta i raggiri che inventa per spillare soldi al suo mecenate, il Barone K. Il narratore ha una forte coscienza di sé, tanto da esordire dicendo: “Sono un pregiudicato. E sono anche un artista.”. Però tira troppo la corda, il Barone lo denuncia e verrà giudicato e condannato. Soprattutto perché è una frode per soldi, che se fosse per sesso, forse, avrebbe avuto altre soluzioni.

Nel secondo invece sono Aono e Ogawa i due artisti in competizione. Il secondo è manierista ed affermato. Il primo invece non è compreso, ma sembra avere un talento superiore, così come l’oro è superiore all’argento (da cui il titolo). Il testo sembra, pagina dopo pagine (d’altronde è anche il più lungo) immergersi in una atmosfera da “Delitto e Castigo”. Laddove la tensione scoppia quando entrambi utilizzano la modella Eiko, e Ogawa capisce a quel punto la superiorità di Aono. Da qui, tutto il tormento e le modalità di Ogawa per realizzare la morte di Aono, che seguiremo in tutti i suoi risvolti, anche imprevisti.

Per ultimo c’è il più tardo Un ciuffo di capelli (Hitofusa no kami - 房の髪 1926) dove ci trasferiamo a Yokohama (come fece anche Tanizaki) con l’azione che si svolge durante un evento molto significativo per i giapponesi: il terremoto del Kanto del 1923 (un sisma di magnitudine 7,9 che provocò quasi 150.000 vittime). Ma quello è solo il contesto, che l’attenzione di Tanizaki è sugli immigrati occidentali costretti a vivere in quella città (il resto del Giappone non era ancora aperto), spesso poco sopra la soglia della povertà. Non magari le signorine che usano il proprio corpo, come la protagonista Kalinka, una russa che tiene sul filo tre uomini. Dick il narratore è l’unico che si salva. Katinka ed i tre amanti sono a casa di lei quando scoppiano gli incendi a valle del terremoto. Lotte tra i tre, Dick colpito da un colpo di pistola, uno morto sotto le macerie ed il terzo che uccide Kalinka per non farla avere ad altri, e poi si uccide. A Dick rimarrà solo un ciuffo dei capelli rossi di Katinka.

Già ho parlato di molti dei temi criminosi che tocca Tanizaki, qui vorrei chiudere con poco altro. In molti di questi racconti c’è la vivida sensazione che l’autore ha letto, compreso ed amato molta letteratura occidentale (cenni a Poe ed epigoni polizieschi, con libri citati, anche se non capisco perché citati in inglese quando esistono anche in italiano, e poi passaggi verso Dostoevskij o Baudelaire). C’è una critica ai costumi artistici dei periodi nipponici denominati Meiji e Taishō (in pratica dal 1860 al 1920 circa), dove molti furono gli scandali sessuali con protagonisti scrittori.

Ma io, al solito, termino con un cenno geografico personale: soprattutto il primo racconto mi ha riportato a Tokyo. L’azione si svolge ad Asakusa, e spesso il protagonista si aggira intorno al grande tempio Sensoji nel distretto di Rokku. Un quartiere che agli inizi del secolo divenne la mecca della cultura popolare, e che ho sempre visitato con piacere nei miei tour giapponesi.

Yoshida Shuichi “Appartamento 401” Corriere euro 8,90

[A: 06/12/2022 – I: 28/02/2024 – T: 29/02/2024] - &&      

[tit. or.: パレード, Parēdo; ling. or.: giapponese; pagine: 229; anno 2002]

Yoshida Shuichi scrittore post-modernista giapponese, ha da sempre privilegiato un tipo di approccio trasversale alle sue scritture, tanto che risulta sempre difficile interpretare in modo unitario i suoi scritti. Cosa che non è detto sia un male, anche se poi, nei lanci dei suoi libri in giro per il mondo, spesso viene categorizzato laddove le categorie hanno poco senso.

Questo è il primo romanzo che gli ha dato gloria e lustro, sia per il romanzo in sé, sia per l’adattamento cinematografico che ne venne fatto alcuni anni dopo e che vinse il Premio della Critica al Festival di Berlino. Così che, relegato in una collana dedicata ai “neri giapponesi”, il mio giudizio ne risulta condizionato, una media pesata tra un quasi zero alla collana ed una sufficienza piena allo scritto ed alla scrittura, anche se non sempre l’autore riesce a coinvolgerci nella sua trama. Ne rimangono a tratti pezzi irrisolti, e situazioni che potevano essere portate a maggior chiarezza per il lettore.

Comunque, qui di mistero c’è poco o nulla, se non quanto potrebbe esserci nella vita di tutti i giorni di ognuno di noi. C’è un vicino di casa che accoglie strane persone nel suo appartamento, che forse è un bordello di lusso o forse tutt’altro. Ci sono donne che vengono ferite di notte, con più o meno violenza, potrebbe esserci un maniaco, o solo un ciclotimico disturbato. Niente che induca a paura, ad indagini o altre situazioni “noir”. Ma un racconto, uno spaccato di vita giapponese che illustra a buon titolo sia il modo locale di vivere, sia l’angoscia che i giovani nipponici non riescono ad esorcizzare.

Anche la forma è discreta, pur se riciclata da altri scritti in giro per il mondo. Abbiamo alcuni personaggi che narrano gli avvenimenti, in una sequenza temporale “a staffetta”. Inciso: guarda caso, un tipo di scrittura che ho incontrato poche letture fa, in un libro giallo italiano degli anni Trenta (“Il sette bello” di Varaldo). Personaggi che vivono in un condominio, ed in particolare nell’appartamento del titolo. Siamo nel quartiere di Setagaya a Tokyo, quartiere che confina con Meguro (famosa per il viale dei ciliegi) e Shibuya (quella del parco Yoyogi e di Harajuku noto per la sua moda eccentrica).

In un libro molto giapponese (e quindi a volte di difficile fruizione per chi sia abituato alle scritture anglo-americane imperanti) vediamo i quattro inquilini narrare la vita che scorre. E mentre ognuno parla, scopriamo una “zona cieca” in ognuno di loro. Per i pochi non adusi alla psicologia ricordo che mi riferisco alla “zona cieca di Johary”, uno schema psicologico che divide il nostro esistere in quattro quadranti: quello che gli altri sanno di me (area pubblica), quello che io so di me (area privata), quello che gli altri sanno e io non so (area cieca) e quello che non sappiamo né io né gli altri (area ignota).

Inizia a narrare Ryosuke, studente di 21 anni, poco riuscito negli studi e cameriere part-time; ha sempre l’angoscia di deludere i suoi genitori; è quello che ci introduce nella dinamica della casa, dove vivono i quattro. Due maschi (lui e Naoki) e due femmine (Mirai e Kotomi) nelle loro stanze da letto. Poi c’è il salotto dove si converge per stare insieme (e magari vedere la tv sempre accesa) e la cucina (di solito poco usata in Giappone, dove spesso si va a prendere qualcosa fuori da mangiare). Ryo nella parte privata ci dice di essersi innamorato della “donna di un amico suo”, relazione che tende a portare avanti con difficoltà, restando comunque “quello affidabile, quello che aiuta gli altri”, anche se non risolve i problemi. Soprattutto quello che cerca di smuovere la passività di Kotomi.

Kotomi ha invece 23 anni, aveva un discreto lavoro a Sapporo, ma si innamora di un compagno di gioventù, che segue a Tokyo. Lui diventa attore di serie tv, e lei resta tutto il giorno in casa a guardarlo in tv ed aspettare che lui le telefoni. È l’angelo del focolare, senza di cui la casa sarebbe un porcile invivibile. Rimarrà incinta del suo amore, e si dibatte se tenere o lasciare. È anche l’unica attenta a quanto succede intorno (l’altro appartamento, le strade di notte).

Lei lascia la parola a Mirai, 24 anni, disegnatrice e gestore di un negozio, ma soprattutto completamente dedita all’alcool, che in genere la porta ad ubriacarsi nei locali LGBT della capitale. Il suo lato privato è una cassetta che contiene tantissime scene di stupro riprese da tutti i maggiori film internazionali. Il suo lato alcolico, poi, la porta poi a condurre in casa Satoru, un giovane prostituto di 18 anni, che viene usato dall’autore come elemento per scardinare la quiete della casa.

Che vediamo Satoru entrare ed uscire, farsi di coca, farsi rimorchiare da uomini e donne, entrare in appartamenti non suoi (ma non da ladro, piuttosto da voyeur), e mettere in crisi la casa. Risveglia i sentimenti “da studente” di Ryo, si accompagna spesso a Koto, riuscendo a farla uscire dai suoi gusci, cancella parte della cassetta di Mirai, e farà comprendere la vera natura del sé di Naoki.

È lui, Naoki, 28 anni, atletico, salutista, dipendente di una casa di produzione cinematografica, a chiuderci il cerchio. Lui aveva iniziato l’avventura della casa andandoci a vivere con la sua fidanzata del tempo, Misaki. Lei, stanca delle liti con Naoki, aveva portato Mirai. Lui per bilanciare l’atmosfera, aveva introdotto Ryo. E quando Misaki se ne va, Mirai porta nella casa la sua amica Koto. A lui spetta di chiudere il cerchio, lui sarà quello della sua zona che vorrebbe cieca, ma che tutti sanno. Ma che anche tutti resteranno fermi solo a guardare: la grande incomunicabilità giapponese non consente a nessuno di fare un passo dentro l’intimità altrui.

La capacità di Shuichi è, laddove avvengono pochi fatti (nei cui particolari non entro, che servono all’economia del libro e che vi invito a leggere), ha un ritmo di scrittura che tiene alta l’attenzione. Per la descrizione di questi giovani (che all’epoca avevano una decina di anni meno di Shuichi e che quindi lui conosceva bene) tutti con i propri problemi, e tutti con il problema comune della totale incomunicabilità, tipica della cultura asiatica. Sono tutti esternamente felici, ma … (cosa siano, quali siano tutti i loto demoni ve lo lascio scoprire).

Come spesso in altre letture (Murakami docet) c’è anche molto spazio per il lettore, visto che l’autore spesso accenna ma non delucida sino in fondo. Quello che delucida, e che per me è l’ultimo pezzo forte, è la città. Che leggendone sono di nuovo tornato alla Tokyo dello scorso anno, e mi ci sono di nuovo immerso, nella folla, nelle metropolitane, nei parchi. Beh, a me quella città piace ancora.

Yoshida Shuichi “L’uomo che voleva uccidermi” Repubblica Emozione Noir 21 euro 7,90

[A: 04/11/2019 – I: 23/03/2024 – T: 26/03/2024] - &&&      

[tit. or.: 悪人 Akunin; ling. or.: giapponese; pagine: 381; anno 2007]

Secondo libro letto del “trasversalista” Yoshida Shūichi che conferma questa vena che entra ed esce dai generi, un po’ noir un po’ inclassificabile, con un libro, scritto cinque anni dopo il primo che ho letto, che di sicuro migliora il mio gradimento verso l’autore.

Non migliora, invece, il mio rapporto con gli inventori dei titoli italiani. Che seppur quella del titolo è una frase che viene detta ad un certo punto del romanzo, il titolo originale è “Una persona malvagia”. Un titolo programmatico di quanto avviene nel romanzo, e che pone il lettore di fronte alla domanda cruciale: verità o ironia? Tra l’altro, come altri libri di Yoshida, il testo è stato anche trasposto in un film uscito nel 2010, film che mantiene, invece, il titolo originale.

Come dicevo, Yoshida usa una trama trasversale, che tocca una parte etichettabile come “gialla”, che si immerge in quello che potremmo definire “noir psicologico”, ma che è in definitiva un modo, pur complesso, di descriverci la società giapponese in uno degli aspetti suoi più cupi ed inquietanti: la solitudine. Presentata in molti aspetti, ma che ne costituisce il filo trainante.

Giallo perché c’è una persona che viene uccisa, e che per una buona metà del libro accumula indizi e possibilità su chi sia l’assassino. Diventando noir quando, entrando più a fondo nei personaggi, nella seconda parte vediamo ogni attore del dramma nella sua luce interna, nei suoi risvolti, nelle sue paure, nel suo inserimento (mai voluto sempre subito) nella società giapponese. Un male di vivere per ognuno, e per ognuno elementi (a volte non solo nipponici) che ne fanno emblema appunto del disagio. Disagio della solitudine e dell’incomunicabilità.

Curiosamente, nel mio immaginario di lettore, la prima parte sembra riprodurre, in ambito giapponese e con una scrittura un po’ rarefatta, un libro scritto da Colin Dexter, senza avere la presenza, ribaltante, di un ispettore Morse. Yoshida ci narra di strade, di paesaggi urbani e montani, di persone che aspettano, di gente che si muove in giro, che ha delle mire o forse delle aspettative. Quando capiamo di più dei personaggi, però, abbandoniamo del tutto Dexter e piombiamo in pieno nella cosmogonia quotidiana del Giappone.

Tra l’altro, un romanzo che si muove non solo lontano da Tokyo, ma anche dalle grandi città. Certo Nagasaki non è lontana, ed anche Fukuoka viene attraversata dai nostri. Ma sono le prefetture di Saga e la città di Kurume che fanno da padroni, riportandoci ad una vita quotidiana fatta di piccoli gesti, di prossimità che non diventano mai conoscenze, della ricerca di trovare una nuova vita, o di cercare, in quella che viviamo, delle nicchie in cui nascondersi. Non a caso il termine che viene alla mente, potente, in tutta la narrazione è “hikikomori”, neologismo giapponese che indica una persona che cerca di isolarsi, attraverso la scelta di comunicare solo attraverso freddi sistemi informatici.

Vediamo così primeggiare nella prima parte Yoshino, una donna che Yoshida non cerca mai di farci diventare simpatica. Figlia di un barbiere, accetta il primo lavoro che le viene offerto per andare via di casa. Un lavoro che non le consente il tenore di vita che vorrebbe, per cui si inserisce in un sito di incontri online, diventando, in tutto e per tutto, una escort di media grandezza. Nel sito incontra Yuichi, con il quale ha lunghi rapporti sessuali nei “love hotel” (un’istituzione giapponese che andrebbe studiata meglio). Ma Yoshino vuole anche sembrare altro. Così, incontrando in un bar il ricco e vanaglorioso Masuo, si inventa una storia con lui, soltanto per diventarne una stalker dura e pura.

Sarà Yoshino ad essere strangolata nel tenebroso passo montano di Mitsuse. Chi l’ha uccisa? Masuo? Yuichi? Uno dei suoi tanti clienti occasionali? Perché, poi, si trovava lì?

Anche nella seconda parte troviamo al centro una donna, Mitsuyo. Anche lei insoddisfatta, commessa in un negozio di abbigliamento. Anche lei sola, così che, sempre attraverso il sito online, incontra Yuichi. Il loro rapporto inizia burrascosamente, duramente. Mitsuyo cercava realmente qualcuno con cui uscire e non un incontro di solo sesso. Quando i due riescono a vincere le proprie paure ed a confessarsi le proprie realtà, inizia quella che potrebbe diventare una storia d’amore. Si trovano, e trovano una loro complementarità.

Incidentalmente, vediamo agire Masuo, fatuo, che cerca solo il proprio piacere, e si atteggia a “gallo del pollaio”, con quelle uscite forzate e fuori le righe che tutti gli perdonano, perché, in fondo, lui è ricco. Ma perché, trovato il corpo di Yoshino, fugge per due settimane? Cosa deve nascondere? Ed ha qualcosa da nascondere o è solo uno scriteriato giovane senza un briciolo di coscienza?

In tutto ciò, non dimentichiamo che fin dall’inizio incontriamo Yuichi, e, capitolo dopo capitolo, ne scopriamo la storia. Abbandonato dalla madre a cinque anni, viene cresciuto dai nonni. Non ha grosse aspirazioni nella vita, unico suo scopo è guidare la sua bellissima auto bianca (con alettone). Lavora con lo zio in un cantiere, ora si deve anche occupare del nonno che entra ed esce dall’ospedale. Per questo entra nel sito di appuntamenti. Per questo si attacca come una cozza a tutte le donne che escono con lui. Ma per poco. Rimane solo attaccato a Yoshino, prima, ed a Mitsuyo dopo.

Alla fine scopriamo che qualcuno ha caricato Yoshino per strada, per poi scaricarla brutalmente lì sul passo montano, dove qualcun altro l’ha incontrata, non casualmente, ma casualmente (o forse con malvagità?) l’ha uccisa. Scopriamo anche tutta la tenerezza dell’amore possibile tra Mitsuyo e Yuichi, che permea tutta l’ultima parte.

Dove Yoshida, presentatici tutti i personaggi e tutte le azioni, ci lascia appunto con la domanda cruciale: chi è veramente la persona malvagia?

Alla fine ne esce con le ossa rotte il Giappone e la sua società. Un mondo dall’impeccabile profilo lavorativo e produttivo, dove non c’è modo, non c’è nessuna speranza di avere rapporti umani sinceri. Così sono ben rappresentati sia l’impossibilità dei rapporti (Yoshino si inventa storie affascinanti sul suo rapporto con Masuo per non raccontare alle amiche che si incontra con Yuichi), sia la tristezza dell’ambiente lavorativo (dove nessuno sembra soddisfatto della propria vita). Con un gigante campanello d’allarme sull’incomunicabilità tra generazioni. I giovani, oscillanti tra modernità e tradizione, vivendo senza nessuno scatto mentale la propria alienazione e che, della tradizione sembra apprezzare solo il cibo, e gli anziani che non comprende i giovani, continuando a restare ancorata alla propria dignitosa tradizione, venendo travolta da tutto ciò che è nuovo.

C’è tutta la fragilità di questo mondo pronto a spezzarsi al primo soffio di vento, laddove ognuno sembra solo avere bisogno di una piccola attenzione. Emblematico e significativo il passo in cui il genitore di Yoshino si presenta davanti ad uno che aveva trattato male la figlia, non cercando altro che avere un segno di pentimento del cattivo comportamento tenuto.

Insomma, un libro non pienamente riuscito, troppi personaggi (che ho tagliato) ed una scrittura che solo nella seconda parte prende il via con scioltezza. Ma un libro duramente giapponese.

Un ultimo appunto, per gli stampatori del libro, perché lasciare l’evidente errore di testo laddove viene scritto: “Il mostro che ho incontraxto”? Non c’è nessuno capace di eliminare la “x”?

Visto che abbiamo parlato tanto di Giappone, rimaniamo sul suolo nipponico con una lunga serie di citazioni di una scrittrice di cui ho letto quasi tutto. Abbiamo ben tre romanzi da sezionare in frasi di Banana Yoshimoto.

Il primo è “High & Dry Primo Amore”:

“Non sapevo che quando ci si innamora di qualcuno si versano così tante lacrime, un po’ per la tristezza e un po’ per la felicità.” (25)

“Come tutti i maschi, una volta che bacio … finisco per pensare a cosa verrà dopo.” (36)

“In fondo credo che sia una mamma normale. Del tutto normale. Così tanto da sembrare speciale.” (37) [dedicato a tutte le mamme in questo giorno di festa per loro]

“Se questa è la vita, bisogna stare attenti a non sprecarne neanche un po’, in mezzo alla desolazione ed alla fretta.” (50)

“A questa distanza tu e la mamma mi sembrate ancora più belle che nella realtà.” (64)

“Quando si è direttamente coinvolti, è difficile accorgersi di qualcosa.” (70)

“Ho la sensazione che ci siano cose che a parlarne svaniscono, e altre che invece crescono. Quello che c’era tra noi apparteneva alla prima categoria.” (75)

“Il tempo passa… Lo si percepisce con estrema precisione quando si torna dopo tanto in un luogo rimasto uguale a com’era.” (87)

Il secondo è “Sly”:

“Al mondo ci sono un’infinità di cose che si capiscono solo se si provano sulla propria pelle.” (46)

“In un modo o nell’altro, le cose che creiamo parlano di noi con più precisione di ogni altra.” (58)

“A volte penso a quanto era bello guardare il mercato mangiando pancake egiziano e bevendo il tè con dentro le foglie di menta fresca.” (126)

Mentre il terzo mi coinvolge, nel titolo e nel testo. Parlo di “Un viaggio chiamato vita”:

“Un viaggio, per quanto terribile possa essere, nel ricordo si trasforma in qualcosa di meraviglioso.” (9)

“Penso che siano molte le persone che, studiando all’estero, sono ingrassate senza più riuscire a tornare come prima.” (16)

“Le cose sono più buone quando si bevono nel luogo da cui provengono … però il fatto che i sapori restino legati al corpo come ricordi ha dell’incredibile.” (23)

“[L’Italia] è un paese in cui niente va come deve andare, e si deve spesso cedere a qualche compromesso, ma è proprio questo che mi piace.” (41)

“Però è difficile che, indolente come sono, riesca … a concentrarmi su qualcosa e portarla avanti.” (44)

“La tavola [del pranzo, con i cibi] è come una tela dipinta che ci insegna che ‘oggi’ è una volta sola.” (93)

“I libri non servono a niente se poi si manca di spirito di osservazione.” (102)

“Sono certa che tutti hanno qualcosa … per la quale le altre persone pensano ‘per fortuna che ci sei’.” (116)

“Grazie di cuore per essere stato sempre gentile con me.” (171)

“Ogni giorno è un viaggio.” (179) [una verità assoluta].

Ma non è solo un festival giapponese da celebrare oggi, e neanche solo la Festa della Mamma (che io non ho più, ma che sempre manca). Ci sono tutti i compleanni di questo primo terzo di maggio, che sanno poiché li ho già omaggiati. A cui aggiungiamo l’odierno di Pietro, il mio amico fisico-scrittore-psicologo che sarà sempre un po’ più giovane di me.

Con alterno umore, poi, vi saluto che, se non succedono altri guasti, il resto del mese di maggio verrà passato altrove. Quindi vi saluto dandovi appuntamento alla Festa della Repubblica con un abbraccio.