Perché per Natale vi porto un
quartetto francese, con due dei miei autori culto, Schmitt e Orsenna, e due “outsider”:
Guenassia di cui avevo letto in libreria e che finalmente ho preso e letto, ed
una nuova autrice presa a scatola chiusa, che ha fatto una buona riuscita.
Anche se il libro sugli incorreggibili ottimisti, benché un filo lungo, si
colloca ben sopra gli altri.
Jean-Michel Guenassia « Le
club des incorrigibles optimistes » Livre de Poche euro 9,50
[A: 19/06/2013– I: 30/07/2014 – T: 05/08/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 731;
anno 2009]
Un
altro dei libroni estivi, molto pieno di avvenimenti, molto pieno di idee, ma,
d’altra parte, con una linea di scrittura facile da seguire. Non conoscevo
l’autore, ne avevo visto il libro nelle librerie italiane da diversi anni
reclamizzato. E preso per festeggiare i 60 anni delle edizioni “Livre de Poche”,
nella bellissima libreria francese dietro Piazza Navona. Ho solo faticato a decidermi
alla lettura, un po’ spaventato dal numero di pagine. Alla fine, devo dire che
è un libro che mi ha preso, per quell’aria di ottimismo e pessimismo che ha l’autore
(e che rispecchia i miei sentimenti paralleli alle stesse età del
protagonista). Per quel mescolare storie e Storia. I critici ben pensanti parlano
di libro sui tradimenti. Ed è vero che molti sono i tradimenti incrociati delle
storie che si dipanano lungo le pagine. A volte, però, c’è solo una difficoltà
di vivere ed anche di capire i propri obiettivi. All’inizio mi aveva anche
frenato lo stesso protagonista, che seguiamo dal 1959, quando ha 12 anni, sino
al 1964, quando ne avrà 17 ed avrà passato l’esame di maturità al Liceo Henry
IV, una delle istituzioni liceali parigine. Mi sembrava di non poter entrare in
sintonia con lui. Errore. Perché ben presto ci si scorda dell’età, se non
quando commette qualche stupidaggine forte. Michel è un tipo isolato, appassionato
di lettura (e già lo amo) e di biliardino (che ho scoperto, in francese,
chiamarsi “baby-foot”). Passa le sue giornate leggendo mentre cammina (e lo
capisco, soprattutto quando divide gli autori tra quelli che ti fanno arrivare
in tempo e quelli che ti fanno arrivare in ritardo, che sei troppo preso dalla
lettura). E quando non cammina, le passa in un ritrovo, il Balto, dalle parti
di Denfert-Rocherau. Dove è anche pronto a sentire le accese discussioni del fratello
maggiore Franck e del suo amico Pierre. Che decideranno di partire per
l’Algeria, dove comincia la famosa guerra (una di quella che ha lasciato il
segno alla Francia intera), pronti ad impegnarsi in prima persona per fare la
Rivoluzione. Un mito che Michel scopre presto nel retro bottega del Balto, dove,
per giocare a scacchi, si riuniscono fuorusciti di tutti i paesi. Ma soprattutto
dell’Est, dalla Russia, dalla Polonia, ed altre zone oltre cortine. Tutti
avevano lasciato le famiglie e il loro paese in circostanze drammatiche e
incredibili. Ma, non hanno mai parlato e ci vorrà del tempo per Michel per
ricostruire i pezzi del puzzle della loro vita. Qui l’autore immette anche un
po’ di storia incrociata, facendo frequentare gli scacchi anche a Sartre e
Kassel. Perché questo è il “Club degli Inguaribili Ottimisti”, cioè dei
comunisti duri e puri, che, benché scacciati e schiacciati, pensano sia sempre
possibile una fine rivoluzionaria positiva. Ma anche lo specchio del mondo, che
quando scopriremo le loro storie, appunto scopriremo la vita ed i suoi
tradimenti quotidiani. E Michel si troverà ora, e sempre, di fronte al dilemma
del rovescio della medaglia del tradimento: il perdono. Dramma insormontabile,
che Michel affronta con le armi in suo possesso: libri, macchina fotografica, e
poi l’amore. Ma solo due su tre sopravvivranno alla fine di tutte le storie.
Che coinvolgono poi Cecilie, la sorella di Pierre, che ama Franck. Pierre che
muore in Algeria. Franck che sposa una donna algerina, diserta l’esercito e
vivrà per tanti anni alla macchia. C’è anche la famiglia di Michel, i Marini,
da parte di padre, comunisti fuggiti dal fascismo, e i Delaunay, da parte di
madre, proprietari dell’azienda che sostiene la famiglia. La madre è un’arpia
che frequenta solo seminari di gestione aziendale, mentre il padre, un bravo
ragazzo che non avrebbe mai dovuto sposare la figlia del boss, è solo capace di
imitare Jean Gabin. Anche questo scontro sarà interessante, tra i comunisti ed
i gollisti separati in casa. Alla fine, o meglio all’inizio perché il libro è
un lungo flash-back, troviamo Michel che partecipa ai funerali di Sartre (e
siamo quindi nel 1980). Dove si domanda se si avesse ragione ad essere
ottimisti. Dove fa ancora delle bellissime foto, che poi sono quelle che gli
danno da vivere. E dove ripensa a tutta la sua giovinezza, che poi ripercorreremo
anno dopo anno. Ci sono tante altre cose, nelle più di 700 pagine, che tuttavia
tralascio, ma che vi invito a leggere. Non che sia tutto eccelso, non che sia
tutto indimenticabile. Ma pone la
domanda cardine dei nostri anni che passano. Fare quello che abbiamo fatto era
giusto? Potevamo fare altro? Saremmo ora diversi se lo avessimo fatto? Io sono
conscio, e questo libro me lo conferma, di aver fatto delle stupidaggini. Ma
sono contento di averle fatte e di essere quello che sono.
« Lire
et aimer le roman d’un salaud n’est pas lui donner une quelconque absolution,
partager ses convictions ou devenir son complice, c’est reconnaître son talent,
pas sa moralité ou son idéal. » [Leggere e amare il romanzo di un
autore bastardo non è dargli una qualche assoluzione, condividere le sue
convinzioni o diventare suo complice, è solo riconoscere il suo talento, non la
sua moralità o i suoi ideali.] (52)
« Aujourd’hui,
on se parle et on ne se dit plus rien. » [Oggi ci si parla e non ci
si dice più nulla.] (63)
« Tu
n’as pas besoin d’être aimé pour aimer. » [Tu non hai bisogno di essere
amato per amare.] (433)
« Quand
on a fait une connerie, on ne la rattrape jamais. Il faut aller jusqu’au bout
en espérant qu’on aura un peu de chance pour s’en sortir. Sinon, tu payes deux
fois. Pour la connerie et pour avoir essayé de t’en sortir. » [Quando
abbiamo fatto una cazzata, non si rimedia mai. Bisogna andare fino in fondo, sperando
di avere un po’ di fortuna per uscirne. In caso contrario, si paga due volte.
Per la cazzata e per aver cercato di rimediare.] (474)
Éric -Emmanuel Schmitt « Le
sumo qui ne pouvait pas grossir » Livre de poche euro 4,90
[A: 17/08/2014– I: 18/08/2014 – T: 18/08/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 82;
anno 2009]
Éric-Emmanuel
Schmitt è un altro dei miei autori – culto, dopo che lo scoprì anni fa in quel
delizioso pezzo teatrale di « Piccoli crimini coniugali ». L’ho
quindi seguito nella scrittura, e soprattutto in questa costruzione strana,
libro dopo libro, dell’universo dedicato alla religione ed alla riflessione.
Universo che lui racchiude con il grande sovra-titolo “Il ciclo
dell’invisibile”, dove, prima di questo libretto, sono usciti, ho letto, e
tramato “Milarepa” (sulla filosofia tibetana), “Monsieur Ibrahim et les fleurs
du Coran” (l’slam, e ricordate tutti il bel film con Omar Sharif), “Oscar et la
dame rose” (il cattolicesimo) et “L'Enfant de Noè” (l’ebraismo). Con questo ennesimo,
ma non ultimo, libricino, l’autore ci
porta nel cuore del buddismo zen. E lo fa sempre con lo stesso stile degli altri.
Mettendo in scena un ragazzo di fronte a problemi della vita. Che affronterà e
risolverà utilizzando gli strumenti che gli mette a disposizione la religione,
la filosofia di vita di cui si sta narrando. Qui abbiamo il quindicenne Jun che
scappa da casa, dove il padre si era suicidato per il troppo stress lavorativo,
e la madre, un angelo, tratta tutti dolcemente ma a lui sembra non pensarlo. Si
ritrova a Tokyo a fare il venditore di bambole para-pornografiche, vivendo alla
giornata. La svolta è l’incontro-scontro con un maestro di sumo che lo
blandisce dicendo di vedere in lui un lottatore, benché sia scheletrico. Dopo
una serie di vicissitudini poco importanti, Jun si convince ad interessarsi al
sumo. Ho avuto a questo punto un avvicinamento anche mio personale a questo
mondo che pensavo fosse solo frequentato da ciccioni ultra-centenari (di peso).
Ed ho scoperto che, in realtà, è proprio un mondo completo. Ed alla fine non mi
ha più meravigliato che il sumo sia in realtà LO sport giapponese. Pieno di ritualità,
come tutte le cose nipponiche, ma anche, e soprattutto, di filosofia. Certo, il
sumo classico è intrinsecamente scintoista, religione madre colà, ma il maestro
di Jun è invece un buddista zen. Ed utilizza questo modo di vivere per
avvicinarsi a Jun, e per portarlo, passo dopo passo, a ragionare. A ragionare
sulla sua impossibilità di ingrassare (in effetti, non si è mai visto un
sumotori magro), in gran parte dipendente dalla non accettazione di sé da parte
di Jun, in particolare rispetto alle vicende paterne. Paura di assumersi
responsabilità che, se troppe, rischiano di schiantare una persona. Comincia
quindi per Jun il periodo di acquisizione di massa muscolare, più che di
grasso. E di affrontare le tecniche di combattimento (anche qui, un ulteriore
grazie a Schmitt per la sua chiarezza nel semplificare e rendere accessibile questo
modo di lottare). Passa qualche anno, Jun, inserito nella squadra di allievi,
cresce in tecnica e capacità. Si innamora anche della sorella di un grande
campione. Ma non riesce a dare una svolta positiva a tutto questo lavoro.
Saranno le belle pagine, inserite in un colloquio con il maestro mentre si
medita in un giardino zen, a dare a Jun gli ultimi elementi della filosofia e
la capacità di affrontare tutto. Ed in particolare sé stesso. Per
riappropriarsi dell’affetto materno che è sì un angelo, ma solo perché affetta
dalla sindrome di Williams, una malattia cromosomica che rende la persona molto
aperta agli altri, ma con dei grossi deficit di apprendimento (tanto che la
madre di Jun è analfabeta, e per comunicare con il figlio invia delle lettere
piene di oggetti significanti). Essendo una favola, fortunatamente, tutto
finisce in modo positivo. Jun sale sul dojo, combatte e vince. Ma non farà il
sumotori a vita. Anzi lascerà la scuola del maestro ed accetterà la vita con
Reiko, decidendo con lei anche di fare figli, cosa che aveva sempre negato
proprio per la storia genitoriale avuta alle spalle. Allora, è certo una favola
(quante volte l’ho detto), ma Schmitt ha la capacità, come in quasi tutte le
altre storie degli Invisibili (a parte la prima di Milarepa, che mi ha lasciato
un po’ sconcertato, e che non ho capito fino in fondo) di semplificare e
rendere accessibile l’Invisibile di cui sta trattando. Come in questo caso il
buddismo zen, l’aspettazione verso la vita, ma soprattutto la ricerca verso di
sé intrinseca in questo modello di vita. Manca forse una certa tensione nel
racconto, scorrendo probabilmente in modo troppo lineare, ma si legge con
piacere. E, come gli altri Invisibili, pone domande. Alle quali la vita che
ognuno di noi vive risponde, secondo le proprie capacità ed il proprio modo di
vivere.
“Tu
penses trop car tu interposes de la pensée antre le monde et toi … tu projettes
des idées préconçues davantage que tu ne saisis les phénomènes.” [Tu
pensi troppo, metti troppi pensieri tra te e il mondo … tu ti prefiguri idee
precostituite prima di cogliere i fenomeni che accadono.] (46)
“J’ai
dit que c’était possible, pas que c’était facile.” [Ti ho detto che era
possibile, non che era facile.] (59)
“Le
but, ce n’est pas le bout du chemin, c’est le cheminement.” [Lo scopo
non è la fine del cammino ma il percorso effettuato.] (77)
Érik Orsenna « La Chanson de
Charles Quint » Livre de Poche s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 17/08/2014– I:
21/08/2014 – T: 23/08/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 185; anno 2008]
Ho sempre un debito con Orsenna per le sue
bellissime favole sulla grammatica francese (“La Grammaire est une chanson
douce”, “Les Chevaliers du Subjonctif” e “La Révolte des accents”). In
attesa di trovare quella sulle virgole, sono quindi passato a farmi regalare
uno dei libri del versante “più serio” (e lo metto virgolettato, perché a me
sembrano tutti i suoi libri seri e degni di lettura). Di questo, poi, mi era
rimasto nell’orecchio un eco di qualche anno fa, relativo alla voglia, necessità,
o altra urgenza dedicata al muoversi, allo spostarsi. Quanto mai appropriata
per una persona irrequieta come me. E c’è questa eco, ma compare chiaramente
solo verso la fine, dopo un libro dedicato a molto altro. Un libro anche molto
personale (credo ci siano spunti notevoli di mémoir, anche se non ho interesse
ad approfondirli in tal senso), dolente spesso, con spunti di notevole
riflessione. Intanto, nonostante il titolo parzialmente fuorviante, non è un
libro storico dedicato alla figura di Carlo V (o Carlo I o uno dei tanti nomi
reali che questo sovrano europeo indossò nei suoi cinquant’anni di vita). Se
non anche qui come spunto: per il fatto che il sovrano passò più di metà della
sua vita in giro per l’Europa, e per quei versi, poi messi in musica (ecco la
canzone), intitolati “Mille rimpianti” e che sotto riporto. Ma la storia, il
nodo del romanzo è appunto ancora un altro, e bifronte: il rapporto tra due
fratelli e quello tra due innamorati. Sul filo di queste due lame scorre la
memoria di Érik: due fratelli completamente diversi, fortemente complementari,
ed “invidiosi” l’un l’altro della tipologia di vita che perseguono. Il
maggiore, vagabondo, giramondo, dedito alla scrittura (e soprattutto di storia
e storie), sempre alla ricerca del “grande amore”; che trova per un istante,
per un mese, mai per sempre. Come invece trova il minore, legatosi alla donna
che ama di un amore totale, unico, definitivo; ed anche lui legato alla parola,
avendo scelto di fare lo psicologo. Ed ognuno invidia qualcosa dell’altro: il
maggiore, appunto, l’amore unico, il minore quel girare ovunque, quel non
fermarsi mai, sempre affamato di nuove storie da sentire, da pensare, da
rimandare. Il maggiore, poi, ha anche il lato “amore” che anche se non
definitivamente unico, lo lega ad una persona meravigliosa per quattro anni,
alla fine dei quali l’amata muore di cancro. Qui c’è appunto l’altro filone di
scrittura. La ricerca, fuori di sé prima, e dentro di sé, poi, dell’amore
morto. Con quella domanda, definitivamente laica, su dove sia la sua donna
morta ora che è morta. Certo questa parte, pur interessante, e piena (e si
sente) di tanto amore, è forse quella che mi ha coinvolto meno, con tutto
quell’andare di paese in paese, per cercare gli usi e costumi verso le persone
che ci lasciano. Egizi, cinesi, maya, tibetani. Tanti modi di ricordare, di
pensare i nostri cari che vanno. Orsenna tralascia, volutamente credo, modalità
occidentali, o comunque monoteiste verso questa problematica. Noi (io) lo
recuperiamo quando comprende (ed io lo so) la vicinanza interiore con i
partenti (e con color che son partiti). Chi ci lascia un segno indelebile, lo
ritroveremo sempre dentro la nostra memoria, pronto a dialogare silenziosamente
con noi. E dove la nostra onestà ci porterà sempre a non barare con loro. Rimangono
due ultimi punti da toccare prima di chiudere la trama. Il rapporto dei
fratelli con i genitori, che riempivano di musica la loro infanzia (e qui si
chiude il cerchio con la canzone del titolo), forse perché incapaci di
dialogare tra loro. Ma questa musica rimane come un sottofondo ai nostri eroi,
che di converso, saranno sempre pronti a parlare, istituzionalizzando queste
chiacchiere in una cena mensile nella quale sempre confrontano le loro
esistenze. E poi quello spostarsi che citavo all’inizio. Con una difficoltà a
rinchiuderlo in una parola. Errance, come si dice in francese, ne peggiora la
sensazione, così come l’italiano vagabondare. Orsenna prova, e noi proveremo
con lui, ad utilizzare lo spagnolo “andanza”, che ha sempre lo stesso significato
di muoversi da un posto all’altro, ma contiene quell’inciso di “danza” che ne
mitiga e forse rallegra il senso. Tanto che anch’io, ora, vorrei riprendere
“las andanzas” che mi hanno portato in giro per il mondo. Un ultimo accenno di
gratitudine poi all’uso del francese di Orsenna, sempre pulito, sempre
perfetto, sempre utile a tirar fuori il meglio della frase (come là dove cita e
contrappone “fantasme” e “fantôme”, facendoci riflettere sui falsi amici
linguistici).
“L’amour
juge, tandis que l’amitié absout.” [L’amore giudica mentre l’amicizia
assolve.] (163)
“L’andanza
est … la seule manière possible de vivre.” [L’andanza … è il solo modo possibile
di vivere.] (178)
« Ce
sont amis que vent emporte / et il ventait devant ma porte / les
emporta. » [Sono amici che il vento si porta / c’era vento di
fronte alla mia porta / e li portò via.] (182) [Una piccola appendice
musical-storica: questa, appunta, la canzone che piaceva a Carlo V, sui versi
del poeta duecentesco Rutbeuf, ascoltata dall’autore cantata da Cora Vaucaire,
detta “La Dame Blanche de Saint-Germain-des-Prés", grande interprete delle
canzoni di Jacques Prévert, di cui, per prima, incise nel 1947, “Les feuilles
mortes”. E potrei continuare con citazioni e ricordi ma mi fermo qui.]
Julie Bonnie “Chambre 2”
Pocket euro 6,20
[A: 17/08/2014– I: 23/08/2014 – T: 25/08/2014] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 178;
anno 2013]
Ecco
qui, cotto e mangiato, uno dei tre libri reduci della Francia agostana. Ultima
scelta, per completare il trittico, preso senza conoscere l’autrice, solo
perché, girando per il FNAC de Les Halles di Parigi, ne avevo visto la
pubblicità come opera avente ricevuto il premio FNAC per il romanzo nel 2013. E
l’ho affrontato non spendo altro dell’autrice, né del contesto del libro
stesso. Alla fine, pur non essendo un libro di riuscita eccelsa, è risultata
una lettura interessante, con alcune punte di piacere letterario, ed alcuni
punti interrogativi finali, su cui torneremo. E solo a posteriori, ho scoperto
che a) Julie nasce come cantante e musicista (violinista in particolare) e b)
dopo 15 anni di carriera Julie si era presa una pausa lavorando come
puericultrice in un reparto maternità. Questi due elementi sono poi ben
presenti nel libro, ingigantiti, travisati, sognati e rivissuti, così come deve
essere in un romanzo che, partendo dal personale, cerca, prova una descrizione
del reale, instillando domande nel lettore. Sulla maternità, certo, che è un
punto nodale del romanzo, ma anche sulla musica, sulla vita errabonda, sul
rapporto tra gli amanti, e su quello con i figli, modificantesi negli anni, come
ognuno di noi ben sa (siamo noi stessi genitori, quando capita, ma sicuramente
perché siamo figli). Julie narra la sua storia per salti temporali, andando
avanti ed indietro nel tempo, come spesso accade nei romanzi moderni, così che
scopriamo la personalità e la persona stessa della protagonista, Béatrice, poco
alla volta. Ma qui si trama, ed allora ne tracciamo un filo meno contorto. Béa
fugge da casa sedicenne alla ricerca “della vita”. Che trova, dopo qualche
falsa partenza, aggregandosi ad uno strano gruppo musicale, composto da Gabor
al violino e Paulo alla batteria. Il sogno di Béa è la danza, e la musica dei
due scatena la sua capacità di calcare le scene. E con loro comincia a girare
la Francia e l’Europa, comunicando con la danza le sue sensazioni, spesso
danzando nuda o quasi. Ed aggregando al gruppo stesso, errante e sconclusionato,
la coppia gay di Pierre e Pierre. Si mette con Gabor, fa una figlia che
chiamerà Norma, come il vero nome di Marylin. Ci sono anche momenti neri,
quando il suo secondo figlio nasce morto (e sono tutti fantasmi che ritroverà
più tardi). Poi viene un terzo, Romeo. Ma i gay prendono l’AIDS, e si si
tolgono la vita gettandosi con la macchina contro un albero. Questo segna la
fine della vita errabonda. Il gruppo non ha ingaggi, Béa ritorna stabile a
Parigi e diventa puericultrice in un ospedale. Ma Gabor non è fatto per la vita
ferma, e dopo poco parte per non tornare più. Quando incontriamo Béa sono più
di dieci anni che fa questo lavoro, e la seguiamo, mentre fa il giro delle
camere con le puerpere, le partorienti, ed altra umanità maschile e femminile.
Ed anche se fa questo mestiere per sopravvivere, non è “la sua vita”. È spesso
empatica con le future o le appena mamme, soffre quando i piccoli hanno
problemi. Non è organica all’ospedale, né soprattutto ingrana con le
ostetriche. I piccoli racconti, di camera in camera, sono degli assaggi di momenti
belli e brutti che la maternità offre: parti difficili, madri che rifiutano la
maternità, madri che vorrebbero allattare e non ci riescono, madri che hanno
latte ma non vogliono allattare. Fino a tutti quei momenti, di un dolore
lancinante, quando c’è un aborto (spontaneo o volontario) o quando, nonostante
tutte le attenzioni, il piccolo non ce la fa. Pur essendo uomo, questi momenti
mi fanno ogni volta accapponare la pelle. Come la storia della camera del
titolo, dove la madre deve partorire due gemelle, ma solo la prima sopravvive.
E la madre entra in uno stato catatonico, da cui non uscirà per tutti e dieci
gli anni che ci racconta Béa. Solo alla fine, e non vi dico perché, esce dal
coma, ed abbracciata a Béa muore. La nostra viene anche accusata di omicidio
(ma così non è). Però sarà la molla che la farà uscire dal purgatorio
dell’ospedale, per riprendersi una qualche vita. Senza Gabor (ovviamente), con
Norma che ora fa la barista in un night bar, e Romeo che suona la chitarra ed
ha le tendenze vagabonde del padre. E noi non lo sapremo, ma come nei bei
romanzi, ci piace immaginare e proseguire nella storia. Anche se questo è uno
dei punti interrogativi di cui sopra. Gli altri sono legati alle maternità, al
ruolo della madre nel parto, a quello del padre, prima, durante e dopo. Julie
ce ne presenta alcuni campioni estremi (che la normalità non fa storia) ma
mettere al mondo figli è sempre un argomento di grande intensità. Di grande
dolore. Ma anche, spesso ed il più delle volte, di grande piacere e di grande
costruttività. La scrittura non sempre tiene il passo della tensione narrativa,
ma il libro ha una sua identità. E
non è poco.
“Comment
vivent les gens qui n’ont pas peur?” [Come vivono le persone che non
hanno paura ?] (54)
“On
n’est seul que dans sa propre tête” [Si è soli solo nella propria testa.] (159)
“Chaque
être humain se croit plus malin que l’autre, et sa propre vie lui importe plus
que toutes les autres, aussi dérisoire et minable soit-elle” [Ognuno pensa di
essere più furbo dell’altro, pensando alla propria vita come più importante
delle altre, per quanto possa essere ridicola e patetica in sè.] (167)
Cecando
di smaltire le decine di trame accumulate, vi riempirò di scritti Natale e
Capodanno. Tanto poi sapete (e se non lo sapete ve lo dico), che a gennaio si
riparte per un’avventura indiana. Ed allora, per ora Buona Natale a tutti
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