Fine aprile, dopo un bellissimo
viaggio ancora una volta in Perù (ed un poco in Bolivia), con ancora negli
occhi le Ande, Machu Picchu e i Salares boliviani, abbraccio di nuovo i miei
amici lettori, ritornando alla quinta parte della collana del Sole 24 ore sul
nero italiano. E, mediamente, con un livello migliore delle ultime uscite. A
parte Genzini, che tutto sommato eviterei, e Cacopardo, di cui vorrei leggere
altro prima di dare un giudizio definitivo, Pandiani ha uno spessore che si corrobora
dagli altri libri da lui pubblicati. Anche Maria Teresa Valle ed Esposito, poi,
si collocano un gradino sopra la media. Una collana che ho seguito fino al
quarantesimo libro, e che ritengo una delle più oneste uscite in Italia nel
settore.
Filippo Genzini “L’uomo che si sciolse come neve al sole” Sole 24 ore –
Noir Italia 13 euro 6,90
[A: 08/10/2013– I: 05/10/2014 – T: 08/10/2014] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 407;
anno 2011]
Pur
essendo uno tra i primi volumi dell’onesta serie del Sole 24 ore, si colloca
nella fase calante delle ultime uscite. Un prodotto se vogliamo con delle
formali capacità strutturali, ma che ha anche molte pecche. Nella trama, nella
tensione e nella confezione. Non conosco l’autore, che mi si dice esperto di
marketing, ma oltre a saper scriver, non mi sembra che questo scritto sia in
linea con le sue capacità professionali. Infatti, pur con dei punti
accattivanti, non attira. È certo simpatico il commissario Zarotti,
trasferitosi da Milano a Cremona dopo il divorzio, un ispettore degno della
grande tradizione italiana, riflessivo e propositivo. Accattivante, seppur
trattata molto trasversalmente, la sua storia d’amore, che gli apre prospettive
nuove e nuovi slanci. E di sicura presa, per me, l’ambientazione cremonese,
città che non conosco e che qui ho imparato a vedere con gli occhi di chi,
invece, ben la conosce. Tuttavia, l’ambientazione risale al 1994, per cui mi
fido sia delle descrizioni datate sia degli aggiornamenti che l’autore cita in
prefazione. Che tuttavia avrei ridotto ad un semplice cenno, per poi
svilupparla in una post-fazione magari più articolata. Diffido sempre di chi
spiega prima di iniziare. La prima cosa che poi risulta evidente, venendo allo
specifico, è di nuovo (come spesso accade negli ultimi libri che ho letto)
l’uso intensivo del flashback. Un vezzo di molti nuovi autori, quasi a far vedere
che io scrittore so di cosa parlo e vada su e giù per la scala temporale. Qui,
tuttavia, è usata in campo stretto e rende molto difficoltoso seguire la
vicenda. Che si salta di giorni all’interno dello stesso mese. Poi di mesi a
cavallo di due anni. E non volendo scoprire le carte quando si salta in avanti,
si perde il filo quando si salta indietro. Anche perché ci sono tanti personaggi,
tanti nomi che entrano ed escono. E se nel filo del tempo si avrebbe la
possibilità di memorizzarli, qui ogni volta mi domandavo: e questo chi è? Da
dove salta fuori? È uno dei buoni, dei meno buoni, dei quasi cattivi? Insomma
un po’ di confusione. In una trama che poi non è che sia vivacissima. Si inizia
con una partita di poker, dove il personaggio centrale vince una barca di
soldi. Che riscuoterà solo dopo un mese, lo stesso giorno che scompare.
Generoso (questo il nome del personaggio) è un tipo strano, che si finge un po’
tonto, ma che non lo è affatto. Che si scopre maneggiare soldi a profusione,
motivo per cui il commissario sospetta un suo coinvolgimento con qualche mafia.
Oltre a scomparire quando riscuote i soldi, scompare anche per non comparire in
un processo dove avrebbe potuto fare nomi eccellenti. E Zarotti sospetta. Ed
oltre a sospettare, avvia diverse indagini per andare a fondo al problema.
Mentre la città di Cremona è anche colpita da una strana banda di rapinatori di
gioiellerie. Due mesi dopo si scopre un cadavere che tutto fa supporre essere
di Generoso. Una perquisizione mirata del commissario, aiutato dai suoi
collaboratori (e soprattutto Bartoli che scoprirà molti dei rivoli della grande
confusione) porta a scoperte importanti sull’uso dei soldi da parte di
Generoso. Che sapendo di essere in pericolo, cela in una cassaforte segreta le
tracce del malaffare, cosa che porterà allo scioglimento di un pericoloso
intreccio di riciclaggio di denaro sporco. Però non si svela il mistero della
morte di Generoso. E di come il suo sfortunato compagno di poker abbia trovato
300 milioni di lire in un mese. Altre fortuite coincidenze portano Zarotti a
sospettare un intreccio tra quest’ultimo ed i rapinatori. Intreccio che
diventerà manifesto scoprendo tre cadaveri nei dintorni cittadini. Ma Generoso
era anche un ricattatore di clienti delle lucciole. Ed in questo ambiente
Zarotti troverà l’ultimo bandolo dell’intricata matassa. Peccato che, forse, Generoso
non sia morto ma, forse (ed abbondiamo con i dubitativi) sia solo voluto
scomparire. Questo lo lascio in mano a chi avrà voglia e pazienza di leggere il
libro. Che ha anche altre storie che servono a coprire le quattrocento pagine
(ma solo quella di Anna e Marco, due liceali innamorati, è degna di nota; anche
per il rimando al grande Lucio Dalla). Che dire infine della confezione? Ora, è
vero che l’autore si trincera dietro la retrodatazione della vicenda. Ed è anche
vero che all’epoca cominciavano ad esserci cellulari (anche se ancora non
diffusi). Ma una macchina con il vivavoce la trovo un po’ avvenieristica. Poi,
seppur diffuso in Nord Italia, si dovrebbe dire “sala da biliardo” e non “da
bigliardo”. Che dire infine quando, con accenni di fisiognomica, Zarotti si
domanda se sta diventando un seguace “dell’Omborso”! Forse un normale rilettore
di bozze avrebbe potuto riportare al corretto Lombroso (Cesare, il pioniere
degli studi sulla criminalità). Insomma, la solita incuria della confezione,
indice macroscopico della poca cura che l’editoria italiana pone a questo
problema. Speriamo in meglio.
“Non aveva bambini tra i piedi, che tra
asilo e scuola le malattie le prendono tutte.” (114)
Enrico Pandiani “La donna di troppo” Sole 24 ore – Noir Italia 15 euro
6,90
[A: 18/10/2013– I: 16/10/2014 – T: 18/10/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 313;
anno 2011]
Quando
il manico è robusto si vede subito, in qualsiasi collana si collochi. E
Pandiani è uno che, per quanto poco ne abbia letto, il giallo lo sa maneggiare
discretamente. Anche utilizzando registri diversi. Infatti, non siamo più
nell’hard-boiled mozzafiato che abbiamo conosciuto con “Les Italiens”, ma siamo
in un giallo ragionato, a volte quasi d’atmosfera. Dove però, e non potrebbe
essere diversamente, ogni tanto Pandiani fa vedere la sua capacità di affrontare
situazioni con molti spari e molte morti. Fortunatamente, la trama regge, si
dipana con eleganza, e si chiude in modo non direi inaspettato, ma certamente
non usuale, con i soliti bacetti finali e tutti felici e contenti. Ci saranno
certo, felici e contenti, ma l’atmosfera è più sul tipo “la vita è così, forse
l’unico modo di viverla è non perdere troppo”. Intanto Pandiani introduce una
nuova protagonista, la detective Zara, ex-ispettrice di polizia nel Friuli, ed
ora occhio privato in una ben descritta Torino. Con un bel rapporto con il nero
François, patron di un bar alla moda, “Le Cosmopolitan”, che ha un non
chiarissimo passato a Marsiglia. Tuttavia, in questa storia iniziale il loro è
un bel modo di stare insieme ed aiutarsi a vicenda. Nello scacchiere torinese
ci sono poi le forze dell’ordine, coordinate dall’ex-collega di Zara, Michele.
E coadiuvati da una squadra anti-droga guidata dall’ambigua Concetta.
Sull’altro lato, lo squadrone che si aggira intorno alla famiglia Dalmazzo. C’è
Leone, il fratello anziano, a capo di una società plurinazionale molto
redditizia. C’è la sua venticinquennale amante Valeria, madre, ma nessuno lo
sa, di Filippo. C’è l’ex-moglie Lucrezia, ex-modella, ora sposa al fratello più
giovane e senza successo alcuno. C’è Filippo, diciasettenne arrabbiato, una
volta legato alla bella Orsetta, che lascia per infilarsi in un’avventura erotica con la sensuale trentenne
Ambra (che poi scopriamo essere la sorella di Valeria, e quindi, in realtà, zia
di Filippo). Ci sono l’ambiguo factotum ed il pilota della flotta privata dei
Dalmazzo, lo sloveno Ramos. La situazione inizia con la morte, anzi l’uccisione
di Leone. E la scomparsa di Filippo, a quel punto erede della fortuna di
famiglia, e che molti, Lucrezia in testa, vorrebbero veder non comparire.
Lucrezia, consigliata dal russo amico di Leone, ingaggia Zara per ritrovare
Filippo. Mentre il segretario prende contatto con un malavitoso di mezzatacca,
Viviani, che fungerà da variabile impazzita per tutta la vicenda. Utilizzando
bene l’ambientazione torinese, tra i suk di Porta Palazzo e le ville in
collina, scorre e si complica giorno dopo giorno tutta la vicenda. Due albanesi
si auto-accusano della morte di Leone, ma nessuno crede loro. Lucrezia licenza
Zara, che viene contattata da Filippo stesso per continuare le indagini, lui
sempre latitante. Mentre la polizia brancola, si innesta il filone droga, doce
pare che l’entourage dei Dalmazzo sia coinvolto in qualche modo. E le
situazioni precipitano. Zara e Viviani, indipendentemente capiscono che Filippo
è nascosto da Ambra. Ma quando Zara arriva Ambra è morta in una colluttazione
con Viviani. Gli albanesi, poco credibili, sono rilasciati. E quando Zara va ad
interrogarli, li trova entrambi morti. Come detto, il senso del sangue di
Pandiani spesso viene a galla. Viviani ricatta il segretario, riesce a
trafugare montagne di euro, e decide di continuare da solo la ricerca di
Filippo dalle uova d’oro. Zara, aiutata da Concetta, scopre il traffico di
droga di Ramos. Purtroppo viene intrappolata insieme all’incauto Filippo nelle
ghiacciaie sotto Porta Palazzo. Sembra tutto fatto, che arriva Concetta, ma
questa si scopre essere una variabile impazzita, che vorrebbe i soldi e la
droga per lei. Altra sparatoria, che sbucano due marsigliesi amici di François
a salvare la nostra detective, e dove muoiono Concetta e Ramos. Quest’ultimo
ucciso da Filippo, prima che potesse chiarire i motivi della non usabilità
dell’elicottero, primo passo che portò alla morte di Leone. Esce dall’ombra
allora Viviani, che riesce a mettere fuori combattimento Zara e Filippo,
inscenando un grosso ricatto verso Lucrezia. La quale si presenta con i soldi
del riscatto, ma con la richiesta di uccidere Zara e Filippo, in modo da
diventare lei l’erede dell’impero Dalmazzo. Solo a questo punto Zara si
riscatta, ed utilizzando le tecniche di arti marziali di cui è cintura marrone,
riesce a capovolgere la situazione. Muore Viviani. Muore Lucrezia. Zara e
Filippo hanno un lungo confronto chiarificatore, che finalmente anche a noi
chiarisce tutte le complesse sfaccettature della vicenda. E mentre Zara chiama
Michele per far finire tutto come da regole poliziesche, arriva il russo amico
di Leone, che si prende Filippo, e lo porta in Russia, dove insieme faranno
risorgere l’impero della Global Medics. Spero di essere riuscito a non dirvi tutto,
che il libro ha la dignità di essere letto. Anche per la buona “torinesità” che
non guasta, e per i rapporti umani che s’intrecciano, che sono ben trattati. E
per il modo di vivere di Zara, simpatica new entry nel mio personale pantheon del
giallo italiano. Insomma immaginavo Pandiani essere uno scrittore da seguire, e
questo secondo romanzo letto, lo conferma.
Maria Teresa Valle “L’eredità di zia Evelina” Sole 24 ore – Noir Italia
29 euro 6,90
[A: 24/01/2014– I: 22/10/2014 – T: 23/10/2014] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 220;
anno 2012]
Un
solido ed onesto prodotto scovato dalla ormai ben nota serie del Sole che sto
tramando da mesi, ed un’altra scrittrice della fucina originata dai Frilli
Editori di Genova. Mezzo libricino in più perché l’autrice confessa a pagina 68
di essere una sfegatata fan di Kathy Reichs e di Temperance Brennan (che io ho
nell’edizione integrale italiana!). Come spesso accade negli scrittori proposti
da questa serie, il personaggio centrale è, bene o male, un clone di chi
scrive. Come in questo caso che la dottoressa Valle è biologa ed ex-dirigente
dall’ospedale di Genova. E la nostra dottoressa Maria Viani (stesse iniziali…)
è biologa e si aggira nelle langhe piemontesi, insieme ad un marito presente ma
non opprimente (ricorda un po’ le prime puntate della Oggero) e ad una
simpatica gatta. L’unica cosa poco comprensibile è come facciano a guadagnare
denaro (probabilmente dovuto al fatto che il libro è un seriale, credo il
quarto, per cui si suppone che si sappia chi siano e cosa facciano Maria e
Francesco). Il romanzo in realtà poi è diviso in tre parti temporalmente
concomitanti ma senza intersezioni, a parte il fatto che tutto avviene dopo la
morte della simpatica zia Evelina. C’è il cagnetto Lampo che nella cantina
della zia trova le ossa di un cadavere. Dove leggendo le carte lasciate dalla
zia, Maria con la nipote Laura, scopre che il morto non è altro che il marito
di Evelina, dato per disperso in Russia durante la guerra. Invece tornato e
morto in una colluttazione con un partigiano che ha preso il suo posto nel
cuore e nel letto di Evelina. Tralasciando il fatto che siamo solidali con zia
Evelina e chi ne legge capirà perché, questi fatti avvicinano zia e nipote,
secondo filone delle storie. La nipote Laura al primo anno di liceo ha una
grossa sbandata che la madre Anna, sorella di Maria, non riesce a gestire.
Anche perché anche Anna ha una sbandata per un amante che per ora non compare,
anche se ne sappiamo le gesta. Di Laura, la sbandata si scopre essere dovuta a
micro prestazioni sessuali gestite all’interno della scuola da ragazzi più
grandi. Micro che poi diventano grandi, che invadano spazi internet (tipo foto
osé postate sul web). Laura non sembra convinta (anche se ha una discussione su
sesso e amore dopo che scopre che anche la zia fa sesso con il marito), poi ha
una crisi verticale alla notizia di una sua amica di scuola che, coinvolta nel
suo stesso giro, si è buttata dal quinto piano. Storie che purtroppo non sono
da romanzi che ben conosciamo leggendone non spesso ma con continuità sui
giornali. E partendo da lì, aiutata dalla zia, ma anche dalla madre e dal
maresciallo Croce, riesce a sbloccarsi. Maresciallo che, anche obtorto collo,
viene necessariamente coinvolto dalla nostra intraprendente biologa per il
terzo e più fitto mistero del romanzo. La scomparsa di Viktoria, sorellastra di
Alina la badante di zia Evelina. Entrambe ucraine, ma Alina con permesso.
Viktoria, giovane e senza, per restare in Italia si dedica anche lei alla
professione più antica del mondo. In un bar gestito dal manesco Tito (così chiamato
perché gestisce il traffico delle slave), dove lavora il giovane Michele
(probabilmente innamorato di Viktoria) e che frequenta Emanuele (coetaneo di
Maria con cui ebbe una storiellina in gioventù, troncata dalla di lui violenta
indole, ora ex-vicino di zia Evelina, esperto di vini, ma sempre dedito a
giochi d’amore molto spinti). Dopo alcune vicende di illusoria comparsa e
scomparsa, sarà Lampo che scavando nel giardino di Emanuele troverà i resti di
Viktoria. Saranno i carabinieri a scovare nella cantina dello stesso un
completo armamentario di bondage e sesso estremo. Sebbene tra i più sospetti,
il nostro maresciallo non è convinto della colpevolezza. In base ad altri
indizi, la ricerca si restringe ai tre di cui sopra. E tutti e tre con alibi, seppur
non solidissimi. Sarà ovviamente un’idea di Maria che metterà le forze
dell’ordine sulle tracce del vero colpevole. Questo come ovvio non ve lo dico,
lasciandovi un po’ del piacere della lettura. Calmo ripasso di atmosfere piemontesi,
tra Alba e Asti, mettendo un CD di Paolo Conte. Spilluzzicando un formaggio
saporito, sorseggiando un vino dolce e liquoroso. Niente di impegnativo,
tuttavia con un buon ritmo che tiene legati alla pagina, e all’immaginare il prima
ed il dopo della vita di Maria Viani. Bellissima, infine, la citazione di Nuto
Revelli a pagina 119.
Andrea Esposito “Il paese nasconde” Sole 24 ore – Noir Italia 18 euro
6,90
[A: 08/11/2013– I: 01/11/2014 – T: 05/11/2014] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 488;
anno 2012]
Un
altro e più che sufficiente esempio della lettura “noir” della provincia
italiana. Con una altrettanto convincente descrizione dei luoghi delittuosi che
avvengono nell’isola di Ischia. E per la precisione a Forio, che, durante tutto
il romanzo, riusciamo a visitare con dovizia di particolari, e con piacere
(visto che una parte della trama è una specie di filo rosso che unisce i monumenti
dell’isola, in particolare le chiese, nonché le statue di gesso di Giovanni Maltese).
Segnato questo punto a favore, ne registriamo subito uno in negativo, laddove
in copertina si parla delle indagini del commissario Senese. Che ovviamente è
uno dei protagonisti del libro, ma le indagini sono portate avanti anche (e
dalla metà del libro in poi, quasi esclusivamente) dal commissario Marco
Ranieri e dalla sua creatura, l’UCS (Unità Crimini Seriali). I due sono amici e
vanno anche di conserva, tuttavia, seppur apprezziamo alcune irruenze di
Senese, è la metodica inchiesta di Ranieri, coadiuvato dalla patologa Penelope
(bella, ed ovviamente con una tormentata storia con il nostro) e dal profiler
Sir James, lo studioso inglese che alla fine annoderà i fili sparsi della
trama. Una trama che, avendo due commissari, ha anche due aspetti polizieschi,
anche se spesso intrecciati e intersecantesi. C’è una catena di morti, anzi di
donne uccise, e c’è la lotta per il controllo della droga. Senese arriva
sull’isola per questo secondo problema, essendo stata segnalata la presenza di
uno dei super-boss salvadoregni della droga, Juan Glem detto El Rey Supremo.
Seguendo la pista di Glem, Senese si imbatte in un nucleo di “lepenisti” del
Sud, che cerca di farsi giustizia da solo verso l’immigrazione selvaggia dai
paesi latino-americani. E si imbatte anche nella prima uccisione: Alba, una
ragazza esuberante (questo il termine usato per una donna che non accetta di
rimanere chiusa in casa ad accudire un marito manesco), che segue da vicino il
gruppo di studio del prof. Antonelli, uno storico dell’arte che sta scrivendo
con i suoi ragazzi un libro sulle bellezze monumentali di Ischia. In base alle
vicende che si intrecciano, ben presto abbiamo sulla scena tutti i
protagonisti. Oltre agli investigatori di cui sopra, ci sono il
vice-commissario Rusciano, che cerca di far mantenere un basso profilo a tutti
gli avvenimenti nell’isola, lo scultore Catalano detto Bellini, la cui storia
ricalca un po’ quella del suo mito (il Maltese di cui all’inizio) e che si
trova sempre in mezzo quando succede qualcosa, la sua ex-moglie (anch’essa
discretamente esuberante) Monica che ha una relazione con Marco Coiano, il
numero due dell’equipe di Antonelli, con la madre Lena, architetto i cui
disegni si trovano sui luoghi dei delitti, e che è anche la sorella di… E qui
non vi dico di più, anche se poi c’è Antonelli stesso, dal passato misterioso e
che forse non è né professore né italiano, c’è l’avvocato Aymara detto Bolivar,
il difensore (ma sarà sempre vero?) degli immigrati, i lepenisti di cui sopra,
guidati da Leonardo detto ‘U Toro, e, per non farci mancare nulla, anche dei
rumeni che guidano un cartello di smercio di droga ed altri prodotti illegali.
Le situazioni si complicano dopo che prima muore Mikela, un’altra donna
esuberante che aiutava il gruppo di Antonelli nella redazione finale del libro,
poi scompare Antonelli stesso, finché c’è l’ultima uccisione efferata, quella
di Libera. Purtroppo, dopo una prima metà di buon ritmo, l’autore comincia ad
incartarsi un po’. Prima di tuto, che vuole mescolare tutte le trame, senza
troppo successo, per cui seguiamo a ritmo alterno problemi di droga e spietati
omicidi. Poi, per aiutare lettore e polizia, comincia a seminare indizi fin
troppo palesi, che, ovviamente, il lettore coglie e la polizia no. Ad esempio,
quando, sul disegno di una chiesa, la Chiesa della Madonna della Libera, viene
cerchiato l’ultimo nome. Nessuno protegge però la studentessa Libera Russo, che,
infatti, viene uccisa. Noi lettori lo sapevamo, possibile che i poliziotti non
abbiano fatto ilo collegamento. Così come quando Lena Coiano dice a Penelope di
essere la sorella di …, possibile che Pen non riesca a parlare mai né con
Senese né con Ranieri, prima del triste epilogo della vicenda. Che alla fine,
Senese, utilizzando sia ‘U Toro che il rumeno, sbaraglia il cartello della
droga salvadoregna, in una mattanza finale in cui muoiono molte persone, tra
cui Antonelli che, come si sospettava da tempo, era invece … Non vi posso dire
tutto, ma contemporaneamente anche la vicenda delle donne massacrate si porta a
compimento con una soluzione complessa che vede un teorico degli omicidi ed un
esecutore materiale, cui si punta alla fine perché tutti gli altri non potevano
essere stati. Come diceva il buon Conan Doyle, quando tutto l’impossibile è
scartato, ciò che resta, anche se improbabile, deve essere la verità. In
conclusione, un romanzo dalle buone premesse, che si perde un po’ per via,
ricalcando alla fine sentieri di trama già troppo percorsi. Ma l’autore ha,
sebbene prolissa, una buona penna in mano.
Domenico Cacopardo “Agrò e la deliziosa vedova Carpino” Sole 24 ore –
Noir Italia 20 euro 6,90
[A: 22/11/2013– I: 07/11/2014 – T: 10/11/2014] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 237;
anno 2010]
Anche
se l’ultima pagina dell’impaginazione fatta da “Il Sole” sembra suggerire che
questa sia la prima storia del magistrato Italo Agrò, devo avvertire i miei
distratti lettori che questo non è vero. Ne è, infatti, la terza. Questo perché
spesso l’opera del quasi ottantenne ex-magistrato Domenico Cacopardo è avvolta
in aloni strani, tra reticenze e rimozioni. Sovente, soprattutto nelle prime
opere, si è auto-prodotto. Sovente, e molto ultimamente, si è auto-incensato. Tutto
questo per delimitare un campo che, al contrario, è di sicuro interesse. La
collocazione spaziale del romanzo è gradevole e coglie quegli aspetti peculiari
della città che amo (e soprattutto ne coglie punti in un intorno che ben
conosco essendo uno dei perimetri cittadini ove trascorro la maggior parte del
mio tempo). La descrizione di questo magistrato, appena trasferito a Roma dalla
procura di Biella, che guardo fin dall’inizio con simpatia, quando al mattino
esce di casa per la sosta al bar, con caffè e giornali (infatti, prima di
recarsi in Procura, legge “La Repubblica” e “Il Manifesto”). Il contorno
generale della trama, ambientata per gran parte nell’ambiente degli ebrei
romani (tanto che il nome della signora va letto Càrpino e non Carpino). Quello
che un po’ stona è il contesto generale, laddove Cacopardo cerca di delineare
la Procura e gli ambienti giudiziari romani, con il contorno immancabile di
avvocati traffichini. Rimane un po’ senza mordente, come se questa parte fosse
un compitino che bisogna mettere perché senza corruzioni e potentati non si
riesce a delineare il campo d’azione. La storia, linearmente, prende le mossa
dalla morte di Abramo Carpino, in un primo tempo segnata come naturale, ma che
lettere anonime ed altre illazioni, fanno ritenere poco probabile. Abramo,
sposato con la signora Felicita, è uno che corre molto verso altre gonne, ed
anche la moglie non sembra aliena dall’avere avventure. Soprattutto con il
chirurgo plastico Diego Parlagreco. Agrò, aiutato dal vice-commissario Scuto,
un personaggio complementare e sicuramente simpatico e capace, cerca di far
quadrare i conti, indagando (pur a due mesi dal fatto, cosa che non rende
facile trovare prove e riscontri). Inoltre, Abramo muore per un sovradosaggio
di Coumadin, che ovviamente fa scoppiare la sua acclarata fragilità capillare.
È il fratello Aaron che lancia la pietra nello stagno del mistero. L’onda però
lo travolge ben presto, che si scopre essere stato lo stesso Aaron ad inscenare
un palese indizio di uccisione, proprio per far riaprire le indagini. Il tutto
complicato dalla segretaria di Abramo, Oana, piacente e sicuramente una delle
amanti, anch’essa capitata nel giro dei ritocchi di Diego (a lei riduce il
seno, che a Felicita invece ingrossa). Dopo una serie di finte scoperte, di
ingerenze palesi (illuminante ma poco funzionale la scena della conferenza
stampa del capo di Agrò, tutta tesa ad avere pubblicità gratuita non a far
progredire le indagini). Il mistero è tuttavia sempre celato dalla tempistica
delle azioni. Abramo era a Tarquinia, da dove torna a Roma, ed arrivato davanti
a Palazzo Taverna dove abita, muore. Non c’è stato tempo di fargli iniezioni di
Coumadin. Ed inoltre, stava venendo a Roma per andare dal notaio a cambiare
testamento, cosa che non farà causa decesso. La fine, purtroppo, è molto
affrettata, che una volta scoperte le linee principali, per cause fortuite,
Agrò riesce a convogliare tutti gli attori della vicenda in una villa del
parmense. E lì, con un finale che si vorrebbe alla Maigret ma non ne ha
l’altezza, il nostro svela motivi, modalità e conseguenze delle azoni
criminali, smascherando ed incriminando i colpevoli. Che non vi dicono che
siano. Questo della fretta è sicuramente il lato più negativo, che si riflette
non solo nella fine affrettata, ma anche in altre situazioni di contorno. Agrò
ha una storia che sembra interessante con una ex-compagna di Università, che ad
un certo punto, dopo una telefonata mancata, abortisce senza una vera
spiegazione. Ed il nostro si “consola” con la simpatica Roberta (simpatica
soprattutto in quanto matematica). Non si capisce perché lascia Tea, si capisce
perché abbia un debole per Roberta, ma rimane irrisolto il mistero del cambio
di “letto”. Altrettanto affrettata (o senza cure editoriali) è una certa
consecutio dei tempi. L’azione comincia sabato 1 dicembre 1990. Dopo poche
pagine passiamo al martedì, che è etichettato come 5, invece è il 4 di
dicembre. Abramo muore il 19, Aaron scrive una lettera il 24 sempre di dicembre.
A gennaio, quando Agrò prende in mano il fascicolo, la lettera (e da allora sarà
sempre indicata così) risulta datata “24 dicembre 1991” (cioè un anno dopo). Si
riscatta solo con le azioni descritte il 17 febbraio dello stesso anno, dove
come mi risulta, si svolse a Roma la partita di calcio tra Roma ed Inter, che
finì, come scritto con un pareggio per 1 a 1 (e per la precisione con vantaggio
dell’Inter con goal di Berti e pareggio della Roma a 10’ dalla fine con
Rizzitelli). Ma si sa io sono un po’ pignolo. Peccato, in generale, per il tono
poco amichevole di Cacopardo e per le affrettate conclusioni. Vedremo.
“Italo … confessò di non possedere un
televisore … Un bel libro è meglio di cento spettacolo televisivi.” (166)
Dopo una Pasqua dedicata al
recupero, vi allego una nuova puntata di libri e malattie, questa volta anche
in tema con i viaggi (e le maledizioni della “turista”, come dicono in
Francia). Dedicando adesso, il tempo del riposo, a mettere un poco d’ordine a
tutto quanto lasciato di corsa per l’affrettata, ma gradita, partenza.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
APRILE 2015
Questo mese andiamo sullo spinto
e sui ricordi di molti viaggi in cui il Dissenten la faceva da padrone. Ma al
bagno, potete leggerne anche senza stare in viaggio.
DIARREA, I DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE AL GABINETTO
Non perdete un
istante. Scegliete un romanzo da questo elenco. Non importa se li leggerete a
salti e frammenti durante le vostre sedute, scegliendo, volta per volta, un
capitolo breve o uno lungo. Organizzate uno scaffale apposito, nella stanza più
piccola della vostra casa.
Saul Bellow Il re della pioggia
Charles Bukowski Post office
William S. Burroughs Pasto nudo
Raymond Chandler Il grande sonno
J. M. Coetzee Diario di un anno difficile
Heimito von Doderer Le finestre illuminate
Ralph Ellison Uomo invisibile
Bjorn Larsson La vera storia del pirata Long
John Silver
Michael Ondaatje Le opere complete di Billy the Kid
Simon Vestdijk Il giardino dove suonavano gli
ottoni
Bugiardino
Premesso che ritengo anche il
gabinetto un luogo ameno dove si possa leggere in momenti di difficoltà, la
scelta dei dieci libri da collocare in emergenza non è certo facile. Non parlo
di Burroughs ed Ellison che lessi più di venti anni fa e che ricordo con
alterna simpatia. Il primo l’ho sempre ritenuto illeggibile, il secondo, pur
meglio scritto, mi rimanda a momenti che si perdono nelle nebbie. Dei tre che
invece ho letto di recente, ritengo poco a me congeniale l’etilico Bukowski, e,
al solito, non riesco a farmi piacere il pur sapiente Bellow. Di Chandler non
dico nulla, che è uno delle mie stelle fisse (grazie Humphrey).
Saul Bellow “Il re della pioggia” Mondadori euro 9,50 (in realtà
scontato a 8,08 euro)
[trama del 20 febbraio 2015]
Gli
avrei dato un solo libricino di gradimento, ma il Nobel del ’76 comunque sa
scrivere, anche se questo libro non mi è piaciuto, ed allora mettiamoci anche
quel mezzo punto in più. Tuttavia, dico e ribadisco che l’ho trovato un libro
veramente dannoso. Dopo averlo (faticosamente) letto ho cercato in giro, tra
scritti e rete, di capirne di più, di tirarne fuori lati positivi immaginari.
Si dice sia una critica dell’uomo americano, del suo ottimismo, del suo
credersi centro del mondo. Ora, può anche essere vero, e sicuramente se guardiamo
il libro in prospettiva storica della data di scrittura, c’è sicuramente più di
una punta di verità. Ma, e questo l’ho sempre detto e ribadito, un libro che è
bello e ben scritto resiste, sempre e comunque, al passar del tempo. Se per
esempio un oscuro libro di Winnifred Winston degli anni Trenta è ancora
godibile oggi, vuol dire che affronta temi sempre attuali, e li affronta in
modo da non essere intaccati dal tempo. Bellow, no. Lui è immerso nella fine
degli anni Cinquanta, è immerso nelle paure e nelle fobie americane di quegli
anni. E non ne esce. E non penso mi debba piacere solo perché, in ogni caso,
una penna in mano la sa ben tenere. A parte il vezzo tutto italiano di mozzare
i titoli, per cui sparisce il nome Henderson, e rimane il re della pioggia. Che
se tu leggi un bel cognome anglo-sassone davanti ad un titolo così, o ti viene
in mente l’autistico Dustin Hoffman oppure pensi che ci sia dell’intrigo lì
sotto. Infatti di intrigo si tratta. Il nostro esimio scrittore prende un
bell’esempio di maschio americano inutile e gli fa percorrere le oltre trecento
pagine senza che un solo avvenimento di quelli che gli capitano scalfisca il
muro di inutilità del suo essere, appunto, americano puro e duro. Ma mentre
nelle parti in flashback, qualcosa si salva, qualcosa che ci illumina sulla sua
storia (e poi ci si ritorna), quando poi si trasferisce in Africa e da inizio
alle sue avventure con i selvaggi, beh lì veramente ci si perde e ci si addormenta.
Passiamo quindi subito a questa parte, dove, per insipienza, ignoranza o altro,
il nostro Eugene (Gene) Henderson si inoltra nel cuore africano (quasi fosse un
novello Livingstone), ed incontra due tribù con le quali si scontra il suo
essere occidentale. La prima è pacifica, quasi in stato di inedia, in un luogo dove non piove e non c’è acqua.
Henderson, facilone occidentale, pensa di liberarli da questa schiavitù, con il
risultato che fa saltare in aria l’unica cisterna di acqua disponibile, per cui
gli africani non potranno che continuare a morire. La seconda è invece
bellicosa, ma descritta con gli occhi di un occidentale che non ha mai visto
una tribù africana. Dedita al sesso ed alla morte, a giochi pericolosi ed a
reincarnazioni fasulle. Intrisa di giochi di potere che fanno impallidire
Amleto ed i suoi sodali. Direi che sembra tutto talmente falso che non si
capisce se Bellow ci creda o sia ironico. Fatto sta il nostro Gene viene
coinvolto in questa sarabanda, ha lunghi colloqui con l’unica persona che sa
d’inglese (il re). Ma questi viene travolto dai giochi di cui sopra (e che tralascio
per la loro inutile lungaggine). Il nostro americano “idiota” (nel senso
dostoevskiano) dovrà decidere se lasciarsene anche lui coinvolgere, oppure (ma
avrebbe dovuto farlo centinaia di pagine prima), tornare alla sua inutile
civiltà ed inutile famiglia. Un’inutile storia che è invece quella a ritroso
che più apprezziamo. Che Bellow ambienta nei posti a lui noti di città e
province americane. Con gli Henderson che sono una stirpe di americani
arricchiti, e dove lui, Gene, è l’ultimo rampollo di quella stirpe. Non ha bisogno
di lavorare, che vive di rendita. Ma fa di tutto per rappresentare il peggio
dell’americanismo. Si sposa senza amore, tradisce (sempre e comunque) le sue
donne. Con la prima moglie fa tre (o forse quattro) figli, che non riesce ad
allevare (e si meraviglia che uno dei suoi figli si voglia sposare con una
immigrata, tanto è razzista dentro). Ha fatto la guerra in Italia, ma non ne ha
capito né il senso né le conseguenze. Ha un lungo e tormentato rapporto (lungo
per lui, tormentato per lei) con una donna che diventerà la sua seconda moglie.
Decide di vivere nella sua casa di campagna allevando maiali. Decide di
imparare a suonare il violino come faceva il padre. Si immerge in pensieri che
ritiene alti mentre va dal dentista in metropolitana. Si infatua dei dottori
missionari in Africa, per cui, quando ne ha la possibilità, molla tutto e
attraversa l’Oceano. Per poi avere tutte le storie di cui sopra. Che si leggono
come una rottura di cabasisi colossale, senza che ci sia di ritorno un briciolo
di piacere, neanche intellettuale. Insomma, ho sempre supposto che i grandi
scrittori americani, dopo un po’, mi avrebbero rotto. Ed è così, con Bellow,
con Roth, e molti altri. Un caso? Un mio essere legato all’Europa e non capire
l’America? Ai postumi (di una sbronza) l’ardua sentenza. Per ora continuerò a
leggerne, ed a dire, con forza, che Saul Bellow non mi pace.
“Succede sempre così … combino sempre
qualcosa che non va, rovino tutto.” (107)
“Tu non conosci il significato del vero
amore, se credi che lo si possa scegliere deliberatamente. Si ama e basta.”
(249)
Charles Bukowski “Post Office” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama pubblicata il 6 aprile
2012]
Continuo ogni tanto a leggere
qualcosa del vecchio ubriacone Americano. E continuo a non essere del tutto
convinto. A parte che alla fine del libro esci fuori ubriaco come una cucuzza.
Non di parole, purtroppo. Ma proprio di alcool. Che il vecchio Charles non
passa pagina che non si attacchi a qualche liquido. Birra, whiskey e tutto
quanto possa avere dai 40° in su. Tanto che alla fine vive in un perenne stato
etilico. Se poi togliamo tutto questa sovrastruttura alcolico – anarchica, cosa
rimane del testo? Una lunga galoppata di circa 20 anni, dentro e fuori la società
americana, cercando di trarne qualche beneficio (posto fisso, stipendio) ma mal
sopportandoli. Uscendone appena possibile. Per giocare ai cavalli (passione che
spesso ritorna in Bukowski) e vivacchiare di quello. E soprattutto, spendendo
tutti i soldi e tornando sempre al punto di partenza. Quello di dover trovare
un lavoro. E di rodersi il fegato di lavorare come dipendente di qualcuno. Ogni
tanto Harry, il protagonista alter – ego dello scrittore (non ha caso lo
battezza Cinaski per assonanza), fa qualche incontro. Soprattutto con alcune
donne. Ma anche lì, passa il tempo a bere (tanto che Betty morirà di cirrosi
epatica), a scopare (ma poi non è che anche lì sia sempre pronto, tanto che si
lascia con Joyce la ninfomane), anche a fare figli (con Fay, che lo lascia per
andare a vivere con la figlia). Lui si fa passare tutto sopra. Perché deve
mantenere il posto fisso. Quello alle Poste. E le poste sono un’istituzione in
America. E deve fare fronte alle angherie dei superiori. E alle rotture dei
colleghi. E quando fa il postino itinerante, anche ai cani, alle vecchie
signore, ed a tanti personaggi che incontra lungo le vie della città. Sempre in
ritardo, sempre in affanno, sempre pronto, se c’è la possibilità, a fermarsi da
qualche parte a bere un goccio (ma va, direte voi, non lo avevamo capito!). La
sua penna è comunque mirabile, ci regala in poche righe bozzetti affascinanti
del degrado della vita americana. Della fine del grande sogno americano nelle
strade bagnate della città. Della lotta per la sopravvivenza. Delle storture
dei sistemi di controllo del lavoro (esempi spiccioli di taylorismo applicati
allo smistamento delle lettere per codice postale). Per essere un libro che ha
40 anni, non serve spostare una virgola per fotografare qualsiasi situazione
lavorativa. Chiudendo un poco gli occhi, si potrebbe leggerne in controluce la
trama di quel film italiano sui Call Center (quel “Tutta la vita davanti” di
Virzì, tra l’altro trattato dal bel romanzo di Michela Murgia) senza quasi
cambiare una parola. Ma, va bene, hai descritto un mondo che va male. Hai
descritto le persone alla deriva, sia che accettino quel mondo (come il postino
che poco prima di andare in pensione esce di senno davanti allo smistatore di
cartoline) sia che non lo accettino (come Betty e la sua bottiglia eterna). Hai
descritto il tuo tragitto in quel mondo, cercando di prenderne il buono (i
soldi, la sicurezza) senza mai fare un compromesso. Tipo continuare a bere e
scopare tutti i giorni fino alle due di notte per poi alzarsi alle 5 ed andare
a distribuire lettere. Tu, Bukowski – Cinaski non ti sei piegato, ed alla fine
ne hai scritto e lo hai esorcizzato. Ma è una battaglia tutta tua, anarchica
come dicevo prima. Non c’è salvezza collettiva. E forse nemmeno personale. C’è
solo la possibilità di scavarsi un buco solitario e viverci dentro,
fregandosene di tutto, anche di tua figlia Marina. Per poi? Per poi attaccarsi
ad una bottiglia e giocare ai cavalli. No, non mi convince. La filosofia, la
scrittura, il messaggio, anche la descrizione del mondo. Procedo a macchie, ma
niente più. Ecco perché alla fine, non mi è piaciuto. L’ho letto, va letto (o
forse andava letto qualche decennio fa). Ma non mi sento di consigliarlo.
Raymond Chandler “Il grande sonno” Repubblica Giallo euro 5,90
[trama
pubblicata il 3 agosto 2011]
La nascita di un mito. Chandler
ha cinquanta anni ed è al suo primo romanzo. Certo, sono cinque – sei anni che
scrive racconti. E la sua vita non è stata “pipe e pantofole” sino ad allora.
Americano emigrato in Inghilterra, dove studia e si accosta ai classici,
partecipa alla prima guerra mondiale combattendo in Francia, e poi mille altri
mestieri di ritorno in America. Da qui, in poi, il successo. Hollywood, fama,
denaro, e alcool, molto alcool, sino alla morte settantenne per polmonite alla
fine degli Anni Cinquanta. Ma è qui, in questo romanzo, che getta le basi non
solo della sua fortuna, ma di tutta una letteratura che allora sembrò solo di
genere (hard boiled veniva chiamata, per la crudezza delle rappresentazioni
della vita quotidiana, le morti, la vita al limite e spesso al di là della
legge), ma che riletta attentamente è stata anche giustamente accostata al
modernismo. Quel filone di rinnovamento del romanzo mondiale che nei primi 40
anni del secolo scorso aveva come alfieri Pirandello, Kafka, Hemingway, la
Woolf e tanti altri. Accostata, che Chandler non è “solo” modernista. Mette in
scena quello che vede (e che sente) nei bar e nei bassifondi di Los Angeles, ma
anche nelle ville dorate della California con gli stanchi ricchi che non sanno
come spendere il loro non sudato denaro. E segue il tutto con gli occhi di un
investigatore privato. Non tanto uno che cerca di guadagnarsi la vita
inseguendo divorzi e piccole frodi. Ma qualcuno che vive la vita quotidiana
della città, ne conosce gli alti e i bassi. E soprattutto, mette in campo
questo Philip Marlowe che ci sorprende ad ogni piè sospinto per la presenza di
una sua etica. Non diciamo una dirittura morale, che sarebbe impropria, ma
un’etica sì, basata sul rispetto del cliente, sulla convinzione che, pur
esistendo un lato in ombra in ognuno, non si possa andare oltre un certo
limite. Ed imbastisce una storia, forse datata in alcune parti, ma certo molto
meno confusa, leggendola, di quello che se ne dice senza conoscerla. O
conoscendo solo i suoi risvolti cinematografici. Certo, Marlowe è molto Bogart,
con l’impermeabile beige e la sigaretta in bocca, e la non curanza con cui
guarda una donna senza vestiti ma che non tocca (etica, etica, ed altro). Ma,
per me, è anche stemperato da una punta di Elliot Gould, piuttosto che
intristito nella vecchiaia di Robert Mitchum. E molta della confusione viene
proprio dal film, che, sì, è quello confuso, perché nel film vengono fusi due romanzi
di Chandler, e se ne affida la sceneggiatura a quel mostro di bravura
letteraria che era William Faulkner. E viene messa più in positivo di quanto
sia nel libro la figura di Vivian, che è stupendamente interpretata da Laureen
Bacall, al tempo del film ancora moglie di Humphrey. Con l’invenzione del finale
pirotecnico della morte del cattivo Eddie Mars. Tutto questo non c’è nel libro.
Che parte dalla ricerca della soluzione di un ricatto ai danni del padre di
Vivian da parte di Marlowe, prosegue con la ricerca dello scomparso marito di
Vivian stessa, e con la soluzione di questi due misteri. Certo, compare Eddie
Mars, che comunque è il re dei cattivi di Los Angeles, e compare la lotta senza
quartiere tra lui e Marlowe. Ma qui, nel libro, non si va oltre la soluzione
dei misteri proposti. Lasciando ad altri libri cosa succederà, forse, dopo. Nel
libro non possiamo far altro che seguire Marlowe che, passo dopo passo, svela
le magagne che si presentano, fa un po’ il buon samaritano con la bionda che si
sta perdendo ma forse no, beve a tutto spiano. E seguiamo l’uso sapiente del
dialogo, questo puro elemento di novità che Chandler maneggia benissimo, un po’
sulla falsariga di come scriveva il giovane Hemingway (che aveva 10 anni meno
di lui). E l’uso asciutto delle descrizioni, un po’ paradossali ma efficaci
(come quella che cito sotto), inseguendo le citazioni trasversali che l’intellettuale
Chandler mette qua e là, anche se pochi se ne accorsero al tempo. Come, quando,
mirabilmente, per spiegare il comportamento poco ortodosso della sorellina Carmen,
risponde, mozartianamente, “Così fan tutte”.
“Un uomo grasso, di mezza età, con un paio di occhi color cielo che si
ingegnavano a far passare una mancanza d’espressione per un’aria amichevole.”
(107)
Conclusioni
Avendo letto solo la metà dei
libri proposti, per quello che ne vedo, toglierei Chandler da una possibile
lista “da toilette”, mentre gli altri possono restarci, che magari, con la loro
poco presa, riescono a far dimenticare il luogo ed il momento. Buona seduta a
tutti.
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