domenica 2 agosto 2015

In giro - 02 agosto 2015

E si, in giro per il mondo, tra autori diversi, con rese altrettanto diverse. Anche se i primi tre autori si tirano sempre sopra la media, anche di molto per il premio Nobel Modiano. Interessante la prova di McCarthy confrontandola con l’ottima film dei fratelli Cohen. E di certo interessante (anche se un po’ lungo) il viaggio descrizione di Seth in un’India che ci si torna di sicuro. Solo Ford mi ha deluso, anche per quegli accenni all’uso curativo del libro per le situazioni divorzistiche che mi ha convinto veramente poco (e comunque ne ho già scritto).
Patrick Modiano “Un pedigree” Einaudi s.p. (regalo di Nico per il Natalino 2014)
[A: 25/12/2014– I: 29/12/2014 – T: 30/12/2014] - &&&& 
[tit. or.: Un pedigree; ling. or.: francese; pagine: 81; anno 2005]
In effetti Nico mi aveva omaggiato di un bel libro di Paul Auster sfortunatamente già letto. Allora abbiamo concordemente ripiegato su questo libro dell’ultimo Premio Nobel. Era da quando ha avuto il premio che cercavo qualcosa da leggere dello scrittore francese. Credo che questo, nella sua brevità ed essenzialità, costituisca un buon punto di partenza. Soprattutto perché tocca due dei temi fondamentali della scrittura di Modiano: il rapporto con il padre ed il periodo della seconda guerra mondiale. Scrittore della memoria, come recita il conferimento del Nobel, e come risulta dal suo maggior successo editoriale (“Dora Bruder” che prima o poi affronterò), qui usa anche la memoria per piccoli omaggi, quasi mai completamente decrittati. Il primo è nel titolo, che si rifà alla ponderosa autobiografia di Simenon (con una piccola frecciata, che, secondo i più il grande giallista belga molti episodi li abbia “interpretati” a suo uso e consumo, mentre Modiano cerca, sempre, di essere fedele alla realtà). Il secondo, un po’ nascosto nelle pieghe di altri discorsi, è l’incontro con Raymond Queneau, avvenuto attraverso la madre (ma questo non è citato). Il grande mio mito lo aiuterà a trovare un posto da Gallimard, dove comincerà, ma dopo la fine di questo libro, a scrivere per diventare quello scrittore che è tutt’ora. Ma torniamo al pedigree. Con una prosa asciutta, quasi come per compilare una dichiarazione giurata del tipo che si usava una volta per ottenere il passaporto, Modiano parla della propria storia, dalla nascita, il 30 luglio 1945, fino al luglio del 1967, al compimento del 22° anno, momento in cui, finalmente, l’autore confessa di aver cominciato a respirare. Ma riempire quasi poco più che venti anni non è solo questione di parlare di sé, che non sarebbe un pedigree, ma solo un memoir. È un parlare di antecedenti e collaterali. È, in primo luogo, illuminare le figure genitoriali. Facile il discorso materno, con questa madre attrice, di origine belga, che inizia a far parti in teatro, poi anche particine in cinema, per poi tentare, su consigli amicali, l’avventura nella grande città. Negli anni ’40 si trasferisce a Parigi, ha alcune conoscenze (ed ogni volta Patrick ci illustra nomi, ricordi, forse anche possibilità che non sono diventate). A Parigi, ad un certo punto, si invaghisce di questo strano personaggio, Albert Modiano. Convivenza, e nascita di due figli. Il maggiore Patrick ed il minore Rudy che verso i dieci anni (senza che noi si riesca a capire come) muore. Ma intano Albert e Luisa (questo il nome della madre) vivono vite scapestrate. Comprano un appartamento a Quai de Conti, talmente grande che poi sarà diviso in due. La madre lavora, recita, è spesso altrove. I figli, soprattutto Patrick, sono sbalestrati qua e là. In scuole, presso collegi. Quando Patrick sarà solo, sempre più spesso interno in qualche istituzione, crescerà, lettore vorace, curioso di molto, ma poco propenso allo studio. Prenderà un diploma ad Annecy (un saluto all’amica Elena che colà ha trasferito le sue attività). Tutto il resto, ed è molto, ruota intorno alla figura paterna. Misteriosa, che non si sa mai di cosa sia vissuta. Fa traffici, molto spesso loschi. Come direbbe Moretti, conosce gente, e la fa conoscere. Si inventa esportazioni, importazioni, trasferimenti. Tanto che, benché ebreo, vive a Parigi sotto falso nome senza portare la stella gialla. Ed un volta arrestato, viene rilasciato non si sa bene sotto quale strana pressione dall’alto. Sempre in giro, sempre senza un parola verso il figlio, che incontra solo nella hall di grandi alberghi o in grandi stazioni, mentre si avvicina ad altri incontri. E poi si accasa con altra donna. Lasciando Luisa e Patrick sempre più in povertà. I due vivono in ristrettezze inimmaginabili, sempre mendicando da Albert qualcosa. Ma il padre pretende in cambio obbedienza assoluta ai suoi dettami, e, soprattutto, che Patrick sia sempre più spesso lontano da Parigi. Questa guerra neanche troppo sottile, scoppierà alla maggiore età di Patrick, quando decide di non rispettare le regole del padre. Ed Albert taglia viveri e ponti. Ci sono delle lettere feroci nelle ultime pagine che fanno rabbrividire per la loro crudezza. Ma sappiamo che tutto ciò può accadere. Ed accade. Fino al fatidico ’67. Fino ad allora, il nostro scrittore si sente trasportato dagli eventi, partecipandovi in apnea. Solo in quel momento, tolto il giogo paterno, appunto, comincerà a respirare. Da lì sarà la sua vita. Ma non oggetto di questo libro. Da lì non vedrà mai più il padre, né saprà quando questi morirà né dove sia sepolto. Appunto, questa sarà un’altra vita. Il pedigree ci serve per capire le radici di Patrick Modiano. I suoi scritti, quando appunto incontra Queneau e va da Gallimard, ci serve per capire chi sia lo scrittore che ha vinto il Nobel nel 2014. Pur nella sua brevità, ho gradito questo scritto, il modo di porsi. Anche se avrei gradito qualche dettaglio personale in più, che qui non c’è. Chi ha amato Patrick? Con chi si rapportava? Ma forse questo sarà in altre pagine che attendono di essere lette. Intanto leggete queste.
Cormac McCarthy “Non è un paese per vecchi” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 02/12/2013– I: 28/12/2014 – T: 01/01/2015] - &&&& 
[tit. or.: No Country for Old Man; ling. or.: inglese; pagine: 251; anno 2005]
Ho atteso con ansia che questo libro, comprato più di un anno fa, cadesse nella sacca delle letture immediate. Tutti (molti?) ne avevano parlato entusiasticamente. Molti lo avevano poi osannato a valle del film dei fratelli Cohen (che a me era piaciuto solo parzialmente). Ed ero anche curioso di vedere appunto l’originale di quel film senza speranza sull’America più cruenta. Devo dire che, nella asciutta prosa del romanziere texano, la violenza (americana in genere e della storia in particolare) risalta ancora più fortemente. Inoltre, lo scrittore, utilizzando il soggettivo dello sceriffo che cerca di capire e riunire i bandoli della matassa, dà un risvolto secondo me ancora più amaro alla vicenda. Che i buoni, per quanto ce la mettano tutta, difficilmente riusciranno a prevalere sui cattivi, quando questi sono realmente cattivi. Ed alla fine, lo sceriffo Bell, citando la poesia di W.B. Yeats da cui l’autore tra il titolo, non potrà che andarsene in pensione, commentando che i tempi (odierni, passati) sono sempre violenti, ed il passato non è detto sia migliore del presente, ha solo la dignità di essere stato vissuto (ed ora anche che qualcuno ne parli). Quindi sicuramente, il libro si colloca una spanna sopra al film, dove si rappresenta solo la violenza pura, che i registi poco interesse avevano nel domandarsi da dove viene e dove ci porta. Per il resto, chi ricorda il film, leggendo il libro ne ripercorre la trama, passo dopo passo, magari con qualche consapevolezza in più. Narcotrafficanti si sfidano al confine tra Nuovo Mexico e Texas, lasciando sul terreno molti morti, ed una valigia piena di dollari, che Moss, un cow-boy ignaro e credutosi più furbo, trafuga per “cambiare vita”. Solo lo sceriffo Bell si accorge che c’è qualcosa che non va: e che isola, ad un certo punto, nella presenza della mina vagante, dello psicopatico Chigurh (un Javier Bardem sullo schermo di magistrale effetto). Forse coinvolto nella sparatoria, di sicuro coinvolto nella ricerca della valigia di milioni di dollari. Valigia che è ambita dai narcos messicani, e da trafficanti americani. Nonché in possesso del malcapitato Moss. Che capisce subito dover fuggire lontano per cercare di salvare i soldi. E di far allontanare da lui la moglie, facile elemento di ricatto. Gli americani mettono in campo anche un killer prezzolato. Noi seguiamo la scia delle morti e dei duelli con l’occhio dello sceriffo Bell. Che vede Chigurh sempre in vantaggio su tutti. E con la sua pistola ad aria compressa che serve ad uccidere i vitelli nel mattatoio, Chigurh farà una vera e propria strage. Quando Moss sta per essere preso dai messicani, interviene e fa fuori i messicani. Ha un colloquio con Moss cui promette una strage se non riavrà i soldi. Farà fuori il killer inviato dai trafficanti. E benché ferito, ritrova Moss in un motel, e lo uccide insieme ad una ignara autostoppista che non altra colpa aveva di trovarsi lì. Chigurh recupera quindi la valigia, ma, con la sua mente contorta (male puro, direbbe Cormac, o angelo sterminatore, se seguiamo il filone bunueliano del film) non può fermarsi. Ha promesso strage e strage sarà. Per cui va e uccide anche la moglie di Moss. Come nel film, anche il libro si eclissa su di un incidente di macchina, cui Chigurh esce ferito gravemente ma vivo. Da lì, nel libro ci sono solo le ultime riflessioni dello sceriffo Bell. Quelle che danno spessore al libro, e che portano Bell alle dimissioni. Tutta la vicenda l’avevamo seguita quasi sempre con l’occhio dello sceriffo. E con il suo sguardo arriviamo sulle scene dei crimini, sulle scene costellate di morti. Qualcuno domanda ad un certo punto a Bell perché si accanisca tanto. E qui, sembra che il nostro scrittore non possa che fare un riferimento (velato ma se ne può cogliere il senso) a quel capolavoro di libro giallo che fu “La promessa” di Dürrenmatt. Dove il poliziotto segue all’infinto la possibilità di trovare l’autore di efferati delitti. Qui Bell si avvia su quella strada. Ma lui si che si sente vecchio, lui si che sente il peso del passato, del vissuto. E sceglie di mettersi da parte. Il male, Chigurh, andrà avanti. Qualcun altro, forse, si impegnerà a fermarlo. Infine, un’ultima considerazione: se non avete visto il film, leggete questo libro che con parole crude da corpo alla cattiva anima americana; se invece lo avete visto, leggetelo per recuperare le considerazioni di cui, di tanto in tanto, ci fa partecipi lo sceriffo Bell.
“Gli diedi ragione sul fatto che la vecchiaia era una brutta cosa e allora lui disse che un vantaggio però ce l’aveva e io chiesi quale. E lui disse non dura molto.” (228)
Vikram Seth “Il ragazzo giusto” TEA euro 16 (in realtà, scontato a 10,56 euro)
[A: 31/12/2014– I: 10/01/2015 – T: 31/01/2015] - &&& e ¾  
[tit. or.: A suitable boy; ling. or.: inglese; pagine: 1618; anno 1993]
In vista della partenza per il lungo tour indiano di gennaio ero preso dall’atroce dubbio se e come portare materiale da leggere, visto che, a parte le guide, non riesco ad usare iPad ed affini per leggere libri (ho ancora bisogno della carta…). Molti libri piccoli o il contrario? Ho deciso il contrario ed ho scelto questo veramente grosso libro, che credo sia il libro con il più alto numero di pagine che io abbia letto. E che ho portato da Delhi a Kolkata impiegando ben 20 giorni per assimilarlo. Devo senza dubbio dire, che soprattutto l’ultima parte del viaggio mi ha riconciliato con il libro, perché è lì, tra Orissa e Calcutta (uso i nomi del libro e non gli attuali) che si svolge una gran parte dell’azione. Che è vero si colloca nel 1950 (circa) ma che ha risvolti ancora attuali (mentre in alcuni aspetti sembra di una modernità che l’India attuale non pare avere). Siamo verso il confine tra India e East Bengala (ora Bangladesh) con gli ovvi attriti tra indù e mussulmani, dopo la grande separazione del 1948. Siamo nel Bengala, che è sempre stato abbastanza all’avanguardia nelle riforme del paese (governato a lungo dal partito comunista), ed in un’epoca in cui si cerca di limitare lo strapotere dei latifondisti. Ma siamo ancora nell’epoca dei matrimoni combinati (e qualcuno mi dice che non è che sia cambiato molto anche in questi ultimi 50 anni). E stranamente, una serie di usi e costumi sembrano invece essere più liberali allora che ora. Quasi che delle ragazze possano andare in giro da sole, o che, non dico abbiano rapporti fuori dal matrimonio, ma quasi quasi… È certamente un  libro pieno di cose, di avvenimenti, di storie. E tuttavia non mi ha soddisfatto in pieno. Ci sono lunghe pause “politiche” con discorsi sul latifondo, e con alcuni interventi addirittura di Nehru. Ci sono momenti in cui sembra aprirsi lo spazio per nuove idee e nuove prospettive. Ma sempre più ci sono momenti in cui tutto si chiude, per ritornare “nel solco della tradizione”, dove si accettano le regole solo per trasgredirle. E chi invece accetta le regole per sovvertirle sarà sempre destinato ad un ruolo secondario. O a perdere. Tutta la storiellona di 1500 pagine ruota, come indica il titolo, nella ricerca di un ragazzo appropriato (questo il più corretto significato di “suitable” secondo me) da far sposare all’eroina del romanzo, Lata Mehra. Iniziando dal matrimonio combinato della sorella Savita con il dolce Pran, per terminare, appunto, mesi ed anni dopo, con quello di Lata. Al primo matrimonio Rupa Mehra (vedova, 45 anni) è molto contenta di aver trovato  un giovane di casta Karthi (la seconda dopo i bramini) per sua figlia Savita. Inoltre Pran è di buona famiglia (il padre è il ministro delle finanze dello stato inventato del Purva Pradesh). Per questo Rupa inizia a tramare per trovare un buon partito anche per la figlia Lata, 19 anni. Anche il consuocero Mahesh Kapoor decide di ricordare nella stessa occasione a suo figlio Maan che è lui il prossimo che si devi sistemare. Entrambi i giovani, però, sono contrari e contrariati, tanto che immaginavo una loro convergenza, cosa che invece non accade. Sistemati quindi i due figli (l’altro maschio, Arun, ha sposato la chic Meenakshi, una signorina di buona famiglia di Calcutta, anche se è una Bengali, cioè di una casta diversa), Rupa può dedicarsi ai suoi progetti. Intanto assistiamo alle schermaglie discorsive tra Lata e la sua amica Malati, sia sui rapporti interpersonali, sia domandandosi come si possa amare qualcuno visto solo una volta prima delle nozze, ed in compagnia dei genitori. In questo frangente, Lata incontra in libreria un giovane che, anche se non immediatamente, sarà fondamentale nel corso del romanzo. La narrazione si sposta ore a Calcutta, per conoscere meglio l’antipatico Arun, la sua avversione e prepotenza per lo sfaticato e timido fratello, Varun. Si ritorna a Brahmpur per seguire la festività religiosa di Holi, durante la quale nella casa di Mahesh Kapoor, viene organizzato un concerto e viene invitata a cantare la bellissima Saeeda Bai, una cortigiana musulmana di 35 anni con una voce fantastica. Maan perde la testa per Saeeda, fa di tutto per attirarne l’attenzione, e ben presto entra nelle grazie (e non solo) della bella cortigiana, facendole visita regolarmente, non come cliente, ma come corteggiatore. La notizia della tresca di Maan con Saeeda certo non fa piacere al padre, uomo politico la cui credibilità rischia di essere messa in dubbio dalla condotta del figlio, e tanto meno a Pran, che è un lettore di inglese all'università di Brahmpur e spera di ottenere un posto da assistente. Tuttavia Maan è innamorato di Saeeda al punto di decidere di imparare a scrivere in Urdu, la lingua dei musulmani-indiani, per poterle scrivere lettere di amore. Il padre di Maan esasperato dal figlio, lo caccia di casa e Maan ne approfitta per andare con Rashid, il suo insegnate di Urdu fornito da Saeeda Bai, nella zona rurale dello stato. Nel frattempo Lata incontra nuovamente, per caso il giovane della libreria finendo per accettare un suo invito ad una romantica passeggiata sul fiume, dove scopre una cosa tremenda: il giovane si chiama Kabir Durrani ed è, quindi, musulmano e di certo un matrimonio misto nell'India del 1951, poco dopo la sanguinosa partizione del Pakistan è fuori discussione. Rupa Mehra grazie ai pettegolezzi riesce a scoprire che la figlia si è incontrata con un giovane a sua insaputa e quando viene a sapere che è Musulmano impazzisce di dolore e trascina Lata a Calcutta, lontano da Brahmpur e dal quel bel giovane. A Calcutta Lata frequenta spesso la famiglia di sua cognata Meenakshi, i Cattereji, e diventa amica di Amit, il figlio maggiore, poeta e scrittore, ma sua madre nel frattempo trama per avere un ragazzo adatto a Lata (i Cattereji come detto non sono Karthi, ma Bengali e il matrimonio di Arun fu una gran vergogna per lei). Ben presto va a trovare la sua amica Kalpana che le fa il nome di Haresh Khanna, un giovane Karthi, che ha studiato in Inghilterra e si occupa di produzione di scarpe, che andava a scuola con lei. Rupa decide di prendere contatti con Haresh e ben presto convoca Lata a conoscere questo candidato alla sua mano. Lata si trova ben presto con tre ammiratori: Kabir, Amit e Haresh e deve decidere quale sposare. Questo il nocciolo su cui si dipana e si annoda il resto delle più di mille pagine. Con parti politiche, importanti anche se abbastanza lente. Con la dolente parte religiosa, indotta dalla recente separazione nel continente sub-indiano tra stato indù (India) e stato mussulmano (Pakistan). Ci sono inoltre miriadi di altri personaggi, che ogni tanto entrano, agiscono, poi per un po’ spariscono, fino a riapparire in altra veste. Come ad esempio Haresh, ci erano stati presentati ben prima dell'incontro con gli altri protagonisti, a metà del libro, divagando lungamente sulle sue abitudini, i suoi amici eccetera, creando non poca confusione al lettore, del tipo "e chi è questo, adesso?". Oppure, seguendo le vicende di Maan incontriamo Saeeda Bai, seguendo Saeeda Bai seguiamo il suo suonatore Isaq che se ne va in giro per la città, litiga con un musicista e ci mostra i suoi problemi personali. Quale funzione ha Isaq al fine della storia? Nessuna, è solo un ornamento, interagisce a stento con altri protagonisti, eppure ha vari paragrafi dedicati a lui. Insomma, partendo dalla ricerca del ragazzo appropriato il romanzo racconta la vita politica, le scappatelle dei fratelli, i tradimenti delle mogli, le feste religiose che scandiscono il passare degli anni, le apprensioni di una madre e la voglia di libertà di una figlia, gli incontri poetici e letterari, la nascita di una nipotina da viziare, le lettere scritte con amore, la passione furibonda, gli esami all’università e gli incontri mondani. Alla fine Lata, tra il ragazzo dalle scarpe bicolori, il romantico poeta o il compagno di università musulmano farà la sua scelta, chiudendo il romanzo. Ma lasciandoci un po’ di delusione, che, come in una fiction che ci appassiona si vorrebbe continuare a seguire le vicende di tutti. Grazie comunque per lo sforzo che avete fatto nel seguire una trama che non può che adeguarsi alla lunghezza del romanzo. E che consiglierei di leggere nelle lunghe serate prima di addormentarsi, magari guardando ogni tano gli alberi genealogici ad inizio libro, che con tutti quei nomi si rischiano confusioni a non finire.
Richard Ford “Sportswriter” Feltrinelli euro 9
[A: 16/02/2014– I: 06/05/2015 – T: 14/05/2015] - &&--
[tit. or.: The Sportswriter; ling. or.: inglese; pagine: 379; anno 1986]
Giusto una settimana fa ne parlavo nel supplemento sulle “Cure”, dove questo libro veniva citato come esempio – modello da non seguire, rispetto al grande problema del “divorzio”. Già in quella sede espressi i miei dubbi su come veniva affrontato l’argomento. Ed anche ora, dopo la lettura del libro dell’oramai settantenne Ford (ma quando scrisse il libro ne aveva solo 42), rimango dell’idea che sul divorzio si debba e si possa dire altro. Ma questo non è solo un libro sul divorzio, è un libro sulla grande “fatica” di essere americani. Il protagonista riesce ad incarnare tutti i modi negativi in cui si può presentare “lo spirito americano”. Nei rapporti con gli altri, con le donne, con i figli, con la morte, con la vita. Insomma con tutto. E da questo punto è un libro esemplare (anche se datato, ma i trent’anni si sentono poco). Ma, esauriti gli spunti, il racconto si prolissa per pagine e pagine. E devo dire che ho impiegato quasi due settimane a leggerlo, cosa che qualcosa vorrà pure dire. Frank Bascombe, l’io-narrante delle quasi 400 pagine, è appunto un tipico americano, che vorrebbe sotterrarsi in provincia, vorrebbe non pensare, vorrebbe avere una vita tutta tv – barbecue – lavoro (anche non molto complicato) – qualche avventura con donne compiacenti (e piacenti). E sembra che, con qualche aggiustata, ci stia riuscendo. Da giovane scrisse una serie di racconti con un piccolo successo di critica. Poi cerca il “grande passo” verso la scrittura professionista. Ma molti hanno un solo libro dentro, e Frank forse neanche quello. Allora, ricerca della minima resistenza: matrimonio con la bella signorina X (non è che non ricordo il nome, ma è indicata così per tutto il libro), ripregarsi a scrivere per una rivista di sport (da cui il titolo), e qualche figlio. Qui il nostro normo americano comincia a grippare il suo motore: il figlio maggiore si ammala della sindrome di Reye (malattia infantile dall’esito quasi sempre letale), lui sembra fermarsi a guardare, anche se ha una famiglia ed altri figli, e continua a tradire la moglie. Ma lo fa sempre con quella noncuranza di chi forse non è che sia proprio lì. Ma X alla fine lo manda a ramengo. Pur rimanendo discretamente amici. Pur continuandosi a vedere nell’anniversario della morte di Ralph. Frank cerca di avere un rapporto anche con i figli rimasti, ma sembra sempre essere un passo al di qua della normalità. Tanto che frequenta una “lettrice di futuro” (altra follia americana). E tenta di avere anche altre storie. Lo seguiamo in un viaggio fallimentare a Detroit con un’infermiera anche lei divorziata. Lui nei rapporti non ci mette la testa, ed anche questo è destinato al fallimento. Nella sua prolissa auto-esposizione lo seguiamo da un lato nel ripercorrere momenti della sua vita (incontri, viaggi, i racconti che potevano dargli la fama ma che poi non hanno seguito, il tentativo di insegnare, anche questo senza partecipazione e con il solito finale negativo). E dall’altro ricostruirne alcuni attuali, come il tentativo di intervista ad un campione sportivo ridotto su di una sedia a rotelle. Poteva essere un momento di riflessione (su di sé, sullo sport, sulla vita). Diventa l’esempio dell’ennesimo andamento fallimentare della sua vita. Certo scriverà qualcosa, ma tutto lunga lo linea di minimo sforzo, di minima rottura. Lui ritorna sempre a X, a Ralph. Insomma a tutto quello che poteva essere e non è stato. Ma non si domanda mai, non arriva mai ad interrogarsi su cosa lui potesse fare di diverso, su come lui potesse e dovesse cambiare la propria vita. C’è anche un inciso con lo strano rapporto con un altro divorziato, latentemente gay. Ma ne prenderà coscienza Frank che lo può aiutare? Nulla e sempre più nulla. Arriviamo alla fine di queste quasi 400 pagine con Frank che sta lì a rintontirsi con false idee sul suo futuro. Riuscirà a trovare un affetto? Vivrà ancora in quella cittadina? Continuerà a scrivere di sport, anche se si è stufato? Noi ci siamo un po’ stufati di Frank, delle sue paturnie e dell’irrisolutezza che Ford instilla in tutto il romanzo. Una fotografia della realtà americana, quando ci allontaniamo da Obama e dai palazzi del potere e vediamo la vita reale? Forse, ma ne abbiamo visti esempi migliori e più coinvolgenti. E certo, come manuale per un divorzio ben guidato, abbiamo letto senz’altro di meglio.
“Avevo idea di scrivere un romanzo da quando avevo letto i diari di viaggio di Joshua Slocum.” (42) [Nota mia: Slocum è il primo viaggiatore in solitario, il primo a circumnavigare il globo dal 1895 al 1898]
“Ormai avevo scritto tutto quello che potevo scrivere … Se gli scrittori che se ne rendono conto fossero di più, ci sarebbe risparmiata una quantità di brutti libri e molte più persone vivrebbero una vita più felice e meno improduttiva.” (43)
“Qual è la vera misura dell’amicizia? … Ammonta esattamente alla quantità di tempo prezioso che si sciupa per ascoltare le sventure e i casini altrui.” (104)
“Ho letto da qualche parte che se un Toro dice che ti ama bisogna credergli.” (134)
Inizio del mese, ed allora ecco che vi bombardo con le massicce letture del mese di maggio. Mese molto denso, e con quattro letture eccellenti. Svetta su tutti l’ottimo libro postumo di Tiziano Terzani, incalzato da vicina da due intense scritture di Siri Hustvedt e di Elena Ferrante, nonché dall’interessante saggio di Luciano Canfora sul 1914. E solo tre libri un po’ sotto media: il Ford di cui parlo sopra, l’ennesima prova ripetitiva della svedese Marklund e l’ultimo libro di racconti di Scerbanenco, più che altro perché poco vi ho trovato del Noir di cui veniva contrabbandato.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Diane Wei Liang
La casa dello spirito dorato
Repubblica Mondo Noir
7,90
3
2
Agatha Christie
Poirot a Styles Court
Mondadori
s.p.
3
3
Agatha Christie
Il mistero del Treno Azzurro
Corriere della Sera
6,90
3
4
Siri Hustvedt
Quello che ho amato
Einaudi
12,50
4
5
Gianni Farinetti
Un delitto fatto in casa
Marsilio
12,50
3
6
Agata Christie
I Sette Quadranti
Corriere della Sera
6,90
3
7
Pierluigi Porazzi
Nemmeno il tempo di sognare
Corriere della Sera
6,90
3
8
Richard Ford
Sportswriter
Feltrinelli
9
2
9
Liza Marklund
Linea di confine
Marsilio
12,5
2
10
Tiziano Terzani
Le parole ritrovate
Editrice La Scuola
s.p.
5
11
Terzi Soggettivi
Né capo né coda
Unilibro
15
3
12
Fabio Genovesi
Versilia Rock City
Mondadori
10
3
13
Georges Simenon
I Maigret – 1
Adelphi
s.p.
3
14
Luciano Canfora
1914
Sellerio
12
4
15
Giorgio Scerbanenco
Il centodelitti
Corriere della Sera
6,90
2
16
Elena Ferrante
I giorni dell’abbandono
E/O
9,50
4
17
Bruno Morchio
Maccaia
Sole 24 ore Noir
6,90
3
18
Arnaldur Indridason
Cielo nero
TEA
9
3

Come potete immaginare, anche il vostro tramatore preferito si prenderà qualche giorno di vacanza, per andare verso lidi più freschi di quest’Italia bollente. Sperando non vi sentiate troppo soli, vi saluto


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