domenica 3 marzo 2013

Ma le stelle quante sono? - 03 mar 13


Qualcuno dice siano solo le 5 che hanno volato alto sette giorni fa (e le ricordo per gli smemorati: acqua pubblica, mobilità sostenibile, sviluppo, connettività, e ambiente; e sono cinque temi che, pur con diverso grado di adesione, sono condivisibili). Altri dice che siano milioni e milioni. Io, in questo inizio di marzo pazzarello propongo, ed il caso qui si unisce alla speranza, alcune riflessioni. Che cadono di peso, anche in un momento che l’Italia è senza governo, la Chiesa è senza papa, ed il mondo guarda attonito (anche senza scomodare Manzoni). Sono riflessioni che ho fatto i mesi scorsi, e che culminano con le grandi ed ispirate parole di Simone Weil, quasi fosse un monito che sentivo già nascere. Leggetele, e spero si possa suscitare un dibattito (e sottolineo che la trama l’ho scritta il 9 gennaio).
Enzo Bianchi “Ogni cosa alla sua stagione” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 01/11/2012 – I: 11/11/2012 – T: 12/11/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 127; anno: 2010]
È sempre difficile imbastire una trama su di un libro del priore di Bose. Ma non perché non sia pieno di cose da discutere e condividere e ribattere e accettare o rifiutare. La (mia) difficoltà sta nel non avere, in realtà, una trama. A volte, come nei saggi nel rapporto con il prossimo, con l’altro, c’è comunque l’idea che sviluppa e sulla quale si può tramare. A volte, come nei libri un po’ di memoria, c’è il filo autobiografico che si segue. Qui, in realtà, sono di fronte ad un libro di sensazioni, di stati d’animo. Forse di memoria, ma con una difficile estrapolazione dal contesto. Tanto che, per rendere una trama fedele, dovrei forse riscrivere tutto il libro. Apro una parentesi: sarebbe un libro ben “denso” uno che non si potesse riassumere se non ripetendolo, perché ogni parola ne è momento essenziale, e la sua scomparsa ne renderebbe la costruzione instabile. Tra l’altro, per tornare a Bianchi, fin da quando l’avevo visto sugli scaffali la prima volta (un paio d’anni fa), sia quando l’ho comperato e l’ho inserito nelle mie liste librarie, ho sempre sbagliato il nome. L’ho sempre pensato e memorizzato come “Ogni cosa HA LA sua stagione” invece che “Ogni cosa ALLA sua stagione”. Facendo un po’ di confusione tra l’appartenenza delle cose e la loro fruizione. Inoltre, Bianchi utilizza stagione come luogo di un qualcosa. Non stiamo parlando delle stagioni temporali, ma di quelle private, interne ed eterne. La stagione della memoria, del riposo (anche se lui lo chiama del focolare), del presepe, degli aromi. Ed il messaggio che ne ricavo è sempre legato alla mia doppia interpretazione. Ogni cosa, ogni attività, ogni pensiero è giusto / si deve sviluppare quando è il suo momento. Non si agisce nel riposo, non si riposa nella meditazione. Ma, di converso, l’azione, il riposo, la meditazione hanno ognuno la loro stagione. E fioriscono, e danno i loro frutti migliori quando li usiamo in quel momento. Ahi, quant’è difficile trovarlo, a volte. Ahi quant’è bello lasciarsi trasportare dagli altri momenti, in modo che ognuno vada al proprio posto, trovi la sua stagione, e lì, nasca, cresca, e si sviluppi. Al meglio per noi. Per arricchirci, per farci crescere. Certo, benché poco più grande di me, sviluppa meglio anche alcune sensazioni fisiche. Non si è più quelli dei venti anni. Ci sono cose che si fanno con difficoltà. Altre che non si riesce proprio a fare (se mai ci si è riuscito). Ed anche in questi momenti che parrebbero di debolezza, ogni azione è sempre vista nel suo lato positivo. Come ne narravo, tramando il bel libro sull’invecchiamento di Hillman. Stagioni che suscitano affetti. Che riportano, come bolle, brandelli di memoria. E mentre padre Bianchi racconta, io mi perdo ogni tanto nei miei giri per il mondo, nelle tante persone incontrate, e nella ricchezza che mi hanno dato. E come sono contento che qualcuno abbia il dono di mettere le sue parole sulla carta e suscitare pensieri. Altri sicuramente. Ma che mi hanno felicemente cullato. Ed allora lascio un po’ a lui la parola, con alcuni brandelli che sorgono. Aspettando prima o poi di leggere altre ed altrettanto calde parole.
“Ricordo ancora oggi il primo viaggio che feci da solo, quand’ero adolescente: paure, ansie, timori, e, insieme, il desiderio, l’eccitazione di uscire di casa, di partire; tutti sentimenti che ciascuno ritrova in se stesso ogni volta che si accinge a un nuovo viaggio.” (15)
“I padri rabbinici … dicevano che Dio, nel cacciare Adamo ed Eva dall’Eden, aveva comunque concesso loro di portare con sé una vite, in modo che si consolassero con il suo succo.” (33)
“Molte cose non ci saranno più, ma ci sarà il vino e ci saranno gli amici.” (39)
“[Mio padre mi ripeteva] in ogni famiglia nasce un figlio stupido, e io ho avuto un figlio solo.” (81)
“Ormai anziano, devo confessare che … ho avuto la grazia di trovare chi credeva in me … Avere qualcuno che crede in noi è decisivo affinché possiamo a nostra volta credere negli altri, è determinante per riuscire a trovare un senso nella vita.” (97)
“Se c’è una sofferenza in questa mia anzianità, lo confesso, è che gli amici si sono rarefatti: la morte, certo, ne ha portato via alcuni, ma anche la vita ne ha sottratti altri, con le sue vicende e l’evolversi di situazioni famigliari o di lavoro. Eppure per me la fedeltà nell’amicizia è più che un dovere, è una disciplina che non si finisce mai di imparare: quando l’amico sembra venire meno o scompare davvero, è l’ora in cui tener vivo il fuoco sotto la cenere e riattizzare con cura le braci perché il fuoco ancora divampi.” (104)
“Chi, come me, ha sognato un mondo più abitabile, segnato da maggiore giustizia e pace, oggi si ritrova a volte smarrito … Nonostante questo, mi sento ancora di rinnovare la mia fiducia negli altri, nell’essere umano, mi sento di riaffermare la mia fedeltà alla terra, e di proseguire con rinnovata lucidità la battaglia ingaggiata da tanto tempo: se ho combattuto e combatto perché il mondo cambi, oggi più che mai mi ritrovo a combattere perché il mondo non cambi me.” (110)
“Insegna a credere, ad avere fiducia, ad andare avanti … perché così l’uomo si umanizza sempre più, così può fare della propria vita un’opera d’arte.” [cfr. Hillman citato sopra] (125)
don Andrea Gallo “Se non ora, adesso” Chiarelettere euro 8 (in realtà, scontato a 4,16 euro con Feltrinelli +)
[A: 01/12/2012 – I: 06/12/2012 – T: 10/12/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 155; anno: 2011]
Un libro difficile per un personaggio, una persona altrettanto difficile. Un libro difficile da sunteggiare, tratteggiare, ridurre in pillole. Perché fatto di niente e di tutto. Fatto soprattutto di lui, del più che ottantenne prete genovese. Controversa figura, questa di don Andrea. Prima di tutto intellettualmente pronto e vivo, attento agli studi filosofici prima che teologici. Ma nel contempo, contemporaneamente, uomo e prete. Dove non vede la separazione tra i due momenti, e porta avanti la carica religiosa all’interno di una carica ed un impegno civile. In fondo, forse è meglio parlare di lui che del libro, e qualcosa ne verrà fuori. Ordinato già sulla trentina, subito in rotta con le barriere clericali, trova un suo spazio appoggiandosi all’allora cardinale di Genova Siri, che lo inviò al carcere di Capraia a far da cappellano nel carcere. Già questo mi suonava, che chi si occupa di detenuti ha sempre un posto aperto nel mio cervello. Da lì a dedicarsi a tempo pieno agli emarginati, il passo è stato breve e facile, tanto da poter fondare, nella metà degli anni Settanta, in congiunzione con il coetaneo don Francesco Rebora, la comunità di San Benedetto al Porto. Una comunità da sempre dedicatasi agli emarginati, e per la quale conia, parafrasando il titolo del libro di Primo Levi ed attualizzandolo, lo slogan del titolo. Non più quando, allora, ma adesso. Perché don Gallo riporta tutto all’immanenza, non perché non ci sia l’aspettativa e la forte idea del dopo, ma la sua lettura delle parole evangeliche lo porta a vedere la necessità di combattere (e uso la parola combattere, perché ogni sua iniziativa è proprio una battaglia) affinché si possa migliorare la propria condizione umana, qui, ora. Da qui le prime battaglie per l’emancipazione di prostitute e trans dei carrugi genovesi (affiancato dall’allora combattivo De Andrè). Poi le battaglie per la legalizzazione delle droghe leggere. Per l’uso del preservativo in funzione anti-aids. Per il riconoscimento dei gay. E via discorrendo, con un curriculum di vita che si ingrossa ad ogni volgere di mese. Tutto questo è condensato nei brevi capitoli di questo che non può che definirsi “pamphlet”, pieno di ricordi, di accuse, di storie. Tripartito, dedicando l’attacco alla ricerca della libertà, per tutti, ma soprattutto per le donne. La parte centrale è per i giovani, intesi come risorse e non come problemi. Il finale è dedicato infine alla Chiesa, o, per meglio dire, al suo modo di vedere la Chiesa. Appunto schierata. Appunto interpuntata da pilastri forti e ben saldi: la scuola di Barbiana e don Milani, il Concilio Vaticano II, l’attività di anti-psichiatria di Franco Rotelli (uno dei più stretti collaboratori di Basaglia), don Ellena ed il Gruppo Abele. Con quel grido verso tutti coloro che vogliono parlare in nome di Dio (vescovi, imam, rabbini) e non agire nel nome di Dio. È un libro che ha molti alti e bassi, che a volte mi ha colpito basso, quasi che don Gallo avesse proprio l’intenzione di “spaventare” per far riflettere. Non dico un libro di eccessi (che già troppi, forse, ne ha con sé la sua vita). Ma senza dubbio delle pagine che non lasciano indifferenti. Anche quando parla di cose minime, quando ricorda la madre, l’infanzia, gli amici. Sempre con un rigore che ammiro, anche non condividendo tutte le sfumature. Insomma, non è un inno completo, puro e duro, come mi è rimasto nelle pagine e nelle parole di Arturo Paoli. È comunque un libro pieno. E lo confesso, talmente pieno che come avete visto non l’ho affrontato se non di traverso. Ed ho impiegato, cosa strana per la mia prolificità, quasi un mese per capire come redigere queste note. Vi lascio con alcune note, sottolineando quella che più mi è vicina: tu da che parte stai?
“Le paure non si possono eliminare, ma la paura è un sentimento che interpella le nostre coscienze ed esige risposte.” (14)
“Le donne sono le prime vittime di un’impostazione che vede il sesso come problema da risolvere e loro come un pericolo o una tentazione.” (39)
“Un vescovo del Brasile aveva scritto sulla facciata della sua chiesa: caro cristiano, tu che stai per entrare, sappi che il mondo si divide in oppressori e oppressi. Tu da che parte stai?” (83)
“Non esiste il problema giovanile, esistono le nostre città e nelle nostre città, guarda caso, ci sono i giovani.” (109)
Dolores Prato “Scottature” Quodlibet euro 7 (in realtà, scontato a 5,95 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 07/01/2013 – T: 07/01/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 49; anno: 1996]
Un libro, o forse meglio, uno scritto, di piccola meditazione. Inscindibile dalla figura della scrittrice, ed altrettanto invece scindibile tra testo, breve e intenso dell’autrice, e postfazione, inutilmente verbosa del pur volenteroso Alejandro Marcaccio. E comincerei proprio da qui, dicendo di come io soffra le parole inutili, il sentirsi parlare, l’inutile rumore che suscita la voglia di farsi sentire bravi e dotti. Il testo di Dolores Prato, al più, meritava un’esegesi storica, su come nasceva e sulle sue vicende editoriali. Come altrimenti etichettare una persona che, per tratteggiare la vita dell’autrice parla di “un procedimento a intarsio … che sa trovare … nel fonosimbolismo come nell’analogia o addirittura nella rabdomanzia … una miriade di connessioni … tra micro e macrocosmo”. Leggi una frase così, ed il cestino sarà il luogo più atto a contenerne i resti. Quindi, non leggete la postfazione. Ma leggete invece le poche pagine scritte nell’unico testo compiuto dell’autrice. L’ho ripescato dando fondo ad una serie di suggerimenti (negli ultimi anni ne ho accumulati un migliaio ma pochi ne ho seguiti) che presi da quell’inserto benemerito di Repubblica, che da troppo tempo ormai è stato eliminato. In particolare, questo era nella “Seconda”, la pagina in genere dedicata a riprese di testi scarsamente riediti. Così anche per questo, che vide la luce nel lontano 1965, l’autrice essendo già oltre la settantina. Perché Dolores Prato è una strana figura di letterato che attraversa buona parte del secolo scorso. Nata illegittima nel 1892, laureatasi a forza a Magistero negli anni in cui vi studiava mia nonna, ha insegnato per buona parte della sua vita, terminandola come giornalista di libri sulle pagine di quel bell’esperimento romano che fu “Paese Sera”. Ed in tutta la sua vita non ha fatto altro che scrivere, accumulando libri che mai pubblicò, e che il fondo a lei intitolato, una volta spentasi nel 1983, ha iniziato ad elaborare e pubblicare. In vita pubblicò scarse poesie, e, a sue spese, queste poche pagine. Che sono tuttavia perfette. Che non hanno bisogno di aggiunte o di eliminazioni. Sono la fotografia del passaggio di Dolores da un’inconsapevolezza dolorosa ad una consapevolezza altrettanto dolorosa dell’esistenza, nel momento di aggancio verso un esterno che fino ad allora le era stato (forzatamente) precluso. Un esterno dove, di necessità, ci si può far male, ci si faranno enormi “scottature”. Ma queste potranno essere curate, volendo. Dolores ci parla (con delle frasi che immagino tornite e passate al setaccio per anni) del periodo di passaggio tra l’ultimo anno delle superiori e l’inizio dell’avventura a Magistero. E con maestria ci fa partecipe: del dolore per non essere stata riconosciuta dai genitori naturali, del tempo passato presso lo zio prete e della sua partenza per l’America, carica di promesse e foriera di delusioni, della difficoltà di rapportarsi alle altre ragazze del Collegio, del suo sentirsi in dovere di fare di più come si sentisse sempre in debito, dell’empatia con la Vecchissima Religiosa, unica ad intuirne potenziali, della scoperta del mare, del rapporto con la preghiera e con la religione, dell’idea di entrare in Convento, della bellezza di una rosa. Insomma, tante piccole parole, ognuna piena del suo mondo, che ce lo fa intuire piuttosto che vedere. Le sue parole mi sono piaciute, le sue frasi mi hanno rapito. E se fosse solo questo, avrebbe un posto più prominente nel mio immaginario libresco. La fine, di cui ho già mal parlato sopra, lo fa arretrare di qualche passo. Pur rimanendo un libro che sono contento di aver letto in un bel mattino di sole in questo inizio di gennaio del duemilatredici (un anno di cifre diverse, come non accadeva da 26 anni!).
“Disse la bellissima: - A far del bene si sbaglia sempre -. Io non capii. Meglio non capire: non mi è mai piaciuto.” (20)
Simone Weil “Manifesto per la soppressione dei partiti politici” Castelvecchi euro 6 (in realtà, scontato 5,40 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 09/01/2013 – T: 09/01/2013]
[titolo: Note sur la suppression générale des parties politiques; lingua: francese; pagine: 60; anno: 1950]
Un altro breve libro da “meditazione”, questa filosofica e perché no politica, piuttosto che intimistica e personale. Anche questo viene dal “monte consigli”, me lo ero segnato dopo averne letto su l’Espresso e sulla sezione “Filosofia e Idee” dell’inserto Libri di Repubblica. In realtà, è più che altro un articolo lungo, scritto intorno al ’40, ma pubblicato postumo ed a sé prima nel ’50 e poi nell’opera completa di Simone Weil nel ’57. Qui Castelvecchi riprende il testo del ’50, coniugandolo con un’inutile prefazione di Andrè Breton, che in tante altre prove avevo trovato interessante e stimolante, mentre qui, sbilanciato sul lato politico, lo trovo un po’ tronfio e poco incisivo. Come poca significativa mi è parsa anche la post-fazione di Alain (pseudonimo del filosofo Émile-Auguste Chartier, insegnante della Weil al liceo, ed anche di Andrè Maurois, Raymond Aron, Julien Gracq e altri), benché pervasa del sentimento di stima e rispetto verso la sua ex-allieva. Se non si conoscesse per altri versi la Weil, certo queste note poco ci sarebbero di aiuto. Mentre sarebbe stato utile tratteggiarne meglio la figura. Nata nel 1909, laureata in filosofia, ebra non praticante, comunista anti-stalinista, insegnante, sindacalista, a 26 anni va per due anni in fabbrica (dove mina una salute già cagionevole), poi nelle Brigate Durruti durante la Guerra Civile Spagnola, ritorna a scrivere, mette in salvo la famiglia in America prima dello scoppio della guerra (in particolare, il fratello Andrè, grande matematico, fondatore, nota per i miei sodali dei numeri, del gruppo Bourbaki e poi collaboratore a Princeton di Einstein), lei rimanendo in Inghilterra a lavorare per la liberazione. Irrimediabilmente colpita da tubercolosi, muore in sanatorio a 34 anni, avendo passato gli ultimi quattro anni ad interrogarsi sulla religione e su Dio. Niente sarà pubblicato in vita, ma il suo padre spirituale conserverà tutti i suoi quaderni e la loro pubblicazione postuma rivelerà una profondità di pensiero insospettata, anche se tutte le sue azioni portavano a comprendere un rigoroso impegno personale guidato da un’etica fuori dal comune. Questo avrebbe permesso di cogliere, anche in questo scritto, la passione presente in ogni suo pensiero ed azione. E certo è uno scritto, o meglio un pamphlet agile e che va diritto allo scopo. Seppur se ne colgono molte inflessioni (che meriterebbero un pensiero ed una penna più agile della mia), rimane il nucleo centrale dello scritto. Valido settanta anni fa come ora. L’agire politico (cioè per la polis, per la comunità) deve essere un agire, appunto, per il bene della comunità stessa, teso alla verità ed alla giustizia. La degenerazione della politica, cominciata a valle della Rivoluzione Francese del 1789, porta ad irrigidire le proprie posizioni, appiattendole nel sentimento dell’appartenenza. La nascita della Rivoluzione non avvenne per partiti, ma da club, persone che erano accomunate da un’idea e da un sentire. Ma che a loro volta potevano dissentire. Dovendo difendersi dagli attacchi esterni, i club si sono ben presti trasformati in partiti, in consorterie che non son più tese al bene comune, ma al bene del partito stesso. Nasce una spirale di degenerazione per cui si cercano più voti per incidere di più, ma in realtà per consolidarsi come partito. E giustamente si domanda la Weil quando si aderisce ad un partito, si conoscono forse tutte le sue implicazioni? Così come, aderendo ad una Chiesa, si possono conoscere tutte le sfaccettature dei testi sacri? La presenza dei partiti priva il cittadino di un discernimento verso il bene comune, per cui si fanno scelte dettate più dalla ricerca di una riconferma del partito come ente che verso azioni che potrebbero innalzare il bene della comunità stessa. Parole che vedremmo stampate a chiare lettere ed affisse verso tutti i nostri nanetti attuali, che so, non dico solo i Maroni o i Bersani, ma i Casini, i Fini, financo all’attuale Monti (che invece sembrava apparire diverso). Chissà cosa avrebbe pensato la Weil di un governo di tecnici non legati ai partiti? Ecco, aderisco, fino all’ultima goccia, al distillato delle parole di Simone. E chissà che non trovi il tempo di leggerne altro in futuro. Per ora finisco con un rimando al mio amico storico e storico amico, che della storia dei partiti politici ben più di me ne conosce.
“Il vero spirito del 1789 consiste nel pensare non che una cosa sia giusta perché il popolo la vuole, ma che a determinate condizioni il volere del popolo abbia maggiori possibilità di qualsiasi altro potere di essere conforme alla giustizia.” (25)
“[Il personaggio politico ideale dovrebbe prendere in pubblico il seguente impegno] Ogni qualvolta esaminerò un qualunque problema politico o sociale, mi impegno a scordare completamente il fatto che sono membro del mio gruppo di appartenenza, e a preoccuparmi esclusivamente di discernere il bene pubblico e la giustizia.” (33)
“Non c’è nulla di più confortevole del non pensare.” (43)
“Quasi dappertutto … l’operazione … di prendere posizione pro o contro, si è sostituita all’operazione del pensiero.” (49)
Come al solito, alla prima trama del mese diamo anche conto dei 18 libri letti nell’ultimo mese dello scorso anno. Un mese un pochino piatto, con solo il libro di Giartosio su Roma che è riuscito ad emozionarmi ed il finto Noir di Banville che è riuscito a farmi innervosire.
#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Michael Connelly
Il ragno
Piemme
11,50
3
2
Jonathan Coe
La pioggia prima che cada
Feltrinelli
7,50
3
3
Erri De Luca
La doppia vita dei numeri
Feltrinelli
8
2
4
Hakan Nesser
L’uomo con due vite
TEA
9
3
5
Fabio Stassi
È finito il nostro carnevale
Minimum fax
9
3
6
Michael Connelly
Vuoto di luna
Piemme
11
2
7
Don Andrea Gallo
Se non ora, adesso
Chiare lettere
8
3
8
Asa Larsson
Il sangue versato
Marsilio
12,50
3
9
Tommaso Giartosio
L’O di Roma
Laterza
12
4
10
Nicolas Barreau
Gli ingredienti segreti dell’amore
Feltrinelli
8
3
11
Jo Nesbo
Nemesi
Piemme
11,50
3
12
Grazia Verasani
Cosa sai della notte
Feltrinelli
13
3
13
Paolo Rumiz
La cotogna di Istanbul
Feltrinelli
8,50
3
14
John Banville
Dove è sempre notte
Repubblica – Noir
7,90
1
15
Asa Larsson
Sentiero nero
Marsilio
12,50
3
16
Esmahan Aykol
Divorzio alla turca
Sellerio
14
3
17
Carlo Parri
Il metodo Cardosa
Mondadori
4,90
3
18
Giuseppe Pederiali
Camilla e i vizi apparenti
Garzanti
9,90
2
La Thailandia non si avvicina ancora, ma i lavori in casa vanno avanti discretamente spediti. E si spera che la prossima trama si possa inviarla dalla nuova postazione domestica.

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