martedì 28 agosto 2012

Leggerezze di fine estate - 27 agosto 2012

La breve ma intensa vacanza portoghese, pur con qualche strascico aeroportuale, si è ben conclusa. Prima di tornare a grandi letture, alcuni passaggi se vogliamo estivi, ma con delle punte di attenzione. Autori italiani, punte di giallo, un buon ritorno di Sandrone e del suo gorilla, una non molto convincente prova di De Cataldo, una fuga nel nuorese con il buon Fois, finendo al rione Monti, o caso, con Ricciardi e il commissario Ponzetti.
Sandrone Dazieri “Il Karma del Gorilla” Mondadori euro 9 (in realtà, scontato 7,20 euro)
[A: 11/06/2011 – I: 13/04/2012 – T: 14/04/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 293; anno: 2005]
Certo ho impiegato del tempo, dopo aver chiuso il libro, per capire che volesse dire con il titolo, il nostro amico Sandrone. Perché il libro è interessante, scorrevole, ed anche non privo di spunti qua e la coinvolgenti – interessanti. Ma Karma? Alla fine, dopo una piccola indagine wikipediana, mi sono risposto (e spero sia quello il senso iniziale) pensando proprio all’origine della parola, lì nella religione vedica che prima la usò. Per indicare la concatenazione di causa – effetto che vincola l’individuo al ciclo di morti e rinascite (vere e/o fittizie). Ed in effetti, il nucleo duro del romanzo ci porta a questo ciclo. Perché dai fondi delle storie giovanili, emergono (rinascono) storie, personaggi, situazioni, che hanno portato il Gorilla ad essere quello che è. Sperando che non abbiate visto l’orrendo film tratto dalle storie del Gorilla, vi devo anche spiegare che il protagonista dei romanzi di Dazieri è uno strano personaggio, da definire “schizofrenico reale”. Cioè quando il Gorilla dorme, si sveglia il suo alter-ego interiore chiamato il Socio. E viceversa. Con il risultato che l’essere-Sandrone (unione di Gorilla e Socio) non dorme mai. Dopo una gioventù arrabbiata passata tra i centri sociali milanesi, il Gorilla si adatta a mille mestieri (privilegiando quello di buttafuori). Ma viene spesso richiesto per indagini varie (come sappiamo dai precedenti libri), tanto che alla fine si mette a fare più o meno l’investigatore. Usufruendo di quella rete di conoscenze ai limiti (della legge) che sfrutta un po’ come l’Alligatore di Carlotto. E qui dal passato viene fuori Samuele detto Sammy, ex-leoncavallino poi dirigente d’industria che lo incarica di ritrovare una comune amica, Sabina. Anzi più che amica, visto che era la donna di Sammy una dozzina di anni prima. Il Gorilla si attiva, e cominciano anche ad arrivare morti ed altro poliziesco di contorno (che poi riprenderò). Cercando i bandoli di queste matasse, Gorilla e Socio si ficcano in situazioni complicate, andando fino in Argentina alla ricerca dei nodi primari (pare che Sabina sia fuggita con un anarchico argentino). Un po’ di folklore alternativo su Buenos Aires (piacevole per chi ha freschi i ricordi di Boca e Palermo). Una rocambolesca fuga su di un cargo, il cui capitano Sandrone battezza Juan Sasturain (in omaggio allo scrittore che ho casualmente letto poco tempo fa in una delle sue prose minori, e mi dispiace). Per poi arrivare alle rese dei conti finali. Solito cascatone di possibili finali, dove veniamo portati ad individuare di volta in volta possibili colpevoli, che poi non lo sono. Ma eliminati tutti, qualcosa ne rimane. Dazieri si ingegna in un bel colpo di testa, ma noi che abbiamo seguito la storia con attenzione, non ci siamo lasciati ingannare ed abbiamo capito che eliminati tutti i possibili, rimane un unico colpevole. E così sarà. Spero di avervi ingarbugliato per bene la trama, tanto da invogliarvi a leggerne che è sempre piacevole. Anche per quel colpo da prestigiatore che fa trovare il modo al Gorilla di entrare nudo in una stanza portando con sé un’arma, che anche la perquisizione corporale non aveva individuato. Questo sì un bel colpo. Riprendendo l’accenno di sopra, tra i vari co-racconti, quello più efficace riguarda il coinvolgimento di servizi segreti americani nel rapimento di possibili (ma non accertati) terroristi. È vero che siamo nel post-2001, ma questa pratica (chiamata “rendition” e tradotta con “detenzione illegale”) è come dice il termine illegale. Usata nel famoso caso dell’imam milanese, pare sia stata più volte utilizzata in Europa, con la connivenza dei servizi segreti locali. E siamo solidali con Dazieri nel trovare il modo di denunciarla. Perché poi è questa l’empatia che ci lega all’autore: uno stesso disincanto sulle attuali possibilità ma una strenua lotta a tutte le illegalità, soprattutto quelle coperte dal potere politico. E qui mi fermo. Aspettando una nuova puntata del nostro beneamato Gorilla.
“C’è sempre una scelta. Solo che non è detto che sia quella giusta.” (23)
“Se stai invecchiando, inutile nasconderlo.” (287)
Giancarlo De Cataldo & Mimmo Rafele “La forma della paura” Repubblica Noir euro 6,90
[A: 06/08/2011 – I: 28/04/2012 – T: 29/04/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 284; anno: 2011]
Si legge d’un fiato, perché scorrevole e poco impegnativa. Ma come, direte voi, un libro che parla di criminali slavi, di servizi segreti deviati ed altre amenità, poco impegnativo? Purtroppo sì. Che si fa di molta erba un fascio, si veleggia a basso ritmo tra secche note di guasti italici, senza affondare coltelli, senza colpire duro. Da un lato si vede la mano di De Cataldo, con il presentare personaggi e situazioni, ricostruire, far attendere qualcosa. La mano insomma che sapientemente ci portava pagina dopo pagina verso l’amara conclusione di “Romanzo Criminale”. Dall’altro quella di Rafele, sceneggiatore più aduso a parlar di mafia, dove si fanno guazzabugli appunto di servizi segreti, teorie sulla verità palese o nascosta. Infarcendo il tutto con un po’ di sesso, belle donne, potere. Ceto la capacità di scrivere per la tv, gli da del ritmo, ma non molto di più. E proprio come i serial televisivi, l’inizio sembra promettere chissà quali intrecci. Si comincia addirittura nella Serbia del ’95, con massacri ed altro. E qui conosciamo i due poli della vicenda. Il Comandante, un mercenario italiano, e Lupo (non di soprannome, ma Nicola Lupo), un ‘problem solver’. Sono già dalle due parti del contendere. E lì li ritroviamo una quindicina d’anni dopo. Ma sono di molto cresciuti. Il Comandante è stretto alle leve del potere, circondato da vassalli e fascistoni, blaterando di un ordine globale e di ricchezza personale, una specie di Putin in salsa italiana, tant’è che si contorna di brutti ceffi slavi (che faranno ovviamente brutta fine, come gli sprovveduti para-terroristi arabi) ed ha dalla sua una sezione dell’anti-terrorismo, dedita più a costruire trame nere che a risolvere problemi reali. Lupo è un alto papavero della Polizia, con una sua sparuta ma efficiente squadra, il suo numero due, ovviamente una donna (ci vogliono un po’ di quote rose), ed una conoscenza dei meccanismi del potere e della corruzione che lo mette spesso sulla buona pista, ma che, proprio perché ne conosce i meccanismi, non riesce a debellare. Poi ci sono i co-protagonisti. Daria, il numero due di cui sopra. Marco, un ex-sbandato pieno forse inconsapevolmente di problemi di violenza (cioè sa della violenza, ma quanto sa che deriva dalle angherie subite dal patrigno in gioventù?). Guido, un rampollo di buona famiglia, che rinnega per passare organico ai movimenti alternativi, con mire para-rivoluzionarie (un mini-brigatista in salsa di caramello). Alissa-Rosanna, la donna del Comandante, una specie di vedova nera dei cattivi, usata sia come killer alla Uma Thurman di “Kill Bill” che come reclutatrice di sbandati alla Guido, con le sue arti femminili (una prostituta di classe insomma). Ed assistiamo alla lotta delle due fazioni. Quella palesemente cattiva, che cerca di creare confusione perché la dove c’è fumo ci può essere arrosto. E quella buona che sembra avere alcuni punti a suo vantaggio. Per ribaltare il tutto, Alissa circuisce Guido, lo costringe ad uccidere un poliziotto buono, che aveva preso sotto la sua protezione la furia Marco. Che trovatosi solo, viene reclutato, sempre con la complicità di Alissa, nella squadra del Comandante. Ma il Comandante commette l’errore di non uccidere Guido, che, benché dopo due mesi di coma, si salva. Fugge in Francia sulle labili tracce di Alissa (di cui non sa il ruolo reale). Intanto Lupo muove le sue piccole pedine per mettere le zeppe ai cattivi. Ma sarà Daria, che anni prima ha avuto una storia con Marco, a trovare il bandolo della matassa. I cattivi di primo livello non potranno non fare una brutta fine anche loro. Ma i burattinai, al solito, si salveranno. Insomma… leggerino. Con solo un paio di pagine di riflessione sulla nascita del terrorismo globale e sul ruolo che anche gli americani hanno ed hanno avuto. Un po’ poco e già di molto sentito. Speriamo che i due tornino sapientemente ai loro mestieri migliori (intendo gli scrittori, ovviamente).
Marcello Fois “L’altro mondo” Einaudi euro 10
[A: 31/01/2012 – I: 06/06/2012 – T: 08/06/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 156; anno: 2002]
Ancora Sardegna, quando si dice che si imboccano delle strade e poi capita che si percorrano anche un po’ più dell’usuale. Dopo il giovane Soriga (letto pochi giorni prima anche se non ancora recensito), ritorno ad uno scrittore che non dispiace, alternandosi anche con prove “continentali”, ma di cui ricordo sempre con piacere quell’esegesi sarda per Laterza (“In Sardegna non c’è il mare”) che vale una bella lettura. Qui torniamo invece ad una delle sue scritture iniziali, il capitolo finale dedicato alla trilogia di Bustianu. Questo nome sardo indica “s’aboca”, l’avvocato, che aveva colpito la fantasia del trentenne Fois. Infatti, in tre libri, dedica qualche bella pagina in onore dell’avvocato Sebastiano Satta, vissuto alla fine dell’Ottocento. Avvocato e poeta, spirito libero che cerca di scardinare i luoghi comuni e le corruttele dell’epoca, che si batte per venti anni in prima linea. Poi, colpito da paralisi alle corde vocali, dedica gli ultimi anni a scrivere poesie, rimanendo per sempre nel cuore dei nuoresi, ed a cui il nostro appunto dedicata qualche volume romanzato. In cui rimane lo spirito, se non la lettera di Sebastiano. Che lotta per ribadire principi di legalità in una terra, ormai annessa all’Italia, ma che dell’Italia non si sentiva (e forse si sente ancor oggi poco) partecipe. Una terra piena di problemi d’ordine, che i grandi latifondisti del Nord, in combutta con gli agrari e benestanti isolani, colonizzano con la forza, espropriando ed emarginando i pastori locali. Ed anche i possidenti locali. Che si danno al brigantaggio, favoriti da una natura che solo loro conoscono. La denuncia di Fois è verso quel periodo che fece nascere intrecci malsani tra interessi pubblici e privati. Mescolati alla natura ritrosia sarda, al fatto di essere isola, e di usare il mare a difesa della terra e non come tratto di unione con il resto del mondo. E l’avvocato è anche uomo di principi, innamorato della bella Clorinda, ma che vuole sposare perché ama, non perché si debba combinare il matrimonio tra famiglie. Questi due impulsi, anche qui, pubblici e privati, sono l’ossatura del romanzo. Dove vediamo Bustianu indagare sulla morte di una donna, di cui si accusa un brigante alla macchia. Ed è proprio il brigante che chiede aiuto all’avvocato per trovare “la verità”. Bustianu comunque, pur fidandosi poco del bandito Mariani, rimane colpito da una serie di incongruenze. Il corpo che scompare e riappare. La facilità con cui i carabinieri sembrano archiviare il caso. L’arresto, anch’esso troppo facile, di un altro bandito, con la conseguente morte dell’unico che, si dice, avesse visto la morta prima della scomparsa del cadavere. Ritrova pezzi di armi ignote qua e là, animali che muoiono senza un perché, erba che non cresce. Siamo pochi anni dopo la sconfitta pesante degli italiani ad Adua, e la ricerca del Governo di avere “un posto al sole”. Ed un governo pronto a tutto per averlo. Anche a sperimentare nuove modalità di guerra. E quale miglior posto della Sardegna per farne terreno di prova. Temi che, attualizzati e scritti posteriormente, mi sembrano riapparire in “Perdas de Fogu” di Carlotto e Mama Sabot. Aiutato dal fido Zenobi, sventa alla fine sia il tentativo di depistaggio (trovando i veri motivi della morte di Eléne), sia le trame di Mariani che tentava di usare questa morte come elemento di trattativa con lo Stato. Più altre trame minori, che lasciamo all’inclito lettore di scoprire. Sull’altro versante, ancora più aspra è la lotta di Bustianu con le tradizioni locali, incarnate anche dalla madre che non accetta una nuora che non abbia scelto lei. E le maldicenze del paese. E via discorrendo, che siamo nell’Ottocento deleddiano. Vincerà su tutta linea, anche se, come spesso in Fois, la vittoria lascia un po’ d’amaro in bocca. Un libro onesto, con belle visioni interne del panorama sardo, qualche incomprensibile parola in dialetto, e qualche accenno a questioni”alte”, e che non sono ancora state risolte.
“Tu credi che io sia stato un buon fratello? … Con te, dico, sono stato un buon fratello?” (82)
“Io capisco bene solo quello che vedo. Non è che mi consola il fatto che stiamo tutti male.” (93)
“Far vivere agli altri la propria vita è una possibilità che non si dovrebbe dare, anche se quegli ‘altri’ sono persone che si mano davvero.” (114)
Giovanni Ricciardi “I gatti lo sapranno” Fazi euro 9,50
[A: 04/12/2011 – I: 09/06/2012 – T: 11/06/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 153; anno: 2008]
Ecco un nuovo autore, non particolarmente prolifico (mi risultano tre romanzi), che aggiungo di buon grado alle buone letture di quest’anno. Sgombriamo subito il campo alle illusorie definizioni delle copertine varie. Il commissario Ponzetti, protagonista ed io narrante dei romanzi, non è “il Montalbano romano” che si vuol far credere. Non basta essere commissario per diventare un epigono del vigatese. E Ponzetti non frammischia lingua e dialetto, anche per non cadere in indebite citazioni gaddiane. Al più potrebbe essere un epigono del commissario Laurenti, protagonista triestino dei romanzi di Heinichen. Stessa pacatezza, famiglia normale alle spalle (moglie e due figlie, tra l’altro con circa otto anni tra loro, che mi fa sentire quasi a casa). Ma le assonanze finiscono qui. L’empatia del romanzo la ritrovo più che altro nell’atmosfera romana che si sente in ogni pagina (e qui si che ci sarebbe un parallelo, ma con il commissario Maré di Quartucci). Che il nostro commissario opera nel quartiere Esquilino – Monti. Si aggira intorno a Piazza Vittorio, andando magari a prendere un gelato al Palazzo del Freddo di Fassi. Si muove intorno all’Acquario di Piazza Fanti. Va su e giù per via Principe Amedeo, non disdegnando però salite per via Cavour, discese per via Urbana, frequentazioni con la chiesa della Madonna ai Monti. In questo triangolo delle Bermuda romano, ormai diventato quasi terra straniera, con l’invasione cinese a capeggiare i nuovi affittuari, il commissario Ponzetti si trova a riproporci una vicenda che gli sta a cuore. Inizia in sordina, fa un po’ fatica a carburare, ed i primi capitoli sono un po’ appiccicati, che servono ad introdurre l’atmosfera, ma è come se l’autore, professore di greco e di latino, abbia timore di calarsi “in media res”. Poi si butta, ed anche il romanzo lievita. E cresce intorno alle vicende della “gattara” Giovanna, investita ed in coma. Così, insieme al commissario, ricostruiamo la vita della “sora Giovanna” e degli abitanti del suo palazzo. Il nipote Aldo, giornalaio di giorno e netturbino di notte. I conviventi Martina e Matteo, lei incinta e disoccupata, lui impiegato del comune forse in necessità oncologiche. La loro padrona di casa, la finta maga Olga, che utilizza la sua scarsa arte per circuire persone credulone. Tra un cappuccino ed una passeggiata per chiarirsi le idee, nonché attraverso l’osservazione di cose e fatti, aiutato al fine dall’ottuagenaria suor Elvira, il commissario ripercorre la vita della gattara. Fuggita dalla natia Calabria sedicenne in cinta, aiutata da Elvira a far adottare il figlio ad una famiglia tedesca, sposa di ripiego di un fioraio vedovo con figlio, che dopo i primi anni di “pace”, non fa altro che bere e picchiarla, con il figlio invece sempre più dedito a droghe ed analoghe fughe. Muore il marito, muore il figlio, Giovanna si dedica anima e corpo ai gatti, con la speranza, un dì, di ritrovare il figlio perduto. Su questo farà leva Olga la maga, per imbastire un raggiro, aiutata controvoglia da Matteo e contrastata con forza da Aldo. Tutto alla fine si raccorda, non essendoci un vero e proprio omicidio, attraverso una punizione dei colpevoli, più fattiva che giustizialista (vedete voi se vi convince). La realtà rimarrà un po’ defilata, come dice il commissario, che forse solo i gatti della sora Giovanna ne conoscono lo svolgimento reale. Insomma un buon romanzo, forse a volte divaga un po’, forse a volte sembra voler fare un po’ il colto. Ma nel complesso non dispiace, anzi piace per chi vuol bene a questa città.
“Ripenso a quando mi accorgevo solo di me e non sapevo più guardare negli occhi le persone che amo.” (153)
Come detto, bella e felice vacanza portoghese, contornata da merluzzi, castelli, monasteri e “pasteis de nata”. Ora si torna nel vivo delle cose, al caldo, al lavoro, ed altre settembrine amenità. Ma si affronteranno con calma e pacatezza, così come il nostro status esige. Per ora, a tutti
Un bacio

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