Saltata la domenica torinese,
eccoci qui, in una Befana che corre via per parlare (finalmente) di qualche
buon libro del nostro amato siciliano. L’avrete certo capito dal facile gioco
del titolo che parliamo di scritti di Andrea Camilleri. Uno solo tratta del benemerito
commissario, in un racconto di medio coinvolgimento. Abbiamo poi alcuni altri
scritti, recenti o antichi, che si aggirano per la Sicilia, e spesso per
Vigata. Recuperando letture fatte più di un anno fa, ma che aspettavano di
essere completate. Una su tutte, se non l’avete letta: quella della storia
della bella Eleonora.
Andrea Camilleri “La rivoluzione della luna” Sellerio euro 14 (in
realtà, scontato a 11,90 euro)
[A: 07/03/2013– I: 13/11/2013 – T: 14/11/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 276;
anno 2013] - &&&&
Non
è un nuovo Montalbano. Non è una delle storie di Vigata. Ciò nonostante è un
Camilleri di buon livello. Quello che si occupa di ricerche storiche ed in
particolare della storia siciliana. La scrittura è quella ormai solita di
quando Camilleri parla di storie sicule, quel misto di 90 per cento di dialetto
e 10 per cento di italiano di raccordo. Qui viene complicata (con aiuto
doveroso) da un po’ di spagnolo mescolato al resto. Come ci confessa lo stesso
autore, l’idea gli viene dalla lettura di un testo storico sulla storia dei
Viceré spagnoli in Sicilia. Accorgendosi, in particolare, di un piccolo buco
tra la morte del Viceré don Angel de Guzman e l’insediamento del successore il
cardinale Luis Fernando de Portocarrero, vescovo di Toledo. Cosa succede in
quei 27 giorni? A valle di piccole ricerche, lo scrittore scopre che quei
giorni furono governati dalla moglie di don Angel, la bellissima (secondo le
cronache dell’epoca) Eleonora de Mora (che per l’esattezza si chiamava Leonor
de Moura y Aragon, marquesa de Castel Rodrigo). Questo piccolo buco da modo al
nostro di “Inventare” una bella storia di presa di coscienza e di vendetta,
anche se qualche piccola imprecisione storica rimane (ma la bio-fiction
consente qualche aggiustamento). Di alcune dà conto nella nota in post-fazione
lo stesso Camilleri (e non vi torno). Una rimane inspiegata: la vicenda,
secondo Camilleri, si svolge nel settembre del 1677, mentre il cardinale de
Portocarrero (secondo gli storici spagnoli) si insedia come Viceré nel maggio
dello stesso anno. Come rimane inspiegata la modalità della morte di don Angel
(chiamato Aniello dai siciliani): perché e come si ingrassa di cento chili nel
giro di un anno? Ed è questo che lo porta alla morte? Tuttavia non essendo la
veridicità storica quella che cerca Camilleri, ma lo spunto per portare avanti
alcune sue (anche condivisibili) tesi, possiamo concedergli qualche svarione.
Camilleri è invece interessato a fustigare i costumi dei corrotti nobili del
tempo (e di ogni tempo), ad esaltare le capacità e l’empatia femminile nel
condurre politicamente la terra di Sicilia. E nel salvare i buoni dall’oblio.
Approfittando, infatti, della malattia di don Aniello, i potenti locali mettono
in atto soprusi e soperchierie onde mantenere il potere sull’isola, con il beneplacito
della corona e del papato. I nobili rubano ed anghereggiano i popolani, il
vescovo è dedito a pratiche pedofile con i ragazzi del coro delle voci bianche,
e tutti si approfittano di belle e sfortunate giovani, per mettere in atto una
fantomatica ”Opera Pia per le vergini pericolanti” che non è altro una ben
gestita e remunerativa casa chiusa. Alla morte di don Angel, la bella Eleonora
prende su di sé il carico del governo. Cominciando a tagliare teste, a
promulgare leggi, e contornandosi di personaggi “buoni”. La vecchia marchesa e
il ben presto innamorato protomedico di corte. Con il loro sostegno, mette a
poco a poco nell’angolo la nobiltà arraffona. Prima trovando il modo di farla
dimettere dalle cariche. Poi riuscendo a smuovere il popolo vessato, facendo in
modo che i detti duchi, marchesi e nobili vari debbano rifondere del mal tolto.
Solo il vescovo resiste, protetto dalla lontana curia di Roma, che poco si
immischia delle malefatte locali, ragionando solo su astratti principi di
rapporto tra Stato e Chiesa. La lotta sembra volgere al brutto per la
combattiva sposa, ma il Vescovo commette l’impudenza di far uccidere un suo
nemico. Nel breve volgere di pochi giorni, anche il perverso prelato viene
messo alle corde, ed infine condannato al “càrzaro” a vita per le sue
malefatte. Tutto in bene, allora? Ovviamente no, che una donna non può reggere
a lungo il potere in una società maschile come quella di fine Seicento. Sarà
destituita dalla reggenza, e se ne tornerà in patria, anche se acclamata dai siciliani
“buoni” ed accompagnata nell’ombra dal medico innamorato che la seguirà in
Spagna. Il carosello è finito, e tutto torna bene o male sulle rotaie della
normalità. Né vinti né vincitori, ci dice Camilleri. Ma l’agile romanzo è
servito a rendere omaggio ad una figura di donna, emblema di tutte le eroine
combattive (e spesso misconosciute) che hanno reso salda una tradizione di
rettitudine che i turpi maschi cercano e cercheranno sempre di infangare e
misconoscere. Ripeto anche qui, non certo un’opera sconvolgente, ma un bel
lavoro, intrecciato magistralmente, e discretamente condotto, senza troppe
concessioni ai lieti finali, verso oneste conclusioni. Un inno all’onestà che
manca, e che speriamo torni. Magari per qualche giro di luna in più.
Andrea Camilleri “La banda Sacco” Sellerio euro 13
[A: 19/10/2013– I: 20/12/2013 – T: 22/12/2013] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 181;
anno 2013]
Ripetendomi:
non è un nuovo Montalbano, non è una storia di Vigata. E seppur interessante,
ha una resa minore di altre prove dello scrittore agrigentino. Il tentativo di
continuare e riprendere storie siciliane e presentarle in prospettive nuove è
senz’altro lodevole. Soprattutto in una storia coma quella imbastita da
Camilleri, dove, prendendo spunto da vicende locali, si vede come nasce,
prolifera e si ramifica la mafia nel tessuto sociale. Lo spunto viene
all’autore dalla richiesta di un erede della famiglia Sacco, che gli fornisce
documenti e materiali. Partendo da questi, nella solita parlata sicula,
percorre con furore sociale (al quale ci uniamo) la storia della famiglia
Sacco, e di come si sia arrivati alla condanna all’ergastolo dei tre fratelli.
Poiché lo spunto è storico, e vi sono documenti a supporto, c’è anche
un’appendice esplicativa “in italiano”. E seppur utile alla collocazione del
racconto nella sua prospettiva, avrei preferito un libro che rimanesse tutto
all’interno del narrato. Si poteva fare, forse mescolando ancor di più
ricostruzioni e ricordi. Questa volta intanto, ci spostiamo dalla provincia di
Ragusa verso la più prossima all’autore provincia di Agrigento. E precisamene
nella cittadina di Raffadali. Seguiamo il nascere della famiglia Sacco,
seguendo prima di tutto il capostipite Luigi. Da bracciante a giornata, grazie
alle sue capacità, in particolare per l’innesto dei pistacchi e poi per la
cattura della mosca cantaride, Luigi fa fortuna, si affranca dal bracciantato,
mette su famiglia, e genera cinque figli, cinque maschi ed una femmina. Anche
loro di buona lena, chi lavora nei campi, chi emigra per qualche anno in
Argentina, chi, come il più piccolo Alfonso, studia. Li riunisce la prima
guerra mondiale, dalla quale escono indenni. Ma dagli anni Venti, dovranno
affrontare un altro e micidiale pericolo: la Mafia. I Sacco, tra l’altro, sono
socialisti, e questo è già pericoloso in quegli anni. in più, la Mafia comincia
a chiedere il pizzo. A loro rifiuto cominciano le angherie. Alle quali, i Sacco
rispondono denunciando i fatti ai Carabinieri. Qui c’è la prima resa dello
Stato alla Mafia, che questi si rivelano impotenti. La Mafia comincia allora
una escalation del terrore. Minacce su minacce, poi furti di bestiame, poi
bruciate di campi. Fino ai tentativi di omicidio dei fratelli. I quali, per
capacità o fortuna, riescono a scamparle sulle prime. Ma la Mafia insiste. E ad
ogni tentativo di rivolgersi all’ordine costituito, false testimonianze e
travisamenti vari, non fanno che inguaiare i Sacco. Il salto di qualità si ha
con l’uccisione del patriarca Luigi. In poco tempo, i Sacco non possono che
darsi alla macchia. E poiché nel frattempo, uno dopo l’altro, alcuni caporioni
mafiosi vengono uccisi, la Mafia fa in modo che di questi delitti siano
incolpati (colpevoli o no) i fratelli Sacco. La solidarietà paesana fa il resto,
per preservare, finché si può, i fratelli dal cadere sotto il piombo dei
mafiosi o dei carabinieri. Fino a che Mussolini invia Claudio Mori, il Prefetto
di ferro, con l’ordine di debellare la Mafia. E poiché i Sacco sono comunque
fuorilegge, il Prefetto si mette di buzzo buono sulle loro tracce, riuscendo al
fine ad arrestarli. Siamo nel 1926, nel pieno dell’inizio dell’era fascista, e
benché senza prove reali, tre dei fratelli vengono condannati all’ergastolo per
delitti non commessi. Solamente quasi 40 anni dopo, a fronte anche di un
interessamento del Partito Comunista, vengono graziati e finiscono la loro
vita, anche se non serenamente, comunque nella natia Raffadali. Ci sono molti
spunti che tralascio nella descrizione, dai quali si evince come, al pari di
una partita di scacchi, la Mafia muova tutte le sue pedine sulla scacchiera,
riuscendo ad isolare ed a mettere in cattiva luce i Sacco. Con tutte le
connivenze e le congiunture che possiamo immaginare. Poteri forti che non
vogliono (o non hanno le forze) di mettersi al servizio della Giustizia. Poteri
deboli che usano l’inganno, la minaccia e le falsità per costruire castelli poi
difficili da smontare. Storie che si ripetono, che vediamo ed abbiamo visto
anche ai giorni nostri. Come falsi pentiti di mafia annuncino confessioni
clamorose per inguaiare persone poco inerenti ai fatti. O depistare. O come
vengano usati i mezzi di comunicazione di massa (giornali e televisioni) per
costruire false realtà, utili solo a nascondere la verità. Da questo punto di
vista, il castello costruito da Camilleri intorno alla famiglia Sacco è
esemplare nella sua perversità. Se seguiamo passo dopo passo tutti gli
avvenimenti, ci accorgiamo come ogni volta si faccia un passo avanti verso la
costruzione di un labirinto di menzogne dal quale non sarà facile uscire. Anche
perché, non avendo appigli, i Sacco fanno anche loro passi falsi. E questi
saranno immediatamente usati, enfatizzandoli. Mentre si minimizza il resto.
Tipico l’agguato finale, dove il tenente dei Carabinieri sostiene esserci stato
un confronto a fuoco di due ore, alla fine del quale i Sacco escono feriti e
quasi moribondi, mentre le forze di polizia non hanno neanche un graffio.
Illuminante. E pur tuttavia il giudice condanna i Sacco! La fine, con quel
ripercorrere attraverso il memoriale di Alfonso Sacco alcuni punti della
vicenda, ripeto, è se vogliamo un ricollocarla nel tempo, ma ne smorza i toni
forti di denuncia sin lì portati avanti. Rimane l’amarezza di una pervasività
della mafia (in tutte le sue ramificazioni), che non può che lasciare al solito
sgomenti. Quando si riuscirà ad uscirne? Quando si riuscirà a riportare l’etica
e la morale su dei binari costruttivi?
Andrea Camilleri “Un covo di vipere” Sellerio euro 14 (in realtà,
scontato a 11,90 euro)
[A: 03/06/2013– I: 26/06/2014 – T: 28/06/2014] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 261;
anno 2013]
Ed
eccoci tornati di nuovo ad un libro del buon Salvo. Marcato 2013, anche se,
come confessa l’autore in coda, fu scritto ben cinque anni prima. Ma non uscì
nel 2008 per una serie di motivazioni editoriali che non interessano al lettore
(o non più di tanto). Quello che si rimarca immediatamente è, infatti, il tono
datato dello scrivere. Sì, è vero, Salvo e Livia sono in crisi (come sempre) ma
non in quella crisi verticale degli scritti ultimi. E Salvo, pur parlando tra
sé e sé, non fa ancora quelle lunghe ed a volte inutili elucubrazioni che hanno
appesantito le ultime uscite. Insomma, è ancora un tono fresco e meno “bollito”
degli ultimi scritti del nostro commissario. È pur vero, però, che la storia è
banalotta anzi che no. Una storia che si capisce subito dove vuole andare a
parare, non c’è neanche bisogno di arrivare a metà libro. Infatti, come spesso
nelle ultime prove ambientate a Vigata, il giallo in sé diventa quasi un
accidente di altro scrivere. Dei comportamenti umani da un lato, e non è male,
e delle solite macchiette dall’altro che non riescono più a smuovere al riso.
Dicevo la storia. Si trova un ragioniere sessantino riverso in cucina mentre
beve un caffè, con la faccia devastata da un colpo di pistola. Prime indagini,
scoperta quasi immediata che il ragionier Barletta non è proprio uno stinco di
santo. Anzi, è un vero e proprio sciupa femmine. Ed è anche bastevolmente ricco,
soprattutto per la sua attività nascosta di usuraio. Ha due figli. Il maschio,
Arturo, assolutamente negativo, senza spina dorsale, succube del padre, e
dedito a sperperare tutti i soldi che ha per far fare una vita agiata alla
insipiente moglie. La femmina, Giovanna, bella e volitiva, ben presto
scoprentesi piena di amanti. E con la voglia di circuire anche il nostro Salvo.
Il mistero si complica quando si scopre che Barletta è morto avvelenato, e il
colpo di pistola è avvenuto quando già era cadavere. Si scoprono inoltre foto
su foto osé, scattate da Barletta alle sue amanti. Nascono filoni di ricerca
anche in questa direzione, soprattutto per mano dell’inutile pubblico
ministero. Ma Salvo e i suoi scoprono invece che c’è qualcosa di strano nel
discorso del testamento del morto. Che aveva detto voler lasciare quasi tutto a
Giovanna e nulla ad Arturo. Ma non si trova il testamento. Vuoi vedere che
qualcuno l’ha fatto sparire? Interrogando poi il notaio si scopre anche che, il
giorno della morte, Barletta lo aveva convocato per farne uno nuovo, di
testamento. In cui praticamente diseredava i figli in favore della sua ultima
amante. Quella di cui, ora in tarda età, si era innamorato. Questo cambia e di
molto il corso delle indagini. Portando a sollevare veli su situazioni molto
scabrose e complicate, che seppur ben trattate da Camilleri, non riescono a
coinvolgere il lettore. Non sono “misteriose” (anzi sono fin troppo palesi), e
portano allo scioglimento dei misteri ben prima che ci arrivino Montalbano ed i
suoi ispettori. Il tutto percorso da tre giorni di visita della bella Livia al
nostro Salvo, con un piccolo cammeo di un barbone che vive in prossimità della
villa del nostro, e che parla un italiano ben forbito. Questi darà a Salvo una
chiave di lettura del mistero che servirà solo a rafforzarne le conclusioni.
Nel contorno, le solite belle mangiate alla trattoria di Enzo, le battute tra
Catarella e Salvo, il tentennamento di Salvo verso Giovanna, presto rientrato.
Pur tuttavia, una lettura che non potevo non fare (ma non è un caso che abbia
rimandato quasi di un anno, come sentissi ci fosse qualcosa di poco
entusiasmante nello scritto). Non è più il commissario combattivo dei primi
scritti. Né il cinquantino in crisi, ma che ragiona sui mali del mondo, sulla
corruzione e su altri temi, cari da sempre al nostro Camilleri. Si è voluto
affrontare un tema interessante, su cui ci sarebbe da dibattere, ma con scarso
coinvolgimento emotivo. Peccato.
“Squasi tutte le sirate della so vita le
passava da sulo … ‘Na vota gli piaceva. La solitudini gli dava un senso di
libbirtà. Ma ora, nell’ultimissimi tempi, la solitudini gli accomenzava a
pisari.” (145)
Andrea Camilleri “La bolla di componenda” Sellerio euro 7
[A: 02/10/2014– I: 03/01/2015 – T: 05/01/2015] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 108;
anno 1993]
Uno
dei primi scritti di Camilleri, l’ultimo prima dell’inizio della saga di
Montalbano. L’ho trovato acerbo, non molto riuscito, anche se, a sprazzi,
propone idee e situazioni interessanti. Non dico coinvolgenti, ma quanto meno
inserite in quel filone di “coscienza civile” che il maestro Sciascia aveva
insegnato alla “squadra di Sellerio”. E l’idea è quella, appunto, di dare
qualche piccolo colpo alla coscienza del lettore, inscenando un piccolo teatro
per demolire (ma purtroppo con pochi colpi a disposizione) uno dei cardini
dell’incoscienza civile. Ovviamente parliamo di Sicilia ed ovviamente parliamo
di mafia. Il tutto inserito in quella pratica, quella si poco civile, che va sotto
il nome di “componenda”. Il termine dovrebbe, secondo dizionari ed altre dotte
fonti, essere di genere maschile ed indicare transazioni informali finalizzati
a risolvere un contenzioso tra le parti (cioè comporre il disaccordo), una
sorta di accordo stragiudiziale non legale e non riconosciuto dall'ordinamento
giuridico. Camilleri fa uscire questo breve scritto proprio negli anni in cui
(pare) ci sia stato un “componenda” tra Stato e Mafia (ed ancora se ne
discute). Il nostro prende la palla al balzo, e ci tira su uno dei suoi bei
teatrini. Che svolge in tre atti. Nel primo, che stenta a decollare, parla un
po’ di sé, del suo lavoro alla RAI, e dell’amicizia con il grande Giorgio
Vecchietti, che, proponendogli un lavoro, gli racconta un avvenimento accaduto
durante la conduzione dei suoi primi telegiornali di RAI2. Avendo eliminato
filmati panegirici, che esaltando operazioni poco fruttuose della Guardia di
Finanza, in realtà facevano pubblicità ai tabacchi, viene avvicinato da un
faccendiere (così lo chiameremo ora), che gli propone accordi poco legali per
aver salvi i suoi interessi. Un “componenda” non pienamente svolto. Ma da
questa idea, e da alcune reminiscenze di memorie materne, risale ad accordi ben
più ferrati e malavitosi. E soprattutto a quella pratica in uso sin dai
primordi nella chiesa cattolica, delle “bolle di componenda”. Una versione
peggiorativa delle indulgenze di luterana memoria. Le bolle erano assoluzioni
prima che venisse commesso il crimine, che la chiesa vendeva prima direttamente,
poi magari attraverso sacristi e prevosti. Ce n’erano di tutte le risme, per i
furti, per le donne traviate, per gli adulteri, e via discorrendo (erano sembra
20 casistiche diverse). Mancava solo l’omicidio, ma poi ci arriveremo. In ogni
caso, tra bolle e bolle, il nostro tira fuori dal cilindro della storia i
verbali di una commissione di indagine sullo stato della Sicilia, insediatasi
nella seconda metà dell’Ottocento. E lì, tra deputati, senatori ed funzionari
del nascente stato italiano si intuiscono i modi per cui la piaga della
“maffia” (con due effe come si diceva allora) poteva allignarsi nelle pieghe
della società civile. Non a caso, quell’inchiesta vedrà la luce, emendata e di
molto, solo cento anni dopo essersi svolta. Il dato che ne viene fuori, a parte
tutte le piccole storie che Camilleri riesce a tirar fuori dalla sua sacca
delle meraviglie, è appunto il bene placito che clero ed autorità riservano a
chi si colloca fuori della legge. E se la Chiesa assolve il mafioso, prima che
questi commetta i suoi crimini, come evitare che la gente “normale” guardi a
queste vicende con occhio d’indulgenza e non di riprovazione? Manca solo
l’ultimo atto, quello dell’omicidio. Solo qui Camilleri da stura ad un po’
della sua successiva verve, quella delle invenzioni e delle connessioni che
ritroveremo in tutta la trafila dei successi di Montalbano. Inventa quindi una
storiella, ovviamente basata a Vigata, che comincia ad essere il “locus” delle
sue gesta, di un povero cristo cui un cattivo soggetto, per futili motivi,
uccide il figlio. Tano, questo il meschineddo, per anni va da padre Pirrotta a
chiedere se nelle bolle di quell’anno (che si vendono da Natale all’Epifania)
sia finalmente comparsa una che gli consenta la vendetta. Dopo anni di inutile
attesa (e d’altra parte, benché dirazzata, la Chiesa con difficoltà poteva
assolvere un assassino ancora prima del fatto commesso), Tano ha una brillante
idea: chi ha ucciso suo figlio è un porco, e le bolle prevedono il rapimento
dei maiali e l’assoluzione per il rapitore. Quindi, usando il gancio da
macellaio, uccide il cattivo, sostenendo di aver rubato il porco e di averlo
ucciso perché non scappasse. Questo l’ultimo tassello delle bolle di
componenda. Si possono fare patti per risolvere, extra-giudizialmente, le
controversie. E, se si ha di fronte un nemico, basta pensare o far credere che
sia un porco per poterlo uccidere con il beneplacito di tutti. Finisce così il
breve scritto, che di certo non affonda i suoi artigli, che non entra nelle
piaghe (reali) della società siciliana. Ne sfiora i punti salienti, le punte
degli iceberg, ma individua una linea di ragionamento che, consentendo ai
mafiosi (qualsiasi accezione possiamo dare a questo termine) di agire
indisturbati, da fondamento di realtà ad una realtà che non dovrebbe avere
fondamento. Probabilmente, scritto ora, Camilleri avrebbe trovato frecce più
feroci al suo arco. Ed anche la lingua ne avrebbe risentito, che qui, per
rimanere sul generale, è praticamente al 90% italiano. Insomma un prodotto
interessante, ma alla fine deludente se ci aspettiamo il Camilleri maturo.
Quello che fa ridere, ma che fa riflettere. Qui si pensa, ma bisogna lavorar
molto di testa. Per questo, alla fine, non lo trovo uno scritto esaltante.
Decente, ben scritto, ma di tono minore.
Essendo la seconda trama del
mese, come i miei ormai affezionati lettori sanno, mettiamo anche un allegato
su libropatie e rimedi vari. Avevo in mente anche di pubblicare un allegato da
“tredicesima” per i recuperi di libri letti nell’anno, ma non ho fatto ancora
in tempo, così lo rimandiamo. Mentre ci godiamo un interessante libro sul
“coming out”.
Ed infine, ci sarà un altro mese
di mancate letture, per voi affezionati lettori, che il vostro scriba si
appresta ad una nuova partenza verso i lidi indiani. Mentre vi do appuntamento
a febbraio, vi mando un grande augurio di un anno che superi le vostre
aspettative.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
GENNAIO 2015
Iniziamo questo nuovo anno di
libropatie non con un libro per curare malattie (che solo qualche omofobo può
pensarci), ma con un difficile e sofferto libro per cercare di essere se
stessi, quale che sia il se che ognuno ha.
COMING OUT, FARE
Non ci sono solo le arance, Jeanette Winterson
Se siete gay, lesbiche, bisessuali o
transgender, fare coming out – prima con voi stessi e poi con gli altri – può richiedere
anni, a volte una vita intera. Anzi, potrebbe anche non accadere mai. Per
quanto sia complicato, tuttavia, non può essere più difficile che per Jeanette
nel romanzo fortemente autobiografico di Jeanette Winterson “Non ci sono solo
le arance”. La bambina viene adottata dalla madre, cristiane fondamentalista,
per essere allevata come una «serva di Dio» dalla madre, e quando i membri
della chiesa alla quale appartengono lei e la madre scoprono che preferisce le
ragazze viene costretta a sottoporsi a un esorcismo.
Jeanette non vuole turbare la madre, né
allontanarla. Quando cerca di spiegarle cosa prova per Melanie, la sua
difficoltà a trovare le parole suonerà familiare per molti lettori – perché è
chiaro che la donna, che «annuisce di tanto in tanto, in silenzio», non vuole
saperlo. Ha alzato un muro impenetrabile tra se stessa e la figlia, e appena
Jeanette smette di parlare la madre le dice di «andare a letto» e prende la
Bibbia come se fosse una manifestazione letterale di quel muro. In un certo
senso è proprio così, perché quando, alla fine, caccia di casa la figlia
lasciandola senza dimora, soldi o amici (se anche questo vi è familiare,
cercate la cura per “Abbandono”), userà la chiesa come giustificazione. La
reazione della signora Winterson è così chiaramente assurda e priva di
qualsiasi empatia che rafforzerà la vostra determinazione a comunicare al mondo
intero la vostra identità. Se non riescono a gestire la cosa, è un problema
loro e non vostro.
Bugiardino
Come
sotto leggerete, il libro della Winterson non è da molto che venne letto e
commentato. Un ritardo placato da un sottile piacere di lettura, anche se, e va
sottolineato per coerenza, alcune parti le ho trovate difficili da leggere. Ma
è certo altrettanto difficile tirare fuori se stessi in mondi che difficilmente
ci accettano.
Jeanette Winterson “Non ci sono solo le arance” Mondadori euro 9,50
[trama
del 02 novembre 2014]
Potremmo
chiamare queste righe viaggio per una trama sbagliata. Oppure non fidarsi delle
apparenze ed andare alle sostanze. Come sapete ho il vizio di non leggere
(quasi) mai le quarte di copertina per non farmi influenzare nelle scelte. E di
leggere le prefazioni dopo aver letto i libri. Di leggiucchiare qua e là su
riviste e giornali su titoli e nuove uscite. Insomma, il vizio di sentire poco
gli altri, prima. Dopo no, dopo sono forse anche troppo logorroico. Ora, erano
anni che i libri della Winterson circolavano sulle librerie italiane, ed a
colpa dei titoli mi sentivo un po’ respinto. C’è questo di cui parlo ora e ce
n’era un altro dal titolo “Il sesso delle ciliegie”. Ed è stato proprio questo
a mandarmi fuori strada, che lo associavo ad un altro titolo che circolava più
o meno nello stesso periodo che recitava “Se la vita è un piatto di ciliegie,
perché a me solo i noccioli?”. Inoltre, mi fuorviava anche il nome che mi
sembrava fasullo. Come se un lettore inglese andasse in giro per autori
stranieri e si imbattesse in un libro dal titolo di frutta e scritto, che so da
Giovannina Figlinverni. Io non lo comprerei, quasi mi sembrava un’emulazione
della Kinsella. Finalmente, tuttavia, nella grande fucina dei suggerimenti di
“Curarsi con…” esce questo titolo ed io, nella mia onnivoracità, lo acquisto. E
confesso di aver rimpianto il tempo perso. Non che sia un capolavoro, anche se
è senza dubbio un buon libro sopra la media. Ed è anche un libro dove si fatica
ad entrare, con tutti i capitoli che rimandano a citazioni bibliche. Poi mi ha
preso, fino all'ultimo capitolo che, al contrario, mi ha frenato un po’,
abbassando leggermente il giudizio finale. Forse solo chi ha una buona
conoscenza dei temi religiosi del vecchio testamento potrà godere fino in fondo
del libro. La piccola Jeanette viene adottata da una famiglia molto religiosa
dove abbiamo la presenza una madre ingombrante, ossessiva che cresce la figlia
all'interno di un mondo fatto di canti liturgici, indovinelli sulla Bibbia e
“arance”. Jeanette ha una “forzata vocazione” per diventare missionaria di Dio
e qualsiasi problema, dubbio o incertezza si risolve mangiando un po’ di
arance. Cresce quindi in una comunità bigotta, dove il Diavolo è ovunque e può
manifestarsi in chiunque e in qualsiasi forma. Durante il periodo della sua
adolescenza sarà proprio Jeanette a “essere posseduta dal demonio”, quando per
la prima volta incontra l’amore e per lei è un amore puro e semplice. La madre
e l’intera comunità hanno una reazione scomposta perché a Jeanette piacevano le
persone sbagliate. Per carità! Persone in realtà degnissime sotto ogni aspetto,
salvo che per un piccolo particolare: l’amore per un’altra donna era peccato! E
cosa c’è di più efficace di un esorcismo, di rinchiuderla in una stanza buia e
senza cibo per indebolire i demoni che hanno preso possesso della povera
Jeanette? E poi ovviamente quando ormai è affamata e debilitata arriva la madre
con un cesto di arance e tutta torna come prima!!! Di fronte a questo assurdo,
psicologicamente violento e incomprensibile fanatismo Jeanette non riconosce
più nessuno, non riconosce la madre, non riconosce tutte quelle persone che da
sempre hanno fatto parte della sua vita, in tutto ciò non riconosce e non
riesce a vedere neanche quel Dio che ama tanto e a cui non vuole rinunciare, ma
in fondo non può rinunciare neanche a se stessa. Sarà proprio un’impresa ardua
per Jeanette affrontare un percorso interiore per trovare se stessa, per rispettarsi
e farsi rispettare per quello che è, per scoprire che ci sono varie forme
d’amore e quindi per ritornare al titolo “non ci sono solo le arance”!!! Ripeto
la scrittura non è mia facile, iniziando in tono quasi giocoso, per poi farsi
matura, anche se intervallata da racconti fantastici che, in tono di favola,
ripercorrono i duri momenti della vita di Jeanette. Che non viene mai meno a sé
stessa, in ogni momento. Questa è una delle tematiche forti del romanzo, oltre
a quella dell’accettazione della propria sessualità e della sua difesa, sempre
e comunque. Il messaggio finale, poi, molto semplicisticamente, potremmo
riassumerlo nella constatazione che non esiste solo il bene o solo il male, ma
che la nostra vita è tutta una sfumatura di grigi. Una macedonia di tanti
frutti diversi.
Conclusioni
Il libro è certamente in linea
con l’assunto. Se avete difficoltà a fare coming out, la lettura di questa
sofferta para-auto-biografia vi sarà di aiuto. Le difficoltà di Jeanette vi
faranno da balsamo. Comunque ne consiglio piccole dosi, che la scrittrice, a
volte, risulta anche di difficile lettura, e quindi, troppe dosi rischiano di
essere controproducenti.