Dispiaciuto di avervi lasciato per ben tre settimane senza mie notizie, ecco che torno a voi, tornato (scusandomi della ripetizione verbale) da un ottimo viaggio nipponico. E riprendo da dove ci eravamo lasciati, con una nuova cinquina di libri italiani, anche se gli autori sono quattro. Dicevo in calando che iniziano le letture da un discreto Carofiglio, passando per un godibile Morchio. Poi si cala verso il mai da me amato Carrisi, finendo con un incomprensibile, a tratti, Nemus.
Gianrico Carofiglio “La disciplina di
Penelope” Repubblica Anima Noir 1 euro 8,90
[A: 22/06/2021
– I: 15/08/2022 – T: 16/08/2022] &&&
-
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 155; anno: 2021]
Come si sa, Carofiglio è un autore molto
presente nella mia libreria (conto a memoria circa 17 libri), che sempre mi ha
dato piacere leggerne. Sia nelle saghe dell’avvocato Guerrieri sia negli
scritti baresi. Forse un po’ meno in quelli del maresciallo Fenoglio. Qui,
comincia una nuova avventura, con un nuovo personaggio, l’ex-procuratore
Penelope Spada (a volte chiamata Penny, che lei non gradisce).
Confesso che ci sono parti che mi hanno
interessato, che ho seguito cercando di interpretare i passi dell’autore,
magari anticipandolo. Ma non trovo sia un prodotto completamente riuscito.
Minato, per mio conto, da quella domanda che in questi casi sempre mi faccio:
perché un uomo sceglie di mettere al centro della scena una donna, e
soprattutto di metterla in soggettiva? Se si usa l’autore onnisciente, ci sono
meno perplessità. Ma un uomo che si mette dei panni femminili mi lascia sempre
il fondo di domanda su quanto riesca ad interpretarne la sensibilità.
Ad esempio, qui come altrove, nel momento in
cui si parla di pulsioni sessuali, mi sembra che ci sia molto da esplorare su
come ogni sesso le viva a modo suo. Spesso, qui come altrove, si mette in bocca
e nella mente di chi agisce in primo piano, i pensieri dell’autore (o del sesso
dell’autore), mistificando un po’ il risultato.
A parte queste mie turbe mentali, il romanzo,
il giallo è ben costruito, con anche discreti tempi giusti di avanzamento, sia
nello scoprire il personaggio centrale (e magari qualche comprimario) sia nel
progredire della trama gialla.
Intanto abbiamo Penelope, che, per ragioni ad
ora ignote, una volta era in procura, ora, all’inizio delle storie, è fuori dal
proscenio pubblico. Certo, ha conoscenze e ricordi nei tribunali e nelle forze
dell’ordine, ma è uscita dal giro (o forse no). Per ora sappiamo solo che deve
aver commesso qualcosa di grosso. Ne seguiamo quindi i percorsi giornalieri,
trapuntati da alcune costanti: cibo abbastanza spazzatura, fumo ed alcool
(soprattutto superalcolici) in quantità, coadiuvanti chimici per dormire e
scacciare incubi, percorsi fitness con corse ed altre amenità. Insomma, una
personalità contraddittoria, se ci aggiungiamo il sesso occasionale, tanto per
far felice il corpo, non certo la mente.
In contorno a Penny, qui compaiono (ma se il
mio fiuto non mi inganna, compariranno anche in altre puntate di questa che
credo possa diventare un nuovo personaggio seriale) il giornalista Zanardi (con
quel nome che mi riporta a Bologna ed ai fumetti) ed il maresciallo Barbagallo
detto “Mani di Pietra”. Sono presenti, agiscono in sostegno alla nostra, ma non
hanno ancora precise personalità. Vedremo in un possibile futuro.
Peculiare anche la scelta di fondo di
Carofiglio, che da buon magistrato e conoscitore della legge, ci presenta
Penelope non tanto come un’investigatrice alla Perry Mason & company,
quanto come un’attenta lettrice di carte processuali. Infatti, pur se poi
qualcosa va da altre parti, quello che dice al signor Mario Rossi (sul cui nome
torneremo) relativamente alla morte della moglie avvenuta un anno prima con un
omicidio insoluto, è che, visto la Procura ottenne l’archiviazione del caso,
vedere se, in qualche rivola della legge, c’è la possibilità della riapertura
del caso.
Così, con lentezza come si addice ad una
Milano “reale”, Penelope si lascia coinvolgere dal caso, ne pensa, ipotizza
sviluppi, legge e rilegge le carte per vederne possibili scappatoie. Incontra
Rossi, cerca di capire il mondo della moglie Giuliana (la morta per un colpo di
pistola). Non sembra convinta che ci sia molto da fare, e come ultimo
tentativo, sguinzaglia il buon Barbagallo su piste inventate, ma che potrebbero
rivelare qualcosa.
Da lì, da un tentativo un po’ casuale e
disperato, nasce un filo conduttore, un rivelo di una casa svaligiata, di una
morta che sparisce, di peli di cane che compaiono, di un quartiere da visitare
a tappeto. Sviluppi imprevedibili ed imprevisti, che fanno leggere d’un fiato
la seconda parte del romanzo, sino alla sua non scontata conclusione.
Torniamo brevemente sul sig. Rossi. Che, e lo
scrissi anche in altre recensioni, è un cognome veramente usuale. Spesso, i
genitori ne mitigano l’incidenza scegliendo nomi improbabili, come l’amico di
famiglia che si chiamava Anacleto. Altrove, si va sul sicuro, quasi
sull’anonimato, ed anche io, in uno dei miei viaggi, ebbi un compagno che così
si chiamava.
Per ora, ci fermiamo qui, ed aspettiamo di
capire se Carofiglio ci darà altre puntate di Penny.
Bruno
Morchio “Un piede in due scarpe” BUR euro 12 (in realtà, scontato 10,80 euro)
[A: 01/11/2018
– I: 09/10/2022 – T: 10/10/2022] &&&
--
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 290; anno: 2017]
Come
per la lettura da poco fatta di uno scritto fuori testo di Carofiglio, anche
Morchio, per me, è legato ad altro, rispetto a scritti pur dignitosi e
leggibili. Legato a Genova, che tuttavia compare anche qui. Ma soprattutto
legato a Bacci Pagano, l’investigatore dei carrugi, di cui Morchio ha prodotto
nel tempo, a partire dal 2004, ben quattordici romanzi.
Qui,
purtroppo, rinuncia a Bacci, e questo mi ha storto iniziandone la lettura. Non
rinuncia però ai tocchi ed alle puntate verso l’altro suo mondo, quello che per
anni (dal 1988 al 2018) gli ha dato da vivere e da pensare. Che per trent’anni
ha esercitato come psicologo e psicoterapeuta in un consultorio familiare
genovese. Dal ’18, quindi l’anno dopo dell’uscita di questo libro, decide che,
a 64 anni può dedicarsi anima e corpo alla sua passione non più tanto segreta,
dedicandosi esclusivamente alla scrittura.
Quindi,
avendo deciso di non portarci Bacci nella storia, il nostro psico-scrittore ne
fa personaggi principali uno psicanalista (ma dai!!) che si trova, suo
malgrado, coinvolto in una storia abbastanza noir ed un simpatico commissario
trentino d’ascendenze molisane. Il secondo elemento un po’ straniante è la
decisione di ambientare la vicenda nel 1992, anno particolare per Genova: da
una parte la vicenda dell’Expo, che fu un grande insuccesso al momento, ma che
fu anche volano di tante cose buone per la città (come l’Acquario, il
completamento della metropolitana, l’ascensore panoramico ed il pieno recupero
del porto), dall’altra l’alluvione del 27 settembre di quell’anno, con tanti
danni e due morti. Quello che non ho capito è il nesso tra la storia ed il
tempo, che la vicenda poteva svolgersi in qualsiasi periodo storico, non
sembrandomi nulla nella vicenda particolarmente legato al ’92.
Torniamo
per un attimo alle due anime delle investigazioni, perché c’è una nominalistica
importante. Lo psicanalista si chiama Paolo Luzi, con il cognome del grande
poeta toscano. Il commissario invece si chiama Diego Ingravallo, con il cognome
derivato dal Don Ciccio di Gadda. Ma non è il solo riferimento letterario dotto
che ci regala l’autore, con il libro pieno di rimandi a Kafka, Borges,
Landolfi, Leopardi e Dante (che vi lascio scoprire). Più un rimando da cogliere
al volo: per allievare giorni di detenzione regala a Teresa “Peccato mortale”
di Lucarelli, un libro che ho letto esattamene una settimana prima di questo.
La
storia, gialla più noir, si dipana intorno all’omicidio di Luca Latorre,
giovane imprenditore. Sposato con Sonia, che però non ha mai amato, ha da
sempre una relazione (clandestina?) con Teresa. Ma Luca non vuole più avere “un
piede in due scarpe”, e si appresta a sciogliere il dilemma moglie-amante.
Teresa, conoscendolo, si inventa tutta una pantomima coinvolgendo lo psicologo
Luzi e Sonia, avvertendoli che potrebbe uccidere Luca. E quando Luca muore, è
ovvio sia la prima sospettata.
Qui
intervengono prima Luzi poi Ingravallo. Il primo, a seguito del dramma
familiare subito, ha una sorta di somatismo che gli fa capire se chi gli parla
sta fornendo una bugia consapevole. Il secondo, a seguito di tanti elementi
indiziari, nonché riscontri, ha forti dubbi. Entrambi, al fine, sono convinti
dell’innocenza di Teresa. Come lo è Sonia, i genitori di Sonia, i genitori di
Luca. Ma soprattutto il cerchio degli inseparabili: l’avvocato Marco Treves,
l’erede del cioccolato Gioconda Marenco, e “la Marchesa” Federica Brignole
Sale.
In
un’indagine fatta di continui colloqui ed interrogatori, lavorando in combutta,
ma arrivando al sodo quasi in modo autonomo, Luzi e Ingravallo dipanano per
quasi trecento pagine una congerie di storie di amore e di amicizia, che fanno
il substrato forte del romanzo. Ci si interroga spesso su cosa siano quei due
sentimenti, su quanto sia l’uno più forte dell’altro. D’altronde, Morchio, da
buon psicologo non esita a buttarsi nella mischia, coinvolgendoci nei
ragionamenti.
E
sempre Morchio, ci regala di contorno altre storie, di certo derivate, anche in
modo indiretto da tutti gli anni passati nella professione. Piacevoli intenti
intellettuali.
Che
dire, quindi? Una lettura non banale, forse non sempre riuscita, viziata
all’inizio dalla mancanza di Bacci, ma riempita pagina dopo pagina da nuovi
protagonisti che, come in ogni libro ben riuscito, ci farebbe piacere
incontrare ancora. Soprattutto in un profumo di muschio e cannella che vi dico
ma non vi svelo.
Finiamo
tornando al 1992. Alla fine, riflettendo, forse è un omaggio velato a quello
che poteva essere per Genova e non è stato. Come, in parallelo, succede a molti
attori della storia. Un ricordo del passato, che solo i migliori riescono ad
elaborare entrando nel presente. Lasciando il filo della narrazione, è quel
passato (tremendo) che pesa su Luzi, è quel ricordo della gioventù trentina che
pesa su Ingravallo, è il ricordo della solidarietà reciproca che pesa nel
gruppo degli amici inseparabili, ma ormai separati.
Come
tutti i bravi psicologi sanno, Morchio ci dice di superare il passato facendo
“un bagno di realtà”. Chi, ed io fra questi, ha fatto riflessioni su ciò, sa di
cosa stiamo parlando.
Donato
Carrisi “Il cacciatore del buio” Repubblica Emozione Noir 5 euro 7,90
[A: 22/07/2019
– I: 12/11/2022 – T: 14/11/2022] &&
e ½
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 477; anno: 2014]
Donato Carrisi, per quanto ne conosco e ne ho letto,
è, spesso e volentieri, uno scrittore seriale. Così non ci meraviglia che qui
affrontiamo il secondo episodio delle avventure nere di Marcus e Sandra, che
avevamo incontrato nel primo episodio “Il tribunale delle anime”.
Il
primo episodio aveva dalla sua la novità della scena, l’introduzione dei
personaggi, la nascita degli intrecci. Qui, se da una pare l’autore si va
ripetendo, abbassando un po’ la media, dall’altra c’è un minimo di evoluzione
che alla fine riporta il tutto su questa sufficienza media che per ora
caratterizza la serie.
Purtroppo,
non c’è più la novità della Penitenzieria Apostolica, anche se la sua struttura
misterica fa pensare che anche lì ci sia qualcosa da delucidare. Forse non in
questo libro, ma prima o poi. Non c’è neanche la novità di Sandra Vega, che
entra a pieno titolo nelle indagini, anche se le sue storie pregresse pesano
sui suoi comportamenti. Ci sono poi due nuovi elementi: il misterioso Battista
Erriaga e l’irrisolto vicequestore Moro.
E
nel sottofondo, c’è sempre una posizione dell’autore che, seppur non sempre
palesemente, si pone in maniera critica e negativa verso le strutture
ecclesiastiche. Una scelta che mi permetto di non discutere né tanto meno
giudicare.
Come
nelle migliori tradizioni, ci sono due indagini che coinvolgono Marcus. Una da
cui inizia e finisce il libro sull’uccisione di una suora all’interno della
Città del Vaticano. Avvenuta un anno prima dello svolgersi delle azioni
narrate, e che si concluderà molto velocemente e brevemente nel finale. Laddove
Marcus scopre l’esistenza di una specie di Hannibal curiale, che non mangia le
sue vittime, ma che decide di debellare il male ovunque sia. E per questo è
tenuto in isolamento all’interno del Vaticano, anche se poi riesce sempre a
fare qualcosa. Ma non è questa la storia di Cornelius.
L’indagine
principale vede l’uccisione in modo ripetitivo di coppie di persone, in genere
amanti, con le stesse modalità: il maschio è subito ucciso con un colpo di
pistola, la donna viene prima torturata, poi uccisa, quindi truccata e
fotografata dall’assassino dopo la morte.
Sandra,
dopo la fine del primo libro, dopo aver scoperto che Marcus è un prete, si è
trasferita a Roma, ha una storia con tale Max, ed è la prima ad accorgersi che
qualcosa non quadra. Poiché sembrano esserci sulla scena del crimine elementi
esoterici, poi, i Penitenzieri inviano Marcus a seguire in prima persona le
indagini. Così i due si ritrovano (anche se Marcus di notte segue sempre i
movimenti di Sandra), sempre con quella scintilla sessuale che potrebbe
scattare, o forse no (“Uccelli di rovo”?).
I
misteri che avvolgono le morti sono legati a tre elementi ricorrenti: il
bambino di sale, l’uomo con la testa di lupo ed il disegno che accomuna le
morti. Ricordiamo che Marcus ha alcuni tratti distintivi: non ricorda il
proprio passato, come se la sua coscienza fosse nata dove il colpo alla testa
ricevuto a Praga (descritto nel primo libro), ha il dono di riconoscere le
anomalie che si presentano sulle scene criminali, soffre periodicamente di
epistassi.
Carrisi
inzeppa la vicenda di tanti punti che potrebbero sviare le indagini: ci sono
altri delitti, viene ucciso il vicequestore Moro, scopriamo che Erriaga non
solo è un alto prelato, ma è anche il cosiddetto “Avvocato del Diavolo”, quello
che sostiene l’accusa durante i processi del “Tribunale delle Anime”. Ed è
Erriaga che interviene per guidare Marcus, e perché i segreti delle morti
derivano da una lunga storia collegata a Victor Agapov, funzionario sovietico a
Roma negli anni Ottanta. Victor era ossessionato
dalla morte della moglie, così da far precipitare nella follia i suoi figli:
Victor e Hana. O forse il figlio era uno solo che interpretava due ruoli, uno
maschile ed uno femminile?
Sarà
l’acume fotografico di Sandra unito alle percezioni di Marcus che porteranno
alla soluzione del caso, dove però la loro bravura non riuscirà a salvare né
Max né tanto meno Clemente.
Come si
evince da queste righe, anche qui il tema di fondo per Carrisi è il male, anzi
il fascino esercitato dal male, che poi porta Clemente ad affermare che tutto è
male, ed il bene è la sua anomalia. Poi, spingendo sempre sulle amnesie di
Marcus, c’è il rapporto tra passato e presente, sulla funzione della memoria.
Che tutti cercano di superare il pessimo rapporto con il proprio passato:
Marcus che non sa chi è, Sandra che cambia per ricominciare, ma anche tutti i
“cattivi”, segnati dagli avvenimenti della loro infanzia. Carrisi con i suoi
scritti ci ammonisce: non si può scappare dal proprio passato.
Frase che
sottoscrivo, ma che suggerisco a Carrisi di controbilanciare con la lettura di
un libro di Banana Yoshimoto. Forse così capirà che al mondo ci sono anche
persone “normali”.
“Credo che
per sposare qualcuno, o anche solo per passare tutta la vita insieme, ci debba
essere qualcosa oltre l’amore.” (308)
Donato
Carrisi “Il maestro delle ombre” Repubblica Passione Noir 21 euro 7,90
[A: 19/11/2018
– I: 29/11/2022 – T: 30/11/2022] &&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 301; anno: 2016]
Siamo (finalmente) arrivati al volume
conclusivo (almeno per ora) della trilogia di Marcus e Sandra. E dico
finalmente perché l’inventiva e la spigliatezza di Carrisi qui cominciano a
scendere ad abissi senza fondo, mettendo insieme trame poco credibili,
personaggi che si appiattiscono pagina dopo pagina, e decisioni che forzano la
realtà.
Carrisi ci aveva infatti abituato, pur nella
divergenza mia con le sue scelte, ad un procedere sul filo della plausibilità,
se non della credibilità. Ora qui ci troviamo un nubifragio che flagella Roma
per giorni, un fulmine che fa saltare per aria le centrali elettriche, un
black-out programmato, in una notte, tra l’altro, in cui si verifica anche
un’eclissi lunare. L’implausibilità del tutto è anche data che Carrisi colloca
la vicenda un 23 febbraio. Ora l’unica eclissi totale lunare recente nel
periodo si è verificata il 21 febbraio 2008.
Ci sono poi anche altri elementi che fanno
sollevare sopraccigli: una droga fotosensibile, che si attiva col buio, e che rende
i drogati simili ai morti viventi di Romero, un’adunata di drogati nella piazza
del Luneur, la somministrazione della droga tramite un’ostia nera, il
conseguente scoprimento di una chiesa parallela che usa l’ostia per la droga e
si chiama “Chiesa dell’Eclissi”, chiesa che sembra una controfigura mal
riuscita dei Beati Paoli siciliani (leggete il libro di Luigi Natoli edito da
Sellerio) con soprannomi degni di altre massonerie (il Vescovo, il
Giocattolaio, l’Alchimista), un altoparlante a tempo che sembra uscito da
“Profondo Rosso” di Dario Argento. E qui mi fermo.
Anche perché l’idea più interessante di tutto
il romanzo è l’auto coinvolgimento di Marcus. Ora, noi sappiamo dagli episodi
precedenti che Marcus non solo ha perso la memoria del suo passato lontano, ma
soffre di periodiche amnesie e di epistassi.
Proprio svegliandosi da una di queste amnesie
viene coinvolto in una serie di avventure e soprattutto di morti che non si
capisce né perché vengano uccisi né come mai, in loro prossimità, ci siano fogli
scritti da Marcus che forniscono indizi per ricostruire tutta la vicenda. Non
solo, si trova anche un telefonino con un video splatter ed altri due indizi:
una foto di Sandra Vega e delle gocce di sangue. Gocce che i potenti delle
analisi poliziesche individuano subito come epistassi. Ed io vorrei capirlo.
Fatto sta che questo non può che far
convergere Sandra e Marcus alla ricerca del famoso bandolo. Che sembra iniziare
dal rapimento di tal bimbo Tobia, avvenuto 9 anni prima. In parallelo Marcus è
inviato a ripulire scene criminali che potrebbero danneggiare il Vaticano,
ordini che arrivano dal famoso Battista Erriaga che abbiamo incontrato nel
secondo episodio, come Avvocato del Diavolo nel Tribunale dele Anime. Il
mistero che sembra legare tutti i morti e tutte le ricerche è un cerchio
tatuato sulla pella dei morti e dei maggiori indiziati.
Inseguendo
le tracce di Tobia, i nostri paladini incontrano un Vescovo morto per un
eccesso di auto eroticità (almeno così sembra, anche se più verosimilmente
qualcuno ha manomesso la playstation erotica), un Giocattolaio che costruisce
pupazzi di vera pelle per i giochi erotici degli adepti (e che viene ucciso
anche lui in modo splatter), l’Alchimista che rifornisce il mercato della
famosa droga contenuta nelle ostie (e non vi dico che fine fa).
Marcus
e Sandra si danno da fare per ricostruire tutta l’astrusa vicenda, laddove il
nostro chiede anche aiuto al serial killer vaticano, quel tale Cornelius che da
ormai venti anni sta rinchiuso presso delle suorine (che si riconoscono anche
dalle scarpe, essendo di clausura e velate), ma che riesce ogni tanto a fare
qualche bell’omicidio.
Alla
fine, con tanti arzigogoli, scopriamo che due sono le indagini che stiamo
seguendo: il contenimento della Chiesa dell’Eclissi e le vicende simil-Hannibal
del serial killer.
Il
tratto comune delle due indagini, più che Marcus, è impersonato da Erriaga che
da un lato cerca di indirizzare Marcus e Sandra verso la soluzione del primo
mistero, e dal secondo è pesantemente coinvolto nelle vicende di Cornelius.
Di
lato, già sappiamo che Marcus e Sandra hanno un coinvolgimento personale che va
molto al di là dell’amicizia e del rispetto, e non ci peritiamo se i due
andassero a letto, e se Sandra non scoprisse il cerchio fatale anche su Marcus,
e se la madre di Tobia era una suora, un tempo carceriera di Cornelius. E tante
altre coincidenze e rivelazioni, che vanno a ruota libera, in quel finale
sempre da “morti viventi”, con l’esercito che viene a liberare Roma dai
cattivi. Dimenticavo, anche qui c’è il solito poliziotto corrotto (anche più
d’uno, volendo), ed anche qui ci sono preti ed affini che non si capisce perché
abbiano abbracciato la carriera ecclesiastica.
Certo,
per noi lettori, un piccolo colpo al cuore viene dallo scoprire il percorso di
tutte le morti del libro, ma è la solita cattiveria di Carrisi, sulla quale non
torno di certo.
Dispiace
solo che la buona penna di Carrisi (e di molti buoni scrittori noir italiani)
si invischi spesso in trame più splatter che hard boiled. Peccato, che ci
sarebbe molto spazio per un avvocato Guerrieri o per un investigatore Bacci
Pagano.
Finisco
con un elemento personale ed una tirata d’orecchi. Il gaudente cardinal Erriaga
spesso si reca a mangiare al Pantheon, presso un raffinato ristorante francese
dai soffitti affrescati, gestito da suore che cantano tutte le sere, “L’Eau
vive”. Parole che mi riportano ai tempi aurei di mio padre, quando si andava,
almeno una volta l’anno, in quel ristorante di via Monterone a Roma (via che
poi divenne di ben altra politicità, quando ci si trasferì la sede del
Manifesto).
Ma
se l’elemento personale è una culla di ricordi, poi viene la tirata d’orecchi:
il secondo ristorante del cardinale è “Velando”, che ben conosco in quanto una
colonna della ristorazione del rione Borgo, dove ho vissuto per anni. Ma non mi
puoi sbagliare, neanche volutamente, l’indirizzo del ristorante, che a pagina
41 indichi con un inesistente Borgo San Vittorio. Togliete quel “San” e andate
al ristorante. Che peccato l’incuria editoriale.
Gesuino
Nemus “La teologia del cinghiale” Repubblica Emozione Noir 20 euro 7,90
[A: 28/10/2019
– I: 28/12/2022 – T: 30/12/2022] &&
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[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 264; anno: 2015]
Gesuino
Némus era un nome così strano che non mi convinceva. Ed in effetti, è lo
pseudonimo dello scrittore sardo di Jerzu, Matteo Locci, passato per molti
mestieri, sino a decidersi di dedicarsi alla scrittura, riuscendo a produrre
questa sua opera prima nel 2015, ormai quasi sessantenne. Con un indubbio
successo di critica e di pubblico, vincendo il Premio Campiello Opera Prima ed
il Premio John Fante Opera Prima.
Personalmente,
non mi ha entusiasmato, anzi, per certi versi, mi è risultata ostica e di
difficile collocazione. Si vorrebbe classificarla nel solco dei gialli,
essendoci morti ed indagini relative. Ma è anche altro. Un atto d’amore per la
Sardegna, pur sottolineandone i punti poco felici (brigantaggio, omertà,
chiusura), ed un omaggio ai disadattati di ogni genere e grado.
Quello
che ho trovato più ostico sono gli inserti in lingua sarda. Certo, l’autore, di
alcuni, ne fa traduzione o reinterpretazione in italiano, ma alcuni rimangono
in lingua, una lingua tanto altra che, anche leggendola, non sono riuscito a
decifrarla sino in fondo. Scelta stilistica, si dirà. Certo, ma scelta che ne
frena una lettura distesa. Meno ostico, ma sempre un po’ frenante, è il
cambiare di soggetto narrante. Non cosa di per sé negativa, salvo che spesso il
salto è fatto all’insaputa del lettore, che impiega un po’ per raccapezzarsi,
tanto che spesso ho dovuto rileggere dei passi per capire chi parlasse di cosa.
In
realtà, la storia in sé è abbastanza scarna. Siamo in un immaginario paesino
dell’Ogliastra, Telévras, dove vive una piccola comunità. Pochi abitanti (meno
di tremila), una tenenza dei carabinieri, tenuta dal piemontese maresciallo De
Stefani, aiutato dal carabiniere scelte sardo, Piras, ed una chiesa dove fa il
bello ed il cattivo tempo don Egisto Cossu (un nome, una garanzia, come direbbe
il mio amico Fako). Folletti ed elementi incontrollabili i due ragazzi, ancora
“pueri” direi, Matteo Trudìnu e Gesuino Némus, chierichetti ed anima della
storia.
Matteo
è intelligente, volitivo, suona l’organo a 8 anni, conosce a memoria il nome e
le funzioni di tutti e 333 i diavoli della terra. Figlio di Bachisio, un
latitante, forse (o senza forse) implicato in sequestri, di sicuro in ruberie
(anche di basso conto), ubriacone e manesco. Gesuino, invece, è considerato un
“minus habens”, un ragazzo con poco cervello e molta fantasia, che scrive libri
di una pagina, soprattutto impegnandosi nel dar loro titoli significativi, per
poi scordarsene il giorno dopo. Migliore (o forse unico) amico di Matteo, è
figlio del vero “pazzo” del paese, Antoni Esulogu, quello che vive sui monti e
scendi in città il lunedì, intonando poesie e canti, di certo strambi, ma
spesso con indicazioni che a ben vedere sono fondamentali per la trama.
Per
completezza, va citato il compare di ruberie di Bachisio, Peppino Golòvru.
La
storia comincia quando si trova il corpo di Bachisio, sparito da giorni, per
coincidenza il giorno dello sbarco sulla luna. E subito dopo, lo stesso giorno,
la madre di Matteo si impicca, e Matteo sparisce. Da qui comincia l’odissea di
ricerca di don Cossu, che cerca segnali in ogni dove, dai sonetti di Antoni
agli scritti di Gesuino. Comincia anche la storia di Gesuino che tutto sa, chi
è stato, chi ha fatto cosa, dov’è andato Matteo. Ma lui ha promesso, e non dirà
mai nulla, se non quando tutti i personaggi saranno morti, 57 anni dopo i
fatti, e lui, tornato in paese dopo aver girato i manicomi (li chiamo così
ante-Basaglia per brevità) di mezz’Italia, scriverà 95 lapidarie frasi che
tutto spiegano, affiggendole sul portone della chiesa di don Cossu, perché “la
verità è più forte dell’amicizia”.
In
mezzo c’è tutto il libro. La storia di don Cossu, quasi eretico ma umano, molto
umano. Dei carabinieri, del barista, del giornalista. Ma soprattutto di
Gesuino, che seguiamo su e giù nel tempo, fino al finale del 2014.
Quel
mezzo è “il” romanzo. La Sardegna, i suoi riti ed i suoi miti, gli abitanti, la
rovina delle invasioni di benestanti nordici. La povertà, la difficoltà di
vivere. E Gesuino, che diventa anche troppo intelligente per essere un matto.
Non è un caso che Matteo (l’autore) usi il suo nome per dar vita al
personaggio, quasi, in fondo, a voler tracciare un parallelo tra il sé del
difficile scrivere ed il ragazzo dal difficile vivere (e dall’impossibilità di
essere compreso).
Un
libro di parole e di pazzie, trattate tutte con delicatezza, ma, in finale,
mancando un vero e certo disegno di scrittura, con una resa inferiore a quanto
mi aspettavo. Dovrei farlo leggere ad un sardo, per averne le sue reazioni.
In
finale, due appunti. Uno semantico. Anche per un romano come me, suona stonato
l’intercalare del maresciallo De Stefani, piemontese puro, che sbotta con dei
“Boia faust”, laddove si dovrebbe dire “boia fauss” (cioè falso). Uno che mi
pone un interrogativo che non so sciogliere. La dottoressa che per un certo
periodo ha in cura il piccolo Gesuino viene presentata come Samantha Bruzzone,
che, per quanto mi risulta, è il nome vero della moglie dello scrittore Marco
Malvaldi. Coincidenza o abile rimando incomprensibile?
Anche
se siamo verso la fine del mese, è pur sempre la prima lettura di marzo, che ci
rimanda alla tornata letteraria che ha chiuso lo scorso anno. Diciassette i
libri dicembrini, guidati con giusto piglio da un solido Simenon e da un
immancabile Calvino. In fondo il mancabile e poco leggibile libro del due
Preston & Child.
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
1 |
Dario Crapanzano |
Arrigoni e l’omicidio nel bosco |
Repubblica Emozione Noir |
7,90 |
3 |
2 |
Georges Simenon |
Il presidente |
Repubblica |
9,90 |
3 |
3 |
Arnaldur Indridason |
La ragazza del ponte |
TEA |
s.p.
|
3 |
4 |
Georges Simenon |
Betty |
Repubblica |
9,90 |
3 |
5 |
Patrick Robinson |
Interceptor |
Repubblica Spy |
7,90 |
1 |
6 |
Anita Nair |
Cuccette per signora |
Guanda |
12
|
3,5 |
7 |
Douglas Preston & Lincoln Child |
La stanza di ossidiana |
Corriere Profondo Nero |
7,90 |
0,5 |
8 |
Federico
Inverni |
Il
prigioniero della notte |
Corriere Thriller |
7,90 |
1 |
9 |
Jean Failler |
Il respiro della marea |
Repubblica Emozione Noir |
7,90 |
3 |
10 |
Georges Simenon |
Le campane di Bicêtre |
Repubblica |
9,90 |
4 |
11 |
Massimo Carlotto |
La signora del martedì |
E/O |
16,50 |
3 |
12 |
Frédéric Lenoir |
La forza della gioia |
Repubblica Filosofia Viva |
9,90 |
2 |
13 |
Maurizio de Giovanni |
Un volo per Sara |
Rizzoli |
s.p.
|
2,5 |
14 |
Bernardo Zannoni |
I miei stupidi intenti |
Sellerio |
s.p.
|
2 |
15 |
Annie Ernaux |
Il ragazzo |
L’Orma editore |
s.p. |
3 |
16 |
Gesuino Nemus |
La teologia del cinghiale |
Repubblica Emozione Noir |
7,90 |
2 |
17 |
Italo Calvino |
Le città invisibili |
Mondadori |
12
|
4 |
Poiché
siamo sempre nell’ambito “giallo italiano”, vi riporto una frase che da un
solido giallista italiano viene. Solido nonché considerato il decano dei
giallisti, cioè Loriano
Macchiavelli ed il suo sempre caro
poliziotto Sarti Antonio. Che appunto in “Sarti Antonio. Di nero si muore”, nelle prime pagine ci ammonisce: “Noi siamo condannati ad essere
quello che siamo … è così, non possiamo farci nulla. Ma non diteglielo, non lo
sopporterebbe” (17).
Come detto
si è tornati da un bello, intenso e sempre da ripetere viaggio in Giappone
(laddove invece sconsiglierei a chiunque l’orrida giornata sud-coreana). Non sappiamo
(che le vie del mondo hanno infinite strade) se e dove ci porterà il futuro,
anche se abbiamo alcune speranze ed alcune ipotesi.
Intanto sappiamo solo che sei settimane devono passare, con tanti altri giorni di riposo, di campagna e di mare che ci aspettano. Così, per non tediarvi più del dovuto, vi abbraccio.