giovedì 2 giugno 2016

Publio Aurelio Stazio - 02 giugno 2016

Tra poco parte il pullman per l’aeroporto in questa uggiosa giornata di ricorrenza di un voto di 70 anni fa, tra i più importanti della Storia italiana (ed in attesa di quello di domenica prossima, che forse sarà importante solo per Roma). Vi saluto allora con l’attacco di una nuova saga: quella dell’investigatore dell’Antica Roma, Publio Aurelio Stazio, rendendo anche omaggio alla scrittrice che ne ha inventato le gesta, Danila Comastri Montanari, storica bolognese. Non sempre come vedrete le trame gialle sono all’altezza, ma sempre lo è la ricostruzione del mondo romano e delle vicende succedutesi al tempo dell’imperatore Claudio. Queste prime letture cominciano bene, poi scendono pian pianino, per risalire in finale verso una piena sufficienza.
Danila Comastri Montanari “Mors Tua” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 01/11/2015 – I: 10/12/2015 – T: 12/12/2015] - &&&-
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 201; anno 1990]
Dopo aver saltabeccato un paio di volte nella scrittura dell’esimia storica del mondo romano, con questa morte tua (che sottintende l’ovvio vita mia) diamo inizio allo studio analitico dei romanzi legati alle gesta del nobile romano Publio Aurelio Stazio. La scrittrice ha dedicato a questa scrittura seriale una ventina di romanzi nel corso di questi ultimi venticinque anni. Questo, anche se la quarta o il lancio editoriale ne tacciono la genesi, è poi il primo della serie. Dove la scrittura e la trama già scorrono abilmente, come se noi ed il senatore ci si conoscesse già da tempo. Un pregio nelle scritture seriali, dove a volte chi scrive fatica ad ingranare teso com’è a dover descrivere gesta e personaggi che si pensa torneranno. Danila affronta tutto ciò molto spavaldamente, appunto come se questo fosse un caso isolato. Vedremo negli altri come tutto ciò avrà una sua evoluzione. Intanto, due tirate d’orecchio all’autrice ed all’editore. Danila, infatti, pur avendo ben presente che stiamo in piena epoca romana, utilizza (ed è molto aderente al testo) la metà di quella locuzione che citavo sopra “Mors tua, vita mia”. Cioè “la tua morte è la mia vita”, cioè ancora solo uno ne uscirà vincitore. Peccato che questa sia una locuzione medioevale e non romanica. Il secondo appunto, per l’editore che, da qualche parte, avrebbe dovuto scrivere che, data la brevità del romanzo in sé, ad esso aggiungeva un racconto (“Una filosofa per Publio Aurelio Stazio”) che, oltre a servire per raggiungere un congruo numero di pagine, fortunatamente serve anche a complementare i caratteri dei personaggi. Da quale buona storica ci risulta essere Danila, la prima cosa che notiamo è la sapiente collocazione della trama nella Storia. Conosciamo il nostro Publio nel 42 d.C., quando da ormai un anno è sul trono di Roma Tiberio Claudio Druso, conosciuto con il nome di Claudio, quarto imperatore della dinastia Giulio-Claudia, e primo imperatore nato lontano da Roma (nasce, infatti, a Lione). E nelle trame anche non vicine alla storia stessa notiamo in trasparenza la presenza della moglie di Claudio, Messalina, e l’ombra del predecessore di Claudio, il turpe Caligola. Vediamo inoltre la vita romana, incentrata nel Senato (cui Claudio aveva ridato potere) dove al solito si affrontano fazioni progressiste ed elementi nostalgici del “tempo romano che fu”, e dei suoi valori. Infine notiamo l’ordito di altre trame, quelle malefiche degli intrighi, con belle donne che concedono favori per il potere ed altre cose non degne (ma direi abbastanza attuali), dove si erge a megafono dei gossip la grassa matrona Pomponia. Ci caliamo anche nei meandri della Roma di quegli anni, dove, appunto, oltre ai nobili, ai senatori, ed alle ville, c’è il popolo, che vive nel sordido quartiere della Suburra (dove ancora oggi abbiamo amici e conoscenti), con i barbieri, le lavandaie, il fango, l’orina, e le donne di facili costumi. In questo teatro, seguiamo e conosciamo meglio il nostro Publio (e la sua ombra, lo schiavo segretario tuttofare Castore). Publio viene implicato nella morte dell’etera Corinna, con cui cercava facili avventure, ma che in ben altre trame era coinvolta. Nasceva dal popolo e si era erta a concedere favori a nobili denarosi. Pochi in realtà, ma assai lucrosi. Mantenuta da Strabonio, anziano marito di Lollia. Amante del plebeo Ennio (che avrebbe fatto meglio a rivolgere le proprie attenzioni alla di lei sorella Clelia). Ed in più coprente la scandalosa storia tra Gaio, figlio del senatore Furio Rufo, e Quintilio, marito di Marzia, l’altra figlia di Rufo. Ma se la morte di Corinna poco muove gli animi, tutto si infervora all’uccisione di Quintilio, trovato sgozzato al tempio di Esculapio (nell’isola tiberina, là dove ora sorge l’ospedale Fatebenefratelli). Publio si trova lì poco dopo e viene accusato dell’omicidio. Il costume romano non prevede difesa per i nobili, ma un onorevole suicidio. Cosa che Publio organizza, ma solo per smascherare il vero colpevole che non voleva cedere ai ricatti di Corinna e voleva nascondere la storia “greca” di Gaio (perché i greci erano gay ed i romani no). Bella ed istruttiva dei costumi romani, la scena del banchetto epicureo che precede il suicidio. E dove Danila conduce una requisitoria alla Nero Wolfe, invitando tutti i possibili colpevoli, e smascherando al fine l’unico responsabile. Che per la vita di Publio offrirà la morte sua. Veloce è il racconto finale, che segue di poco temporalmente questo primo episodio. Publio, per riposarsi delle fatiche, si reca a Baia, il posto di mare dei nobili romani (ed anch’esso a noi ben noto). Per alleviare il tedio, entra in contatto con un circolo di filosofi epicurei, il cui capo, subito dopo, viene anche lui ucciso. Con una semplice indagine, anche qui incolpando e poi assolvendo vari personaggi, Publio ne viene facilmente a capo. Una storia minore e ve la lascio alla vostra più attenta lettura. Notiamo solo, in finale, che Publio, corretto e gaudente, alla fine finisce sempre nel letto di qualche bella signora o signorina del tempo. Alla fine riconosciamo una scrittura scorrevole e piacente, e un’ambientazione, per il mio gusto personale, di degno rilievo, che ci porta indietro di quasi duemila anni. E che a me è decisamente piaciuta. Se ne riparlerà tra non molto.
“Epicuro: quando noi ci siamo, non c’è la morte, e quando c’è la morte, allora non ci siamo noi.” (exergo)
Danila Comastri Montanari “In corpore sano” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 01/11/2015– I: 13/12/2015 – T: 14/12/2015] - && e ¾ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 213; anno 1991]
Secondo episodio, che contiene due elementi che risvegliano antichi rumori ed umori. Il titolo, che mi rimanda a quando io e Giorgio Gaber prendevamo in giro il mio amico che faceva finta di essere Luciano. L’altro è il verso che riporto in fondo, il Catullo dell’orazione funebre per il fratello morto. Che oltre a toccare corde a me care, a riportarmi ed avvicinarmi al mio allora amato Foscolo, fu anche l’unica poesia che riuscì a declamare in distici latini con gli accenti corretti. E non è poco. Anche se il verso viene dal racconto che chiude il libro e non dal libro stesso. Perché anche qui, senza avvertire nessuno, oltre al romanzo del titolo, c’è l’appendice dal titolo “Un’eredità per Publio Aurelio Stazio”. Appendice che liquidiamo brevemente, dove c’è poco oltre al verso di cui appena detto. Un anziano senatore che, nascostamente alla famiglia, sta per sposare una giovane della Suburra (ancora a Monti, eh?), rimasta incinta, muore inaspettatamente e provvidamente (per il figlio). Breve inchiesta, anfora con veleno, testamento ritrovato grazie al testo di Catullo, morte per infarto, e figlio illegittimo riconosciuto. Tutto bene, con il solito sollazzo per Publio, di cui ormai abbiamo imparato vizi e virtù. Più complesso il discorso sul romanzo in sé, che al solito contiene qualche piccolo errore. La citazione del titolo è infatti presa dalla Satira Decima di Giovenale (“Allora, se qualcosa vuoi chiedere ai numi, … devi pregarli che ti diano mente sana in un corpo sano”). Satira composta intorno al 100 d.C., quindi sessanta anni dopo l’età in cui si svolge il romanzo. Ed all’inizio del romanzo si parla dell’imperatore Claudio come di un sessantenne, laddove svolgendosi l’azione nel 43 d.C., Claudio ha solo 53 anni. E non ne ha quaranta più della moglie Valeria Messalina, in quanto la stessa, in quell’anno, ne ha 26 (e ne aveva 14 quando sposò il futuro imperatore). Dicevo complesso, che si toccano temi delicati per la Roma di allora (ma che non sono dissimili da problematiche attuali). La base di fondo è il rapporto tra romani ed ebrei, sia quelli “storici”, insediatisi da anni in Trastevere, sia delle derive del tempo, dei seguaci dell’ebreo chiamato Cresto (come storpiavano al tempo in luogo di Cristo). Tutto nasce dalla morte della bella Dinah, ebrea figlia di un amico di Publio. Parrebbe morta per procurato aborto, anche perché si dice in cinta di un romano mentre doveva andare in sposa all’ebreo Eleazar. Il nostro investigatore ante litteram, non può lasciar cadere il fatto, vista la sua amicizia. E subito nell’indagine scopre l’esistenza di questo amante, Ruben/Rubellio. Che per amore di Dinah stava studiando per convertirsi all’ebraismo. Che prima del colpo di fulmine faceva parte della banda di facinorosi capeggiata da Flavio, trovandosi tutti nel lupanare dell’ormai sfiorita Oppia. Dove Ruben e Dinah consumano il loro atto d’amore. E dove Flavio diventa l’amante di una donna bellissima e misteriosa. Intanto le indagini di Publio lo portano negli ambienti medicali del tempo. Dove scopre con facilità l’inconcludente e non “laureato” medico Demofonte, e la bella e piacente Mnesarete, donna in un mestiere di uomini, che fa pagare il giusto, a volte curando gratis i non abbienti, e che spera di essere invitata nel prestigioso ospedale di Alessandria. Quando anche Ruben muore mentre la dottoressa lo cura da un colpo di spada, probabilmente avvelenata, Publio comincia ad essere insofferente verso tutti. Anche verso la bella dottoressa, con la quale tuttavia trascorre ore piacevoli (alla sua solita maniera). La scolta si ha quando Publio scopre che la bella che si dà a Flavio non è altro che l’imperatrice Messalina (e qui la nostra Danila riprende uno dei temi cari dell’iconografia sulla bella donna, che la vede spesso frequentare un bordello col nome di Lisisca). Tutto sembra portare ad una tresca in cui Flavio, per ordine di Messalina, uccide i due amanti che ne avevano scoperto il gioco erotico. Ma la morte di Flavio per mano dei pretoriani imperiali spegne questa pista. E ragionando con il fido Castore (di cui abbiamo parlato poco, anche se sempre ben presente in tutto il libro) sull’origine di confusioni allocutorie, che Publio scopre l’arcano. Dinah morente aveva detto al padre “ricordati della virtù”, che in greco recita “Mnesai aretes”. Qui Danila utilizza anche un secondo elemento trasversale, anche giocoso se vogliamo, che uno dei primi amanti di Messalina era stato l’attore Mnestere. Tutte queste sbavature fanno diminuire leggermente i punteggi attribuibili al libro. Anche se l’ambientazione generale, i rimandi storici, e le incursioni geografiche (sia in Campania che, in questo libro, anche nella lontana Ceylon) me ne rendono gradita la lettura.
“Catullo: Multas per gentes et multa per aequora vectus.” (187)

Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
Mùltas pèr gentès et mùlta per aèquora vèctus
Condotto per molte genti e molti mari
di gente in gente; mi vedrai seduto
àdvenio hàs miseràs, fràter, ad ìnferiàs,
sono giunto a queste (tue) tristi spoglie, o fratello,
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
ùt te pòstremò donàrem mùnere mòrtis
per renderti l’estrema offerta della morte
il fior de’ tuoi gentili anni caduto:
èt mutàm nequìquam àlloquerèr cinerèm,
e per parlare invano alla (tua) muta cenere,
la madre or sol, suo dì tardo traendo,
quàndoquidèm fortùna mihì tete àbstulit ìpsum,
poiché la sorte mi ha portato via proprio te, ahimè,
parla di me col tuo cenere muto:
hèu miser ìndignè fràter adèmpte mihì!
infelice fratello ingiustamente strappatomi via!
ma io deluse a voi le palme tendo;
Nùnc tamen ìnterea haèc, priscò quae mòre parèntum
Ora questi pegni, che secondo l’usanza degli avi
e se da lunge i miei tetti saluto,
tràdita sùnt tristì mùnere ad ìnferiàs,
sono stati consegnati come triste omaggio funebre,
sento gli avversi Numi, e le secrete
àccipe fràternò multùm manàntia flètu,
accettale, stillanti di molto pianto fraterno,
cure che al viver tuo furon tempesta;
àtque in pèrpetuùm, fràter, ave àtque valè.
e per sempre, o fratello, ti saluto e ti dico addio.
e prego anch’io nel tuo porto quïete:


questo di tanta speme oggi mi resta!


straniere genti, l’ossa mie rendete


al petto della madre mesta.



Danila Comastri Montanari “Cave canem” Mondadori euro 9,90
[A: 20/02/2015– I: 15/12/2015 – T: 17/12/2015] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 201; anno 1993]
Come spesso accade quando incontro un autore seriale, spesso i suoi scritti cadono a grappoli nella mia rete di lettura. Così è anche per le storie romane di Publio Aurelio Stazio scritta con buona proprietà dalla bolognese nonché scorpione Danila. Mentre nelle prime due storie c’era un’appendice che serviva a colmare il numero di pagine atto ad una pubblicazione non in perdita (ricordo che per la stampa in offset, è bene avere un numero di pagine che tra intestazioni e pagine bianche finali si aggiri intorno alle 210), qui abbiamo un inizio più organico. La nostra scrittrice, nell’intento di ampliare la nostra conoscenza del senatore, ci presenta nel prologo il momento epico dell’infanzia di Aurelio. Ed è il momento migliore del libro. Avviene un furto nella casa del sedicenne Aurelio, sotto la tutela del padre (che se lo fila poco), e senza la madre che subito divorziò e se ne sta da qualche parte in Oriente. Furto di cui viene accusato Diomede, amministratore del patrimonio di casa Stazio e padre del suo compagno di giochi Paride. Contemporaneamente il padre, bevitore e giocatore, muore, cosicché Aurelio diventa il pater familias della casa, riesce a scoprire il vero colpevole del furto, e si accorge della bravura di Diomede, che sarà per sempre suo servitore ed amministratore, cedendo il posto, alla sua morte, al figlio Paride. Ora manca che prima o poi si conosca la storia del rapporto tra Aurelio ed il suo schiavo liberato Castore, per avere luce sulla sua costellazione familiare. Intanto continuiamo a sapere nelle more del racconto che Aurelio è sempre più dedito a conquiste muliebri, anche ora che ha da poco superato i 40 anni. In effetti, dal prologo sappiamo che è nato nel 3 d.C., che diventa capo della famiglia nel 19 d.C., anno in cui in una libreria di Roma incontra l’allora poco appariscente Claudio, studioso e balbuziente, che però, nel colmo di queste indagini è nel frattempo diventato imperatore. Inoltre sono 10 anni che non vede più la moglie da cui ha divorziato nel 34 d.C. Ultimo elemento positivo, riguarda il titolo, che questa volta è in linea con il tempo del racconto. Infatti, la scritta “CAVE CANEM” si trova sicuramente in una villa di Pompei risalente al 20 d.C. Questo però è tutto il meglio, che il resto del racconto non è all’altezza. Né dell’ironia che a volte traspare da altri scritti, né dall’intrigo investigativo, che si rivela (almeno parzialmente) ben presto, anche se la piena luce potrà venire solo alla fine (quando sapremo cose che all’inizio erano impossibili da divinare). Dimenticavo, l’altro momento personalmente di goduria è l’ambientazione del romanzo, che si svolge tutto tra Baia e Pozzuoli, passando per il lago di Lucrino, ed altre zone ben note della baia Domizia (anche senza Patrizia, se qualcuno ricorda la canzone). Insomma, lì sta in “ferie augustae” il buon Aurelio e, decidendo di tornare a Roma, si avvia con l’amica Pomponia, fermandosi per saluti ed altre amenità, nella villa di Gneo Plauzio. E qui cominciano le complicazioni: Gneo Plauzio è un mercane arricchito (in realtà è uno che vende pesci e mitili d’allevamento), che ha tre figli dalla prima moglie (Attico, Secondo e Terzia, gran fantasia), che con i soldi convince l’imperatore Tiberio a fare divorziare la bella Paolina dal generale Fabrizio, sposandola, adottandone il figlio Lucio, ed accogliendo nelle sue schiere il piccolo Silvio, forse nato da una sua relazione adulterina. Appena arriva Aurelio muore Attico che cade in una vasca di murene. Fatalità? Il nostro ci crede punto o poco. Anche se viene sobillato da Paolina che gli mostra un’antica profezia, dove i figli di Gneo perirebbero per mano di pesci, uccelli e insetti. Profezia che data quasi venti anni prima. Già qui, ne noto l’improbabilità, che solo Paolina ne conosceva il contenuto. Neanche la sibilla cumana, cui Aurelio tributa una visita (spassosa, questa sì) ne sapeva alcun che (ed è la sibilla, oh!). La situazione precipita quando Secondo viene ucciso orse da un airone, più probabilmente da un pugnale. Gneo, impaurito, fa testamento riconoscendo Silvio e nominandolo suo erede. E poco dopo, mentre tutti cercano di proteggere Terzia dagli insetti, anche Gneo muore. Così che Silvio, obtorto collo, assume le redini della casa, si dichiara alla sedicenne Nevia (di cui non vi diciamo altro, sennonché è figlia della bella Elena, che Aurelio… e quante cose volete sapere, eh?), e durante il banchetto di commiato di Aurelio, sorride con un ghigno tale e quale a Lucio Fabrizio. Trate voi le somme, che noi l’abbiamo fatto da un pezzo. Detto anche dei gustosi accenni a vicende trasversali, come la sconfitta di Varo a Teutoburgo o la rivolta di Spartaco (che veniva dalla Tracia, e non me lo ricordavo), tutto il resto passa un po’ in sordina, senza troppa infamia è vero, ma anche senza troppa lode. Tanto poi per collegare gli episodi, il romanzo finisce con Sestilio che invita il recalcitrante Aurelio ai ludi circensi. Tant’è che il prossimo romanzo si intitola: ...
Danila Comastri Montanari “Morituri te salutant” Mondadori euro 9,90
[A: 28/11/2014– I: 22/02/2016 – T: 24/02/2016] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 234; anno 1993]
Come dicevo alla fine della precedente trama, il nuovo romanzo non poteva che ricordare il saluto dei circensi alla loro entrata nell’arena. E sui ludi, sulle morti e sulle indagini del nostro Publio Aurelio Stazio si dipana una nuova saga scritta dalla brava Danila Comastri Montanari. Inoltre, essendo il romanzo leggermente corto, come in altre occasioni viene riempito (purtroppo senza indicazioni in copertina) con un racconto. Di quelli estivi, di piccole indagini che Aurelio svolge nel “buen retiro” di Baia. Ma su questo torneremo. Che si deve narrare del libro e della sua trama. Come spesso accade alla nostra scrittrice, l’ambientazione è degna di una ricostruzione storica accurata, e degna di fede. Meno l’indagine, l’intreccio, il giallo, la soluzione. La trama inizia come da titolo nell’arena, quando il capo dei gladiatori, il supposto invincibile Chelidone muore improvvisamente mentre sta per finire il suo avversario. Dato che il divo Claudio è presente ai fatti, non ci si può esimere dalle indagini. Inoltre, ricordando i trascorsi giovanili, quando l’imperatore era solo un claudicante erudito, non può che affidarsi al suo allora allievo Aurelio. Ed il nostro, con la sua solita abilità, e con l’aiuto del fido e nello stesso tempo malandrino Castore, indaga. Scopre intrecci inaspettati, scommesse truccate (niente di nuovo sotto il sole!), gelosie e voglie di rivalsa. C’è l’attrice Nissa, supposta amante di Chelidone, ma anche protetta dal losco avvocato Sergio Maurico. Ci sono i gladiatori compagni di Chelidone, su cui si gettano più di un’ombra di dubbio: l’infido Eliodoro, sempre pronto a dire una parola malvagia, la selvaggia Arduina, principessa britanna in cattività, bruttissima e bravissima, il celto Gallico, in attesa della fine della schiavitù gladiatoria. Aurelio scopre facilmente che dietro a tutto, o quanto meno a molto, c’è sempre Sergio Maurico: ha prelevato il fabbro Placido da quel di Modena facendolo diventare l’invitto Chelidone, ha riscattato la servetta Nissa dai lupanari, facendone un’attrice d’avanguardia erotica, è intimo del generale Fazio, di certo poco popolare. Indagando a fondo in un caldo mese di giugno, Aurelio ritrova anche la sua prima sposa, Flaminia, da cui era separato da decenni, con la faccia devastata dal vaiolo ma sempre in contatto con le sfere “nere” del potere. Sarà facile per Aurelio risalire alla trama ordita dall’avvocato: far perdere Chelidone, senza che questi muoia, costringere Claudio a decidere “vivo o morto” come si fa in questi casi, e sulla morte innescare una rivolta popolare nell’arena che costringa l’imperatore ad uscire da vie laterali, dove lui ed i suoi scherani avrebbero provveduto a finire l’opera che i miliziani non avevano terminato ai tempi di Caligola. Ma una trama senza prove è inutile contro le armi oratorie di Sergio Maurico. Per fortuna che qualcuno (e non vi dico chi) viene in soccorso al nostro, fornendo a lui ed a Claudio le prove del complotto. Tuttavia Chelidone non doveva morire nell’arena. Anche qui, Aurelio si rivela intuitivo, capendo chi fosse l’unica persona che, all’interno dell’assemblea dei gladiatori, avrebbe desiderato e brigato per uccidere il fellone. Vi tralascio, in quanto sarebbe un lungo elenco, le morti al contorno del romanzo. Rimane, come detto, la ricostruzione: dei ludi, dei templi, delle strade romane, della suburra, delle strade intorno all’Aventino. Nonché delle vesti, dei banchetti, e di quant’altro riesce a riportarci a quel 45 d.C. Divertente il cammeo con Lucio Domitio, figlio di Agrippina, che già strimpella la cetra volendo diventare un grande cantore, e fa uno scherzo mortale alla sorella di Sergio. Gli esperti di storia sapranno già che Lucio Domitio sarà il successore di Claudio, con il nome di Nerone. Menzioniamo brevemente il racconto in appendice (“Una dea per Publio Aurelio Stazio”) dove l’azione si svolge poco dopo i fatti precedenti, ed è interessante solo per la bellissima descrizione che riporto. La storia è banalina: Pomponia, amica di Aurelio, in quel di Baia si invaghisce del culto egizio di Iside. Ma è tutta una truffa, ordita da due loschi capuani, dove la morte del capo porta all’incriminazione di Pomponia, unica presente sul luogo del delitto. Aurelio, con una breve indagine, farà ben presto luce sulla truffa, sulla morte, e su alcune misteriose nascite. Alla fine, non dispiace lo scritto di Danila, soprattutto per l’accurata ricostruzione storica, e per qualche cammeo storico ben delineato. Ne consiglio una distratta lettura a chi voglia anche rivedere nelle piante inserite nei libri come si era sviluppata nei primi decenni dopo Cristo la nostra città eterna.
“Baia, il luogo di ogni delizia, nelle cui terme miracolose si coniugavano i piaceri più raffinati del corpo e dell'anima. Baia, la perla del mare, dove i vecchi ringiovanivano, i fanciulli si effeminavano e le vergini non restavano tali a lungo. Baia, il paradiso dei cacciatori di donne, da cui le belle matrone tornavano guarite nel corpo e ferite nel cuore... La magica insenatura perfettamente circolare, i colonnati a picco sul mare, gli enormi bulbi delle aule termali, i giardini fioriti, le lussuose residenze dei grandi di Roma, prima tra tutte quella dell’imperatore: tutto ciò faceva di Baia la più bella e la più famosa stazione di villeggiatura dell'impero.” (185)
Prima e molto solitaria trama del mese. Ed ecco allora le quindici letture del mese di marzo, illuminate da due interessanti letture: “Il meglio della vita” di Rona Jaffe, e l’affare Quebert dello svizzero Dicker, che vi consiglio (in italiano va bene). Ed oscurate da una delle peggiori prove di Wilbur Smith, un autore di best seller che ho cominciato a studiare, ma che non mi ha ancora convinto.

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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Bruno Morchio
Le cose che non ti ho detto
Garzanti
9,90
3
2
Rona Jaffe
Il meglio della vita
Beat
9
4
3
Danila Comastri Montanari
Spes ultima dea
Mondadori
9,90
3
4
Wilbur Smith
Figli del Nilo
TEA
6,90
3
5
Danila Comastri Montanari
Scelera
Mondadori
12
2
6
Joël Dicker
La vérité sur l’affaire Harry Quebert
De Fallois
9,20
4
7
Wilbur Smith
Alle fonti del Nilo
TEA
6,90
1
8
Bruno Morchio
Rossoamaro
Garzanti
9,90
3
9
Alessia Gazzola
Le ossa della principessa
TEA
12
3
10
Bruno Morchio
Bacci Pagano cerca giustizia
Fratelli Frilli
9,90
2
11
John Irving
Hotel New Hampshire
Bompiani
10
3
12
Andrea Vitali
Le tre minestre
Mondadori
9
2
13
Michael Connelly
Il quinto testimone
Piemme
13
3
14
Claudia Piñeiro
Betibú
Repubblica Mondo Noir
7,90
3
15
Ahmed Mourad
Polvere di diamante
Repubblica Mondo Noir
7,90
2

Ma il campanello suona, ed anche sotto la pioggia, è bene avviarsi. A tutti un caldo abbraccio visto che vado al freddo.

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