Eccoci all’ultima trama dedicata
alla collana dei Gialli Anglosassoni del Corriere della Sera. Collana iniziata
con qualche buona prova e poi pian pianino calata verso fondali abissali. Qui
c’è solo la prima trama che ha un filo di interesse, come esemplare del filone
“se l’avessi saputo prima”. Il resto è praticamente inutile (ah, se l’avessi
saputo prima…).
Dorothy Cameron Disney “Una sciarpa intorno al collo” Corriere della
Sera Gialli 21 euro 6,90
[A: 24/06/2016– I: 23/09/2018 – T: 25/09/2018] - &&
e ½
[tit. or.: Strawstack; ling. or.: inglese; pagine: 279;
anno 1939]
Eccoci
ancora ad una nuova puntata dei gialli anglosassoni. Ancora con un autore, anzi
autrice, americana, che rispecchia meglio il moto inglese di vedere il
poliziesco. Anche se la sua scrittura è nel filone, che trovo un po’ ridicolo
nel suo modo di porsi, noto come “Had I but know (HIBK)” (cioè, “se lo avessi
saputo prima”). Con quel modo di attaccare molti capitoli di narrazione con
appunto quel mantra. Se lo avessi saputo non avrei fatto, non avrei detto, e
così via. Sottolineo ridicolo, perché ad un certo punto la protagonista del
libro, ad esempio, nasconde delle forbici usate per tagliare dei fili del
telefono, e ripete, ah se l’avessi saputo prima cosa sarebbe successo, non lo
avrei fatto. Ora, vi renderete certo conto che non bisogna essere delle aquile
investigative per capire che sottrarre una prova in un ambito di inchiesta di
certo porta a sviare l’inchiesta stessa, quando non favorisce il colpevole,
piuttosto che la ricerca dello stesso. Vedremo di certo più avanti nelle mie
letture il capostipite di questo genere, Mary Roberts Rinehart con il suo “La
scala a chiocciola”, così come abbiamo già visto le prove di un’altra esperta
del ramo, Ethel Lina White. E di entrambe ricordo le bellissime rese
cinematografiche. Qui, intanto abbiamo
Dorothy Cameron Disney, nata in un territorio indiano ora in Oklahoma, autrice
di 9 romanzi gialli, poi editorialista per decenni in un magazine femminile, dove
teneva una rubrica dal promettente titolo “Can this marriage be saved” (cioè,
si può salvare questo matrimonio, e non faccio altri commenti). Come spesso in
questi romanzi HIBK la protagonista è una donna, sovente anche narratrice, come
in questo caso. Solo che la nostra Margaret è un po’ più ingenua del normale,
una che casca un po’ dal pero quando gli avvenimenti si susseguono. Margaret,
benestante del Vermont, cerca di mettere su casa vicino a Washington, una casa
dove vivono lei, la sorella Marian con il marito Fred e la figlia Jane, una serie
di domestici, ed a cui viene invitato il cugino Ames (figlio della morta
sorella Jane, e che nessuno ha mai incontrato). Margaret si ammala stranamente
di febbre tifoidea, viene chiamata anche la cugina Violet per curarla, viene
ingaggiata un’infermiera, Dorothy, per assisterla, e giunge dal Vermont l’amico
e sodale dottor Samuel. Questa è la scena che ci si presenta, quando Margaret
guarisce e Dorothy decide improvvisamente di lasciare la casa. Peccato che poco
dopo vadano a fuoco i pagliai della villa (gli “Strawstacks” del titolo,
bellamente cambiato con quella sciarpa un po’ anodina). E nel pagliaio si trova
Dorothy morta (in particolare strangolata, da cui ancora la famosa sciarpa). Di
capitolo in capitolo Margaret, con l’aiuto reale del solo Samuel, percorre
avvenimenti, ricostruisce movimenti, entra nella vita di Dorothy. Che pare sia
vedova oltre che infermiera. Che ha conosciuto Fred, il marito di Marian, quasi
che tra i due ci potesse essere una tresca. Che in effetti ha sottratto dei
virus tifoidei dall’ospedale per far morire Margaret. Cosa scoperta da un
dottore dell’ospedale stesso, che Dorothy ricattava per altri piccoli motivi,
ma che forse stava per uscire allo scoperto. Il tutto ingarbugliato da una
tresca tra Jane ed un ricco vicino, complicata dall’arrivo del cugino Ames.
Insomma, ogni capitolo porta nuove rivelazioni, ogni rivelazione fa scoprire un
piccolo o grande mistero (questo è un po’ il marchio di fabbrica della
scrittrice). Sempre con la povera Margaret a bocca aperta. Alla fine, tutti i
tentativi di ucciderla verranno sventati, con un finale descrittivo (buono in
genere ma non sempre presente) si risalgono tutti i passi di chi voleva
accaparrarsi soldi e casa dell’ereditiera Margaret. Anche se per scoprire la
colpevolezza bisognerà ricorrere ad alcuni elementi esterni (per cui il lettore
è un po’ sfavorito rispetto agli indagatori). Tutto poi con un bel happy end
finale, tanto che (visto lo svolgimento quasi tutto in due o tre stanze della
casa) sembrerebbe facile e promettente poterne ricavare un bel testo teatrale.
Come promesso, torniamo anche al rapporto ed alle similitudini con la Rinehart.
Gli avvenimenti si svolgono in una villa di campagna isolata, e spesso di
notte, coinvolgendo qualcuno che cerca di penetrare nella casa. Come nella
Rinehart, molti membri della famiglia sembrano nascondere segreti, e sembra che
siano in atto sinistri complotti, spesso iniziati ben prima dell’inizio stesso
del libro. E che continuano a svolgersi per tutto il romanzo. Quindi, non solo
il filone HIBK, ma anche lo stesso modo di scrivere e presentare la narrazione
è simile. Purtroppo, qui con risultati modesti, se non un po’ noiosetti.
“Per te farei molto di più … di quanto tu
possa credere. Mi sono reso conto che tu sei molto importante nei mei
progetti.” (101)
Elizabeth Daly “L’assassino scrive di notte” Corriere della Sera Gialli
24 euro 6,90
[A: 05/07/2016– I:
28/09/2018 – T: 30/09/2018] - &
[tit. or.: Nothing Can Rescue Me; ling. or.: inglese; pagine: 267; anno 1943]
Certo
mi sembra un bel salto degli editor italiani passare da “Nessuno può salvarmi”
a questo anodino sull’assassino che scrive di notte. Che in effetti, la vittima
predestinata non potrà essere salvata nonostante tutto l’impegno del
protagonista. Ma che l’assassino scriva di notte è un’illazione che inferisce
sulla scrittura di alcune frasi simbolicamente (e pateticamente) ingiuriose
all’interno di un dattiloscritto delle memorie della futura vittima. Non è solo
l’assassino che scrive di notte, e non si capisce la ratio che c’è dietro la
scelta di questo titolo. Ma non è questa la sola pecca del libro. Certo, questa
è l’unica non imputabile all’autrice, anche lei, come le ultime segnalate,
proveniente dalla parte americana dell’anglofonia. Anzi, newyorchese per
l’esattezza. Elizabeth ha una degna famiglia alle spalle (padre giudice, zio
commediografo di successo), fa onorevoli studi finendo nell’insegnamento
universitario. Ma ha sempre avuto il pallino dei romanzi gialli, di cui diventa
esperta lettrice, ma non altrettanto esperta autrice. Tanto che sin dagli anni
Trenta prova a confezionare trame “di mistero”, ma con scarso successo e
nessuna pubblicazione. La svolta, minimale ma significativa, avviene nel ’40,
quando riesce a vendere la prima novella che ha per protagonista Henry Gamadge.
Un personaggio cui fa ricalcare un po’ la sua storia personale, anche se ne
colloca la nascita nel 1904, quando lei ha 25 anni. Un personaggio su cui
imbastisce alla fine sedici libri. Un personaggio cha ha la passione per le
edizioni rare dei libri. Proprietario di una libreria di vecchi libri e noto
esperto di incunaboli e manoscritti autografi, è un “gattofilo” (il suo gatto
Martin è per lui pari a un essere umano) che occupa il suo tempo libero per
giocare a bridge e inscenare spettacoli teatrali dilettanteschi. Nel suo tempo
libero, si rivela anche come un detective perspicace, che sa come sondare le
oscure profondità dell'anima di un assassino. Ma questa è teoria, che qui non
solo il racconto è ingarbugliato, ma le doti del nostro Henry non mi sembra
vengano particolarmente esaltate dalla trama. L’unico tratto distintivo è che
il nostro, fin dall’inizio, dice di aver capito tutto, e ne sta cercando le
prove. Ma un’affermazione non fa una verità (almeno nel mondo reale, non ad
esempio in quello pentastellato… ma questo sarebbe un altro discorso). Ed io
aspetto le quasi trecento pagine per saperne di più. Ed alla fine, poco di più
se ne sa. Con una descrizione dello scioglimento dei misteri che non si riesce
a decrittare fino in fondo. Tra l’altro la scrittura è discretamente involuta,
non si scioglie fluida in descrizioni e dialoghi. Partendo in ogni caso da una
premessa poco allettante, come quella descritta all’inizio per il futuro libro
di memorie di Florence. Il suo giovane fratello chiede aiuto al nostro Henry, e
tutto converge sulla lugubre casa di campagna, la casa ereditaria degli Hutter.
Dove sono presenti, oltre a Florence e il fratello Silvester, Tim, il giovane
marito di Florence, miss Wing, la segretaria tuttofare, Susie, un’amica giovane
e un po’ svenevole, Sally, che Florence aveva “costretto” al divorzio
dall’alcolizzato Bill, Percy, altro giovane squattrinato, e Corinne, la cugina
del ramo cadetto, dove si ricorda, di passaggio che i rispettivi genitori ebbero
liti giovanili mai sopite. Il tutto ancor più complicato da questioni
testamentarie. Il grande patrimonio degli Hutter risulta vincolato sino alla
morte di uno dei due fratelli. In questo clima poco disteso, da un lato si
intrecciano storie di possibili rapporti ed amori clandestini, mai ben
chiariti. Dall’altro, Sil viene ucciso, quindi Florence diventa erede del
patrimonio considerevole. Motivo per cui Henry la convince alla redazione di un
testamento civetta, dove inopinatamente lascia tutto alla segretaria. Peccato
che subito dopo anche Florence venga uccisa, ed il testamento diventa reale. Ci
sono tentativi, molto poco riusciti, di suscitare interesse con sedute
spiritiche, statue tribali poco raccomandabili, ed altre amenità. Henry scopre
solo che la segretaria non era proprio ignota, visto che aveva rapporti di
conoscenza ben stretti sia con Sally che con Corinne. Ecco allora che il campo
è ben ristretto. Si può puntare il dito proprio sulla segretaria, sul marito
Tim che verrebbe diseredato o sui rancori della cugina Corinne. Henry risolve
la matassa poco ingarbugliata, senza coinvolgerci più di tanto, senza spiegare
in dettaglio la successione degli avvenimenti. Lasciando inoltre spiragli di
futuro che non capiamo e non seguiamo in modo particolare. Insomma, non capisco
come Agatha Christie potesse dire che la Daly la incuriosisce e la stimola.
Forse altre prove danno miglior risultato. Questa risulta una lettura faticosa
ma soprattutto molto poco stimolante.
Thomas Kyd “Morte in palcoscenico” Corriere della Sera Gialli 28 euro
6,90
[A: 02/08/2016 – I: 20/10/2018
– T: 22/10/2018] - & --
[tit. or.: Blood on the Bosom Devine; ling. or.: inglese; pagine: 267; anno 1948]
Devo
dire, una delle espressioni più basse del giallo anglosassone e del giallo in
generale. La storia si potrebbe risolvere in poche battute, e nel tentativo di
complicarla, l’autore si ingolfa in situazione di scarsa sostenibilità. Anche i
personaggi sono poco delineati, forse a parte l’investigatore, il tenente Sam
Phelan. Con una conclusione che è molto scontata nei modi e molto tirata per i
motivi. Bisogna comunque subito dire che l’autore, in realtà, è noto ed anche
bene in tutt’altro campo, con il suo vero nome di Alfred Bennett Harbage.
Americano di Philadelphia, per decenni docente ad Harvard, ed uno dei più noti
studiosi di Shakespeare, cui ha dedicato tutta la sua vita accademica, nonché
numerosi libri. Non a caso, sceglie come pseudonimo il nome di uno scrittore
inglese coevo del suo bardo. Come molti professori, decide poi (in questo caso
alla fine della guerra) di darsi un po’ di vacanza, pubblicando quattro libri
polizieschi, di cui i primi tre (tutti con un titolo “Blood…” e poi qualcosa)
con personaggio principale appunto Sam, un ex pugile dei pesi massimi, che,
abbandonata la carriera, entra in polizia. Come questo, che in realtà recita
“Sangue sul petto divino”, giocando sul fatto che la morta è un’attrice il cui
nome d’arte è Lilith … Divine. In Italia, visto che il gioco di parole si
perde, si opta per un titolo d’effetto, visto che la morte per l’appunto
avviene su di un palcoscenico. Quello però di spettacoli leggeri, burlesque nel
senso attuale del termine (vero Giulia?), con donne discinte che cantano e
ballano, ed altri numeri al contorno, per la maggior parte comici. L’autore
cerca di mettere un po’ di carne al fuoco, inscenando la vicenda in una
cittadina di provincia, il 2 marzo 1942 (che per inciso, anche se non c’entra
nulla, è la data di nascita di Lou Reed). Cittadina dove gli spettacoli di
varietà non son ben visti, tanto che il prete locale non perde tempo a lanciare
i suoi strali contro lo spettacolo “Frivolezze Quarantadue”, costringendo
magistrati e polizia locale a prendervi parte per giudicarne le possibili
oscenità. Ovvio che quando sono tutti presenti, avviene il fattaccio: la bella
Lilith colpita a morte durante lo spettacolo. Da questo punto in poi il nostro
Thomas-Alfred si incarta un po’. Cerca di mettere in cattiva luce via via tutti
i possibili sospettati: il gestore dello spettacolo, che però ha una mano
fasciata quindi sembra impossibilitato ad operare, il prete, presente in un
palco oscuro, che potrebbe voler iniziare una campagna moralizzatrice, un
cantante dello spettacolo, messo in ombra da Lilith, la soubrette Mary, che
avrebbe tutto da guadagnare, prendendo il posto della morta, un giovane
giudice, forse innamorato di Lilith o forse amante, il comico ex-lanciatore di
coltelli Loopy (un po’ fuori di testa come dice il nome che si potrebbe
tradurre come “pazzerello”, anche perché alcolista perso) che scopriremo essere
anche il marito legittimo di Lilith. Ci sono di mezzo soldi, che Lilith
potrebbe lasciare a qualcuno, potrebbero essere rubati dall’organizzatore, potrebbero
andare a Loopy. In tutto questo, si muove con le sue movenze da ex-pugile il
nostro Sam. Che ovviamente prende una piccola scuffia per Mary, ma che continua
ad indagare su tutti i fronti. Fronti da non dimenticare, che siamo nel ’42 e
c’è la guerra. Con fatica Sam scopre che l’arma è una canna di bambù presente
sulla scena. Ma il prete era svenuto, il giudice fugge di casa per arruolarsi,
l’organizzatore ha le mani fasciate, il cantante era nel cono di luce, quindi
visibile a tutti. Rimangono Loopy e Mary. Sam svelerà alla fine il mistero, ma
con un piccolo scoop che spiega molto, e che tuttavia contraddice i precetti
classici del giallo dove il lettore deve essere messo in grado di avere le
stesse informazioni degli investigatori. Insomma, una trama che si trascina,
personaggi delineati con un po’ di approssimazione, soluzione che viene
classificata come impossibile ma che ben presto viene smontata e si rivela non
semplice ma fattibile. Una soluzione inoltre che viene fuori a pezzi, e non con
un finale fluido come sarebbe auspicabile in tali gialli. Forse non è questo il
miglior libro del nostro autore, che, basandomi solo su quest’unica lettura,
direi che ha fatto bene a non indulgere troppo in questo passatempo e tornare
al suo amato Shakespeare.
Rufus Gillmore “Il letto d’ebano” Corriere della Sera Gialli 27 euro
6,90
[A: 02/08/2016 – I: 23/10/2018
– T: 26/10/2018] - &
[tit. or.: The Ebony Bed Murder; ling. or.: inglese; pagine: 318; anno 1932]
Davvero
una bella lotta tra l’esimio Rufus Gillmore e l’altrettanto poco noto (almeno
come pseudonimo) Thomas Kyd, da poco letto e tramato. Nella parte finale di
questi gialli anglosassoni si stanno nascondendo i meno interessanti risultati
di tutta la collana. Intanto anche Gillmore è americano, ma scrivi negli anni
Trenta, quando ancora non montava l’ondata hard boiled d’oltreoceano sulla scia
dei primi scritti di Dashiell Hammett. Ma oltre ad essere un giornalista non
particolarmente brillante, ha pubblicato ben 4 libri di genere poliziesco, di
cui 3 prima della Prima Guerra, e questo una ventina d’anni dopo. Facendo
un’operazione furbetta ma con poco successo. Ha infatti ripreso i caratteri di
un investigatore che andava per la maggiore all’epoca, Philo Vance, cambiandone
alcune caratteristiche, ma riuscendo solo a creare un personaggio un filo
(scusate il gioco di parole) più antipatico. Questo Griffin Scott è un
pubblicitario che a tempo perso si dedica ad aiutare la polizia nelle indagini,
ovviamente arrivando prima alla conclusione (ci sono vari accenni nel libro).
Come Vance ha due antagonisti nella polizia, il procuratore distrettuale
Randolph Hutchinson e l’ottuso sergente Mullens. Ma i due sono costantemente
contro Griffin, i due di Vance, il procuratore John F.-X Markham e il sergente Ernest
Heath, sono ondivaghi, ed a volte riconoscono palesemente la superiorità di
Vance. Infine, c’è l’io narrante. Che per entrambi è lo stesso autore, per
Vance celatosi sotto lo pseudonimo di S. S. Van Dine (in realtà era il critico
d’arte Willard Huntington Wright), mentre qui con la sua vera identità di
Gillmore. Quindi, un tentativo di imitazione, che non soddisfa nessuna velleità
di sorriso. Anche quando riprende il tormentone del numero 6. Van Dine,
infatti, ha scritto tutti i sui romanzi intitolandoli “The X Murder Case”, dove
X è sempre una parola di sei lettere. Ebbene qui, abbiamo sei personaggi
presenti all’ultima cena della morte, sei possibili assassini, sei ex o quasi
mariti della morta. Tuttavia, ci vuole del bello e del buono per trovare
qualcosa di salvabile oltre alle poche cose menzionate. Anche perché la storia
è banalina, ed inutilmente contorta. La bella e famosa Helen Brill Kent viene
trovata morta sul suo letto d’ebano apparentemente suicida. Nella casa al
momento del “suicidio” erano presenti Jesse Brill, il padre di Helen, Cleveland
e Napoleon Brill, i suoi fratelli, Ethel Cushing, la figlia, la signora Vroom,
la domestica tuttofare, e sua figlia Dorothy. Tutti vivevano alle spalle di
Helen, e tutti hanno motivi per volerla morta. Che nella cena prima della
morte, Helen annuncia a tutti che vuole sposarsi per la sesta volta, che non
vuole più la famiglia Vroom a ricasco nella casa, pur se presenti come
aiutanti, che non darà più un centesimo né al padre né ai fratelli. Né tanto
meno alla figlia, che in realtà non è neanche figlia, avendo finto di adottare
una bambina per accalappiare il secondo marito, ed avendola tenuta in casa come
si tiene un sopramobile, cercando ogni due per tre di sbolognarla ai nonni
(benché in realtà siano solo i genitori del marito morto). L’operazione di
Griffin per tutto il libro è smontare gli alibi di ognuno, facendo vedere che
ciascuno poteva essere l’assassino. Quindi di trovare le modalità
dell’uccisione. Ingegnosa ma molto “sul filo”. Helen infatti teneva sul
comodino una pistola (diavoli di americani sempre pieni di armi), che chi l’ha
uccisa ha pensato bene di costruirvi un meccanismo fintamente inarrestabile. Un
filo sul grilletto collegato all’interruttore della lampada sul comodino.
Quando Helen spegne la luce, il filo si rilascia, muove il grilletto e la
pistola spara. Meccanismo alquanto fragile, che basta spostare la lampada,
decidere di spegnerla prima e non dopo essersi coricata, sbadigliare mentre si
spegne, o tanti altri accidenti, che la messa in scena va a pallini. Ma
Gillmore non è molto ferrato in queste possibili analisi. Lui si concentra
sulle spacconate di Griffin, che ricostruisce a casa sua vari momenti
dell’omicidio, avendo a disposizione una specie di caverna di Batman
tecnologica (per l’epoca). Il tutto, come detto, narrato dal povero Gillmore
che non perde occasione di sottolineare quanto è intelligente Griffin, quanto è
stupida la polizia, quanto pensava a mille ipotetici assassini prima che
Griffin incastra … Beh, non vorrete mica che vi dica tutto. Anche se non mi
piace, non sono così cattivo. O forse sì? Prima di lasciarvi, un ultimo cenno
forse all’unica cosa carina di tutto il libro: la presenza di una grande
scacchiera dipinta sul pavimento della casa di Griffin, dove lui e Gillmore
iniziano una partita a scacchi con un’apertura, detta dei Quattro Cavalli,
molto in voga all’epoca, ma che porta ad una partita generalmente con poco
mordente. Come poco ne ha questo libro.
Whitman Chambers “I morti non lasciano impronte digitali” Corriere
della Sera Gialli 30 euro 6,90
[A: 30/08/2016 – I:
28/10/2018 – T: 29/10/2018] - & e ½
[tit. or.: Dead Man Leave No Fingerprints; ling. or.: inglese; pagine: 284; anno 1935]
Dispiace
che anche con quest’ultimo autore siamo ancora nelle parti basse
dell’espressione del giallo anglosassone. Con un autore americano che scrisse
molto tra le due guerre, per poi dedicarsi al cinema ed alla televisione (tra
l’altro, per chi ha memorie antiche, sceneggiò alcuni episodi della serie “77
Sunset Strip”). Come molti dei suoi romanzi (in genere ambientati nell’ambiente
giornalistico che conosceva bene), questo si basa intorno alla figura di una
persona che indaga. Data l’ondata favorevole negli anni ’30, ecco Stan Lake, uno
scanzonato investigatore che ha quasi le movenze di un Sam Spade, sempre un
passo avanti al lettore. Cercando però di conciliare (senza molto successo
tuttavia) un giallo classico con alcuni spunti da hard-boiled. Lake viene
coinvolto in questa trama complicata da un’attrice danese, Hilda, che prima
tenta una fuga d’amore con il bieco Theodore Raybourne, poi si accorge che
questi è appunto un profittatore che cerca solo i suoi soldi e la vuole sposare
con un ricatto. Lake allora con uno stratagemma si introduce nella casa dei
Raybourne dove trova: Rufus, il patriarca, una volta molto ricco ma ora in calo
economico, Maurine, la giovane moglie di Rufus, una coppia di amici della
famiglia, gli Amerton, che si spacciano per sensitivi, Inez, la figlia di Rufus,
con il suo fidanzato, il dottor Pageot, ed il maggiordomo cinese Fong Woo.
Inseritosi nelle dinamiche della casa, Lake si trova ingaggiato nello
smascherare una serie di assassinii. Il primo morto è Theodore, colpito con un
attizzatoio. Subito si pensa ad Hilda come possibile esecutrice, ma
fortunatamente l’oggetto mortale ha le impronte dell’assassino. Con un primo
passaggio alla CSI, tutti vengono schedati, ma si scopre che le impronte sono
di un tale John Royal, ex-socio di Rufus, morto un anno prima a San Quintino,
in prigione. Lake ed i suoi accoliti decidono di profanare la tomba di John,
per trovare le prove, ma la trovano vuota. Forse allora che John non è morto e
stia cercando di vendicarsi? Mentre Lake e la polizia tentano di risolvere
questa prima morte, ne avviene una seconda, con una tipica descrizione da
“camera chiusa”: la giovane Maurine viene trovata nella sua stanza, molto
discinta, strangolata con una calza. Due qui sono i dilemmi: sulla calza ci
sono le impronte di John, e, secondo problema, come è stato possibile il
delitto? Tutti i sopra menzionati erano in casa, e non sarebbe stato semplice
per un estraneo introdursi in casa. Confrontando le dimensioni interne ed
esterne della stanza di Maurine, Lake scopre un possibile passaggio segreto. Si
insinua nello stesso, e trova che sbuca nella stanza del dottor Pageot. Messo
alle strette il dottore confessa di essere stato l’amante di Maurine, ma di
averla trovata già morta. Qualcun altro ha usato lo stesso passaggio, allora.
La scoperta di un corpo alla deriva sulla spiaggia con delle strane abrasioni
alle mani, porta Lake all’intuizione di come sia stato possibile lasciare le
tracce sopra citate. Qualcuno ha rubato il corpo di John, prelevato le impronte
e costruito dei guanti con il loro calco. Mescolando camere chiuse, sparizioni
di cadaveri, e i “dieci piccoli indiani” alla Christie, i possibili colpevoli
si restringono sempre più. Il colpo finale l’abbiamo con la morte, pugnalato al
cuore, di Rufus. Pugnale sempre con le impronte di John. Lake ha capito tutto,
anche perché, come spesso accade, i delitti o sono fatti di cuore o sono fatti
di denaro. Qui potrebbero essere tutti e due. Rufus sapeva che Maurine lo
tradiva con Pageot, e Theodore sapeva tutto, essendo un losco figuro. Ma anche
i soldi di Rufus, una volta morti il figlio e la moglie, andranno a Inez la
timida figlia rimasta. Chambers ci porta per mano alla soluzione, l’unica cosa
ingegnosa di tutto il libro. Perché tutta questa storia è raccontata senza
molta enfasi, con molte intrusioni di altro: la polizia, personaggi che entrano
ed escono dalla scena, giornalisti impiccioni. L’unica cosa che possiamo dire è
che Hilda non è colpevole. Anzi si innamora di Lake, e lo prega di non
abbandonarla. Ma lui, duro e puro, e che sa di avere un debole nei suoi
confronti, non vuole passare il resto della sua vita come “marito di Hilda
Lane”. Per questo scende dall’auto con
la quale si stanno allontanando dalla casa dei delitti, e si avvia verso il
treno, senza guardarsi dietro. Un puro Humphrey Bogart! Peccato che invece il
libro sia solo uno zibaldone di fatti e luoghi comuni del crimine, mescolati e
rimessi insieme, forse anche un po’ troppi creando l’effetto “arrosto
bruciato”. Comunque, la serie è finita, ed ora si leggerà altro.
Non ci si sorprenda delle
limitate letture del mese di novembre, passato per la maggior parte in un bello
ed impegnativo viaggio in Botswana. Sottolineo solo la bellezza dell’ultimo
libro di Baumann, anche se non tra i suoi migliori, e la poca leggibilità della
franco-marocchina Pancol.
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
J
|
1
|
Zygmunt Baumann
|
L’ultima lezione
|
Laterza
|
9
|
4
|
2
|
Ernesto Sabato
|
Il tunnel
|
Repubblica Duemila
|
9,90
|
2
|
3
|
Sandor Marai
|
L’eredità di Eszter
|
Repubblica Duemila
|
9,90
|
3
|
4
|
Alexander McCall
Smith
|
The n°.1 Ladies’ Detecive Agency
|
Abacus
|
13
|
3
|
5
|
Danila Comastri Montanari
|
Dura Lex
|
Mondadori
|
12
|
3
|
6
|
Katherine Pancol
|
Gli occhi gialli dei coccodrilli
|
Bompiani
|
12
|
1
|
7
|
Danila Comastri Montanari
|
Pallida Mors
|
Mondadori
|
12
|
2
|
8
|
Danila Comastri Montanari
|
Saxa Rubra
|
Mondadori
|
12
|
3
|
Come si diceva, questa settimana
si parte. L’India lunga è saltata per problemi dei viaggiatori, la Dancalia non
si è concretizzata, che, visto che ero pronto per l’India vengo spedito (con
mio sommo piacere) in Tamil Nadu. L’avevo detto che questo febbraio poteva
essere interessante.